Voci dal Sud è la mia rubrica sul sito Melting Pot. Questi gli ultimi editoriali che ho pubblicato

Delinquenti, tossici ed extracomunitari. Il razzismo nei media

Cominciamo con qualche perla di saggezza. “Arrestato un 34enne nomade residente a Bolzano” (da La Nuova del 24 novembre). Il giornalista mi dovrebbe spiegare come fa un nomade a essere anche residente. Vien da pensare che sia lo stesso articolista che, qualche mesa fa, sempre nelle nuova, ha scritto “l’uomo, di etnia nomade...” Come dire che se ti sfrattano e ti tocca vivere per strada cambi improvvisamente etnia e diventi “nomade”. Ma ci sono perle ancora più lucenti, nei nostri quotidiani. Titolone sul Gazzettino del 16 novembre: “Controllano sei stranieri e trovano sei bici rubate”. A voi che viene da pensare? Che ne hanno rubate una a testa? Invece no. L’articolo mescola due episodi diversi avvenuti in zone diverse della città, pur se in occasione dello stesso giro di controllo da parte delle forze dell’ordine. Per inciso, i sei stranieri sono risultati tutti regolari ed estranei al furto delle bici. Sempre dal Gazzettino, 25 novembre. Titolo: “Pochi soldi per l’assistenza: è allarme immigrati”. Che relazione c’è tra le due cose, chiederete? Nessuna, ovviamente. Nel testo si legge che i tagli alla sanità mettono a rischio tanti servizi e alla fine si puntualizza che questo nuocerà anche ai migranti che usufruiscono del servizio sanitario. Poi ci sono tutta una lunga serie di “si dice”, “pare che”, “secondo alcuni”... tutte affermazione che alla scuola di giornalismo ti spiegano che non vanno mai usate ma che, evidentemente, se riferite a nomadi, extracomunitari e clandestini si può fare una eccezione. Ecco qualche esempio. Dalla Nuova del 25 novembre: “Al servizio mensa di Marcon si sono presentate delle persone, pare zingari...”. Dal Gazzettino del 4 novembre: “la donna ha raccontato di essere stata aggredita da tre individui, forse extracomunitari”. Dal Gazzettino del 22 novembre: “L’uomo aveva i tratti somatici dell’etnia sinti”. Mi spiegate per cortesia quali sono i tratti somatici dei sinti? Prendiamo un esempio: il calciatore Andrea Pirlo che non ha mai nascosto di provenire da questa, chiamiamola, anche noi, etnia, che tratti somatici distintivi dagli “italiani doc” possiede?
Per non parlare, tanto per testimoniare la suprema ignoranza di tanti miei colleghi giornalisti, di tutta la serie di “extracomunitari rumeni” che infestano gli articoli di cronaca nera. Qualcuno glielo dovrebbe spiegare, prima o poi, che la Romania è parte integrante della Comunità Europea! Un canadese può essere definito extracomunitario, ma un rumeno proprio no!
Ultima nota per le lettere al direttore. Certo, queste non le scrivono i giornalisti, ma vi assicuro che sono un indicatore precisissimo della linea politica del giornale perché tra le centinaia che arrivano quotidianamente in una redazione vengono pubblicate solo quelle che, in qualche modo, testimoniano la correttezza dell’approccio politico del quotidiano ai problemi della città. Alle voci discordanti che servono a testimoniare la pluralità, casomai, si lascia spazio nelle colonnina riservata all’opinionista (che non legge mai nessuno). Quella delle lettere invece è, dopo lo sport, la pagina più letta dei nostri giornali. Ebbene, la lettera pubblicata dal Gazzetino il 27 novembre è stupendamente emblematica: “Sovente leggiamo i ben noti e soliti problemi che affliggono Venezia: l’acqua alta e il Mose, il turismo maleducato, il moto ondoso, le grandi navi, Santa margherita, via Piave, i sinti, i cassa integrati di Marghera, i vu cumprà, il tram, la sporcizia dilagante nel centro storico”. Che dire di questo bell’elenco di disgrazie? Qualsiasi commento è superfluo!

Questo che abbiamo sopra riportato è un sunto del lavoro effettuato dal gruppo stampa del l’Osservatorio contro le discriminazioni Unar del Comune di Venezia e presentato in un incontro svoltosi lunedì 10 dicembre al liceo scientifico Giordano Bruno di Mestre. Davide Carnemolla dell’Osservatorio veneziano ha presentato i dati complessivi del monitoraggio sui termini e sui pregiudizi razzisti veicolati dai nostri giornali locali, compreso le “perle” che abbiamo già riportato. Il rapporto è scaricabile dal sito dell’osservatorio all’indirizzo
http://antidiscriminazionivenezia.wordpress.com.
Ospiti d’onore dell’incontro sono stati due giornalisti del calibro di Carlo Berini di Articolo 3 e Giulietto Chiesa presidente di Alternativa. Berini che nella sua città, Mantova, ha organizzato un osservatorio antidiscriminazione che è stato uno dei punti di riferimento per la struttura veneziana, ha messo in guardia gli studenti sul fatto che la discriminazione non riguarda solo categorie come i rom o i migranti ma “è una questione che vi troverete ad affrontare per tutta la vostra vita e che vi colpirà personalmente quando al lavoro sceglieranno un raccomandato al posto vostro o qualcuno vi passerà davanti in una graduatoria senza averne i requisiti. Allora sarà importante imparare a riconoscere l’ingiustizia, affrontarla e superarla così che nessuno che viene dopo di voi ne venga fatto oggetto”. Applauditissimo l’intervento di Giulietto Chiesa che ha parlato dell’informazione nel nostro Paese. Anzi, dell’informazione che non c’è nel nostro Paese. “I telegiornali sono composti per il 5% da notizie false al 95%, per il 45% da pubblicità che come tutta la pubblicità è falsa al 100% e per il restante 50% da intrattenimento che, quando non è inutile, è comunque falso all’80%”. E ha concluso: “L’informazione è controllata da un gruppo ristretto di potenti che possono decidere cosa dire e come. E’ un sistema che non accetta e che non lascia trapelare la realtà dei fatti. Ci mettono davanti agli occhi una realtà virtuale che è totalmente diversa dal mondo reale in cui dobbiamo vivere”.
“Proprio come il film Matrix?” ha osservato uno studente dalla platea.
“Già, proprio come Matrix - ha risposto Chiesa - solo che questo non è un film e non ci sarà nessun Eletto a salvarci. Dobbiamo farlo noi”.

Detenuti curdi in sciopero della fame nell’indifferenza dei media

L’ultima volta che sono passato per Istanbul, all’incirca un anno fa, sono andato a trovare uno dei cosiddetti “avvocati di Öcalan”. Uno di quelli ancora a piede libero, intendo. Si chiama, o si chiamava, Mazlum Dinç. Dico così perché non so più niente di lui. Quando gli ho chiesto di scambiarci le mail per tenerci in contatto mi ha sorriso e mi ha chiesto se davvero pensavo che lui, un “avvocato di Öcalan”, potesse avere una mail senza che il governo turco gliela chiudesse dopo un paio di giorni.
Mazlum aveva appena inoltrato l’ennesima formale richiesta di incontrare il suo cliente, tenuto segregato nell’isola prigione di Imrali. E la sua insistenza, mi spiegò, era già sufficiente per farlo finire in galera con l’accusa di essere un simpatizzante del Pkk. Lo stesso destino degli altri 36 avvocati di Öcalan che, prima di lui, sono finiti dietro le sbarre. Lui - e aveva il coraggio di scherzarci su - era il numero 37. Il suo cliente, Abdullah Öcalan, è stato arrestato il 15 febbraio 1999. Le ultime sue notizie risalgono al luglio del 2011. Quando uno dei suoi avvocati - ora in galera pure lui con l’accusa di aver fatto da tramite tra Öcalan e il Pkk - era riuscito ad incontrarlo per pochi minuti. Il leader curdo stava male. Imbottito di droghe e psicofarmaci, senza possibilità di parlare con nessuno (è l’unico prigioniero dell’isola e gli è vietato scambiare due parole con i carcerieri), senza neppure poter leggere un libro o un giornale, o scrivere non dico una lettera ai figli, ma neppure su un suo quaderno. Eccolo qua, il “terrorista” Öcalan. Già, perché, come mi ha spiegato l’amico Muzlum, scrivere il suo nome senza la definizione di “terrorista” a precederlo, basta e avanza per far finire in galera qualsiasi giornalista.
Altra categoria che, al pari di quella degli avvocati, ci mette niente a farsi trasferire di forza dalla scrivania alla cella, nel Paese di Erdogan. Erdogan. Quello che l’Europa addita come un fulgido esempio di traghettatore di democrazia nell’Islam. Non stupiamoci. Si diceva lo stesso di Mubarak e Ben Alì, e sappiamo che brutta fine hanno fatto. Fatto sta che in tutto questo scoppio di democrazia, avvocati, giornalisti e anche sindaci scomodi diventano presto detenuti. Detenuti altrettanto scomodi, però. Da due mesi, perlomeno 700 prigionieri politici curdi stanno portando avanti uno sciopero della fame sino ad ammazzarsi. Il tutto nel menefreghismo più cosmico dei media nostrani. Raccattando le pochissime notizie che si trovano in rete, non posso non ripensare l mio amico Muzlum e alla gentilezza con cui mi porgeva il tè aromatizzato mentre a voce bassa mi raccontava di come ogni mattina, andando al lavoro, salutasse la moglie e i figli col trasporto dell’ultimo addio. “Attendo di giorno in giorno la chiamata del procuratore. Basta una semplice e apparentemente innocua richiesta di presentarsi di persona per firmare un documento o rilasciare una dichiarazione. Poi ti trattengono con la scusa di accertamenti sino a che montano l’accusa che sei legato al Pkk per il solo fatto di che ti ostini a difendere il signor Öcalan. A questo punto la galera non te la toglie più nessuno”.
Quanti sono i prigionieri curdi in attesa di giudizio o detenuti senza giusto processo nelle carceri turche? Nessuno può dirlo con certezza. Il Governo turco non dà nessuna statistica per il semplice motivo che per lui i curdi non esistono. Si tratta solo di banditi, terroristi, delinquenti comuni. Neanche il Kurdistan esiste. La catena montuosa dalle cime perennemente innevate e i grandi altipiani che si aprono ad est del Paese sono abitati solo da “turchi di montagna” che si ostinano a chiamarsi diversi e a parlare una lingua che non esiste, neppure come dialetto.
Prima di fare tappa ad Istanbul e rientrare in Italia, ero stato a Diyarbakir per seguire qualche udienza del processo ai 155 sindaci accusati di essere... curdi. Il dibattimento è stato brevissimo. Il primo imputato ha preso la parola per rispondere ad una domanda e il giudice gliela ha immediatamente tolta e lo ha rispedito in cella con tutti i suoi compari. Aveva parlato in curdo. Il processo però è continuato lo stesso. L’unica voce era quella dell’accusa. Una voce turca. Poter difendersi nella propria lingua è, assieme alla cessazione dell’isolamento di Öcalan, la richiesta dei prigionieri curdi in sciopero della fame. Una richiesta che il governo di Erdogan non si sogna neppure di prendere in considerazione.
Secondo un lancio di agenzia Ansa del 5 novembre, almeno 144 dei 700 detenuti che hanno aderito allo sciopero sarebbero oramai in condizioni definite “critiche”. Per alcune associazioni umanitarie, i numeri sarebbero ancora più alti e molti prigionieri sarebbero alimentati a forza con vitamine o medicinali. Difficile saperne di più perché i giornali turchi hanno avuto l’espresso divieto di parlare di questa storia e, come ho spiegato, da quelle parti un giornalista finisce agli arresti per molto meno. Sulla nostra sponda di Mediterraneo invece, dove i direttori di giornale costruiscono balle galattiche per lanciare campagne diffamatorie e la chiamano libertà di opinione, non è altrettanto facile per un giornalista finire in galera ma dei curdi che vanno a morire di fame non scrivono niente lo stesso. La censura la può fare lo Stato ma la può fare anche il menefreghismo. In entrambi i casi, l’informazione da diritto è diventata vittima.

