In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Cop21. Il mondo non è project

pari pari parigi
Che si possa saltare sul palco della Cop 21 e dar aria ai denti per dire qualsiasi sciocchezza ti passa per la testa, al di là di qualsiasi riscontro con la verità dei fatti, ce lo dimostra il nostro premier, Matteo Renzi, che si spertica a lodare quanto fatto in Italia per le energie alternative (siamo ultimi in Europa sul fotovoltaico ma in compenso ci sono ricchi incentivi per chi realizza inceneritori) ed elenca le “buone pratiche” di Enel ed Eni in Africa e Sudamerica (dove ho visto ettari di foresta amazzonica spianati per le loro ricerche petrolifere). Ma la Cop21 di Parigi non poteva che aprirsi così, come si apre una fiera delle buone intenzioni. “Sfida”, “cambiamento”, “svolte ecologiche” le parole più usate e abusate dai leader mondiali che si sono avvicendati nel palco, dopo la foto di rito in stile club vacanze “Salviamo la Terra”.
A starli a sentire, pare davvero che i cambiamenti climatici siano in cima alle loro preoccupazioni. Proprio come il terrorismo. Solo che i cambiamenti climatici non li puoi bombardare, e le soluzioni capaci di fermare il riscaldamento globale - le soluzioni vere, intendo - passano attraverso la realizzazione di una democrazia dal basso e di un cambiamento radicale del nostro modello di civiltà, non più basato sul consumo ma sui diritti, di cui sono loro il primo ostacolo. I leader mondiali riescono a contraddire se stessi anche solo passando da un microfono all’altro; da una conferenza stampa dove annunciano svolte green e quella dove spiegano la necessità di combattere il terrorismo distribuendo bombe e democrazia sui vari califfati. Senza considerare che guerre e bombardamenti sono tutto tranne che… eco compatibili! Oltre che morti, fame e povertà producono pure Co2 e finanziano una industria bellica che non gode certo del bollino verde!
Il problema è, che nessuno di quei politici che oggi sono lì “per decidere come salvare la terra”, per dirla col francese François Hollande, ha una aspettativa di vita (politica) superiore ai due o tre, massimo, mandati. Le decisioni che la storia li chiamerebbe a prendere risulterebbero decisamente impopolari ed in aperto contrasto con quegli stessi poteri forti che li hanno messi sulla poltrona. Nessuno di loro ha voglia, o levatura politica e culturale, di giocarsi le prossime elezioni sostenendo, al di là delle dichiarazioni di intenti, le battaglie necessarie a contenere la temperatura mondiale entro i 2 gradi entro anno 2070.

Alla fine dei conti, la strategia economica delle grandi potenze, fatto salvo qualche concessione alle Green Economy (finché il settore “tira”), non è poi così distante da quella dell’Isis, l’ultima reincarnazione del braccio violento del capitalismo: vendere e acquistare petrolio, fin che ce n’è. E se le riserve sono in scadenza… motivo di più per farne alzare il prezzo. Economico, politico e militare.
E qui ci sta tutto il divario tra chi gioca in borsa e chi no, tra i ricchi ed i poveri della terra, tra chi ha e chi non ha. I primi sono i principali responsabili delle emissioni che stanno massacrando tutto il vivente di questa terra. I secondi ne pagano le conseguenze e non hanno nessuna intenzione di fermarsi, senza adeguata contropartita, sulla strada per quel modello di “sviluppo” del quale abbiamo già visto gli effetto e che, loro credono o sperano, li porterà prima o poi ad entrare nel club dei ricchi.
Il problema è stabilire il prezzo. L’inquinamento è una merce come le altre. Questo è l’unico accordo che verrà siglato a Parigi: quanto i Paesi ricchi daranno ai Paesi poveri per poter continuare ad inquinare come prima. Perché nessuno del membri dell’esclusivo Vip Club, mette realmente in discussione lo stile di vita proprio e dei propri elettori.
Mettiamoci in testa che quello che sta passando per Parigi, non è l’ultimo treno per fermare i cambiamenti climatici. Quello è già partito venti o trent’anni fa e non è più passato per nessuna stazione. Oggi, la mutazione del clima è una realtà con la quale bisogna convivere. Il punto della questione è quanto salato sarà il conto e chi dovrà rimetterne le spese. E facciamo attenzione che il conto potrebbe essere così salata da rivelarsi insostenibile per l’intera civiltà umana, oltre che per tante altre specie animali e vegetali della terra. Siamo alla svolta: apocalisse o rivoluzione. E’ su questo treno che dobbiamo salire. Come ha affermato il presidente boliviano, Evo Morales, una delle poche voci fuori dal coro “aspetta e spera” dei leader mondiali, è la shock economy, l’economia che trasforma i disastri in capitale, e non il clima, che dobbiamo combattere. “Il capitalismo - spiega il presidente indigeno - provocherà la scomparsa della vita sul pianeta”.
A Parigi si cercano soluzioni, ma l’unica soluzione è quella di riscrivere il significato del concetto di “economia” allacciandolo a vincoli di sostenibilità e di giustizia. Perché, come sostiene Naomi Klein, la crisi climatica è anche una crisi morale. “Ogni volta che i governi dei paesi ricchi evitano di affrontare il problema, dimostrano che il nord del mondo sta mettendo i suoi bisogni e la sua sicurezza economica davanti alla sofferenza di alcuni dei popoli più vulnerabili della Terra”. Non è un caso quindi che a Parigi nessun microfono sia stato offerto e nessun palco abbia ospitato i portavoce di quei popoli che già subiscono le conseguenze dei cambiamenti climatici e che già hanno pagare le spese di un nuovo stile di vita: i migranti climatici. Loro - gli unici che avrebbero avuto tutte le carte in regola per spiegare perché è necessario costruire una diversa economia - non hanno avuto voce nei palchi parigino.
Chi ha provato a manifestare in nome loro, è stato picchiato ed arrestato. Come se fossero loro, gli ambientalisti, gli amici dei “terroristi islamici” e non piuttosto questa economia capitalista che alza il prezzo dei combustibili fossili proprio perché sono in esaurimento, invece di puntare a nuove energie rinnovabili e pulite ma che non danno gli stessi interessi in borsa.

