In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Venerì 15 marzo: sciopero mondiale per il clima
14/03/2019EcoMagazine
“Skolstrejk för klimatet”. E’ cominciato tutto con un cartello in lingua svedese dove c’era scritto “sciopero della scuola per il clima” . Lo teneva in mano una ragazzina dalle trecce bionde affetta da sindrome di Asperger: Greta Thunberg. Ogni venerdì mattina, Greta andava a sedersi col suo cartello davanti al Riksdag, il parlamento svedese. All’inizio, non se la filava nessuno ma Greta non ha mai mollato. I suoi interventi alla Cop 24 e al vertice di Davos, l’hanno fatta diventare un fenomeno mediatico mondiale, preso come esempio dagli studenti di tutta la terra. Fridays For Future è diventata una protesta globale che, grazia anche al suo carattere di urgenza – solo 10 anni di tempo per riportarci nei limiti di riscaldamento previsti dagli accordi sul clima – e inevitabilità – l’umanità non ha alternative perché un pianeta di riserva proprio non ce l’abbiamo -, è riuscita a rilanciare una movimentazione come non ne avevamo mai viste al mondo.
Una movimentazione che è riuscita – e pure questa è una novità – a portare su una sola piattaforma chiamata Giustizia Climatica, rivendicazioni sociali, ambientalismo, azioni contro i cambiamenti climatici, beni comuni, tutela dei diritti umani, pacifismo contro tutte le guerre, transfemminismo, lotta contro lo sfruttamento dei Paesi poveri. Quel cartello con scritto “Skolstrejk för klimatet” apriva le porte ad una strada che porta inevitabilmente alla liberazione dalla schiavitù di un modello di sviluppo economico e di gabbie sociali fondate sul capitalismo.
Una strada che va percorsa con decisione, senza paura di azioni anche drastiche, proprio perché, come ci spiega Greta, quando hai la casa in fiamme non hai altro da fare che prendere l’estintore e lottare per spegnere l’incendio. L’estintore, nel nostro caso, si chiama Fridays For Future, e a tenerlo in mano, puntandolo dalla parte giusta, sono le ragazze ed i ragazzi di tutta la Terra che domani scenderanno in piazza per il primo sciopero climatico globale.
Non resta altro da fare che andargli dietro, partecipando e diffondendo la protesta. Qui, trovate la vostra piazza
Questi gli appuntamenti per il nordest, con la relativa pagina Facebook
Belluno:ore 9,00 Stazione Fs
Bolzano:ore 10,00 Piazza Tribunale
Rovigo:ore 9,00 Piazza Matteotti
Trento:ore 9,30 via Verdi
Trieste:ore 14,30 Piazza dell’Unità
Venezia:ore 9,00 stazione Santa Lucia
Verona:ore 8,00 Palazzo Barbieri
Angry Animals all’attacco! Occupata e sanzionata la raffineria Eni di PortoMarghera
2/03/2019EcoMagazine
I fossili vanno lasciati sottoterra. Lo affermano i climatologi, lo hanno tradotto in pratica le attiviste e gli attivisti dei centri sociali del nord est che, questa mattina presto, hanno bloccato la raffineria dell’Eni di Marghera. Tute bianche e maschere da “angry animals” – già utilizzata in altre azioni ambientaliste, un centinaio di ragazze e ragazzi ha pacificamente chiuso i cancelli della raffineria, arrampicandosi sui tetti per “sanzionare” con la vernice i loghi del cane a sei zampe ed appendere striscioni di protesta. Il blocco è durato tutta la mattina, fermando un lungo convoglio di automezzi pesanti che cercava di entrare nel perimetro della raffineria e obbligando anche ad una petroliera di avvicinarsi al molo.
“Contestare Eni – hanno spiegato gli Angry Animals, gli animali arrabbiati – significa denunciare un sistema di rapina e devastazione dei territori e delle popolazioni. Questo rappresenta una minaccia per la salute delle persone e un attacco diretto alla sopravvivenza di noi tutti. Essere per la giustizia climatica e per la libertà di movimento significa affermare l’incompatibilità di un sistema produttivo che rende i territori inabitabili e e costringe alle migrazioni”.