Srebrenica al voto, tra nazionalismi emergenti e genocidi negati

C’è anche da esserne contenti. Non tanto per la rielezione di Ćamil Duraković, sindaco uscente di Srebrenica, che alla fin fine era il candidato di un partito notoriamente conservatore e dichiarata ispirazione islamica come lo Sda (Stranka Demokratske Akcije, traducibile come Partito di Azione Democratica). C’è da essere contenti, dicevamo, per la sconfitta dalla sua sfidante serba, quella Vesna Kočević, che in campagna elettorale, nel tentativo di smorzare le proteste dei musulmani, aveva più volte dichiarato che non si considerava una “difensora del negazionismo” e che era “consapevole che a Srebrenica erano stati compiuti numerosi crimini”. Salvo aggiungere subito: “da una parte e dall’altra”.
La parola “genocidio”, evidentemente, non compare nel vocabolario serbo. Quelle 8372 lapidi bianche sotto il cielo di Potočari - numero provvisorio che si aggiorna di mese in mese man mano che vengono riportate alla luce altre fosse comuni -sarebbero solo un “crimine”. Uno dei tanti che sono stati perpetrati durante il conflitto da “entrambe le parti in causa”.
Purtroppo per la candidata serba, quello che è stato compiuto a Srebrenica è proprio un genocidio. Lo testimoniano le fosse comuni preparate ancora prime che l’esercito serbo bosniaco e i gruppi paramilitari al suo seguito, prendessero il controllo della cittadina. Lo testimoniano i resti appartenenti a donne, anziani, bambini e civili trovati nelle cosiddette “fosse secondarie”, così chiamate perché due mesi dopo i massacri, nel tentativo di nascondere l’eccidio, i soldati serbi riaprirono le prime fosse e sparpagliarono i resti degli uccisi in buche più piccole.
Non va neppure dimenticato che la candidatura della Kočević è stata sostenuta da una coalizione composta dall’Sds (Srpska Demokratska Stranka ovvero Partito Democratico Serbo) e dall’Snds (Stranka Nezavisnih Socijaldemokrata, Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti). Il primo era il partito di Radovan Karadzic, attualmente sotto processo alla corte europea dell’Aja per una serie di crimini contro l’umanità tra i quali aver pianificato il “genocidio” - e sottolineo questo termine – dei musulmani di Bosnia, il secondo per quanto riguarda Srebrenica, dichiara candidamente che “là non è mai successo niente. E chi lo afferma è un amico dei musulmani”.
La sfida tra il bosgnacco Duraković e la serba Kočević si è consumata domenica 8 ottobre. Ed è stata una sfida all’ultimo voto. C’è da dire che le autorità della Republika Srpska avevano fatto di tutto per favorire la candidata nazionalista. Le incredibili lungaggini del conteggio per un paese con neppure 8 mila abitanti, sono quantomeno sospette. Otto giorni di attesa senza avere ancora la conferma ufficiale della vittoria di Duraković sono un po’ troppi anche per la Bosnia Erzegovina ed è comprensibile che negli osservatori nasca qualche perplessità. Poi ci sono le denunce di varie decine di sostenitori della Sda che giurano che gli è stato impedito l’accesso alle urne per cavilli burocratici. Ma soprattutto c’è la contestatissima legge, varata poco prima della tornata elettorale, che consente il voto ai soli residenti. In un Paese come l’Italia, questo sarebbe nomale, anzi auspicabile nella prospettiva che venga finalmente concesso questo fondamentale diritto democratico anche ai cittadini migranti. Ma in Bosnia, questo significa escludere dalle urne le migliaia di profughi che sono stati cacciati dalla propria casa dalla pulizia etnica. Per questo Duraković, in campagna elettorale, ha più volte dichiarato che se vincesse la sua sfidante sarebbe come se a Srebrenica “avesse vinto la politica del genocidio” e l’allontanamento, se non l’uccisione, dei musulmani “avrebbe ottenuto lo scopo di portare il paese nella sfera di influenza serba”. Duraković ha tirato la sua campagna con lo slogan “io non abbandono Srebrenica” e ha telefonato personalmente a centinaia di profughi musulmani per invitarli a registrarsi nelle liste elettorali di Srebrenica. Una mossa che gli ha consentito di mantenere il municipio. Le urne avevano assegnato la vittoria alla serba per 3400 voti circa contro 2900 ma le schede che sono affluite per posta - all’incirca 1800 - hanno spostato la bilancia in suo favore e, a conteggio pressoché ultimato, Duraković conduce di 300 circa voti. Srebrenica quindi non avrà per sindaca una nazionalista serba. E di questo, come abbiamo detto in apertura, c’è solo da essere contenti. Non c’è niente di cui essere contenti invece per come sono andate le elezioni amministrative nel resto della Bosnia Erzegovina che hanno visto il trionfo delle destre nazionaliste e di ispirazione religiosa. A Visoko, l’Sda è riuscito ad eleggere la candidata musulmana Amra Babić. Sarà il primo sindaco di una città europea ad andare in consiglio comunale col velo islamico. Le formazioni dichiaratamente inter etniche come l’Sdp (Socijaldemokratska Partija, Partito Socialdemocratico) hanno subito una pesante sconfitta. Come partiti di governo hanno pagato lo scotto di una recessione mondiale di cui non hanno particolari colpe se non quella di volerla affrontare seguendo i dettami della Comunità Europea, di cui aspirano a far parte. Una politica fatto di tagli al welfare e di privatizzazioni spinte. Hanno pagato soprattutto l’incapacità di dare alla gente una vera prospettiva sul futuro di un Paese in cui, se non c’è più la guerra, di certo non è scoppiata la pace. Proprio quello che non manca ai partiti nazionalisti che al contrario sanno parlare efficacemente alla pancia della gente proponendo una ricetta tanto semplice quanto immediata, comprensibile e soddisfacente (peccato che sia anche quella sbagliata). La colpa di questo stato di cose, dicono, è dell’altra etnia. Quella che ci ha fatto guerra, quella che ha compiuto tanti crimini e che ancora non ce li riconosce (ed è per questo che noi, a loro, non riconosciamo i nostri, anche quando sono evidenti come il sole). Il genocidio non è mai esistito. Chi lo afferma sta dall’altra parte ed è un traditore. Tutta qua la piattaforma politica dei tre partiti nazionalisti che, non certo per caso, hanno trionfato ciascuno sui municipi dove la sua etnia è prevalente: l’Hdz (Hrvatska Demokratska Zajednica Bosne i Herzegovine, Unione Democratica Croata della Bosnia Erzegovina) per i croati, l’ Sda per i musulmani e lo Sds per i serbi.
Concludo sottolineando due aspetti. Il primo è che tutti e tre questi partiti promettono un futuro irrealizzabile se non dopo un’altra guerra. E cioè la costituzione di uno Stato solo per i musulmani (per quando riguarda l’Sda), o di staccarsi dalla Bosnia per unirsi alla Serbia (Sds) o alla Croazia (Hdz). Proprio quello che è successo nelle elezioni dei primi anni ’90. Quelle che hanno preceduto la guerra.
La seconda questione da sottolineare è che nessuno dei tre partiti si dichiara esplicitamente una formazione conservatrice. Preferiscono la dizione di “partito nazionalista” e i loro membri si definiscono “patrioti”. Per certi versi sono molto simili alla Lega, soprattutto nel linguaggio. Non è un caso che vari esponenti del Carroccio abbiano in più occasioni manifestato solidarietà e apprezzamento ai loro esponenti, in particolare, dell’Sds. E non di rado a dichiarati criminali di guerra come il boia di Srebrenica Ratko Mladic (“Un vero patriota” a sentire quella sagoma di Borghezio). Ma, come per la Lega nostrana, più che di estrema destra questi partiti non possono non rivelarsi, perché fanno dell’esclusione il loro cavallo di battaglia. Un elemento qualificativo della sinistra invece, è - o dovrebbe essere - l’idea che i diritti sono di tutti o non sono di nessuno. Votando il “patriota etnico” invece del candidato, che so?, socialista, ambientalista o anche liberale, gli elettori finiscono semplicemente per votare un fascista. Serbo, croato o musulmano che sia, ma pur sempre un fascista. Un fascista “invisibile”. Magari un fascista che non sa neppure di essere fascista ma che alla fine porterà avanti una politica fascista perché se si incendia la miccia dello scontro etnico viene meno qualsiasi scenario di convivenza democratica.
Se i serbi votano i serbi perché son serbi, i musulmani i musulmani perché son musulmani e i croati i croati perché son croati, tanto vale non perdere più tempo con le urne e, invece dei voti, contare semplicemente le teste.
Ne ho viste tante, al centro di identificazione della vittime di Tuzla. Tutte staccate dai corpi.

Tra clandestini e vu’ cumprà. Anche l’Ordine dei Giornalisti denuncia l’abuso di parole xenofobe e razziste nei quotidiani.