La scuola #ClimateChaos. Democrazia climatica tra pinguini stanchi ed orsi impagliati

Unknown-1
“Se pianti un ramo, cresce una pianta”
il Corano


“Cambiano i venti, si riduce la neve, la fauna marina è a rischio, e ancora ci decantano il pollice opponibile”
Lercio


Orsi polari impagliati. Qui, sulla costa che guarda verso il mar Artico dell’Islanda dove si gela anche in estate, tutti i musei ne espongono uno. In quest’isola civile che è riuscita a far arrestare i suoi banchieri, ogni “grande” città (200 o addirittura anche 250 abitanti!) ha il suo bravo museo. Non hanno niente da esporre, poveretti!, se non vecchi arnesi per la pesca o coperte tarlate, ma l’orso bianco impagliato con la dentatura feroce non manca mai. Son tutte new entry dell’ultimo ventennio. Non che in Islanda ci siano gli orsi, eh? Son venuti tutti dal polo nord a cavallo di un iceberg. Il bestione gironzolava per la banchisa artica in cerca di qualche pesce per riempirsi la pancia quando - patatrack - un pezzo di pack grande come tutta Venezia, si è staccato dalla banchisa e se ne è andato per i fatti suoi con lui sopra.
Trascinato verso sud, sopra quella traballante isoletta di ghiaccio che rimpiccioliva di minuto in minuto, il bestio è approdato - incazzato ed affamato come solo un orso polare sa esserlo - sulle coste islandesi dove è stato immediatamente preso a fucilate dai villici locali. Quindi impagliato e sistemato a far bella mostra di sé su un bel museo locale, moderno, interattivo e con tanto di “spazio bimbi”. L’ho già detto che è gente civile, no?
Sì, va ben: povero orso. Ma povero anche l’islandese che incappa nell’orso senza il suo fucile.

Dall’altra parte del mondo, ai pinguini le cose vanno meglio. Sette anni fa, ha fatto il giro del mondo la notizia di una quarantina di pinguini della Patagonia che si son fatti più di 3 mila chilometri a nuoto per andare ad approdare ad Ipanema. Non che la loro intenzione fosse quella di andare in vacanza a Rio per farsi una caipirinha e salire in teleferica sul Pão de Açúcar. Quegli elegantoni in frac si son fatti fottere da una corrente oceanica che da una milionata di anni li portava dalle coste della Terra del Fuoco all’Antartide ma che, nell’ultimo decennio, ha deviato verso le assolate spiagge brasiliane.
Ai pinguini è andata meglio che agli orsi. Salvati dai surfisti, ingozzati con aringhe e sardine dai bagnanti, quindi rimpatriati a furor di popolo in terre più adatte alla loro gelida costituzione.

Pinguini senza bussola. Orsi accolti a fucilate. E’ tutta qua la questione sui cambiamenti climatici? No. Spiace per i pinguini. Spiace ancora di più per gli orsi. Ma quello dei cambiamenti climatici è un problemaccio che va ben oltre le pur pittoresche conseguenze come queste che ho raccontato dei pinguini e degli orsi o del fatto che, se va avanti così, resteremo senza cacao per farci la cioccolata!
Da quando ha cominciata la rivoluzione industriale (secondo alcuni addirittura con la nascita dell’agricoltura. ma in ogni modo la tendenza ha subito una fortissima impennata nell’ultimo secolo), l’uomo ha avviato un sistematico processo, una sorta di esperimento in stile mad doctor, che non era mai stato fatto prima - e che non potrà essere ripetuto in un prossimo futuro! -: prelevare tutto il combustibile fossile presente sulla terra e travasarlo nell’atmosfera, alterando tutti gli equilibri che avevano permesso la nascita della vita sul pianeta. Vien da dire: e pretendevamo che non succedesse nulla?
Una cosa da pazzi, a ragionarci adesso, e che investe non solo la questione della sopravvivenza dell’umanità ma anche di tutte le altre specie, animali e vegetali, che hanno avuto la sfortuna di svilupparsi in un mondo dove era presente il virus homo sapiens.

Un processo, questo dell’uso e abuso di risorse non rinnovabili, che per forza di cose è a scadenza. Nessuno può farci nulla. Solo gli economisti sono talmente coglioni da credere che in un sistema limitato come è la terra, si possa avviare uno sviluppo illimitato e, per di più, basato su risorse finite.
Che le cose cambieranno quindi, è sicuro. Resta da vedere in che condizioni lasceremo la terra alle future generazioni. Soprattutto, resta de decidere come (e se) governeremo questo cambiamento.
E’ su questo capitolo che va inserita la questione della democrazia climatica. Democrazia che non vuol dire fare quello si vuole, certamente, ma che non significa neppure delegare ogni decisione alla maggioranza. Democrazia, intendo, come regole da seguire. Dobbiamo scrivere una sorta di Costituzione terrestre per il clima. Oppure, se preferite, ogni singola Costituzione di ogni singolo Paese dovrebbe avere un articolo 0 che recita pressapoco: quando si scrive una legge o si progetta qualsiasi cosa, è necessario tener conto delle inviolabili leggi fisiche che regolano l’ambiente. Ci vogliono paletti precisi su quello che si può fare e quello che non si può più fare. Questo è un campo che sposa politica e scienza ma lascia a casa l’economia così come l’abbiamo intesa sino ad oggi.

La democrazia climatica quindi è una questione totalizzante, perché investe, stravolge e cambia i nostri primitivi punti di vista su tutte le questioni aperte dall’umanità nel suo cammino. Saperne di più, informarci, studiare, quindi, sono passi che non possiamo esimerci dal fare. Questo è il motivo per il quale, come EcoMagazine, abbiamo lanciato la scuola #ClimateChaos.
Anche soltanto nel buttare giù la lista dei relatori da invitare alle lezioni, abbiamo subito constatato come qualsiasi problema che abbiamo affrontato come attivisti, dalle migrazioni al lavoro, dai beni comuni alla democrazia dal basso, possa essere riletto sotto la lente dei Cambiamenti Climatici. Un esempio per tutti. Le Grandi Navi.
Potrei elencare perlomeno un ventina di motivi per i quali questi condomini galleggianti devono starsene fuori dalla laguna. La democrazia climatica semplifica il problema perché ti spiega, con la massima coerenza scientifica, che non è più tempo di gigantismi. Il futuro del turismo non passa sui ponti lustrati a specchio di questi centri commerciali del divertimento idiota. L’inquinamento che producono, il consumo energetico, la loro stessa “filosofia” dell’intrattenimento, non è compatibile con le necessità della terra. Fuori quindi le Grandi Navi, non solo dalla laguna, ma dal mondo.