Il pericolo derivante dall’estrazione dei fossili e c he si traduce, oltre che in un aumento di gas climalteranti anche nella continua produzione di inquinanti sostanze plastiche, è oramai dimostrato dalla scienza. Le varie conferenze sul clima che sono state organizzate oramai in tutti i continenti, hanno più volta stabiliti dei limiti alle estrazioni e all’uso dei fossili. Limiti che, pur se sottoscritti da tutti i Governi mondiali, sono stati regolarmente disattesi.
“Non tutti hanno ancora recepito il concetto che non ci sono alternative possibili. L’attuale sistema di produzione non è più sostenibile. Non ci sono riconversioni o fantomatici utilizzi ‘verdi’ per i fossili che tengano. La sola cosa che l’umanità può fare, se vuole continuare ad abitare questo pianeta, è lasciare i fossili dove stanno. Sottoterra”.
L’obiettivo della raffineria Eni, non è stato scelto a caso. La “nostra” multinazionale è protagonista e complice dei più efferati sfruttamenti di giacimenti fossili di tutto il pianeta. Pensiamo solo a Delta del Niger dove lo popolazioni locali hanno più volte denunciato la multinazionale di aver effettuato oltre 10 mila sversamenti abusivi ed inquinanti nelle loro acque. Oppure alla Libia, un Paese portato al tracollo e alla guerra civile proprio dagli interessi delle compagnie petroliere.
“L’Eni rappresenta un perfetto paradigma dello stato di sfruttamento intensivo cui è sottoposto l’intero pianeta. A farne le spese, per ora , sono soprattutto le aree più povere – o forse dovremmo dire impoverite – in cui la stessa riproduzione biologica della vita è stata compromessa dall’estrazionismo. Ma non dimentichiamoci che lo sfruttamento, per sua stessa natura, non può porre limiti a se stesso. Se tutta la terra è merce, se neppure la minaccia dei cambiamenti climatici ci farà capire che è ora di cambiare il sistema prima che questo cambi il clima, allora non ci sarà nessuna speranza per l’umanità”.
The climate ride. In bicicletta da Venezia a Roma per partecipare alla marcia per il clima del 23 marzo
26/02/2019EcoMagazine
Tutto è cominciato a Copenaghen nel 2014, in occasione della presentazione del quinto rapporto dell’Ipcc sullo stato della lotta mondiale ai cambiamenti climatici.
Un variegato gruppo formato da ambientalisti, ciclisti del Pedale Veneziano o di altri sodalizi, cicloviaggiatori e attivisti della Fiab – la federazione italiana degli amici della bicicletta – si sono riuniti sotto la sigla RideWithUs ed hanno organizzato carovane di pedalatori che, da Venezia, hanno attraversato l’Europa per raggiungere le sedi delle annuali conferenze sul clima. Lo scopo era quello di coinvolgere e sensibilizzare più persone possibile sulla necessità di intraprendere una azione rapida e radicale a tutti i livelli per contrastare i cambiamenti climatici.
In sella alle loro biciclette, i ciclisti hanno percorso migliaia di chilometri ad impatto zero, raggiungendo, dopo Copenhagen, anche a Parigi per la Cop21 nel 2015 e Torino nel 2016 per partecipare ad un incontro con Luca Mercalli svolto in contemporanea con la Cop22 che si svolgeva a Marrakech. La successiva tappa di RideWithUs è stata Bonn nel 2017 per la Cop23, quindi, l’anno dopo, Katowice, in Polonia per la Cop24. Un pedalare infinito che ha visto il coinvolgimento, chi per una breve tappa, chi per tratti più lunghi o per tutto il viaggio, di centinaia di ciclisti ambientalisti. Perché chi ama la bicicletta, ama e rispetta anche l’ambiente.
I ciclisti di RideWithUs, assieme ad altri appassionati di bicicletta, torneranno in sella domenica 18 marzo a Venezia per accompagnare The Climate Ride, una carovana su due ruote che raggiungerà Roma per partecipare alla Marcia per il Clima che si svolgerà nella capitale sabato 23. Sei giorni di viaggio da nord a sud lungo la penisola, sulle strade del Veneto, dell’Emilia Romagna, delle Marche, dell’Umbria e del Lazio per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione del cambiamento del clima e per dimostrare che si può viaggiare – e bene! – anche senza bruciare combustibili fossili. Venezia, Ferrara, Cesena, Pieve Santo Stefano, Perugia, Terni e infine Roma. Sei giorni di viaggio che hanno anche l’obiettivo di far rete. Lungo la strada, i ciclisti di The Climate Ride incontreranno movimenti, spazi sociali, associazioni, comitati di cittadini e altre realtà che, pur pensando globalmente, si sono organizzate per difendere beni comuni e territorio da una economia predatoria che ha trasformato l’intero pianeta in merce.