Una bella sorpresa, quella che ho trovato tra le mail in attesa di lettura, dopo il ritorno dal mio ultimo viaggio a Srebrenica per la Settimana della Memoria. Parlo di una comunicazione ufficiale, con tanto di garanzia di “posta certificata”, spedita dall’Ordine dei Giornalisti del Veneto a tutti gli iscritti.
C’è da dire che, di solito, le “news” che puntualmente mi arrivano dall’Ordine professionale non sono mai granché entusiasmanti. Quote da pagare, qualche convenzione sottoscritta, note di segreteria... Così l’ho lasciata come “non letta” per tutto il viaggio e solo a casa mi sono dato la briga di buttarci un occhio. Sbagliavo. La notizia è di quelle che da segnalare con la bandierina rossa di “alta prioritaria”. Il Consiglio dell’Ordine si è deciso - finalmente! - a prendere posizione contro l’abuso sempre crescente di quelle che in questo blog abbiamo chiamato “parole sporche”. Mi riferisco a tutti quei termini che nella migliore delle ipotesi potremmo definire imprecisi e nelle peggiore xenofobi, che diffondono stereotipi razzisti e paure ingiustificate. Parole che “alzano muri”, come le hanno definite gli amici dell’associazione Giornalisti contro il Razzismo che hanno lanciato una campagna per la messa al bando di parole come “clandestino”, “vu’ cumprà” o “nomade”.
Per avere un esempio di come e quanto questa parole compaiano nei nostro quotidiani, basta collegarsi al bel sito appena messo on-line dall’Osservatorio contro le discriminazioni di Venezia all’indirizzo http://antidiscriminazionivenezia.wordpress.com Da queste pagine potete scaricare liberamente i dati del monitoraggio che l’Osservatorio effettua sulla stampa locale. E magari farvi due risate di fronte a genialate del tipo “Minacce e ricatti al supermarket. La tensione sale nelle ore pasto ma soprattutto alle 19.30 quando gli extracomunitari sono tanti e il pericolo è tangibile. (...) Sono stati individuati e denunciati per ubriacatura molesta, un tedesco e un uomo di Marghera”. Oppure “Una quarantacinquenne nomade, ma residente nel padovano è stata fermata...“ Di fronte a scemenze di questo tipo c’è poco da dire. C’è invece molto da protestare. Una informazione corretta, aderente alla realtà dei fatti, che faccia uso di termini appropriati e che non ceda a sensazionalismi che sconfinano nel razzismo, quando non direttamente nella pura idiozia umana, è un sacrosanto diritto di ogni lettore. Indipendentemente dalle sue idee politiche o religiose. Un diritto che va difeso con la protesta e la segnalazione.
Perché mai dovremmo sorvolare se nel nostro giornale ci tocca leggere fesserie dello stampo di “un uomo di etnia nomade...”? Prendiamo il telefono e chiamiamo il giornalista per farci spiegare gentilmente quale sia questa “etnia nomade” e quali interessanti libri di antropologia legga la sera. Magari alla fine della conversazione consigliamogli, sempre con la stessa cortesia, qualche buon libro di Marco Aime così che lo sfortunato si possa schiarire le idee. Se non vi va di telefonare, va bene anche una mail, una lettera o una cartolina. E vi assicuro che in un giornale locale, le segnalazioni dei lettori, quando sono in buon numero e motivate, pesano parecchio durante le riunioni di redazione e possono aiutare i giornalisti più sensibili all’uso corretto dei termini a rafforzare le loro posizioni.
E se la firma che leggiamo in fondo agli articolacci che soffiano sul fuoco del razzismo si ripete troppo spesso, una segnalazione al direttore del quotidiano e all’Ordine a questo punto è doverosa. Non serve essere deputati. Tutti possono inoltrare una protesta per il mancato rispetto dei protocolli etici sottoscritti dai giornalisti perché l’Ordine è obbligato ad accogliere e valutare le segnalazione di tutti i lettori.
Non è una battaglia contro i mulini a vento. La protesta alla fine paga. Ce lo dimostra l’ammirevole lavoro quotidiano di monitoraggio sulla stampa locale dalle ragazze e dai ragazzi dell’Osservatorio. Sono certo che sia anche e soprattutto merito loro, delle loro puntuali segnalazioni e delle varie iniziative pubbliche di informazione sull’informazione che hanno organizzato, se oggi l’Ordine è uscito dal suo torpore. Merito che va equamente diviso con la sensibilità e la correttezza dimostrata dal presidente dell’Ordine Veneto, Gianluca Amadori, un giornalista vero, che non ha mai smesso di spendersi per far capire a tutti i colleghi che il rispetto della Carta di Roma che tutela i rifugiati e i richiedenti asilo è un obbligo e non una possibilità.
Il testo della comunicazione ufficiale cui abbiamo accennato in apertura è facilmente scaricabile dal sito dell’Ordine di Venezia o dal quello dell’Osservatorio.
Si tratta senza dubbio di una presa di posizione molto categorica e netta. Tanto più se si considera che ben difficilmente il nostro amato Ordine dei Giornalisti esce dalla trincea della difesa degli interessi (economici) della categoria.
“La questione - si legge nel testo - non è quella di nascondere le notizie (che vanno sempre date, se vere e verificate adeguatamente), ma di come proporle utilizzando un linguaggio adeguato: evitando espressioni offensive e degradanti, ma anche banalità, luoghi comuni e qualsiasi espressione che possa alimentare atteggiamenti razzistici e discriminatori.  Ad esempio, di uno straniero arrestato, oppure oggetto di una notizia di cronaca di interesse pubblico, si può e si deve scrivere esercitando il legittimo diritto-dovere di cronaca, ma non è consentito estendere il comportamento di una o più persone ad un'intera etnia o popolazione, oppure sottolineare nazionalità e provenienza come se l'oggetto dell'interesse fossero queste (e non il reato commesso)”.
E ancora: “Devono essere evitate espressioni che hanno valenza dispregiativa come ad esempio ‘Vu' cumprà’; lo stesso termine ‘extracomunitario’ può non essere appropriato: chiediamoci, ad esempio, per quale motivo non viene mai utilizzato negli episodi di cronaca che riguardano statunitensi o australiani o canadesi (che pure sono extracomunitari), ma sempre quando i protagonisti delle cronache sono di provenienza africana. Anche il termine ‘clandestino’ può avere valenza negativa e ingenerare allarme sociale, risultando perciò improprio: molti dei migranti fuggono da guerre e rivoluzioni e, più che clandestini, sono richiedenti asilo per motivi umanitari o di sicurezza; persone che meritano rispetto e considerazione, al di là delle spesso inevitabili semplificazioni giornalistiche”.
Le stesse motivazioni che l’Osservatorio contro le discriminazioni di Venezia ha portato per commentare i suoi report sulla “malainformazione”! Come dire: avete ragione voi!
Per il futuro, ci auguriamo che l’Ordine continui a far pressione sulla categoria, anche adottando i provvedimenti disciplinari del caso perché, lo abbiamo già detto, il rispetto della carta di Roma è un obbligo per tutti gli iscritti. Anche l’Osservatorio, adesso che ha avuto una conferma che la crociata contro le “parola sporche” non è contro i giornalisti ma i giornalisti che non sanno fare i giornalisti, continuerà a segnalare ogni termine xenofobo con più forza di prima.
E così invito tutti i lettori a fare. Non facciamone passare neppure uno. Il fatto che un giornale costi meno di un caffè non vuol dire che non dobbiamo pretendere che sia scritto come si deve. E’ una battaglia che possiamo vincere. Me lo ha assicurato, in occasione di una chiacchierata informale, lo stesso presidente Amadori tracciando un parallelo con la Carta di Treviso sottoscritta nel ’90 a difesa dell’infanzia. “Ci abbiamo messo vent’anni per far entrare in testa ai giornalisti che devono tutelare i minori, speriamo che ne bastino di meno per fargli capire che devono rispettare anche i richiedenti asilo”.

Quei delinquenti del campo sinti. Quando i giornali infamano.