La questione, a questo punto, sta tutta nel far entrare questo concetto nelle zucche di politici ignoranti (per non dir di peggio) o di arraffatori di beni pubblici abituati a programmare, ragionare e far di conto in uno spazio temporale che non si allarga mai oltre il decennio. In questo atomo di tempo, i cambiamenti climatici, per loro natura epocali, non sono una variabile cui tener conto. Anzi, i disastri, come ha spiegato Naomi Klein, rappresentano solo altre occasioni di “sviluppo”. Se le statistiche dicono che nei prossimi cinque anni ci saranno più uragani… investiamo nelle imprese immobiliari! Se l’acqua comincerà a scarseggiare, privatizziamola! Ma queste non sono soluzioni.
Tutto il contrario.
E’ su questo punto che si aprono spazi per i movimenti e per l’attivismo politico che non si è adagiato in partecipazione alla cosa pubblica basata esclusivamente sul voto e sulla rappresentanza. Le Costituzioni, lo sappiamo bene, nascono solo dopo le rivoluzioni. Le Costituzioni non ce le ha mai regalate nessuno. Sempre, abbiamo dovuto conquistarcele sulle barricate. Così dovrà essere anche per la Costituzione climatica.

Perché una scuola di formazione sui Cambiamenti Climatici. Ovvero: perché noi non possiamo sottometterci all’effetto Dunning-Kruger

cc
Cominciamo con lo spiegare chi sono David Dunning e Justin Kruger. I signori in questione sono due ricercatori in psicologia della Cornell Unversity di New York che nel 2000 si sono aggiudicati il prestigioso premio Ignobel dedicato agli scienziati autori degli studi più… “originali” dell’anno. Dunning e il collega Kruger, infatti, sono riusciti a dimostrare con criteri sperimentali e clinici quello che tutti noi già avevamo già intuito da un pezzo. E cioè che più uno è imbecille e più è sicuro nelle sue convinzioni. Contrariamente a quanto affermava Carlo Marx (che sbottava picchiando con i pugni sul tavolo della biblioteca: “L’ignoranza non ha mai aiutato nessuno”) nella nostra società impigliatasi nelle rete globale, essere idioti e sparare cazzate aiuta ad aumentare i “mi piace” sulla propria bacheca di Fb e, di conseguenza, a rafforzare le proprie convinzioni.
In sostanza, la distorsione cognitiva sulla quale i nostri due scienziati hanno speso anni di studio, è pressappoco questa: mentre le persone intelligenti e competenti su una determinata questione dimostrano una forte tendenza a mettersi in discussione ed a sottovalutarsi, i coglioni partono dal presupposto di avere ragione e, smanettando in rete, cercano – e trovano, perché in rete si trova di tutto – solo conferme delle proprie tesi, rafforzando le proprie sballate tesi.

C’è da dire che ci sono personaggi politici che idioti non sono (fetenti sì, però) che su questo effetto costruiscono le loro fortune e capitalizzano milionate di voti grazie a siti ed a pagine Fb becere che pubblicano “notizie” inventate di sana pianta ma che trovano mutue “conferme” rimbalzando l’una sull’altra. L’ignoranza, in questo caso, aiuta e come Consideriamo, a titolo di esempio, tutte le pagine Fb che elencano “crimini” di migranti alloggiati in lussuosi hotel a cinque stelle e retribuiti come pascià a spese degli italiani poveri. Consideriamo anche quanta gente, ahimè, abbia finito per crederci sul serio e quanto sia difficile far cambiare loro idea, anche basandosi su quelle strane cose, sempre più avulse dal giornalismo televisivo, che sono i “fatti”.
Adesso il punto è: perché anche noi non possiamo fare i cazzari e, proprio su un tema complesso come i Cambiamenti Climatici, occorre tornare nei banchi di scuola?
Le risposte sono tante. Prima di tutto siamo minoranza e quello che dobbiamo percorrere è sempre un cammino in salita. Tocca a chi ha proposte concrete, l’onere di dimostrare tutto. Chi ha una visione alternativa della società (ma potrei dire anche dell’arte o della scienza) sa, fin dall’inizio, che dovrà abbattere a testate muri di cemento. E la conoscenza, in questo caso, sarà la sua unica arma. Un altro punto è che con la cialtroneria non si vincono le battaglie. L’ignoranza è utile solo al mantenimento dello status quo. Anche quando parla di “rivoluzione”, l’ignorante fa solo il gioco del potente che afferma di voler cambiare tutto per non cambiare niente. Sono i sognatori capaci di concretizzare i sogni, quelli che hanno il potere di cambiare il mondo. Studiare ed informarsi è un dovere per tutti coloro che vogliono uscire dal gregge.
Infine, avremo anche altri difetti, ma cazzari proprio non lo siamo. Movimenti come i No Tav o i No Mose hanno maturato negli anni conoscenze e competenze scientifiche di prim’ordine che li hanno portati a surclassare sul piano dialettico gli avversari, forti di slogan varati da quotati studi pubblicitari e di manganellate celerine, ma assolutamente deficitari sul piano politico, strategico e tecnico (per tacer sul versante della democrazia che proprio non è mamma loro).
Fateci caso. Mai, dico mai e ripeto mai, il Consorzio Venezia Nuova ha accettato un confronto sull’efficacia delle paratie mobili con tecnici e idraulici terzi, lontani cioè dal loro libro paga. Non lo hanno fatto e non lo fanno ora per il semplicissimo motivo che il risultato sarebbe scontato. Il Mose non serve se non a riempire le tasche di faccendieri in odor di mafia e di politici corrotti. Tra l’altro, proprio le previsioni dell’Ipcc, anche quelle meno impattanti, rendono inutile l’intero progetto che, pure, continua ad avanzare.
In questi giorni che precedono la Cop21 di Parigi, abbiamo deciso quindi di tornare sui banchi di scuola. Questa è la strada vogliamo e dobbiamo percorrere per prepararci alla battaglia più importante che dobbiamo combattere: quella sui Cambiamenti Climatici. Una battaglia che, come spiega il documento pubblicato su Global Project “Apocalisse o rivoluzione, cambiamo tutto per non cambiare il clima”, sarà una battaglia globale, perché investe ed illumina di una nuova luce, tutte le lotte che abbiamo sostenuto sino ad ora: dall’ambiente alle migrazioni, dai beni comuni alla democrazia.
La scuola di formazione politica #ChaosClimate che EcoMagazine propone in collaborazione con Global Project sarà aperta a tutti coloro che vorranno partecipare, e punta a restituire la complessità di un tema sul quale niente è scontato, per fornire strumenti scientifici di comprensione del problema ed un bagaglio di conoscenze da tradurre in azioni.
Il calendario completo degli incontri, i relatori e le modalità di iscrizione saranno pubblicati  presto sul nostro sito. Il primo appuntamento si svolgerà al Morion di Venezia, domenica 15 novembre alle ore 16 con la lezione d’apertura del fisico triestino Luca Tornatore.
Vi aspettiamo. Perché questa è una battaglia che non ha alternative. Bisogna cambiare tutto per non