In questa ennesima avventura, i ciclisti di The Climate Ride si sono ritagliati un ruolo da “postini” e hanno preparato una lettera che i primi cittadini, consapevoli del rischio connesso con i cambiamenti climatici, dei paesi e delle città che attraverseranno, potranno firmare. Queste lettere saranno portate, ovviamente sempre in bicicletta, dagli amici di RideWithUs a Bruxelles, e consegnate ai rappresentanti del nuovo parlamento europeo, facendo tappa a Strasburgo e Maastricht, il prossimo 7 novembre, dopo una pedalata che partirà sempre da Venezia il 26 ottobre, per invitare l’Europa ad assumere un ruolo di leadership internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici.
Appuntamento quindi a Marghera, domenica mattina, per salutare la carovana di The Climate Ride che salirà in sella per raggiungere la sua prima tappa: Ferrara. Una ventina di ciclisti ha già dato disponibilità a partecipare a tuto il viaggio e almeno altrettanti saranno coloro che si uniranno per ogni singola tappa. Su EcoMagazine seguiremo tutta l’avventura e racconteremo, paese dopo paese, gli attacchi all’ambiente e le lotte di coloro che lo difendono.
Se vuoi salire anche tu in sella con The Climate Ride per tutto il viaggio, per una o più tappe, o anche per accompagnarci per un breve tratto di strada, manda una mail a 23mromainbicicletta@gmail.com oppure chiamami al 347 5476813. Puoi anche seguirci o contattarci nella pagina Facebook dell’iniziativa.
#TheClimateRide #23mRomaInBicicletta #SiamoAncoraInTempo
La biodiversità sta scomparendo. Il rapporto della Fao: “A rischio il futuro dei nostri alimenti, della salute e dell’ambiente”
23/02/2019EcoMagazine
Il rapporto globale sullo stato della biodiversità presentato ieri a Roma dalla Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura e il cibo, è categorico: siamo vicini al collasso dell’intero sistema di produzione alimentare. Il modello attuale di agricoltura, industriale ed estensivo, che sta alla base dei nostri sistemi alimentari, la gestione insostenibile delle risorse naturali, la distruzione di habitat e terre destinate alle coltivazione, ha causato danne enormi alla biodiversità del nostro pianeta. Serve una azione immediata che deve diventare la priorità di ogni agenda politica. Abbiamo 10 anni di tempo per invertire rotta verso una economia più sostenibile altrimenti l’intero pianeta andrà verso un collasso totale e irreversibile dell’intero sistema di produzione alimentare con gravi ripercussioni anche per la nostra salute.
Una volta perduta, avverte il rapporto, la biodiversità alimentare e agricola – vale a dire tutte le specie che supportano i nostri sistemi alimentari – non può essere recuperata.
Il rapporto FAO si basa sulle informazioni fornite specificamente da 91 paesi e sull’analisi degli ultimi dati globali. “La biodiversità è fondamentale per la salvaguardia della sicurezza alimentare globale, é alla base di diete sane e nutrienti e raforza i mezzi di sussistenza rurali e la capacitá di resilienza delle persone e delle comunità,“ ha dichiarato il Direttore Generale della FAO, José Graziano da Silva. “Dobbiamo usare la biodiversità in modo sostenibile, in modo da poter rispondere meglio alle crescenti sfide del cambiamento climatico e produrre cibo senza danneggiare il nostro ambiente.”
Delle circa 6.000 specie di piante coltivate per il cibo, – si legge nella nota Fao di presentazione del rapporto – meno di 200 contribuiscono in modo sostanziale alla produzione alimentare globale e solo nove rappresentano il 66% della produzione totale.
La produzione mondiale di bestiame si basa su circa 40 specie animali, con solo un piccolo gruppo che fornisce la stragrande maggioranza di carne, latte e uova. Delle 7.745 razze di bestiame locali (a livello di paese) segnalate, il 26% è a rischio d‘estinzione.