Vivo in un quartiere di delinquenti e, di conseguenza, sono un delinquente pure io. Per buona sorte sono di razza padana e nessuno si sogna di dichiarare al Gazzettino che la mia casa dovrebbe essere abbattuta e l’intero quartiere smantellato.
Fossi di "etnia nomade" - come mi è capitato di leggere sullo stesso giornale - non godrei del medesimo trattamento di favore. E se scrivere "etnia nomade" è una tal fesseria da farci scompisciare dalle risate anche senza bisogno di aver studiato antropologia con Lévi Strauss, che dovremmo dire quando ci tocca scoprire che il "nomade" Tal Dei Tali arrestato assieme a 18 italianissimi personaggi, cinque righe più sotto, “risiede” in una normalissima casa di una normalissima città veneta? E ancora, altre cinque righe più sotto, che ha anche la cittadinanza tricolore pur se il suo cognome finisce con “vich”? Che è come dire che è italianissimo pure lui considerato che le leggi razziali, in Italia, non ci sono più da quando hanno appeso il Benito a testa in giù. Giusto? Ma allora perché distinguerlo?
Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da incazzarsi neri. Perché a continuare ad incarognirsi su quella povera gente del villaggio sinti di Mestre che ha il solo torto di non sapersi difendere con gli avvocati, è una infamata bella e buona. Soprattutto se considerate che il vero scopo di tutta questo giornalismo di merda è gettare benzina per alimentare la politica della paura e della discriminazione. Altra merda.
Brutte, bruttissime storie che periodicamente escono come carogne dalle fosse proprio come gli zombi dei film di Romero. Sempre sul Gazzettino. Mercoledì 6 giugno 2012. Titolone: “Nullatenenti con ville e Ferrari”. Tra gli otto arrestati, si legge nell’articolo, c’è anche un residente del villaggio sinti. Uno. Ma evidentemente basta a fare testo. Il giorno dopo, a firma dello stesso giornalista, esce la smentita (costruita in maniera tale da sembrare una precisazione. Trucchi del mestiere…). Il “nomade” risiedeva da tutt’altra parte. A Dese, su un terreno agricolo di sua proprietà (alla faccia del “nomadismo”). Nel villaggio sinti di via del Granoturco abita comunque la moglie separata con un figlio (entrambi incensurati). Come dire che non abbiamo sbagliato più di tanto. E poi si sa che tale padre tale figlio. Il titolone che riprende la notiziona è un capolavoro di schifezze e di bugie: “Valige di soldi falsi nel campo sinti”. Nel testo si legge chiaramente che nessuno degli arrestati risiede nel campo sinti anche se il titolo fa pensare esattamente al contrario. Ma è questo contrario quello che resta in testa alla gente. Puro veleno, come direbbe il mio amico Tex Willer che avrebbe di sicuro preso a cazzotti il giornalista.
Perché qui non è solo questione di opinioni diverse che andrebbero comunque rispettate. Qui la notizia – e per essa intendo molto banalmente il racconto dei fatti accaduti – è stata mandata affanculo per far posto ad una deformazione della realtà volta ad avvantaggiare un pensiero politico dichiaratamente razzista e xenofobo. Non è un caso che questi popò di articoli escano sempre con un box di commento affidato al leghista di turno. Nel caso citato, l’onore dei riflettori tocca al consigliere comunale della Lega Nord Alessandro Vianello che non perde l’occasione di sparare: «Il campo sinti si svuoterà a suon di arresti. Quello che non fa il sindaco di Venezia, lo faranno le forze dell’ordine e la giustizia». Intanto, chi si sta svuotando a suon di arresti è la Lega Nord e non il campo sinti.
Oggi, sempre nel Gazzettino, ci tocca leggere sul titolo di apertura della seconda pagina della cronaca di Mestre di un cosiddetto “blitz al campo sinti”. Leggiamo tra le righe che si tratta di una operazione di polizia che ha portato alla custodia cautelare di 10 cittadini italiani. La banda finita nel mirino degli inquirenti è costituita da sinti e da non sinti. Eppure, sia nel titolo che nel sottotitolo, sia nelle foto che nelle didascalie viene enfatizzata solo la presenza dei sinti. Anche a leggere le locandine appese davanti alle edicole pare che ci sia stato sul serio un qualche blitz nel campo di Mestre. Così il messaggio (falso) raggiunge anche chi come me la carta igienica la compra a rotoli e va a vedersi la programmazione dei cinema su internet. Anche in questo caso, il commento viene affidato a uno che “non va per il sottile”, come ci specifica, casomai ce ne fosse bisogno, lo stesso articolista: il consigliere comunale Renato Boraso che urla che in via del Granoturco “va smantellato tutto”. E chi se ne frega se il campo sinti non c’entra un beato piffero in tutta questa storia? Nove dei dieci arrestati risiedono in normalissime case Ater o di proprietà tra Favaro, Mestre e il Friuli. Solo uno, si legge alla fine, abita nel campo sinti. Solo uno? No! Neanche quello. Si tratta infatti della stessa persona già ospite delle patrie galere a seguito dell’operazione ricordata in apertura. Quella dei “Nullatenenti con la Ferrari”. Lo stesso tipo che, come ci ha informato - il giorno dopo - lo stesso Gazzettino, ha la residenza in quel di Dese. In via del Granoturco vive solo l’ex moglie separata con il figlio. Perché allora Boraso non propone di “smantellare” Dese? O Favaro? O Mestre? Meglio ancora: “smantellate” il quartiere dove abito io! Di fronte a casa mia abita una persona il cui padre è in galera. Due calli più in là hanno arrestato da poco una coppia per spaccio. E ne conosco un altro, proprio sulle mie scale, il cui cugino è un noto poco di buono. Di per me, sono ancora a piede libero, per adesso, ma ho qualche sana denuncia per diffamazione a mezzo stampa che mi fa ben sperare per il futuro.
Fatta la debita proporzione, ci sono più delinquenti qui, attorno alla mia umile dimora, che nel campo sinti. Certo, qui sono tutti delinquenti di “razza padana” e non di “etnia nomade”. Ma che significa? Mica siam razzisti! Pretendiamo di essere infamati sui giornali e minacciati di “smantellamento” pure noi. Ecco!
Una nota a margine. Siccome non si può sempre fargliele passar lisce, sul caso del “blitz al campo sinti” che non è un “blitz al campo sinti”, l’Osservatorio contro le discriminazioni Unar Venezia, istituito con un protocollo di intesa tra il Comune di Venezia e il Ministero per le Pari Opportunità, ha deciso di segnalare l’articolo all’Ordine dei Giornalisti del Veneto chiedendo ai probiviri e al presidente Gianluca Amadori di intervenire e di prendere una posizione consona ai doveri sanciti dalla Carta istitutiva dell’Ordine riguardo l’aderenza ai fatti, ed ai protocolli sottoscritti dai giornalisti sul rispetto delle etnie. Rispetto che per quanto riguarda i sinti adesso proprio non c’è.
E se non ci credete fate questa prova. Sostituite, in uno di questi articoli, la parola “campo sinti” con il termine “ghetto ebraico”, e l’aggettivo “sinti” con “ebrei”. Leggete tutto d’un fiato e vi garantisco che vi si accapponerà la pelle!

Piccoli omicidi di frontiera

E’ successo ancora. E anche questa volta era un profugo fuggito dall’Afghanistan. Lo ha trovato un camionista bulgaro. Il cadavere era rannicchiato dentro il portellone posteriore del suo autoarticolato, in fondo alla stiva del traghetto greco Kriti II salpato da Igoumenitsa. Aveva 23 anni. E anche lui, secondo il referto del medico del porto di Venezia, è morto per soffocamento. Proprio come Alì, poco più di un mese fa. Anche lui morto asfissiato in fondo alla stiva, dentro il cassone del tir dove si era nascosto. Aveva la testa infilata in un sacchetto di plastica. Assassinato dalla frontiera. Proprio come il piccolo Zaher, travolto con il suo quaderno di poesie in tasca dalle ruote di un camion in manovra mentre cercava di fuggire dalla polizia portuale italiana. Omicidi che avremmo potuto evitare semplicemente rispettando i trattati internazionali sui diritti dei rifugiati o, come nel caso di Zaher, la normativa italiana sui richiedenti asilo.
Ed invece i porti mediterranei continuano ad essere frontiere senza legge. Trincee in cui i diritti umani sono sospesi e affidati alla discrezionalità del momento. I profughi che hanno la fortuna di sbarcare ancora vivi vengono per lo più rimandati indietro, come pacchi postali con l’indirizzo sbagliato. Anzi peggio. Perché un pacco postale gode della garanzia di consegna in buono stato e della rintracciabilità via internet. I profughi no.
Quaranta ore dura la traversata da Patrasso a Venezia. Quaranta ore senza acqua, senza cibo, senza la possibilità non dico di andare al gabinetto ma anche di sgranchirsi le gambe. Quaranta ore rannicchiati dentro un container senza ricambio d’aria, a parlare sottovoce quando invece vorresti urlare.
Poi, quando dai rumori dei motori in manovra capisci che la nave sta attraccando, ti tocca anche infilare la testa in un sacchetto di plastica perché arriva l’ispezione della polizia di frontiera italiana che si è dotata di quei nuovi rilevatori sonori capaci di individuarti anche dal solo respiro. Un vero prodigio della tecnologia che davvero poteva essere dirottato a migliore causa. Perché sai bene che se ti prendono, ti riconsegnano al servizio di sicurezza della stessa nave in cui ti eri nascosto, senza darti prima l’opportunità di contattare un legale o un operatore sociale per formalizzare la pratica per la richiesta di asilo, come prevederebbero tutte le normative a tutela dei rifugiati, da quelle internazionali a quelle europee sino alla stessa legge italiana. Ma i porti, lo abbiamo detto, da quello di Venezia a quello di Ancona o di Brindisi, sono bunker dove il diritto non vale niente. Ti riconsegnano senza pietà agli stessi aguzzini cui avevi cercato di fuggire. E allora sai che ti attendono altre 40 ore nello stesso inferno che hai appena patito, chiuso a chiave in un qualche gavone della nave. E poi le botte, le violenze e la prigionia in Grecia. Un Paese dove, di fatto, lo status di rifugiato non esiste e i migranti in fuga da Paesi in guerra come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Eritrea - guerre in cui l’Italia e l’Europa non possono certo affermare di avere la coscienza a posto - non hanno nessuna speranza di venire accolti.
E non sono le “solite” associazioni umanitarie a dirlo ma la stessa Corte di Strasburgo che, con una sentenza del gennaio 2011, ha condannato la Grecia per “trattamenti inumane e degradanti” nei confronti dei profughi in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani.
Dalla Grecia, se ti va male, sarai rispedito in Turchia o direttamente dal Paese da cui avevi tentato di fuggire. Per molti, per tanti, è una condanna a morte. Se ti va bene, il destino ti potrebbe riservare un’altra opportunità. Un altro tentativo di raggiungere l’Italia, magari dentro la stessa nave della prima volta. Un altro giro di giostra. Un altro tiro alla roulotte russa, sperando di sopravvivere ancora. Tutto questo accade tra l’indifferenza generale. E nelle due righe che i giornali locali, quando ci scappa il morto, non possono fare a meno di dedicare alla questione, hanno pure il coraggio di chiamarli “rimpatri”. “Ancora clandestini al porto. Subito rimpatriati in Grecia” ci è toccato di leggere sul Gazzettino. Come se fosse la Grecia la loro patria! Hanno pure il coraggio di definirli “clandestini” anche se la Carta di Roma chiede ai giornalisti di usare i termini corretti ed evitare sensazionalismi per quanto concerne le notizie su richiedenti asilo e rifugiati. L’etica professionale evidentemente non serve per fare carriera.
Il caso del ragazzo afghano di 23 anni, arrivato morto asfissiato da Igoumenitsa, è solo una delle ultime tragedie accadute sulla traversata adriatica. Il nostro Paese, in questo caso, non ha responsabilità dirette, come invece nel caso di Zaher, come invece nei tanti casi dei richiedenti asilo, non di rado minorenni, illegalmente respinti senza concedere loro l’opportunità di formalizzare le richieste di asilo.
Tanti casi, abbiamo detto. E uno solo sarebbe già troppo. Ed è anche difficile conoscere con esattezza il numero di questi respingimenti. Non soltanto per le solite e pretestuose “ragioni di sicurezza” con le quali la polizia portuale nega anche ai giornalisti l’accesso ai dati, ma anche perché tutto viene svolto in una clima di totale sospensione dei diritti. Niente viene mai formalizzato o contabilizzato. Per l’autorità portale, questi richiedenti asilo non fanno neppure statistica! Se non hai documenti, non hai neppure diritti. Una volta bisognava essere ebrei.
Secondo una stima dell’osservatorio veneziano contro le discriminazioni razziali, nato da un Protocolo di intesa tra l’Unar e il Comune di Venezia, ottenuta incrociando dati della Prefettura e del Cir, nel periodo che va dal gennaio al dicembre del 2010 sarebbero comunque più di 600 i richiedenti asilo respinti e consegnati al personale di bordo delle navi in cui si nascondevano senza aver prima incontrato un mediatore o un interprete. E vale la pena di sottolineare che la polizia di frontiera, come ben spiega una direttiva europea recepita dal nostro ordinamento, non ha alcuna competenza nello stabilire la fondatezza o meno di una richiesta d’asilo e che, in ogni caso, rimandare chiunque verso un Paese dove può subire trattamenti inumani e degradanti viola il principio di non refoulement.
Una pratica di respingimento collettivo quindi, non solo illecita ma anche illegale e per la quale, nel caso di quanto accaduto con i profughi dalla Libia, l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea per il diritti dell’uomo. Una dura sentenza di condanna che rischia di essere replicata quando la stessa Corte darà, come tutto lascia supporre, ragione anche al simile ricorso, tutt’ora pendente, presentato grazie all’assistenza legale di alcune associazioni veneziane costituitesi nella Rete Tuttiidirittiumanipertutti, da 35 migranti, metà dei quali minorenni, respinti al porto di Venezia. La sentenza è attesa a breve termine è decreterà ancora una volta, l’infamia di una politica volta ad allontanare dall’Europa - il salotto buono del mondo - uomini, donne e bambini in fuga dalla fame, dalla povertà e dalla guerra. La stessa fame, povertà e guerra che paga le spese del salotto buono.
Intanto, il fallimento della politica che pretendeva di trasformare l’Europa in una fortezza è sotto gli occhi di tutti coloro che sappiano leggere un po’ più a fondo quanto è successo nel mondo arabo con le rivolte di primavera. E anche quanto succede a casa nostra con i deludenti (e vergognosi) risultati di quella barricata contro le migrazioni che si vantava di essere Bossi Fini.
I nostri porti e in particolare il porto di una città storicamente aperta a tutte le culture come Venezia, non possono rassegnarsi ad un degradante ruolo di frontiere omicide e senza legge. Non è questa la loro storia. Non è questa la loro tradizione. Devono tornare ad essere quello che sono sempre stati: porte aperte verso altri mondi e altre culture. Non cittadelle fortificate dove i diritti fondamentali dell’uomo sono sottoposti alla discrezionalità della politica del momento.

