In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Sulle orme di chi non dimentica

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Tante scarpe appese ad un filo, tra le fronde degli alberi di Ca' Bembo liberata. Sotto, le stampe delle loro suole. Ciascuna con una frase, un pensiero, un ricordo, una speranza. Sono le orme di chi non vuole dimenticare suo padre, sua madre, suo figlio. Vittime innocenti di un crimine che ha come primo responsabile lo Stato. Sono i desaparecidos della frontiera del Messico. Gente scomparsa nel nulla. Venduti a peso di carne umana a latifondisti, narcotrafficanti, magnaccia. Fatti a pezzi per incrementare il mercato di organi, usati come capri espiatori nelle galere o cavie da laboratorio, schiavizzati in fabbriche illegali, prostituiti nei postriboli. Numeri secondi solo alla guerra in Siria. Più di 30, forse anche 40 mila scomparsi, secondo le recenti stime delle associazioni per i diritti umani. Perlomeno centomila ammazzati negli ultimi dieci anni. Da quando cioè, Stati Uniti e Messico dichiararono la cosiddetta "guerra al narcotraffico" che ha ottenuto il solo risultato - che poi è quello che si prefiggeva! - di consegnare il Paese centroamericano alle multinazionali della droga e creare una "pattumiera" sociale ed economica a ridosso degli States. Proprio come a ridosso delle nostre case ci sono i contenitori della differenziata. Perché, sia chiaro a tutti, che se le pistole che uccidono sono tenute dai narcos, ad armare queste pistole ed puntarle è lo Stato messicano. Partiti al governo ed opposizioni, polizia ed esercito sono spartiti tra i tanti cartelli mafiosi. E quando qualche narcotrafficante viene trovato accoppato per un regolamento di conti, non è raro scoprire che apparteneva all'esercito o alla polizia o che era stato addestrato in uno di quei campi dove gli specialisti della guerra statunitensi preparano le forze che dovrebbero combattere i trafficanti di narcotici.


Ecco perché Messico, fare domande è molto più rischioso che commettere un omicidio. Lo sanno bene tutti i colleghi giornalisti che ogni giorno rischiano la vita. E lo sapeva bene Javier Valdez Cárdenas, accoppato lunedì 15 maggio sotto il giornale che dirigeva. E' il settimo giornalista messicano ucciso quest'anno.

E lo sanno bene, che a far domande si rischia la pelle, anche i genitori degli scomparsi. Lo sa bene Ana Enamorado, madre di un ragazzo di 17 anni fatto sparire nel niente. Più volte minacciata di morte perché si ostina a percorre la strada che doveva aver percorso anche suo figlio, mostrando a tutti coloro che incontra la foto del suo ragazzo. E, ad ogni passo che compie, ad ogni orma che lascia, non può fare a meno di chiedersi se il suolo che calpesta non sia in realtà la tomba di suo figlio.

Le orme di chi continua a cercare sono state trasformate in una esposizione artistica - Huellas de la Memoria - che vuole essere, prima di tutto, un grido di dolore su quanto avviene alla frontiera del Messico, dallo scultore Alfredo Lopez Casanova. L'esposizione itinerante è esposta a Venezia, tutti i pomeriggi sino a domenica, nello splendido giardino di Ca' Bembo, in fondamenta del rio di San Trovaso, che gli studenti del Lisc, Liberi Saperi Condivisi, hanno recuperato e restituito alla città. A portare la mostra in laguna, sono stati gli attivisti dell'associazione Ya Basta Edi Bese.

Di seguito, l'intervista di Camilla Camilli a Ana Enamorado.



Dove nasce il terrore. la crisi siriana tra fascismi e combattenti per la libertà