Quasi un terzo degli stock ittici è sovra-sfruttato, più della metà ha raggiunto il limite sostenibile.
Le informazioni provenienti dai 91 paesi rivelano che le specie di cibo selvatico e molte specie che contribuiscono ai servizi eco-sistemici vitali per l’alimentazione e l’agricoltura, compresi gli impollinatori, gli organismi del suolo e i nemici naturali dei parassiti, stanno rapidamente scomparendo.
Ad esempio, i paesi riportano che il 24% di quasi 4.000 specie di cibo selvatico – principalmente piante, pesci e mammiferi – sta diminuendo. Ma la proporzione di alimenti selvatici in declino è probabilmente ancora più grande perché lo stato di oltre la metà delle specie alimentari selvagge è ancora sconosciuto.
Il maggior numero di specie di cibo selvatico in declino compare in paesi dell’America Latina e dei Caraibi, seguiti da quelli dell’Asia-Pacifico e dell’Africa. Questo potrebbe essere, tuttavia, il risultato del fatto che le specie alimentari selvatiche sono più studiate e riportate in questi paesi che in altri.
Sono anche gravemente minacciate molte specie associate alla biodiversità. Tra queste vi sono uccelli, pipistrelli e insetti che aiutano a controllare i parassiti e le malattie, la biodiversità del suolo e gli impollinatori selvatici – come api, farfalle, oltre ai pipistrelli e agli uccelli.
Foreste, pascoli, mangrovie, praterie di alghe, barriere coralline e zone umide in generale – gli eco-sistemi chiave che forniscono numerosi servizi essenziali per l’alimentazione e l’agricoltura e ospitano innumerevoli specie – sono anch’essi in rapido declino.
I fattori chiavi della perdita di biodiversità citati dalla maggior parte dei paesi sono: cambiamenti nell’uso e nella gestione della terra e dell’acqua, seguiti da inquinamento, sovra-sfruttamento, cambiamenti climatici, crescita della popolazione e urbanizzazione.
“Meno biodiversità significa che piante e animali sono più vulnerabili ai parassiti e alle malattie – ha concluso Graziano da Silva. – Elemento, che insieme alla nostra dipendenza da un numero sempre minore di specie per nutrirci, sta mettendo la nostra già fragile sicurezza alimentare sull’orlo del collasso”.
A questo link potete scaricare il rapporto completo in inglese
La piattaforma veneta dei comitati e movimenti per la giustizia climatica è pronta ed è una battaglia da vincere a tutti i costi
20/02/2019EcoMagazine
Dopo il meeting svoltasi a Vicenza il 27 gennaio, comitati cittadini, associazioni ambientaliste e spazi sociali del Veneto hanno continuato il percorso intrapreso con riunioni dei singoli tavoli tematici, confrontandosi per mail e per videoconferenze, sino a varare la piattaforma regionale veneta per la giustizia climatica.
Una piattaforma che viene da lontano, abbiamo scritto in apertura perché da lontano vengono le storie delle tante lotte per l’ambiente e le tante rivendicazioni per la tutela dei beni comuni che i vari comitati hanno portato avanti nei loro territori. Dal Mose alla Tav, dalle cementerie alle superstrade, sino all’inquinamento da Pfas. E su tutte queste storie che si sono concluse, possiamo dire: avevamo ragione noi!
Una piattaforma scritta per il presente perché il momento per la giustizia climatica è adesso. Gli allarmi lanciati dall’Ipcc non lasciano altri spazi di manovra. Pensare globalmente va bene, ma l’azione deve essere locale e la piattaforma proposta dai comitati è essenzialmente rivendicativa ed ha come controparte le amministrazioni regionali e comunali del Veneto che, diciamocelo pure, hanno sino ad oggi interpretato l’ambiente come uno sportello di bancomat
Una piattaforma che guarda il futuro. Non un futuro possibile ma l’unico futuro possibile per questo pianeta che l’umanità ha chiamato Terra. Questa è una battaglia da vincere a tutti i costi.
Qui puoi scaricare, in pdf, la versione definitiva della Piattaforma Climatica Veneta che riportiamo qui sotto
SIAMO ANCORA IN TEMPO
PIATTAFORMA REGIONALE VENETA DEI COMITATI E MOVIMENTI PER LA GIUSTIZIA CLIMATICA
Il documento che proponiamo come comitati, associazioni, gruppi e singoli è indirizzato all’attenzione di tutti i cittadini e le cittadine, ma soprattutto alla Regione Veneto, e a tutti i Comuni.