Rwanda, 18 anni dopo il genocidio

La primavera in Rwanda si tinge di viola. E’ il colore del lutto. E’ il colore del genocidio a colpi di machete che 18 anni fa, nell’aprile del ’94, insanguinava il Paese delle Mille Colline. Torrenti di sangue trascinavano a valle i corpi macellati dei tutsi, sino al lago Vittoria dove si impigliavano nelle reti dei pescatori. Oggi le tracce delle fosse comuni scavate sulle sponde ugandesi del lago da cui nasce il Nilo, culla di civiltà, sono state cancellate per non turbare le coscienze dei turisti che non riuscivano a dare un senso ad una tale ecatombe. Non facciamone una colpa. E’ impossibile farsi anche una pallida idea di cosa significa un milione di morti ammazzati in meno di tre mesi. E’ come parlare delle stelle. Come dire che Proxima Centauri dista “solo” quattro milioni di anni luce, mentre Aldebaran è 500 volte più luminosa del sole. Numeri esatti ma senza senso per il nostro limitato sentire comune. Ma mai, mai nel corso della storia dell’uomo, sono state uccise così tante persone in così poco tempo e con mezzi così banali come machete, coltelli da cucina, bastoni e martelli. Non era una scelta di campo. La Banca Mondiale aveva negato il finanziamento per le più pratiche armi da fuoco, sostenendo che il governo dell’Hutu Power non era economicamente solvibile. Per risolvere le sue faccende interne, poteva concedere al Rwanda al massimo un prestito per quegli 80 mila machete di seconda mano che la Cina, generosamente, era disposta a fornire a prezzi scontati. Di necessità virtù. Così è cominciato quello che è stato definito il “genocidio dei poveri”. Ma non c’era nessun’altra ragione che giustificava l’uso dei machete se non che le pallottole costavano un sacco.

IL GRANDE MAUSOLEO
Adesso, un milione di morti dopo, non è più possibile pensare di visitare il Rwanda seguendo un itinerario solo naturalistico, pure se le profonde valli coltivate a tè, a caffè o a cacao si aprono al viandante in spettacolari panorami che non hanno uguali in tutto il continente. Ogni strada ha le sue lapidi di cemento per ricordare i blocchi stradali dei miliziani dell’Interahamwe (letteralmente “Colpiamo insieme”) che filtravano la popolazione in fuga e non lasciavano scampo a chi non poteva dimostrare di essere un hutu fedele al regime. E per provarlo, doveva lui stesso macellare un tutsi. Ogni villaggio, anche di poche capanne, ha il suo monumento funerario a cifre tonde. Cinquemila morti qua, tremila di là. Si va ad occhio. Alla “più o meno”. Ancora oggi, capita che un contadino intento a piantare un banano scopra una fossa comune con qualche decina di teste mozzate e vari pezzi di uomo. Con una recente legge, il governo rwandese ha deciso di smettere di innalzare monumenti funerari sui luoghi degli eccidi e di tumulare gli ultimi ritrovamenti nel grande mausoleo innalzato sopra una collina della capitale, Kigali. Davanti al fabbricato che ospita una terrificante esposizione che prova a raccontare la storia del genocidio, c’è una enorme fossa con una lastra mobile di marmo bianco. Almeno una volta alla settimana, qualche gruppo di sopravvissuti vi si reca per depositare casse di ossa recuperate da qualche parte, sotto le mille colline di quel Paese che negli anni ’70, quando le multinazionali ci investivano camionate di dollari per lo “sviluppo economico del terzo mondo”, veniva chiamato la “Svizzera d’Africa”. Proprio come il Libano per il Medio Oriente. E’ una definizione che porta male, evidentemente. Ti viene da riflettere sul come mai alla Svizzera vera non succeda mai niente.

I FUNERALI DI CHARLES
La cerimonia di tumulazione è semplice. Un impianto stereo suona l’inno nazionale, dei soldati in alta uniforme spostano la lapide e calano la cassa con i resti, i sopravvissuti piangono. Ho buttato l’occhio dentro la fossa. E’ immensa ma c’è ancora un bel po’ di posto. “Ci vengo tutte le volte che posso e che seppelliscono qualcuno – mi racconta un signore di mezza età -. Io ero a Londra a studiare medicina all’epoca. Mia madre, mio padre, i miei due fratelli, le mie tre sorelle, e cugini, zie… li hanno ammazzati tutti. Di alcuni ho identificato e recuperato i corpi ma di altri, come mia madre, ancora no. Adesso vengo qua e spero di capitare, magari per caso, al suo funerale”. E’ vestito elegante, il signor Charles. Preferisce essere chiamato all’inglese che alla francese, mi spiega, anche se parla correttamente tutte e due le lingue oltre, si capisce, al kinyarwanda, la lingua locale. Indossa un bel completo grigio e una cravatta viola con fazzolettino in tinta che gli spunta dal taschino. Porta con sé un grande quadro incorniciato in argento che ritrae una coppia in posa per una foto ricordo, come quelle che si andavano a fare per certe ricorrenze speciali nello studio di un professionista. “My mother, my father”, mi dice. Quando è tornato dall’Inghilterra non ha trovato più niente di quello che aveva lasciato. La casa devastata, la famiglia distrutta. “I vicini che ci erano amici prima del genocidio non avevano il coraggio di guardarmi. E io non avevo il coraggio di guardare loro perché non potevo sapere che parte avevano avuto nel massacro dei miei. Non ce l’ho più fatta a vivere nel paese dove sono nato e mi sono trasferito nella capitale a fare il medico”.

VITTIME O CARNEFICI?
Non si viaggia leggeri in Rwanda. Non si può non chiedersi continuamente come sia stato possibile un tale scoppio di violenza genocida. Non si può non chiedersi che parte avremmo avuto noi se fossimo stati là, nel paese delle Mille Colline, in quell’aprile di 18 anni fa. Vittime o carnefici? Non erano possibili né tollerate, vie di mezzo. Quando l’esercito ha ordinato a due bulldozer di abbattere la chiesa di Nyange, dove si erano rifugiati alcune centinaia di donne tutsi con i loro bambini, il primo conducente si è rifiutato ed è stato immediatamente ucciso con una pallottola in testa. Il secondo ha messo in moto il suo mezzo e ha buttato giù le pareti seppellendo tutti vivi.

“COSE INSEGNATE DALLA COLONIZZAZIONE”
A differenza di altri e più celebrati genocidi come la shoah, perpetrato da carnefici “professionisti” come le Ss dei lager, quello del Rwanda è stato un genocidio di popolo portato a compimento dalla gente comune: i colleghi di lavoro, i vicini di casa. Anche i parenti, considerato che moltissime famiglie erano miste. Hutu contro tutsi. Ma anche hutu contro quegli hutu che non ci stavano e che si rifiutavano di massacrare col machete o con i martelli le “blatte” tutsi. Oggi le chiese dove i tutsi si rifugiavano sperando inutilmente di essere risparmiati sono sconsacrate e stipate dei loro resti. Le ossa spaccate, i crani sfondati ammucchiati a ridosso delle pareti, i vestiti oramai ammuffiti dove vi hanno scavato la tana grossi ragni, sono appesi al soffitto e raccolti in pile davanti agli altari. L’odore è nauseante ed è dura passarci in mezzo senza dare di stomaco. Se chiediamo ai sorveglianti il perché di tutto questo, che l’esposizione dei morti non fa parte della cultura africana, ti rispondono che neppure il genocidio lo era. “Sono tutte cose che ci sono state insegnate dalla colonizzazione”. Fuori, coperto da stoffe viola, si alza l’immancabile monumento commemorativo. “Never again” ci trovate scritto. “Mai più”. Sempre in lingua inglese. Anche il genocidio rwandese può essere letto in funzione di quella guerra tra il capitalismo anglofono e quello francofono eredi della colonizzazione dell’Africa. Tra un Paul Kagame, leader del Rwandan Patriotic Front (Rpf), sostenuto dagli Usa e il governo dell’Hutu Power spalleggiato dall’allora presidente francese, il socialista Francois Mitterand.