AAA bella città lagunare svende il suo welfare

vendesi2
La chiamano “riorganizzazione”. Ma di altro non si tratta che di pesanti tagli al welfare. La Giunta Brugnaro si appresta a calare la mannaia, non soltanto per demolire i servizi essenziali alle fasce più disagiate, ma anche per colpire tutto quel sistema sociale che costituiva l’eccellenza di Venezia, come testimonia una recente indagine del Sole 24 Ore. Il sindaco manager lo farà attaccando gli amministratori che lo hanno preceduto al governo della città. Dichiarerà, barcamenandosi alla meno peggio nell’oceano a lui sconosciuto dei congiuntivi, che si era speso troppo e troppo male. Che non ci sono più soldi perché quelli di prima se li sono mangiati tutti, che un elefantiaco sistema di assistenza come quello costruito a Venezia non è in linea con la modernità, che queste cose bisogna farla fare ai privati e non al pubblico. La chiamerà, come abbiamo scritto, “riorganizzazione dei servizi”. Un nome come un altro per nascondere una politica di smantellamento sistematico di quanto cittadini e associazioni erano riuscite ad ottenere in anni di lotta (perché nessuno ti regale niente, neppure le più illuminate amministrazioni).

Il dipendente / assessore Simone Venturini se è già uscito allo scoperto con alcune recenti dichiarazioni. Intendiamoci, nella Giunta / azienda del Brugnaro Luigi, gli assessori contano come un due a briscola. La famosa “riorganizzazione” passa tutta per la capace scrivania del padrone della baracca. Quello che vuole vendere i quadri che non sono neppure suoi! E questo eccesso di personalismo sarà il primo problema da affrontare quando la cittadinanza vorrà far sentire la sua voce e difendere le sue conquiste. Chi sarà l’interlocutore delle richieste? Gli assessori / dipendenti… lasciamoli anche stare, per quel che contano. L’uomo solo al comando è solo lui, il sindaco manager che non dorme la notte - così racconta - per la preoccupazione dei debiti ereditati con la sua nuova azienda (il Comune di Venezia). E non sarà facile fare politica - perché difendere il welfare è “fare politica” - con uno che ne ignora anche il significato della parola!
Come saranno “riorganizzati” i servizio poi, è presto detto. Il Brugnaro Luigi intende scrollarsi di dosso tutto il peso del welfare per scaricare tutto lo scaricabile sull’Usl. Scelta infelice e perdente perlomeno per tre motivi. Il primo è che l’Usl, per sua costituzione, si occupa di malati. Un povero, un senzatetto, o anche una persona che ha raggiunto la terza età, ha altri problemi e necessità che quello della salute. Secondo, l’Usl, purtroppo, ragiona oramai con una ottica aziendale. Bisogna far quadrare i bilanci e dai disgraziati c’è ben poco da tirare fuori.Terzo, l’Usl non è un Comune. Non è una amministrazione col compito di programmare politiche sociali e neppure ti ci puoi rivolgere per protestare o per chiedere servizi che non contempla. Oltre a tutto, i manager che la dirigono non hanno neppure la spada di Damocle delle elezioni a far paura e possono tranquillamente continuare ad erogare prestazioni di merda, purché il bilancio non sia in passivo. Chi non ci sta, si rivolga al mercato privato, come per i dentisti.
Scelta infelice e perdente quindi, quella di passare il testimone all’Usl. Ma attenzione, sarà una scelta infelice e perdente soltanto per i cittadini! Non certo per il Brugnaro Luigi che potrà addossare le colpe dei disservizi ad altri e concentrarsi finalmente su quello che gli preme di più: assecondare la svendita della città e della sua laguna ai poteri forti.

Ladro di democrazia, devastatore di ambiente. Il sistema Mose messo a giudizio dal Tribunale di Popoli

o-MOSE-facebook
Il Mose e tutta la cupola mafiosa che ruotava - e tutt’ora ruota - attorno al Consorzio Venezia Nuova è stata portata a giudizio del tribunale permanente dei Popoli. Oggi, 22 ottobre, nell’aula magna del liceo artistico Guggenheim di Venezia, si è svolta la prima fase, aperta al pubblico, delle audizioni. Dal 5 al 8 novembre, a Torino, sono in programma le udienze finali alla fine delle quali, il tribunale si pronuncerà sulla violazione dei diritti democratici in base alla Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli proclamata ad Algeri nel 1976.
Il tribunale permanente dei Popoli nasce come ideale continuazione del tribunale Russell che a sua volta deriva dall’esperienza del Tribunale internazionale contro i crimini di guerra fondato dal filosofo Bertrand Russell e dallo scrittore Jean-Paul Sartre nel novembre del 1966 con lo scopo di fare luce sui crimini commessi dall'esercito statunitense nella guerra del Vietnam.

Dalla sua fondazione, nel 1979, il tribunale dei Popoli si è espresso in numerosi casi di violazione di diritti fondamentale di popolazioni in tutto il mondo, dai mari d’Indonesia alle coste del Salvador. Si tratta naturalmente, di un tribunale di “opinione”, di natura associativa con giudici volontari, ma comunque dotato di una copertura mediatica internazionale.
Il tribunale interviene in tutti quei casi nei quali le legislazioni nazionali risultino inadeguate, se non addirittura complici dei violatori, nel difendere i diritti dei popoli. In Italia, il tribunale è stato chiamato a giudicare le violazioni legate alle Grandi Opere, come la Tav, il Muos e, grazie all’associazione AmbienteVenezia che si è costituita parte civile, il Mose.