La piattaforma è il risultato del lavoro di chi da anni si batte contro la devastazione territoriale, incarnata dal modello di sviluppo predatorio capitalista che la Regione Veneto a guida leghista ha pienamente sposato.
Il continuo dispendio inutile di risorse pubbliche, gli scandali, la corruzione, l’avvelenamento di falde acquifere, terreni, persone, i picchi di inquinamento da polveri sottili, l’eustatismo, sono solo alcuni dei punti che ci hanno spinto a vedere il filo unico che lega grandi opere al cambiamento climatico. Denunciamo come il sistema di sviluppo basato su sfruttamento di risorse e territori sia il nemico della salute – anche sociale ed economica – dei cittadini.
La necessaria presa di parola che ci spetta passa attraverso lo studio e la scrittura comune di alcuni punti che sono per noi di denuncia e di proposta.
Crediamo di essere Ancora In Tempo per cambiare il sistema e non il clima, per far pesare tutte le responsabilità della Regione Veneto nel collasso del nostro territorio con vent’anni di politiche che hanno messo al centro il profitto di alcuni a scapito della vita di molti.
Di seguito sono proposte delle rivendicazioni, frutto del lavoro comune di studio e approfondimento, che toccano vari punti per noi fondamentali e urgenti.
Si procederà su otto temi portanti:
1- CONSUMO DI SUOLO E GRANDI OPERE
Negli ultimi 40 anni, il consumo di suolo ha giocato un ruolo fondamentale nella devastazione del territorio veneto. La logica dello sviluppo, che ha trovato in questo campo una enorme fonte di profitto, ha prodotto innumerevoli scempi ambientali: le cave, nel numero di 1500 tra dimesse e attive al momento attuale; urbanizzazione selvaggia, con il 12,45% di suolo consumato da opere che sono, molto spesso, inutilizzate ( quali zone industriali dismesse, migliaia e migliaia di unità immobiliari sfitte, centinaia di centri commerciali); infrastrutture inutili come Valdastico Sud, la costruenda Pedemontana Veneta, basi militari Usa e depositi di stoccaggio militare nella provincia di Vicenza, Mose etc.
A fianco a queste devastazioni ambientali il potere politico e economico, all’interno di un piano schizofrenico della mobilità, da un lato, lavora alacremente alla costruzione di nuove infrastrutture futili e dannose come Tav Brescia/Padova, Valdastico Nord, terza corsia dell’A13 Padova Bologna; dall’altro ne ha in progettazione altrettante che sono oggi bloccate o dalla mobilitazione dei comitati o dalla mancanza di legittimità tecnica, giuridica e finanziaria.
La devastazione del territorio messa in luce è stata resa possibile anche grazie a un’informazione propagandistica che non ha permesso una reale conoscenza e consapevolezza dei rischi all’ambiente, dei costi ambientali e sociali, negando, di fatto, quello che è il ruolo del suolo in quanto bene comune. Questo gap informativo, chiaramente voluto, ha generato un vuoto democratico, nel momento in cui non ha fornito alle persone gli strumenti reali per intervenire sui processi decisionali. A peggiora la situazione, gli organi di controllo ambientali vengono aggirati o producono valutazioni di parte.
Uno dei maggiori fattori di impatto ambientale e climalterante delle grandi opere è la loro irreversibilità, in quanto consumando il suolo, distruggono un fattore fondamentale per tutti gli ecosistemi.
Il suolo, infatti, gioca un ruolo cruciale nell’equilibrio climatico perché rappresenta, assieme agli oceani, una delle più grandi riserve di stoccaggio e cattura di gas climalteranti come l’anidride carbonica. Di conseguenza – e qui giace il legame tra grandi opere e crisi climatica – il consumo di suolo influisce direttamente nella quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera e quindi al riscaldamento globale.
Gli effetti del consumo del suolo comunque non si limitano ad influire sulla quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, ma sconvolge l’equilibrio di un territorio già fragile: inasprendo il dissesto idrogeologico, isolando gli ecosistemi, aumentando la desertificazione e l’impermeabilizzazione del territorio.