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Perché? La domanda che pesava nel cuore di tutti noi, accomodati in platea, viene fuori solo alla fine dell'incontro. Marco Sandi, prima di porla sente il bisogno di scusarsi, quasi a vincere un naturale pudore nel cercare di entrare nell'intimo di una persona che ha dato tanto ad un ideale di giustizia e libertà. Tanto da mettere a repentaglio anima e vita. Perché lo hai fatto? Cosa spinge un giovane ad arruolarsi nelle Ypg per combattere, armi in pugno, i fascisti dell'Isis? Davide Grasso scuote la testa e risponde che queste sono domande senza risposta. Forse è nato tutto da una lettura giovanile di un libro sulla vita di Che Guevara, racconta. Forse su quelle pagine ha imparato che in tante parti del mondo, sorelle e fratelli, compagne e compagni, combattono per la libertà e per la giustizia. E le compagne e i compagni che lottano non vanno mai abbandonati. "Sapevo bene che, probabilmente, non sarei tornato vivo, ma sapevo anche che se fossi tornato vivo sarei stato contento della scelta che avevo compiuto". Ed è stato così? "Per certi versi sì. Ma non puoi andare a fare la guerra di rivoluzione e tornare integro. Quello che ho visto, quello che ho sofferto e che ho visto soffrire mi hanno scavato dentro. Di fronte agli immani orrori che ho trovato, quello che io ho potuto fare è quasi niente e non è sufficiente a colmare l vuoto che sento".


Almeno duecento persone, ben oltre la capienza dell'aula, sono venute all'appuntamento con il combattente Davide Grasso e il regista Claudio Jampaglia, questo pomeriggio al Baum dell'università Ca' Foscari di Venezia. Il tema era "La battaglia per l'umanità" perché, come ha sottolineato nella sua introduzione Jacopo Bernaus del collettivo universitario Lisc "siamo attivisti più che conferenzieri. Non abbiamo paura di dire che siamo dalla parte dei curdi perché quelle che si combatte nel Rojava e in tutto il Kurdistan non è solo la battaglia dei curdi per le loro terre ma la battaglia per l'umanità contro gli orrori del Daesh, la battaglia della democrazia contro il fascismo. Una battaglia che dobbiamo combattere tutti. Nell'ultimo comunicato del battaglione Antifa, in prima fila contro le milizie islamiche, abbiamo letto: 'pianteremo dei semi e li difenderemo sino alla fine'. Ed è quello che il collettivo vuole fare all'interno di una università sempre più lontana dai principi del sapere critico e della conoscenza dal basso".

L'incontro è stato organizzato, oltre cha da Lisc, anche dall'associazione Ya Basta Edi Bese. Marco Sandi, che ha avuto il compito di moderarlo, ha chiarito subito il campo da equivoci. Se oggi tutti i media sono concentrati sull'attentato di Londra, il cuore di Ya Basta non è in Inghilterra ma nel Rojava, assieme a coloro che combattono davvero il terrorismo. Tra le compagne e i compagni curdi, e non tra quei governanti che a parole attaccano l'Isis ma finanziano proprio quei Governi fascisti che soffiano sul fuoco degli integralismi ed hanno trasformato la Siria in un "poligono di tiro".

Quanto sta accadendo a Mosul non è la liberazione di una città, come è stato per Kobane, dove esisteva un progetto politico e non solo militare di liberazione, ma una conquista. Una conquista volta a riconsegnare la città a quelle milizie che hanno giurato fedeltà al criminale di Damasco, Bashar Hafiz al-Asad.
E che quanto accada su quel fronte non sia sempre quello che le tv ci fanno vedere lo testimonia l'altro ospite della serata, Claudio Jampaglia venuto a proiettare il suo docu-film Our War. "Come i peshmerga nel Kurdistan orientale, in Siria le milizie di Assad non fanno passare nulla. Né medici, né medicinali, né tantomeno giornalisti. Parlo di quelli veri. Conosco una giornalista britannica che è ferma da due settimane ad un posto di blocco. Mi ha scritto che ha visto passare solo una troupe della Bbc e ne ha chiesto ragione ai soldati. Le hanno risposto: ma quelli sappiamo che cosa scrivono".
La verità, qualcuno ha scritto, è sempre la prima vittima di ogni guerra.

L'ospite d'onore dell'incontro, avrebbe dovuto essere lui, Karim Franceschi, autore de "Il combattente" (Rizzoli), che è tornato a combattere con il Ypg. Il collegamento dal fronte di guerra doveva essere la sorpresa della serata. Ma non c'è stato niente da fare. Ci auguriamo che il problema sia tutto nella difficoltà di collegamento in rete, ma un po' di preoccupazione non riusciamo a mandarla via.
A Karim, un abbraccio forte da tutti noi.