Le inchieste della magistratura che hanno messo a nudo il sistema di tangenti e di corruzione legato all’ecomostro lagunare, portando all’arresto e al rinvio a giudizio di imprenditori, funzionari pubblici e politici di tutti i livelli, si sono rivelati assolutamente insufficienti a spiegare come un tale sistema di malaffare abbia potuto inquinare Venezia, tanto da portare alla realizzazione di un sistema di dighe mobili che non solo è 20 volte più costoso di qualsiasi altra soluzione, non solo non risolverà il problema dell’acqua alta, ma ha comportato una devastazione senza precedenti in un fragile ecosistema unico al mondo violando tutte le leggi di salvaguardia. Non soltanto: le inchieste della magistratura e gli arresti eccellenti che ne sono derivati, si sono rivelate assolutamente inutili a porre un rimedio al problema. Tanto è vero che il Consorzio è ancora là, forte del suo regime di “concessionario unico” - che è un po’ come la licenza di uccidere per l’agente 007 - e il Mose ancora in fase di perenne costruzione, a divorare miliardi ed a continuare a massacrare quella che un tempo era la laguna dei dogi.

Il sistema di corruzione “legale” portato avanti dal Consorzio che non era finalizzato tanto a pagare tangenti per gli appalti (di cui era, alla faccia di qualsiasi principio di trasparenza e di democrazia) quanto a corrompere commissioni di salvaguardia, comprare consenso in città e a mettere a tacere le pur qualificate voci dei tanti tecnici che sottolineavamo la criticità non ancora risolte del sistema di dighe mobili, oltre a quelle degli ambientalisti preoccupate di salvare la laguna e la città.

Proprio il pericolo insito nell’opera che, tanto per fare un esempio, non tiene conto dei nuovi valori di marea dovuti ai cambiamenti climatici, la sua inutilità ai fini di fermare le “acque alte” e il continuo degrado cui sottopone la laguna, anche senza considerare le opere complementare e di compensazione (che non compensano un bel niente ma, essendo pure loro appaltate al Consorzio, sono solo un’altra occasione di corruzione e devastazione), sono tutti fattori che le inchieste della magistratura non hanno neppure sfiorato. Nè potevano farlo perché spettano alla politica. La magistratura può arrestare le mele marce. Quando è il sistema che fa marcire le mele, allora deve intervenire la politica imponendo regole più democratiche e trasparenti.

Ed è proprio su questo punto che il tribunale permanente dei Popoli è stato chiamato a pronunciarsi. E sulla sentenza finale, noi non nutriamo il minimo dubbio. Il sistema Mose ha violato il diritto dei veneziani a decidere della loro laguna, a difendere la loro città, a salvaguardare il loro ambiente. Perché, quello che quei mascalzoni ci hanno davvero rubato non è qualche miliardata di euro, ma la stessa democrazia.

L’Ordine dei Giornalisti apre la mostra Grandi Navi. Presidio degli ambientalisti e show di Brugnaro

navi ordine
Il titolo è tutta retorica: “Danno o risorsa per Venezia?” La risposta è tutta in quelle 27 spettacolari gigantografie che raccontano in maniera inequivocabile il devastante impatto che queste speculazioni edilizia galleggianti chiamate“Grandi Navi” hanno nel delicato ecosistema lagunare. Non c’è storia, non c’è paragone e non c’è neppure spazio per il punto di domanda, tra le due posizioni, pro e contro, davanti a queste immagini che raccontano il quotidiano stupro di meganavi grandi cinque volte il Titanic forzate a passare in un ecosistema idrico a misura di gondola.
E d’altronde, guardando dietro l’obiettivo della reflex, chi voleva documentare il danno o la bruttura di una ingombrante presenza che non ha nulla a che vedere né con la storie né con la morfologia della laguna, ha giocato facile. E non me ne vogliano i bravissimi autori delle foto se scrivo questo. Intendo solo considerare che, volendo sostenere la tesi “pro grandi navi”, cosa c’era da immortalare? La faccia beota di qualche turista da comitiva a prezzo fisso che saluta dal ponte del condominio, pensando di viaggiare sul praho di Sandokan e che invece si ritrova su un centro commerciale galleggiante? Che è come farsi le vacanze all’Auchan?


No, no, hanno ragione i pro grandi navi a sostenere che la mostra, inaugurata questo pomeriggio nella sede dell’Ordine dei Giornalisti - e che là rimarrà sino al 16 ottobre - è tutta di parte. Proprio come dalla parte degli ambientalisti sta la verità sostanziale dei fatti. Possiamo discutere sulle possibili e ragionevoli soluzioni - tra le quali non c’è quella terrificante di scavare e distruggere ancora la laguna per farci passare ‘ste Love Boat da grande magazzino! - ma non sul fatto che le Grandi Navi siano mostruosamente brutte, inquinanti oltre ogni dire e omicide per l’ecosistema che sostiene Venezia. E taccio sul rischio di trovarcene prima o poi, una spampanata sulla basilica, come già successo a Genova e in altre parti d’Italia.

Certo, non si può pretendere, né sarebbe giusto pretendere, che l’Ordine dei Giornalisti del Veneto che ha ospitato la mostra realizzata dei reporter veneziani tra i quali Marco Secchi del collettivo Awakening, prenda posizione su un tema come questo. Va bene allora anche il punto di domanda retorico sul titolo. E va bene anche il comunicato diffuso dall’Ordine secondo il quale la mostra ha come obiettivo quello di “offrire ai veneziani e al mondo un panorama il più ampio possibile su una problematica di estrema complessità e delicatezza”.
Ma la vera spiegazione del perché l’esposizione sia stata organizzata dall’Ordine e proprio dentro i locali dell’Ordine sta tutta nella premessa del detto comunicato: “Dopo le polemiche innescate dalla decisione del sindaco di Venezia di sospendere la prevista mostra del fotografo Gianni Berengo Gardin…” In altre parole, i giornalisti veneziani hanno voluto rispondere ad un sindaco come il Brugnaro Luigi, abituato a comandare da padrone in Comune come nella sua azienda, tanto da mortificare assessori (uno dei quali si è già dimesso), dirigenti e consiglieri, che l’informazione non sta alle dipendenze di nessuno. Il sindaco del fare - e che nei suoi primi cento giorni ha fatto due delibere e una ordinanza, peggio del Milan in campionato - non può pretendere e permettersi di trattare i giornalisti come suoi dipendenti o suoi portavoce. Può trasformare le sue conferenze stampa in uno spettacolo di Carlo e Giorgio, ma non può chiedere ai giornalisti di fargli da spalla.

