- bar bar 2

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It's my wine
(don't you forget)

L'invasione del vino hollywoodiano, come la racconta Baricco, è semplice e avvincente. È un bignami di storia del gusto, un riassunto efficace di un pezzo di scibile umano che non hai troppa voglia di approfondire, sicché ti vien fatto di prenderla per buona. Sul serio, la mia prima reazione è stata: "ah, allora le cose sono andate così, interessante". Ci ho messo qualche tempo a rendermi conto che Bar. mi stava prendendo in giro. E dire che mi bastava consultare un po' nei miei ricordi famigliari. È vero che ultimamente bevo vino senza personalità? Sì, è senz'altro vero. E dieci anni fa, cosa bevevo? E mio padre? E mio nonno?

Nessun dubbio in riguardo: bevevano schifezze che oggi non si potrebbero neanche commerciare sotto la categoria "vino". Tutte le testimonianze concordano in questo. Basta risalire indietro di una generazione per sentire racconti agghiaccianti sull'abitudine di imbottigliare la sciacquatura del mosto. Il "vino buono" fatto in casa si teneva per gli ospiti; ma non bisogna pensare che gli ospiti gradissero. Personalmente ho ricordi angosciosi di "vini buoni" fatti in casa offerti dai parenti. Il vino, si sa, è un alimento complesso, che instaura con la lingua un rapporto particolare. Ne consegue che ogni famiglia di campagna tende ad amare il proprio beverone, e a offrirlo agli ospiti come se fosse una specialità pregiata. Di solito è roba oggettivamente imbevibile. Baricco non ne parla.

Baricco ha una sua idea piuttosto aristocratica di quello che c'era prima delle Invasioni Barbariche: se deve evocarla, parla di un vecchio maestro del vino, uno di quei francesi o italiani che sono cresciuti in famiglie in cui l'acqua a tavola non c'era, e che vivono sulla stessa collina in cui da tre generazioni la loro famiglia va a dormire nell'odore di mosto, e che conosce la propria terra e le proprie uve meglio del contenuto delle proprie mutande. Si tratta evidentemente di un sacerdote, un artista, un monomaniaco, un feticista: non un contadino. Questo, secondo Baricco, è il passato del vino nostrano: ebbene, non lo è. Statisticamente. Queste famiglie interamente dedite alla produzione del vino, nel passato erano invece molto rare. Fino agli anni Cinquanta in valpadana era tutta policoltura: i vigneti erano piantati tra un campo di frumento e l'altro. C'erano, naturalmente, i produttori pregiati: ma sono sempre stati un'élite – esattamente come adesso (anzi, è probabile che si venda più vino pregiato oggi che trent'anni fa). Fino agli anni Sessanta-Settanta, il vino sulla tavola della maggior parte degli italiani era persino inferiore allo standard del "vino hollywoodiano": erano le orride bottiglie verdi di mosto fermentato in casa, il bianco acido che ancora non riempiva i tetrapak del Tavernello ma non era molto meglio. Se avete più di trent'anni e avete iniziato a bere a dodici potete smentirmi. Altrimenti credetemi.

La vera svolta nella nostra concezione del vino arriva negli anni Ottanta, con lo scandalo del metanolo. Per chi se l'è perso, si trattò di questo: decine di persone morirono per aver bevuto vino adulterato. Col metanolo arriva al capolinea una certa idea del vino che si era fatta strada a partire dal boom economico: l'idea che un elemento tradizionale della tavola italiana (il vino) si potesse commercializzare seguendo i principi del nascente mercato di massa, mantenendo uno standard qualitativo piuttosto basso ma 'democratico'. Questa idea non era molto dissimile da quella portata avanti in America da Mondavi e compagnia: perché da loro ha funzionato e da noi no? Perché noi avevamo papille gustative più raffinate degli americani? No. È stata più probabilmente una crisi strutturale. La nazione delle mille cantine non è riuscita a uniformare a sufficienza il prodotto. La concorrenza, in assenza pressoché totale di controlli di qualità, ha fatto sì che i produttori italiani (anni luce distanti dai sacerdoti evocati da Baricco) iniziassero a tagliare il loro prodotto con qualunque immondizia – tra cui il metanolo, appunto.

Negli stessi anni, prima dell'invasione barbarica, c'è stato qualche timido tentativo di invasione da parte nostra, con prodotti che (secondo noi) sarebbero potuti piacere agli americani. Quello che conosco meglio è il tentativo un po' folle di un cantiniere modenese, Giacobazzi, che abbassò la gradazione del suo lambrusco a otto gradi e mezzo e lo mise in lattina: l'8 e ½ Giacobazzi. In lattina, proprio così. Il lambrusco è uno dei rari rossi frizzanti, bello da vedersi e facile da mandar giù: come dichiarò Mario Soldati, è un vino che va "tracannato". L'8 e ½ doveva far concorrenza alla cocacola: il target era quello dei teen ager. Ve lo giuro: mi ricordo lo spot col ragazzino, e persino lo slogan: Giacobazzi is my wine.

Col senno del poi è facile capire perché non funzionò: in molti Stati americani i teen ager non possono neppure acquistare birra. Eppure Giacobazzi qualcosa l'aveva capito: è un fatto che gli erasmus americani e inglesi, appena sbarcati in Italia, si attacchino ai tetrapak di Tavernello. È dolce, è frizzante, cosa vuoi di più. I nostri teen ager, per contro, sono un po' più sofisticati: bevono Bacardi Breeze, che fa quattro gradi. Giacobazzi aveva sbagliato la gradazione di quattro gradi e mezzo appena. È un precursore sfortunato, oggi una lattina di 8 e ½ su Ebay varrebbe parecchio (ma non se ne trova).

Dopo la crisi del metanolo l'industria italiana del vino ha cambiato strada, puntando sulla qualità. Il vino 'da tavola' non è scomparso di botto, s'intende: ma ha cambiato recipiente e destinazione. È finita l'epoca delle bottiglie a cauzione, ritirate dalla Cantina Sociale del paese: il vino è entrato nel tetrapak, garanzia di bassa qualità, ma anche di igiene. Peraltro, nessun italiano fuori dalle pubblicità si farebbe vedere mentre beve vino in scatola. È in tutti i frigoriferi, ma ufficialmente si usa come condimento.
Nel frattempo le cantine hanno 'creato' il vino pregiato. Che esisteva già da prima: ma negli anni Novanta è diventato un fatto di costume. Si aprono le enoteche e i wine bar, si moltiplicano gli intenditori. È un'operazione di riscrittura del nostro passato: non solo pretendiamo di bere vino al di sopra delle nostre possibilità (e del nostro palato): ma pretendiamo di averlo fatto da sempre. Di essere un popolo di sommelier, attaccato dai barbari che non sanno cos'è la tradizione, il gusto, l'anima.
E arriviamo a oggi.
No – anche stavolta ho scritto troppo – mi sa che arriviamo a lunedì.
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