LA RICOSTRUZIONE
Il Rwanda di oggi è un Paese che sta sostituendo il francese con l’inglese anche nella cartellonistica stradale. Anche i capitali stranieri investiti hanno una diversa provenienza rispetto a vent’anni fa. Più dollari e yuan che franchi (o euro), per intenderci. Soldi che comunque sono andati a finanziare anche opere meritorie. Il Paese offre ospedali di buon livello, per gli standard africani, gratuiti e aperti a tutti. Ha scuole per bambini e strade neanche tanto disastrate (se siete arrivati in auto dal Congo, vi sembreranno autostrade). Le Mille Colline sono coltivate sino a dove è possibile coltivare. Tutte le persone che ho conosciuto sanno leggere e scrivere e mi hanno lodato il programma di alfabetizzazione che il presidente Kagame ha realizzato, grazie anche a cospicui aiuti internazionali. Le Banca Mondiale, la stessa che ha fatto il bonifico per l’acquisto dei machete, si è impegnata a sostenere l’esportazione di tè e caffè. Perlomeno fino alla prossima “crisi”. Ma oggi, anche chi non ha niente, può scendere le valli ed immergersi nelle sterminate piantagioni di tè, raccogliere le piccole foglie e ricavarne quantomeno il minimo vitale. In Africa non è poco.

EFFICIENZA AFRICANA
La pubblica amministrazione del Rwanda, se diamo credito alle statistiche condotte da alcune organizzazioni per i diritti civili internazionali, è la meno corrotta dell’Africa: Nell’hit parade internazionale sembra sia anche meno corrotta di quella italiana – piuttosto giù di classifica – e di poche tacche sotto Svezia e Danimarca. Il suo parlamento è il primo nella storia dell’umanità ad avere, come elette, più donne che uomini ed è l’unico Paese centroafricano non solo a non perseguitare penalmente ma neppure a discriminare legalmente gli omosessuali. Inoltre ha da poco varato una legge contro la violenza nei confronti delle donne che è considerata tra le più avanzate del mondo. Le elezioni che per la terza volta consecutiva hanno visto trionfare il presidente Paul Kagame con una di quelle percentuali che una tempo ci divertivamo a definire “bulgare”, si sono svolte, a giudizio degli osservatori Onu, senza neppure troppi brogli. E’ questo il Rwanda nato dal genocidio? Di sicuro, Paul Kagame e il suo Rpf hanno avuto, politicamente parlando, vita facile nel gestire i resti di un Paese terrorizzato e reduce da un macello. Viene anche da riflettere su tutti quei “ritardi” nell’avanzata dell’esercito del Fronte Patriottico, in quella tremenda estate di 18 anni fa, nonostante il comandante di quello sparuto gruppo di Caschi Blu rimasto in Rwanda, Romeo Dallaire, supplicasse Kagame di fare presto, se voleva trovare ancora “qualcuno di vivo”. Freddo calcolo militare o spietato ragionamento politico?

PAUL KAGAME
Naturalmente, anche queste medaglie hanno il loro rovescio. Tra tutti i governi africani, quello di Paul Kagame è l’unico che non si preoccupa solo di controllare le azioni dei suoi cittadini ma anche, e soprattutto, quello che pensano. Il genocidio è materia di studio obbligatoria in tutte le scuole in tutti i livelli. E la risposta giusta alla domanda finale d’esame “Chi ha posto fine al genocidio?” è sempre e solo “Paul Kagame”. Per la lode bisogna aggiungere “amato padre della Patria”. L’iscrizione al partito di governo per gli adulti non è obbligatoria ma fortemente consigliata. I giornali di opposizione nascono liberamente ma sono sempre costretti a chiudere dopo pochi numeri. Giornalisti critici e avversari politici, prima o poi, finiscono in galera. E l’accusa infamante che apre le porte del carcere è sempre la stessa: negazionismo. E’ questa la parola magica. Il genocidio è un nervo scoperto. Chi osa criticare il presidente Kagame che ha posto fine allo sterminio non può che essere uno che nega il genocidio e offende la memoria di quel milione di morti ammazzati. Basta una accusa generica di negazionismo e si finisce dritti sotto processo. Quei pochi che mormorano che oggi in Rwanda vige un “razzismo opposto”, e le cariche più prestigiose, i lavori più pagati sono prerogativa esclusiva dei tutsi, lo fanno dall’estero, dalla Francia. Son cose che qui non si possono neppure bisbigliare.

TUTSI E HUTU
E d’altra parte, per chi ancora vive nel Paese delle Mille Colline, termini come tutsi e hutu sono diventati un tabù. Scomparsi non solo dalle carte di identità, dove ce li avevamo messi i colonizzatori belgi preoccupati di dividere la popolazione per controllarla meglio, ma anche dai libri di storia e dagli stessi musei etnologici. Solo nel mausoleo del genocidio ne ho trovato traccia. Difficile anche capire se davvero tutsi e hutu possono essere definite due etnie diverse, considerato che condividono la stessa lingua e gli stessi miti. Una ricerca etnologica compiuta ai tempi della colonizzazione dai Padri Bianchi belgi, preoccupatissimi di trovare un qualcosa che distinguesse gli uni dagli altri, stabilì solo che gli hutu avevano in media il naso di due millimetri più piccolo dei tutsi. Se si fa un simile “studio scientifico” tre veneti e lombardi si trovano più differenze! Probabilmente, come ha osservato Ryszard Kapuściński, più che di etnie è corretto parlare di caste. Pure se ben diverse da quelle stagne dell’induismo. “I tutsi erano allevatori, gli hutu contadini – mi ha spiegato un ragazzo, studente di legge alla National University di Butare che ho conosciuto al museo dell’Olocausto – ma se il re per premiarti ti regalava una mandria di ankole (le tipiche vacche centroafricane dalle enormi corna.ndr) tu, hutu, diventavi immediatamente tutsi”. Soltanto caste quindi. Soltanto una ingombrante eredità di un tempo che non c’è più ma che sarebbe bastata a scatenare i massacri.

“SONO SOLO UN RWANDESE”
Quando mi azzardo a chiedergli se lui viene da una famiglia tutsi o hutu, il ragazzo mi guarda inorridito e mi balbetta che la mia domanda non ha più senso. Che lui è solo un rwandese tra i rwandesi e che compie un pericoloso errore chi cerca di spiegare quanto è accaduto affidandosi alle categorie tribali di “tutsi e hutu”. Con lui visito l’ultima ala del mausoleo dedicata agli altri genocidi che hanno insanguinato gli ultimi decenni della storia dell’umanità: l’olocausto nazista, gli armeni, il Darfur, la Cambogia… Nel portone d’uscita, in alto, a caratteri cubitali, ancora la scritta “Never again”. Ripenso a Primo Levi. Non cercate ragioni. E’ accaduto. Accadrà ancora.

Cinque sporche parole: il linguaggio della discriminazione

A Lampedusa, all’epoca in cui gli sbarchi facevano notizia, ho conosciuto una collega giornalista della televisione. Si piazzava davanti alla telecamera con una espressione sofferente ed allarmata che cominciava e finiva con la diretta. Quindi cominciava a sciorinare tutto un vocabolario da sbarco pieno zeppo di “invasioni” e di “clandestini”. I suoi servizi erano un completo elenco di tutti i rischi, i pericoli e i costi per il Paese che, secondo lei, arrivavano dal mare. A telecamere spente, c’è da dire, la collega diventava quasi una persona normale. Non dico simpatica ma neppure così insopportabile. Così un bel giorno le ho chiesto perché mai usasse continuamente il termine “clandestino” invece di, che so?, “profugo”, “persona in fuga dalla guerra” o altro. La collega ha tirato un bel sospiro e poi mi ha risposto: “Guarda, io sarei anche d’accordo con te. Ma il caporedattore mi ha ordinato espressamente di chiamarli clandestini e di mandargli servizi da tenere la gente incollata al teleschermo”. Questo è un classico esempio di malafede. C’è poco da aggiungere. In ogni mestiere si trova sempre qualcuno convinto che più farà da servo e più farà carriera.
Ma sappiate, quando leggete che il tale luogo “è malfamato e frequentato da molti extracomunitari” (cito la Nuova Venezia) che il più delle volte la malafede non c’entra. E’ semplicemente cattivo giornalismo. Cattivo giornalismo dettato dalla fretta, dall’ignoranza, dalla passione per i titoloni sanguinolenti, da un po’ di cialtronaggine e da tanto menefreghismo. E’ il giornalismo delle 4 S: sesso, sangue, soldi e sport. Fuori di qua non c’è notizia.
Tutto questo, se non giustifica, perlomeno spiega l’utilizzo di termini che sviliscono l’etica deontologica. A partire dal secondo articolo della legge istitutiva dell’Ordine, quello che sancisce il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati, in quando contengono un giudizio preconcetto su determinate categorie che nulla ha a che vedere con la realtà. Tutto possiamo scrivere dei profughi della guerra libica arrivati a Lampedusa ma non che siano “clandestini” semplicemente perché non possono essere definiti tali in nessuna accezione del termine.
Usando termini discriminanti, oltre che ad alzare barriere e a fomentare xenofobia e razzismo come sa fare molto bene certa politica, il giornalista dimostra di non saper attenersi ai fatti e di non saper usare le parole che meglio e più correttamente descrivono il fatto di cronaca. Mi ci metto pure io tra i peccatori. Quando frequentavo la redazione del Mattino di Padova avevo preso l’abitudine di scrivere “tossico” invece di tossicodipendente. Perché? Perché facevo prima, perché guadagnavo un po’ di righe con una parola più corta, perché usando toni allarmistici mi sembrava di scrivere articoli più importanti e perché credevo di venir letto di più, perché tutti li chiamavano così, i tossici. Per mia fortuna, l’allora capo redattore Aldo Comello mi fece una gentile ma decisa lavata di capo: quelle persone non sono velenose o “tossiche”, non è nostro compito dare giudizi su di loro ma solo di raccontare la notizia nella cronaca. Se ne sono vittime o protagonisti, chiamiamoli per quel che sono: persone dipendenti da sostanze stupefacenti. Chi legge il giornale, mi disse, ha il sacrosanto diritto di farsi una sua opinione senza venir influenzato dai tuoi stupidi preconcetti. Niente da obiettare. Una bella lezione. Ma non saprei dire quanti altri caporedattori si comporterebbero così oggi.
Non nascondiamoci dietro il fatto che “tanto... poche persone oggi leggono i giornali”, come mi ha detto con una scrollata di spalle un collega del Gazzettino. Gli avevo fatto osservare, in occasione di un incontro pubblico, che “Caccia ai covi dei clandestini” non è esattamente un titolo corretto da sparare in prima pagina (soprattutto se poi gli arrestati sono tutti italianissimi). Le parole, e le parole scritte in particolare, condizionano il nostro modo di pensare sino a ridisegnare la stessa realtà, sdoganando razzismi e fomentando xenofobie. Non è neppure vero, tanto per citare una seconda obiezione, che il giornalista deve usare le parole che usa la gente. Sui giornali trovare scritto “prostituta” e mai “puttana”. Ripulire il vocabolario per non rimanere ingabbiati dai pregiudizi, è l’obiettivo dell’appello dall’associazione Giornalisti contro il razzismo. Il testo integrale lo potete leggere e magari pure sottoscrivere sul sito www.giornalismi.info/mediarom/. Il primo firmatario è Lorenzo Guadagnucci, autore del libro “Parole sporche”, edito da Altraeconomia. L’appello comincia col prendere atto di un “diffuso disagio nel mondo dei media” sempre più consapevole che "i mezzi di informazione rischiano di svolgere un ruolo attivo nel fomentare diffidenza e xenofobia" proprio attraverso l’uso indiscriminato di parole che contengono in sé i germi dell’intolleranza. I Giornalisti contro il razzismo individuano, come punto di partenza, un “glossario minimo” di termini di uso comune che chiunque faccia informazione, ma non solo, dovrebbe disimparare a scrivere. Le cinque parole sporche sono: clandestino, vu’ cumprà, extracomunitario, nomade, zingaro.