Tutti questi effetti, come le calamità naturali a cui assistiamo, non sono eventi straordinari, ma causa diretta di una gestione del territorio che vede nei beni comuni, una merce da depredare e da cui trarre il massimo profitto.
Questo genera dei costi ambientali, sanitari e sociali non quantificabili, come abbiamo visto nel caso della cava Cosmo a Paese o nella distruzione di aree naturali protette, come le sorgenti del torrente Poscola a Montecchio Maggiore.
Di fronte a un sistema che usa lo sviluppo sostenibile come mascheramento di una predazione del territorio e fa leva sul ricatto occupazionale per legittimarsi ulteriormente, crediamo che sia possibile mettere in campo le seguenti soluzioni:
* Recupero e riuso degli edifici già costruiti;
* Potenziamento della rete di trasporto pubblico regionale e locale accessibile a tutti utilizzando la estesa rete esistente previo ammodernamento tecnologico;
* Blocco delle opere inutili e dannose in progettazione e/o in costruzione
* Bonifica del suolo inquinato dei cantieri e delle grandi opere;
* Riconversione ove possibile delle opere esistenti per messa in sicurezza del territorio (bacino a tevignano);
* Ripristino al di la di qualsiasi condizione economica delle condizioni ambientali precedenti agli interventi di copertura del suolo;
* Opzione Zero sul consumo di suolo e sull’edilizia;
* Piano occupazionale la riconversione ecologica del Veneto e la messa in sicurezza del territorio, il cui costo andrebbe addebitato a decisori politici e gruppi di interesse che hanno lucrato sui crimini ambientali.
2- INQUINAMENTO E GESTIONE DELL’ACQUA
L’acqua è un bene comune.
non va privatizzato né esaurito come invece sta accadendo ora a livello globale.
1) tutte le fonti approvvigionamento dell’acqua devono essere salvaguardate
2) dichiarazione dello stato di emergenza in veneto
3) chiusura immediata delle fonti inquinanti
4) bonifica delle aree inquinate, controllo dei depuratori, censimento dei pozzi.
5) stop all’abuso nell’utilizzo dell’acqua per scopi industriali. stop allo sversamento nell’ambiente dei reflui
6) costituzione parti civili. Chiedere i danni al responsabili civili (mitsubishi, ICIG)
La responsabilità è anche e soprattutto delle amministrazioni che hanno sempre deliberato a favore del profitto a scapito della salute.
La responsabilità è anche e soprattutto delle amministrazioni che hanno sempre deliberato a favore del profitto a scapito della salute.
7) utilizzo dei risarcimenti per un fondo nazionale per la salvaguardia della filiera alimentare: agricoltura e allevamenti:
8) tematica della catena alimentare (irrigazioni – ciclo alimentare)
– etichette 0 pfas – principio di precauzione
– diritto alla salute
9) carenze di screening: aggiornamento delle tecnologie (acque e sangue) – garanzia di screening e sanzioni al boicottaggio.
10) risanamento e riqualificazione della rete idrica nazionale e regionale con l’utilizzo dei finanziamenti ora destinati alle Grandi Opere.
Non solo le grandi opere generano danni ambientali ma tolgono anche capitale all’investimento per la salvaguardia dell’ambiente e di conseguenza della salute.
3- SOVRANITA’ ALIMENTARE, CICLO DELLA CARNE E RIFORESTAZIONE
E’ urgente intervenire sia sul sistema produttivo e commerciale che sulle abitudini dei consumatori, agendo su più fronti: dall’intervento legislativo che tuteli e promuova l’agricoltura biologica e penalizzi quella inquinante, alla diffusione di campagne di educazione all’alimentazione e al consumo. È necessario prendere coscienza della reale situazione ambientale attuale e delle nostre possibilità di cambiarla. A partire dall’individuazione dell’agroindustria e degli allevamenti come uno dei principali agenti di cambiamento climatico (secondo studi di ricerca le emissioni di gas serra derivanti possono oscillare tra il 18% – dato FAO 2006 – e il 51% – Goodland-Anhang 2009), di consumo di acqua, di suolo e di deforestazione, in nome della tutela della biodiversità e degli ecosistemi abbiamo sviluppato una critica al sistema alimentare dominante. Un sistema basato sul ciclo della carne e del pesce, un megasistema estremamente articolato e capillare, che coinvolge tutti i territori e vari settori economici e infrastrutturali, come i trasporti via terra, mare e cielo, i combustibili fossili, l’industria chimica, lo smaltimento dei rifiuti, i laboratori di sperimentazione biotecnologica. Il tutto in mano alle più potenti e influenti corporation oggi esistenti al mondo quali i colossi agro-farmaceutici.