Che il Brugnaro Luigi sindaco abbia recepito il messaggio poi, è tutto da vedere. Di sicuro, il problema dell’indipendenza dell’informazione non è tra le sue priorità. “Con la maggioranza che ho, faccio quello che voglio” ripete sempre. E anche ieri ha regalato agli spettatori - un nutrito gruppo di No Grandi navi venuti ad assistere all’apertura della mostra - il suo show quotidiano. Ha accettato una bandiera No Grandi Navi, ha passato in rassegna le gigantografie commentando come fosse davanti ad una pizza Quattro Stagioni che “c’è chi le Grandi navi piacciono e c’è chi non piacciono. A me piacciono. Guarda qua che belle!” Inutile chiedergli come intende muoversi per tutelare la laguna perché altrimenti ti tira un pistolotto da 40 minuti in dialetto spiegandoti che lui è contrario alla teoria del gender, sia nelle scuole che nell’ambiente. Si è guardato bene dall’affrontare la questione dello scavo del Vittorio Emanuele ma ha dichiarato che “le grandi navi sono la storia di Venezia. Oh? Lo sapete o no che un ingegnere ci impiega 50 anni per costruirne una?” E poi, tra lo sconcerto generale, ha abbandonato la sala indirizzando ai presenti un’ultima appassionata esortazione: “Ma venite a Mestre che è più bella e si sta meglio che Venezia!”
Mah? Mestre no. Ma sto seriamente pensando a Reykjavík che ha per sindaco uno come Jón Kristinsson Gnarr. Il dubbio è che non sia abbastanza distante.

La Venezia ambientalista in riva per dire No ad altri scavi. La soluzione è solo una: fuori le Grandi Navi dalla laguna

man 4 ott
Domenica di lotta e di festa a Venezia. Domenica di orgoglio cittadino. La Venezia che non ci sta a veder trasformare in merce la laguna che le ha dato vita, è scesa in riva per ribadire il suo No alle Grandi Navi ed a tutto quello che queste portano con sé, dall’inquinamento dell’aria alla devastazione dei fondali.
Parecchie centinaia di cittadini hanno accolto l’appello del movimento contro le Grandi Navi e si sono radunate questo pomeriggio alle Zattere, proprio davanti a quel canal della Giudecca dove sfilano impuniti queste brutte speculazioni edilizie galleggianti che sbandierano nomi come Preziosa o Deliziosa.

Una manifestazione riuscita che ha ridato voce alla Venezia ambientalista dopo una tornata elettorale nella quale i temi ecologisti non sono mai stati al centro della discussione e che, per di più, ha visto la vittoria di un sindaco che se gli chiedi quali siano i suoi programmi per tutelare l’ecosistema lagunare ti risponde che è contrario alle teorie gender nelle scuole come nell’ambiente.
Non è un caso che alla bocciatura da parte del Tar del progetto dello scavo del canal Contorta per farci passare le Grandi Navi evitando la rischiosa passerella davanti alla basilica, Comune e Autorità Portuale abbiano subito presentato la proposta di scavare il Vittorio Emanuele.
Per chi ragiona con la logica delle Grandi Opere infatti, scavare qua o là non fa nessuna differenza. Son comunque fondi pubblici da deviare a mafie e appaltatori. Per chi ragiona con l’ottica della salvaguardia, sono invece milioni di metri cubi di fondale da buttare in pattumiera col risultato di lasciare il problema dell’inquinamento da fumi come sta, ed impoverire una laguna che oramai altro non è che un braccio di mare.
“Il problema delle Grandi Navi - hanno dichiarato gli organizzatori - non può essere circoscritto al passaggio davanti a San Marco perché l’inquinamento che producono e la devastazione dell’ecosistema causato dallo spostamento d’acqua rimane tale anche se il percorso viene deviato. La soluzione non può essere lo scavo di un altro canale, che sarebbe un rimedio peggiore del male. La soluzione è solo una: fuori le Grandi Navi dalla laguna di Venezia”.

Inutile, devastante, costosissimo: ecco il Mose. La prova generale per il sistema di tangenti legato alle Grandi Opere. #CementoArricchito #Venezia

MostroMose
Tutto cominciò con la grande alluvione del ’66. In una sola giornata, la Venezia dei Dogi, la Serenissima Repubblica, la Dominante dei mari, apparve agli occhi del mondo per quello che effettivamente era: la città più fragile di questa terra. Quella stessa laguna che per secoli l’aveva cullata e protetta, adesso, devastata e stravolta dalle grandi manomissioni d’inizio secolo – come gli interramenti di Porto Marghera e lo scavo del canale dei Petroli – si era trasformata in una nemica mortale ed implacabile. L’antico patto tra l’uomo e il mare, che il Doge celebrava ogni anno gettando tra le onde un anello d’oro, era infranto.



Il progetto di una “linea Maginot” – come la definì il ministro Antonio Di Pietro (che evidentemente ignorava quele fine fece l’autentica linea Maginot) – di grandi dighe mobili per tenere a freno le ondate di marea in entrata e “risolvere definitivamente il problema dell’acqua alta”, nasce proprio dall’idea che la laguna sia un elemento da dominare e non più da tutelare, da artificializzare e non da riequilibrare.