Clandestino
Se volete intraprendere la carriera di clandestino dovete per forza di cose nascere figli primogeniti di una nobile famiglia inglesi. Una congiura dello zio cattivo, che vuole mettere le mani sul vostro patrimonio, vi costringerà ad imbarcarvi segretamente in un veliero ed a salpare per i mari del sud. Nel corso della traversata, dopo essere stati scoperti e spediti a palar patate nella cambusa, vi tocca salvare la nave dalla tempesta per entrare nelle grazie del burbero capitano di cui finirete per salvare e poi sposare la bella figlia che si fa immancabilmente rapire dai pirati. Ecco. Questi sono i veri clandestini. Fuori dai romanzi ottocenteschi e dai fumetti d’avventura, il termine viene usato in maniera scorretta. Certa stampa lo usa per indicare i migranti non in regola col permesso di soggiorno, magari perché esclusi da quote d’ingresso troppo basse o perché ancora in attesa di una risposta alla richiesta di asilo. La parola ha una valenza fortemente negativa ed evoca segretezza, illegalità, contatti con la criminalità, malintenzionati che vivono nascosti e girano solo di notte. Ed invece i “clandestini” vivono come noi alla luce del sole, come noi lavorano o cercano di lavorare e, più di noi, sono vergognosamente sfruttati e meno tutelati proprio per il fatto di non essere in regola con i documenti. A qualcuno fa comodo così.

Extracomunitario
All’origine era un termine burocratico usato per indicare i cittadini di Paesi esterni all’Unione Europea. Siccome il prefisso “extra” indica una esclusione, la parola ha finito per identificare solo i migranti provenienti da Paesi poveri. I banchieri svizzeri non sono mai extracomunitari. Da notare che nel giornalismo sportivo il termine viene usato correttamente. Capita di leggere che “la squadra non può purtroppo schierare il giocatore Tal dei Tali di nazionalità canadese in quanto ha già raggiunto la soglia federale dei tre extracomunitari”. Non così per la cronaca. Se leggete che la Lega vuole cacciare gli extracomunitari, potete mettere la firma che non intende i soldati Usa della caserma Dal Molin. Quelli evidentemente non sono extracomunitari come gli altri. E per altri versi, ci ha pure ragione!

Vu’ Cumprà
Il termine intende marcare la scarsa padronanza della lingua italiana dell’ambulante sottolineandone una presunta ignoranza. In realtà, gli ambulanti che incontriamo negli angoli delle nostre strade non sono affatto ignoranti, molti sono come minimo diplomati e tutti riescono ad esprimersi perlomeno in tre lingue. Lo stesso non si può dire della media degli italiani che in inglese a malapena ti sa spiaccicare “Ve pen is on ve teibol”. Va aggiunto che il termine ha origine nella spiagge marchigiane dove, in dialetto, “Vuole comperare?” si dice proprio “Vu’ cumprà?” L’ambulante altro non faceva che adoperare la parlata del posto. Il razzismo che sta dietro questo termine ce lo mette tutto chi lo usa.

Nomade
Nei nostri quotidiani, il termine da origine a degli ossimori di incomparabile bellezza. “Arrestato nomade residente nel padovano”, cito sempre la Nuova Venezia che non mi delude mai. Oramai la parola viene usata come un sinonimo di delinquente. Nei fatti, molti dei “nomadi” citati non sono affatto nomadi. Lo stesso nomadismo tra i sinti e i rom oggi è nettamente minoritario ed imputabile solo al fatto che non hanno un luogo in cui fermarsi, più che ad una scelta di vita che andrebbe comunque rispettata al pari di tante altre. L’uso fuorviante ed indiscriminato che si è fatto di questo termine ha coperto quella vergognosa politica di segregazione territoriale che ci ha resi famosi in Europa come il “Paese dei campi nomadi”.

Zingaro
O sono rom o sono sinti. Dire “zingaro” è accumulare due culture diverse dentro lo stesso insulto razzista. Bisogna comunque osservare che, come gitano o zigano da cui deriva, questa è una parola che viene da lontano e ha percorso, non necessariamente con connotazioni negative, anche le strade della letteratura, della musica e della cinematografia. Personalmente, sin da quando ascoltavo Claudio Lolli che li cantava “felici in piazza Maggiore ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra”, non ho mai caricato il termine di valenze pregiudiziali. Cosa che, al contrario, stanno facendo con lucido razzismo quelle forze politiche, e non mi riferisco solo alla Lega o alla destra, che cercano di costruirsi fortune elettorali fomentando odi e paure contro gli “zingari” di turno. La storia, purtroppo, non ci ha insegnato niente.

Quei respingimenti di cui nessuno parla

Qualche volta, nei giornali, hanno anche il coraggio di chiamarlo “rimpatrio”. Duemila battute scritte in fretta su una velina della Questura per riempire uno spazio in terza di cronaca sotto un titolo a due colonne “Ancora clandestini al porto. Subito rimpatriati in Grecia”. E questione risolta. Proprio come se fosse la Grecia, la patria di quei “clandestini”. Proprio come se si fossero imbarcati rischiando la pelle, aggrappati sotto il motore di un tir, per fare una goliardata e vedere se riuscivano ad attraversare l’Adriatico senza pagare il biglietto.
E invece no. La questione non è affatto risolta qua. Non stiamo parlando di goliardi ma di uomini, donne e bambini in fuga da Paesi in guerra come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Eritrea. Guerre sulle ragioni delle quali nessuno in Europa può affermare di avere la coscienza pulita. Stiamo parlando di persone disperate con migliaia di chilometri di fame, sfruttamenti ed ingiustizie sulle spalle, stiamo parlando di ragazzini come Zahergettati dalla stessa famiglia al di là dei confini solo par dar loro qualche speranza di sopravvivere. Sono questi i famosi “clandestini” che l’Italia rispedisce in Grecia come neppure un pacco postale che, perlomeno, può sempre godere di una garanzia di consegna in buono stato e della rintracciabilità via internet.
Quale futuro attende questi migranti “rimpatriati” in Grecia? Carcere, botte, ancora violenze, ancora umiliazioni e sofferenza, nuove deportazioni. Li attende quello che non le associazioni umanitarie ma la stessa Corta di Strasburgo nella sentenza del gennaio 2011 con la quale ha condannato la Grecia, ha definito “trattamenti inumane e degradanti” in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. E siamo noi, noi italiani, i primi responsabili di tutto ciò, ricacciandoli in mare dai porti di Brindisi, Ancona, Bari e soprattutto Venezia, invece di dare loro quel minimo di assistenza indicato da tanti testi di legge internazionali e dell’Unione europea. Quante persone rimandiamo ogni anno in Grecia e, da lì, a incontrare il loro destino nei Paesi d’origine da cui hanno inutilmente cercato la salvezza? I numeri dei respingimenti sono stati ufficializzati questa mattina, mercoledì 28 marzo, in una conferenza stampa organizzata dall’osservatorio veneziano contro le discriminazioni razziali, nato da un Protocolo di intesa tra l’Unar eil Comune e affidato all’Associazione SOS diritti. I dati, ottenuti grazie all’impegno dell’Osservatorio, provengono dalla stessa Prefettura di Venezia e dal CIR, che ha lavorato al porto fino alla fine del 2011.
“Nel periodo che va dal gennaio al dicembre del 2010 - ha spiegato Alessandra Sciurba, responsabile dell’osservatorio veneziano – abbiamo finalmente la certezza che perlomeno 419 persone sono state respinte con la prassi dell’affido al comandante della nave senza aver avuto modo prima di esporre la propria situazione al personale competente per inoltrare una formale domanda di asilo. Ricordiamo che la polizia di frontiera, come ben spiega una direttiva europea recepita dal nostro ordinamento, non ha alcuna competenza nello stabilire la fondatezza o meno di una richiesta d’asilo e che, in ogni caso, rimandare chiunque verso un paese dove può subire trattamenti inumani e degradanti viola il principio di non refoulement”.
I dati incrociati di Cir e Prefettura, insomma, dimostrano matematicamente che su più di 600 persone respinte, la stragrande maggioranza non ha incontrato né mediatori né interpreti, ed è stata rimessa a bordo delle navi senza avere avuto alcuna possibilità di essere ascoltata.
Secondo la relazione dell’Osservatorio, che potete scaricare e leggere in allegato, questa pratica di respingimento che non esitiamo a definire non solo illecita ma anche illegale, è continuata anche nel 2011: tra gennaio e ottobre, tra le persone respinte, almeno 155 hanno subito la stessa sorte. “Contro l’Italia è pendente alla Corte Europea per il diritti dell’uomoil ricorso di 35 migrantirespinti da Venezia e dagli altri pori dell’Adriatico, circa metà dei quali minorenni.
"La nostra preoccupazione riguarda la discriminazione nell’accesso ai più fondamentali diritti, come quello alla vita, alla sicurezza personale, oltre che quello a un ricorso effettivo e a non subire espulsioni collettive - conclude Alessandra Sciurba - Attendiamo a breve la sentenza della Corte, e intanto ricordiamoci che il nostro Paese è già stato condannato per i respingimenti in Libia e che queste pratiche non sono nella sostanza diverse”.
Alla conferenza stampa, svoltasi al municipio di Mestre, hanno partecipato anche il vicesindaco Sandro Simionato e l’assessore alla pace Gianfranco Bettin. Simionato ha parlato dell’effettiva difficoltà per l’amministrazione comunale di intervenire in una zona franca come il porto dove i diritti sono a discrezione della polizia portuale e gli stessi operatori messia disposizione dal Comune sono spesso messi nell’impossibilità di svolgere il loro lavoro. Ha sottolineato inoltre come si tratti non della responsabilità del singolo operatore di polizia, ma di un sistema che segue evidentemente direttive nazionali. In questa situazione, anche una città storicamente aperta come Venezia fa molta fatica a tutelare i diritti umani.
Sulla stessa lunghezza d’onda, Gianfranco Bettin ha commentato: “La situazione che oggi viene denunciata è l’esito di una politica svolta quasi senza eccezione di continuità in Italia da circa un ventennio, basata sull’ossessione di limitare l’immigrazione e di respingere sempre e comunque. Nel caso denunciato dall’Osservatorio, siamo di fronte alla versione più odiosa di questa pratica, perché se respingere persone che sfuggono dalla povertà e dal bisogno sociale è comunque una grave violazione, respingere persone che fuggono da luoghi in cui è messa a repentaglio la loro vita è un crimine contro l’umanità ancora più odioso. Respingere i richiedenti asilo non significa solo negare i più elementari diritti umani ma anche perseguire una politica velleitaria, irrazionale e alla fin fine anche controproducente. Senza una gestione trasparente dei percorsi di queste persone che comunque non hanno scelta e sono costrette dalla guerra e dalla povertà a venire qui, non si fa altro che lasciare campo libero a quelle organizzazioni criminali alle cui violenze assistiamo tutti i giorni”. L’Osservatorio ha in questo senso lanciato un appello ai nuovi responsabili politici, cui si sottopongono questi dati nella speranza di un intervento che finalmente possa muoversi in una direzione diversa.
Eppure, il fallimento della politica che pretendeva di trasformare l’Europa in una fortezza è sotto gli occhi di tutti coloro che sappiano leggere un po’ più a fondo quanto è successo e sta succedendo nel mondo arabo con le rivolte di primavera, e anche a casa nostra con i deludenti (e vergognosi) risultati di quella barricata contro le migrazioni che si vantava di essere Bossi Fini. Torneranno i nostri porti ad essere quello che sono sempre stati, porte aperte verso altri mondi e altre culture e non cittadelle fortificate dove i diritti fondamentali dell’uomo sono sottoposti alla discrezionalità del momento? Il Comune di Venezia, va detto, fa quello che può. Ma non può essere lui a risolvere il problema delle migrazioni.
E’ indispensabile un lavoro congiunto di tutto il sistema politico e amministrativo, dall’Europa al Governo italiano, passando per una Regione che, parlando per quella del Veneto, non ha mai messo nei primi punti della sua agenda la tutela dei diritti umani. E non scrivo “dei diritti dei migranti” perché i diritti sono di tutti e quando sono negati lo sono per tutti. La speranza in un cambio di rotta volto a ripristinare la legalità, ma soprattutto l’umanità nei nostri porti, sta tutta nel nuovo Governo.
Con quello precedente non c’era speranza. Con questo... stiamo a vedere.

