Le bandiere di Srebrenica
05/09/12
Ad un invito di un “traditore” del calibro di Jovan Divjak non si può dire di no. Così la mattina, prima di lasciare Sarajevo per Srebrenica, facciamo un salto alle sede della sua associazione Obrazovanje gradi BiH, dove il generale ci attende per un caffè e un ultimo saluto. Obrazovanje gradi BiH significa più o meno: l’educazione costruisce la Bosnia Erzegovina. Divjak ha fondato questa associazione dopo la fine dell’assedio per fare qualcosa che nessun esercito potrebbe mai fare: aiutare gli orfani di guerra. Per collaborare all’associazione o per altre informazioni potete visitare il sito di Obrazovanje gradi BiH. L’incontro ci dà comunque l’occasione per scambiare qualche altra opinione con un personaggio come Jovan Divjak e con alcuni cooperanti dell’associazione. Molti di loro sono studenti all’università bosniaca e ci confermano quanto ci aveva già detto il generale, e cioè che le due parti in cui gli accordi di Dayton hanno diviso la città si ignorano (se non peggio) l’una con l’altra. Nemmeno una linea di tram comune sono riusciti a realizzare. “Io studio all’università di Sarajevo est - mi spiega un ragazzo -. Ho chiesto a tutti i miei compagni di corso: nessuno di loro ha mai visitato la parte storica di Sarajevo che sta dall’altra parte! E parliamo di poche centinaia di metri di distanza! Qualcuno si arrabbia pure se gli chiedo il perché”. Non c’è un muro ma è come se ci fosse. Ripenso a quanto scriveva Langer sulle politiche etnocentriche che non possono che alimentare culture etnocentriche che sfociano sempre in comportamenti xenofobi sino a gettare benzina sulle fiamme dei conflitti.
Salutato Jovan Divjak, saliamo sul nostro pullman per inerpicarci nel cuore verde e montagnoso della Bosnia, sino a Srebrenica.
Raggiungiamo la cittadina nel primo pomeriggio dopo esserci inerpicati per una stradina che serpeggia in mezzo ai boschi. C’è solo una strada che porta nella gola in fonda alla quale sorge Srebrenica. Da qui non si scappa. Dal finestrino scorre un paesaggio che ci racconta la storia del massacro. Il memorial di Potocari, la caserma del contingente olandese, la strada da cui arrivarono i serbi e quella da cui i pochi superstiti cercarono di raggiungere Tuzla con quella che poi fu chiamata la marcia della morte. E poi il cimitero, migliaia e migliaia di stele di un bianco immacolato, l’ufficio postale da cui il generale olandese promise alla popolazione che non l’avrebbe mai consegnato nessuno ai serbi. Una bugia che trasformò quella gola in una trappola mortale.
E poi entriamo a Srebrenica. Le guide della Jugoslavia la dipingono come un apprezzato centro termale. Pare un secolo fa. Case diroccate, molte abbandonate a se stessi da proprietari che non non hanno più voluto, o potuto, fare ritorno. Negozi chiusi con le serrande mitragliate, hotel un tempo eleganti oggi disastrati dalle fondamenta ai tetti. E poi bandiere. Troppe bandiere. La mezzaluna su sfondo verde che sventola sopra i due minareti, le stelle in diagonale delle Bosnia, la bandiera della Republika Srpska con l’aquila a due teste.
Ogni muro, ogni porta qui racconta storie di morte. Mi chiedo se sia possibile continuare a vivere qui, pensare che da questo buco della geografia e della storia si possa costruire qualcosa. Proprio nel centro del paese c’è qualcuno che pensa di sì. Sono i ragazzi e le ragazze che fanno riferimento al centro Adopt Srebrenica promosso dalla Fondazione Alex Langer. Una stanza più un bagno, dipinta a colori vivaci, tre o quattro terminali e una wifi funzionante (un lusso da queste parti), una piccola biblioteca di libri.Un punto di riferimento per tutti coloro per i quali la parola “pace” ha ancora un significato.
Salutato Jovan Divjak, saliamo sul nostro pullman per inerpicarci nel cuore verde e montagnoso della Bosnia, sino a Srebrenica.
Raggiungiamo la cittadina nel primo pomeriggio dopo esserci inerpicati per una stradina che serpeggia in mezzo ai boschi. C’è solo una strada che porta nella gola in fonda alla quale sorge Srebrenica. Da qui non si scappa. Dal finestrino scorre un paesaggio che ci racconta la storia del massacro. Il memorial di Potocari, la caserma del contingente olandese, la strada da cui arrivarono i serbi e quella da cui i pochi superstiti cercarono di raggiungere Tuzla con quella che poi fu chiamata la marcia della morte. E poi il cimitero, migliaia e migliaia di stele di un bianco immacolato, l’ufficio postale da cui il generale olandese promise alla popolazione che non l’avrebbe mai consegnato nessuno ai serbi. Una bugia che trasformò quella gola in una trappola mortale.
E poi entriamo a Srebrenica. Le guide della Jugoslavia la dipingono come un apprezzato centro termale. Pare un secolo fa. Case diroccate, molte abbandonate a se stessi da proprietari che non non hanno più voluto, o potuto, fare ritorno. Negozi chiusi con le serrande mitragliate, hotel un tempo eleganti oggi disastrati dalle fondamenta ai tetti. E poi bandiere. Troppe bandiere. La mezzaluna su sfondo verde che sventola sopra i due minareti, le stelle in diagonale delle Bosnia, la bandiera della Republika Srpska con l’aquila a due teste.
Ogni muro, ogni porta qui racconta storie di morte. Mi chiedo se sia possibile continuare a vivere qui, pensare che da questo buco della geografia e della storia si possa costruire qualcosa. Proprio nel centro del paese c’è qualcuno che pensa di sì. Sono i ragazzi e le ragazze che fanno riferimento al centro Adopt Srebrenica promosso dalla Fondazione Alex Langer. Una stanza più un bagno, dipinta a colori vivaci, tre o quattro terminali e una wifi funzionante (un lusso da queste parti), una piccola biblioteca di libri.Un punto di riferimento per tutti coloro per i quali la parola “pace” ha ancora un significato.