L’impatto mediatico dell’acqua granda che il 4 novembre 1966 sommerse Venezia sotto quasi due metri di marea (194 cm) ebbe comunque un effetto positivo, perlomeno all’inizio. La salvaguardia della città fu dichiarata “di preminente interesse nazionale” e nacque la prima Legge Speciale per Venezia, n. 171 del 1973, che apri spazi per una gestione partecipata della tutela della laguna e riuscì a fermare il prosieguo degli interramenti industriali, che nel progetto iniziale, avrebbero dovuto arrivare quasi sino a Chioggia.
Ma proprio in questo spazio, pensato per la salvaguardia dell’ambiente lagunare, si fece largo il Mose. E lo fece con un iter che sarà poi ricalcato da tutte le Grandi Opere che successivamente assassineranno l’Italia sotto una coltre di cemento mafioso. Prima la dichiarazione di emergenza, poi la gestione affidata ad un unico soggetto, l’affidamento dei lavori senza gare d’appalto a ditte legate alla malavita organizzata, quindi la spaventosa lievitazione dei costi coperta da ricche tangenti elargite a 360 gradi.
Ma per intraprendere questa strada, la legge Speciale doveva essere riformata. A portare il Mose in laguna tocca alla seconda legge speciale, la 798 del 1984, col Bettino Craxi presidente del Consiglio, che affida la salvaguardia ad un committente unico: il Consorzio Venezia Nuova.

foto-4-1024x768

Il Mose divenne un grande laboratorio su come dirottare vagonate di denaro dal pubblico al privato (non di rado, mafioso), comprando politici e giornalisti, devastando l’ambiente che doveva tutelare e mercificando la democrazia. Così, nella laguna dei Dogi venne sperimentato quel modus operandi che poi fu seguito da tutte le Grandi Opere, dalla Tav alle mega autostrade. Perché se si riesce a realizzare un progetto distruttivo ed irreversibile come questo in una città fragile e sotto gli occhi del mondo come Venezia, allora puoi fare tutto dappertutto.
Nel 1989, Il Consorzio avviò la stesura del progetto preliminare orientandosi subito verso il sistema più costoso ed impattante (il Mose ha avuto una sola Via e negativa, inoltre sono state aperte varie procedure di infrazione nei confronti dell’Italia dal’Unione Europea), senza curarsi di rispondere alle critiche e alle osservazione che il mondo scientifico gli muoveva, forte di una disponibilità di denaro praticamente illimitata e slegata da ogni controllo democratico.  Così, il Consorzio, padre e padrone del Mose e del suo sistema di tangenti, cominciò ad assorbire tutti i fondi destinato alla salvaguardia di Venezia, ed a trasformarsi in un bancomat per, quasi, tutti i partiti sia di Governo che di opposizione.

Mose2

I lavori conclusivi delle barriere furono avviati nel 2003, grazie anche alla Legge Obiettivo fortemente voluta dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, con l’apertura dei cantieri alle tre bocche di porto.
Sin dall’inizio, le critiche degli ambientalisti si concentrarono su tre punti.
Il Mose non servirà a risolvere il problema dell’acqua alta, casomai lo peggiorerà aumentando la sezione dei canali di sbocco (e questo lo verificheremo solo vivendo)
il Mose devasterà la laguna (e puntualmente tutta la laguna sud si è trasformata in un braccio di mare aperto)
il Mose serve solo a chi lo fa. Ovvero: tutta la baracca altro non è che una gran macchina da tangenti e non ha altra ragione di esistere che questa.




A dimostrazione del terzo punto, su cui ci soffermeremo in questo articolo, sono stati sottolineati due fattori. 1) La continua proroga dei tempi: l’opera come presentata nel ’90 doveva essere terminata nel ’95. 2) L’esplosone dei costi: dai preventivati 3 mila e 200 miliardi di lire (avete letto bene, lire!) nell’89, il Consorzio ha “sforato” un tantinello, spendendo sino ad oggi 5 miliardi e 267 milioni di euro (sì, euro!). Ancora adesso non si sa bene quando le dighe saranno completate e quanto costeranno definitivamente (per non parlare dei  successivi e altissimi costi di manutenzione  e gestione che sono tutta un’altra storia).
Durante una delle ultime “inaugurazioni” l’ex ministro Maurizio Lupi, dimissionario in seguito allo scandalo delle Grandi Opere, ha pomposamente dichiarato che il Mose “sarà tassativamente ultimato nel 2016” e costerà attorno ai 6 miliardi di euro. Se voi volete crederci…
Chi proprio non gli ha voluto credere, tanto per dirne uno, è il presidente dell’’Anticorruzione, Raffaele Cantone, che ha dichiarato alla Nuova Venezia che i lavori certo non saranno finiti neppure per il giugno del 2017! In quanto ai costi finali, il magistrato ha preferito non esprimersi.
A dare sostanza – sia pur col senno del poi – alle tesi degli ambientalisti secondo i quali il Mose altro non è che una enorme tangente, ci ha pensato la magistratura quando ha cominciato a scoperchiare la Tangentopoli Veneta. Il  28 febbraio 2013, la procura di Venezia ha  spiccato un mandato di arresto per frode fiscale nei confronti di Piergiorgio Baita e di altri amministratori della società Mantovani, la dita incaricata di realizzare le paratoie mobili. La frode si basava su un sistema di false fatturazioni e di finte compravendite tra finte aziende canadesi e croate. Quattro mesi dopo, altre 14 persone finiscono in manette per la scoperta di un giro di fondi neri austriaci. Tra loro c’è Giovanni Mazzacurati, già presidente e direttore generale del Consorzio.
Ma la botta grossa arriva il 4 giugno 2014. La guardia di finanza, nelle prime ore del mattino, arresta 35 persone accusate di vari reati tra i quali corruzione, concussione e finanziamento illecito. Sono tutti nomi di spicco nel panorama politico ed imprenditoriale. Ci sono amministratori regionali come Renato Chisso, assessore alle Infrastrutture, e Giancarlo Galan, già presidente della Regione (che evita le manette in quanto deputato), il tesoriere del Pd veneto Giampiero Marchese, l’europarlamentare del PdL Lia Sartori, già presidente del Consiglio regionale del Veneto, e tre deputati del Pd: l’ex Presidente della Provincia di Venezia Davide Zoggia, Michele Mognato e Sergio Reolon. Vengono fermati anche il vicecomandante nazionale della Guardia di Finanza, Emilio Spaziante, e due Magistrati alle Acque, Maria Giovanna Piva e Patrizio Cuccioletta.
Il nome che desta più scalpore è comunque quello di Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia, accusato di avere accettato un finanziamento illecito di 250 mila euro da parte del Consorzio durante la campagna per le primarie del centrosinistra, utilizzato per battere l’ambientalista (e no Mose) Gianfranco Bettin.
Lo scandalo portò alle dimissioni del sindaco e alla caduta della Giunta comunale, pur se gli altri amministratori risultavano estranei alla vicenda. Uguale sorte non seguì la Regione amministrata dal centro destra.