Quando le parole diventano pregiudizi

Partiamo da qualche perla. La prima ce la regala la Nuova Venezia. Un articolo del 16 novembre parla di episodi di violenza all’interno dei supermercati. Leggiamo: “La tensione sale nelle ore pasto, verso le 12, ma soprattutto alle 19.30, quando gli extracomunitari sono tanti e il pericolo è tangibile”. Qualche riga più in basso, il giornalista tira le somme di una retata della polizia in questo covo di pericolosissimi extracomunitari: due individui “sono stati individuati e denunciati per ubriacatura molesta, si tratta di un tedesco e un uomo di Marghera”. Non vale neppure la pena di farci dell’ironia. Ancora dalla Nuova. Il 14 febbraio titola “Rc auto scadute da mesi. Decine di auto sequestrate”. Di primo acchito vien da pensare che in un articolo del genere non dovrebbero starci razzismi o pregiudizi neppure a volerceli ficcare di forza, vero? Sbagliato. La Nuova non ci delude mai in quando a xenofobie gratuite. “Tra gli automobilisti finiti nella rete dei controlli ci sono anche persone del posto, e invece ben pochi extracomunitari, il contrario dunque di quello che viene detto e sussurrato”. Capito che rigor di logica? I controlli dimostrano che la grande maggioranza dei migranti è a posto con l’assicurazione e che ti fa l’articolista (non chiamiamolo giornalista, per carità)? Si stupisce perché quello che “si sussurra” è che un “extracomunitario”, per definizione evidentemente, non può essere in regola con la legge! Di sicuro i controllori non hanno verificato a sufficienza! Due giorni dopo, sempre la Nuova riprende il discorso. Evidentemente che siano solo gli italiani a non pagare l’assicurazione non gli va proprio giù, e scrive “Quello che stupisce è che non sono extracomunitari i trasgressori trovati e sanzionati. Nella stragrande maggioranza, eccetto un paio di casi, uno di Gorizia e un extracomunitario, ma sposato con una del posto, sono italiani, anzi sandonatesi”. Quello che stupisce me invece, è come si possano scrivere certe fesserie e farla franca!
Un alto capolavoro di idiozia che meriterebbe di venir citato nel dizionario delle figure retoriche come perfetto esempio di “ossimoro”, lo troviamo sempre... indovinate dove? Bravi. Ancora nella Nuova. L’articolo è dell‘8 settembre e si legge la notizia di cronaca: “Una quarantacinquenne nomade ma residente nel padovano è stata fermata”. Anche in questo caso l’ironia sarebbe troppo facile. Questa la mettiamo a fare il paio con il bel titolone sparato dal Gazzettino al tempo delle polemiche sui sinti di via Vallenari: “Il Comune ‘regala’ la villette ai nomadi”. Dove “regala” era virgolettato perché, come si leggeva nel testo sotto, non le regalava affatto. I lettori che si soffermavano sul titolo stavano là come dei fessi a domandarsi quale era il senso dell’operazione dell’amministrazione comunale che va a dare case (pardon, villette) a gente che non le abiteranno mai perché sono nomadi!
Sul Gazzettino c’è da dire che offre il meglio sui titoli. Apertura di cronaca del 14 ottobre: “Caccia ai covi dei clandestini”. Ma non glielo hanno mai detto che i loro “clandestini” sono persone come me e come voi che camminano per strada alla luce del sole, abitano in case e non in “covi”, e ogni giorno si arrabattano, proprio come me e come voi, col problema del lavoro con la sola differenza che, essendo per l’appunto privi di documenti validi, sono sfruttati di più e meglio? In quanto ad accostamenti pregiudiziali, la Nuova però, non la batte neppure Libero. Solo qualche esempio. 10 novembre: “Era un rifugio per senzatetto, clandestini e poco di buono”. 5 gennaio: “Lo stabile ... diventato un rifugio per immigrati clandestini e sbandati, era diventata sede di spaccio”. 22 gennaio: “Chiuso il bar Centrale. Una serie di gestioni discutibili lo ha fatto conoscere come ritrovo di malviventi e clandestini”. Anche qui, non sprechiamo una sola parola di commento.
Per la Nuova clandestino = farabutto.
Con questo crediamo di aver reso l’idea di come i media locali di Venezia non perdono certo il sonno nel cercare di usare le parole più adatte per descrivere il fatto di cronaca rispettando i fatti senza pregiudiziali verso alcune categorie di persone e senza scivolare in facili razzismi. Chi ha stomaco, può scaricarsi l’integrale dello studio che i ragazzi dell’osservatorio contro le discriminazioni Unar di Venezia hanno realizzato, monitorando ogni singola parola scritta nell’arco degli ultimi due mesi dal Corriere Veneto, dalla Nuova e dal Gazzettino. Ogni singola parola. Perché, come abbiamo visto, il razzismo si nasconde anche nel fondo di articoli potenzialmente neutri come quello delle Rc auto. Il lavoro è stato presentato nel corso di un incontro pubblico tenutosi il 24 marzo a Mestre, in cui è stato dichiarato che, dopo la fase di semplice monitoraggio, l’osservatorio di Venezia passerà alla fase di segnalazione di tutti quegli articoli che contrabbandano, con la scusa del “sentito dire” e dell’uso del “linguaggio comune”, pregiudizi razzisti e xenofobi. L’osservatorio inoltrerà tre lettere formali, una al giornalista, una al suo direttore e una ai probiviri dell’Ordine indicando l’uso scorretto di termini come clandestino, nomade e zingaro appellandosi, quando è il caso, alla Carta di Roma, il protocollo deontologico dell’Ordine che tutela richiedenti asilo e rifugiati. Questo farà l’osservatorio, ma questo lo possiamo fare tutti. Vi garantisco che qualche telefonata o mail di protesta dal tono “se continuate così non comperiamo più il giornale” sortisce più effetto che tante dichiarazioni di principi e studi statistici.
Una cosa però mi preme sottolineare. In tutto ciò non c’è nessuna pretesa di voler insegnare il proprio mestiere ai giornalisti e tantomeno di colpevolizzare una categoria troppo spesso chiamata a giustificarsi per peccati che non sono (solo) suoi. Scopro l’acqua calda scrivendo che ci sono forze politiche cha hanno costruito fortune elettorali sopra termini come “clandestino”. Le segnalazioni vogliono essere solo uno spunto di riflessione per chi lavora nei media e che tante volte deve scrivere in fretta, sintetizzare pensieri in poche frasi, occuparsi degli argomenti più disparati che spesso non conosce (tanto per farvi un esempio, a me è toccato scrivere di sfilate di moda e di pesca sportiva... chi mi conosce rida pure!). La malafede esiste ma, per mia esperienza, posso assicurare che si tratta di casi sporadici ed isolati. Il più delle volte, una chiacchierata amichevole risolve il problema. Basta solo voler ascoltare, un po’ di impegno e rispetto per la propria professione. Usare le parole che meglio restituiscono la verità sostanziale dei fatti osservati, è quanto chiede il secondo enunciato della legge istitutiva dell’Ordine, la Carta costituzionale dei giornalisti. In fondo, a scrivere “migrante” invece di “extracomunitario” non ci vuole niente. Ma, per chi legge, fa la differenza tra il cattivo e il buon giornalismo.
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