A raccontare quanto accade nel fronte, rimane Davide Grasso, che dalla Siria è tornato da poco. Davide traccia una mappa precisa delle azioni in cui sono impegnati in Siria combattenti arabi e curdi delle Ypg, e del prossimo obiettivo: la città di Raqqa. Parla anche dell'attentato di Londra. "Non è stato un attentato al Parlamento. Il terrorista voleva solo colpire la gente comune. Così come avviene in Siria, considerato che il popolo siriano è stato trasformato un carne da macello dai tagliagole dell'isis ma anche dalle feroci milizie di Assad e dai governi occidentali. Il sindaco di Londra ha ribadito che la città non si piegherà al terrorismo. Giusto. Ma dovremmo definire meglio cosa sia terrorismo. Proprio in Inghilterra, qualche giorno fa è stato arrestato un ragazzo inglese che tornava in patria dopo aver combattuto nelle file curde. Lui, che ha combattuto i terroristi, lo hanno chiamato terrorista. Ma terroristi veri, come Erdogan o gli sceicchi dell'Arabia Saudita che fomentano l'integralismo e l'Isis, sono considerati alleati dai governanti europei. Per non parlare del presidente del Kurdistan iracheno, Mas'ud Barzani, che compie autentici genocidi gasando interi quartieri di Damasco e accordandosi con l'Isis per massacrare gli yazidi eppure, forte del petrolio che scorre sotto il suo Paese, viene accolto a braccia aperte ai colloqui di pace di Ginevra".

Come sia possibile che terroristi diventino alleati, e combattenti per la libertà vengano visti come terroristi - in una Europa dove l'opinione pubblica ed il rispetto dei diritti umani dovrebbero ancora contare qualcosa - è imputabile solo ad una pesante mancanza di corretta informazione.
Anche nella guerra contro il terrorismo e il capitalismo suo alleato, la prima vittima è sempre la verità.
Conclude Davide: "Conoscere ed informarsi è il primo fronte su cui dobbiamo impegnarci tutti. Se non capiamo quello che accade nel mondo, siamo tutti in pericolo. Anche solo a camminare per le strade di Londra o di Venezia".

Anche da Venezia, no all'estradizione di Omar Nayef

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Il 13 giugno del 1980, nell’isola di San Giorgio, il consiglio europeo concordò una risoluzione per il Medio Oriente in cui si stabiliva, per la prima volta, che il diritto alla sicurezza di Israele e di tutti gli altri Stati della regione non poteva prescindere dal “riconoscimento dei diritti legittimi del popolo palestinese” in virtù del principio universalmente riconosciuto di giustizia per tutti i popoli.
Questa piccola isola della laguna di Venezia è quindi un luogo –  simbolo per la causa palestinese, che proprio qui vide riconosciuta dalla comunità internazionale la sua esistenza e i suoi consequenziali diritti.
E proprio su questa piccola isola la cui visuale spazia sino a piazza San Marco, un gruppo di attivisti ha accolto l’appello lanciato dall’associazione Samidoun (parola araba che significa “resistenti”) a favore di Omar Nayef, il rifugiato politico palestinese da dicembre “assediato” nella sua ambasciata a Sofia da una richiesta di estradizione di Israele.

Come già fatto a New York, a Roma, a Praga e in altre capitali europee, anche a Venezia, questa mattina, alcune ragazze e ragazzi dell’associazione Ya Basta Edi Bese e del Laboratorio Morion hanno alzato uno striscione nel campo antistante la chiesa di San Giorgio con la scritta “Giustizia per Omar. No all’estradizione”.
L’iniziativa veneziana si collega alla campagna lanciata dal sito samidoun.net che  si occupa di portare solidarietà ai prigionieri politici palestinesi. E Omar Nayef, condannato all’ergastolo da un tribunale militare israeliano per l’uccisione di un militare colono che si era macchiato di crimini contro la popolazione, è a buon diritto uno di loro. La storia di Nayef, dalla sua rocambolesca fuga dopo una sciopero della fame e della sua nuova vita in Bulgaria dove risiede da oltre 20 anni con la sua famiglia, la potete leggere su questo link del sito di Ya Basta Edi Bese.
Durante la manifestazione di San Giorgio, gli attivisti hanno ribadito l’importanza di sottoscrivere l’appello a favore di Omar Nayef e, di conseguenza, anche di tutti i rifugiati politici palestinesi che si troverebbero in immediato rischio di espulsione qualora passasse un precedente come questo.
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