Un mese dopo, finiscono nei guai anche Marco Milanese, ex deputato PdL e braccio destro dell’allora ministro Giulio Tremonti, accusato di aver incassato una tangente di 500 mila euro dal Consorzio per far sbloccare al Cipe i finanziamenti necessari per il Mose, e Altiero Matteoli, già ministro dell’Ambiente e delle Infrastrutture e dei Trasporti con l’accusa di aver condizionato l’assegnazione dei lavori con la creazione di fondi neri.
Intanto che le inchieste proseguono, il Mose continua ad avanzare, come quei tumori per i quali non c’è chemioterapia che tenga. Gli arresti hanno fatto gridare allo scandalo, alla necessità di liberare le amministrazioni dalle mele marce, alla desolante richiesta di un “nuovo” in politica che poi altro non è che la continuità gattopardesca del vecchio. Pochi sono coloro che hanno messo in dubbio la validità strutturale di un’opera che ha nel finanziamento illecito la sua sola ragione di esistenza. Una Grande Opera voluta solo dal partito trasversale degli affari sporchi e fatta avanzare con prepotenza, nonostante tutti i pareri negativi della comunità scientifica. Le barriere mobili, tra l’altro, non tengono conto dei nuovi parametri imposti dai cambiamenti climatici.
Nel migliore dei casi, il Mose sarà inutile.
Quella che, come il Vajont prima della catastrofe, è stata definita ‘l’orgoglio dell’ingegneria italiana” è un’opera nata sul binario sbagliato, partita male e proseguita peggio. Una soluzione rigida ed irreversibile in una laguna fluida e in continuo mutamento.
Le tangenti, a questo punto, sono solo la preoccupazione minore.


Dietro le Grandi Opere. Enzo Guidotto denuncia mafia e corruzione. #CementoArricchito

silenziomafia
Il primo campanello d’allarme, racconta Enzo Guidotto, oggi presidente onorario dell’osservatorio veneto sul fenomeno mafioso e già consulente della commissione parlamentare antimafia, è squillato circa venticinque anni fa, quando la sopracitata commissione cominciò ad indagare nella finanza veneta, scoprendo una forte penetrazione di capitali provenienti dal malaffare organizzato. Un campanello che rimase inascoltato. La politica preferì guardare da un’altra parte lasciando spazi grandi come praterie a quella corruzione che, come già avvertiva Paolo Borsellino, è l’humus ideale per far attecchire le attività mafiose. Quelle stesse attività che oggi si alimentano di Grandi Opere, devastando l’ambiente ed inquinato a tal punto la politica da aver mercificato la stessa democrazia.


In questo intervento, Enzo Guidotto, fa nomi e cognomi di personaggi che ancora oggi sono ai vertici del governo regionale e dell’imprenditoria e denuncia gli intrecci tra ministri, casalesi, appalti e assessori regionali, da Bernini a Galan, dalla Valdastico Sud alla Pedemontana.
La mafia non esiste solo quando spara.




L’intervento di Enzo Guidotto è tratto dal convegno Veneti e Mafia, svoltosi a Resana di Treviso il 31 maggio 2013

La Goletta Verde lancia la campagna “Don’t waste Venice”

P1030328
Una "scoassa" ogni tredici metri di canale è decisamente troppo. Senza contare che là, dietro al barena, dove butta la corrente, le stesse "scoasse" formano delle vere e proprie isola galleggianti. Regni incontratati di pantagane e di "magoghe" sparpagliarifiuti.
Più al largo, dopo le dighe delle bocche di porto, la situazione non migliora. In ogni chilometro quadrato di Adriatico galleggiano 27 rifiuti vari. Un buon 90 per cento dei quali composto da plastiche non biodegradabili. E sotto il mare? Ancora peggio! Qui le "scoasse" si accumulano formando delle sottospecie di "tegnue" di immondizia di cui solo chi si immerge conosce il segreto della loro esistenza.
Il tutto va a finire, prima o poi, nelle nostre pance, considerato che siamo una delle specie ai vertici della catena alimentare. "Pochi lo sanno ma le plastiche sono delle vere e proprie spugne che assorbono l'inquinamento del mare - spiega Giulio Pojana, chimico e responsabile per Ca’ Foscari del progetto Defishgea -. Tutta la plastica che buttiamo a mare, finisce con lo sgretolarsi sino a particelle grandi pochi micron, praticamente invisibili all'occhio umano ma che rimangono comunque nell'ambiente marino e vengono filtrate dai mitili o assorbite al pari del plancton da altre specie animali. In poche parole, tutta la sporcizia che gettiamo a mare, prima o poi, ce la ritroviamo a tavola".
A presentare il progetto internazionale di cooperazione Defishgea volto a raccogliere dati sul marine litter in tutta la regione Adriatico-Ionica, è stata la Goletta Verde di Legambiente che, dopo la tappa a Rovigno per denunciare l'affaraccio brutto delle trivellazioni, ha approdato in Riva Sette Martiri. Il progetto promosso dalla Comunità Europea è stato tradotto in veneziano come la campagna "Don’t Waste Venice" (non sporcate Venezia). Che la nostra non sia una città come tutte le altre, non lo scopriamo oggi. Anche le "scoasse" qua parlano il veneziano e, invece di sporcare le rive dei fiumi o gli angoli delle strade, finiscono tutte a ciondolare per i canali.

Gigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto, ha trascorso il fine settimana in barca, a gironzolare per le nostre vie d'acqua, con un retino in mano a raccogliere rifiuti in compagnia di un nutrito gruppo di volontari del Cigno Verde. "Don't waste Venice - spiega - è una campagna che si è prefissa il compito di monitorare scientificamente i rifiuti galleggianti nei canali di Venezia e portare all’attenzione della popolazione, dei turisti e dei media non solo il problema dei rifiuti abbandonati in città ma soprattutto la possibilità di contribuire alla loro riduzione tramite alcune semplici buone pratiche".
Perché i nostri canali sono depositi di immondizia, si chiede Gigi Lazzaro. Perché ci sono persone distratte e poco attente al problema, perché ci sono altre persone incivili, ma anche perché la città ha una sua conformazione tutta particolare (vedi ad esempio l'invasione turistica da fine Impero Romano cui è vittima) e, sono necessarie pratiche tutte particolari per risolvere il problema.
Diamoci da fare quindi. Don't waste Venice. Non devastiamo noi Venezia. Che, se tanto mi dà tanto, abbiamo eletto un sindaco che ci metterà del suo to waste Venice.

Vedi gli articoli precedenti
Stacks Image 16