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11/9, easy and chic

Ma questo 11 settembre 2006, non vi sembra un po’ in ritardo?
In che senso? In nessun senso. Indubbiamente oggi è l’11 settembre 2006, eppure: cinque anni? solo cinque anni? In America sembravano almeno sette, otto. Quattro euro fanno cinque dollari, non sarà così anche per gli anni? Di là il tempo passa più in fretta. O succedono più cose. O c’è più tempo per pensarci sopra. O altri motivi che conosco.

Insomma, non ho la minima idea del perché, ma posso scommettere una cosa. Scommetto che stamattina capiterà a tutti voi, tra Internet tv e giornali italiani, di imbattersi nel Pezzo Autoreferenziale Tipico Sull’11 Settembre. Quello, per intenderci, scritto rispettando la seguente scaletta:

L’11 settembre di cinque anni fa io ero [da qualche parte] a [fare qualche cosa], quando mi dissero che le due torri erano crollate [oppure lo vidi alla tv, o il telefono, internet, l’autoradio] e pensai: niente sarà come prima.
Fine.


Oltre ad averne letti e straletti, di pezzi così, a volte li abbiamo pure scritti: in fondo a cosa serve un blog, se non puoi nemmeno raccontare dov’eri l’11/9/01? Qualche anno fa qualcuno organizzò persino un blog collettivo per raccogliere tutte queste cose autoreferenziali che, evidentemente, interessavano ancora a qualcuno. E oggi? Oggi credo di no: se il genere sui media va ancora forte, è per inerzia, o più semplicemente perché raccontare i fatti propri è un modo molto economico di riempire colonne. E anche in tv dopo i soliti filmati (più o meno gli stessi), qualche servizio sulle esequie ufficiali, qualche clip inedita o rara di Bin Laden, di spazio probabilmente ce n’è. Si potrebbe occupare con qualche riflessione (tenendo sempre presente che Niente Sarà Come Prima); ma il rischio di dire banalità è tale che forse è meglio sorteggiare un Vip a caso, telefonargli e chiedergli: Dov’Eri Tu l’11 Settembre?

Ecco, la mia sensazione è che oltre Atlantico questa fase sia abbondantemente superata. Nessuno si è dimenticato l’11/9 (anzi): ma l’autoreferenzialità sulla grande tragedia che ha inaugurato il secolo è finita – del resto i secoli, una volta inaugurati, devono andare avanti. E così, mentre in Italia continuiamo a tirar fuori i nostri vecchi album dell’11 settembre, negli Usa ci si interroga sulla più grande tragedia americana della storia recente: che non è più l’11/9, ma Katrina.

Qui non si tratta di stabilire quale delle due tragedie sia stata più grave, o più simbolica, o più luttuosa. Né di tifare per il documentario di Spike Lee contro il film di Oliver Stone. L’idea di un settembre 2001 e un settembre 2005 l’un contro l’altro armati, di una tragedia “di sinistra” (l’uragano) da contrapporre a una tragedia “di destra” (l’attentato più cruento e spettacolare della Storia), è una sciocchezza. Piuttosto val la pena di chiedersi: perché in Italia si continua a parlare così tanto di 11/9 (anche in mancanza di cose da dire) mentre Katrina ha forato così poco? È solo una questione di ritardo, come coi telefilm? Stiamo aspettando il doppiaggio? Due ipotesi.

Prima ipotesi: l’11/9 è semplice. Un grande vecchio cattivo decide di umiliare la nazione più potente del mondo con un diabolico piano. Il piano funziona, uccidendo migliaia di persone, ma la nazione attaccata reagisce compatta. Tutto qui. Qualunque storico o politologo potrebbe spiegarlo in modo più complesso, ma in sostanza l’11/9 si può ridurre a questo: una storia con buoni e cattivi che si può spiegare ai bambini. Pochi episodi della Storia si prestano a un’interpretazione così rassicurante. A me viene in mente soltanto la Seconda Guerra Mondiale: anche lì, gira che ti gira, buoni contro cattivi – coincidenza, di solito chi ha il pallino dell’11 settembre ha anche il pallino della guerra antinazista: buoni contro cattivi, e indovina un po’ da che parte stiamo noi.
Katrina, per contro, è la classica catastrofe postmoderna, con una lista di responsabili che non finisce più. Si va dal Padreterno – che poteva darci un pianeta meno turbolento – al Presidente Usa che misconosce il riscaldamento globale e taglia i fondi, al Governatore che non li investe in dighe, alla polizia che prima spara poi chiede, giù giù fino al singolo cittadino che, appena tagliano la luce, si sente autorizzato a rinnegare la civiltà e saccheggiare quanto può. Chi è il buono? Nessuno. Non è una storia che possa veramente piacere a noi bambini.

Seconda ipotesi: l’11/9 è chic. Mentre in fin dei conti, Katrina è solo un uragano. Sì, d’accordo, un uragano che affonda e getta nel caos una metropoli del Paese più potente del mondo ha qualcosa di eccezionale: ma un uragano per noi sarà sempre Terzo Mondo.
L’11 settembre rimane la nostra tragedia perché, alla fine dei conti, New York rimane la nostra città: l’orizzonte a cui aspiriamo. E questo spiegherebbe anche il nostro delirio autoreferenziale: perché continuiamo a raccontarci che eravamo in autostrada, o al lavoro, o dormivamo, e ci siamo fermati in un bar, o davanti a una vetrina di tv… chi se ne frega? Raccontarci serve a sentirci parte di una comunità ricca, affermata, improvvisamente minacciata nel suo simbolo più alto e prezioso. Eravamo sulla Tangenziale Ovest, ma ci sentivamo sulla West Side Highway; oppure eravamo in ufficio, ma in quel momento il nostro ufficio era la succursale del centro direzionale più alto del mondo: ci affacciavamo alla finestra e gli aerei che decollavano dal Marconi ci strappavano un brivido. Ci sentivamo tutti newyorkesi, era terribile ma anche fantastico.
Sentirsi neworleansiani, invece, fa schifo. La possibilità – nemmeno tanto remota – che anche il mediterraneo possa essere scosso da qui a qualche anno da catastrofi da Paese tropicale, non ha nulla di cool: è deprimente e basta. Per un disastro da Terzo Mondo possiamo commuoverci, perfino mobilitarci (basti pensare al diluvio di offerte che seguì lo Tsunami): ma immedesimarci, questo no. Abbiamo ancora un certo contegno.
(Eppure intanto l’America va, e noi arranchiamo).
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