L’agricoltura convenzionale è indirizzata verso il collasso ambientale, ma viene alimentata da agevolazioni e sussidi pubblici (11 mld/anno con il Piano di Sviluppo Rurale), genera inoltre un costo sociale enorme dato dalle infrastrutture pubbliche di cui ha bisogno e alimenta il business della cura delle malattie, originate dal crescente utilizzo di agro tossici nelle coltivazioni e di medicinali nell’allevamento, dalla cattiva alimentazione indotta e dall’inquinamento subito.
È emerso a pieno titolo, fra gli esempi esaminati di agricoltura convenzionale, diventata ’agricoltura tossica’, il caso delle ‘colline del prosecco’ nel trevigiano, un modello di monocoltura che distrugge l’ecosistema e la biodiversità e avvelena aria, suolo e falda acquifera, ma che è motivo di orgoglio per gli amministratori regionali che la finanziano generosamente.
Il mantenimento di questo tipo di sviluppo agricolo, inoltre, risulta incompatibile e ostacola su vari fronti l’attività di chi esercita un’agricoltura sostenibile e/o biologica, per la difficoltá di tutelarsi dall’inquinamento ambientale dovuto all’uso indiscriminato di pesticidi diffusi sul suolo e nell’aria e perché i prodotti biologici risultano non competitivi economicamente rispetto ai prodotti dell’agricoltura convenzionale il cui costo é drogato dai sussidi pubblici. Paradossalmente vengono finanziate maggiormente le attività che implicano un aumento dei costi sociali e sanitari piuttosto che quelle che a lungo termine li riducono.
Nell’individuare criticità e paradossi dal punto di vista ambientale, è emerso che lo spreco alimentare occupa uno dei primi posti, considerato che circa un terzo del cibo prodotto viene scartato, contribuendo alle emissioni nocive (circa il 7% del totale!) sia in fase di produzione che di smaltimento del rifiuto.
Buone pratiche, proposte e obiettivi
Da questo complesso dibattito, di cui abbiamo espresso qui solo una sintesi, è uscita l’indicazione di alcuni obiettivi da raggiungere, con proposte rivolte agli enti pubblici e buone pratiche da mettere in atto, anche a partire dai nostri stili di vita. Emerge improrogabile la necessità di una riduzione drastica (meglio sarebbe eliminazione) del consumo di carne, pesce e derivati animali. Per favorire questo cambiamento c’è necessità di percorsi di ‘ecoformazione’ tramite laboratori di alimentazione sostenibile priva di derivati animali, e iniziative formative rivolte alle scuole e alla società civile sui temi dell’agricoltura e del ciclo della carne in relazione al cambiamento climatico. Bisogna lottare contro lo spreco alimentare, con attività di recupero degli scarti e promozione di pratiche di autoproduzione, di autosufficienza e di ridotte produzioni collaborative quali ad esempio le CSA (Comunità che Supportano l’Agricoltura), dove si produce solo ciò di cui la comunità realmente necessità.
Abolire i sussidi all’agroindustria, al ciclo della carne, del pesce e aumentare invece le sovvenzioni per lo sviluppo dell’agricoltura sostenibile, biologica ed ecologica nelle sue varie forme, a partire dai piccoli produttori.
Promuovere referendum locali per cambiare i regolamenti di polizia rurale e inserire i processi di produzione del biologico.
Deburocratizzare la produzione biologica a favore dei piccoli produttori. Internalizzare i costi ambientali, sociali ed economici a carico dei soggetti responsabili di contaminazione a tutti i livelli. E’ necessario provvedere subito, con investimenti dedicati, alla riforestazione policolturale e alla rinaturalizzazione, al fine di ripristinare l’ecosistema naturale, minacciato dall’antropizzazione crescente. Occorre inoltre creare ecodotti e corridoi ecologici, con alcune finalità principali: preservare le coltivazioni biologiche dall’inquinamento dell’agricoltura convenzionale; contrastare la frammentazione e l’isolamento delle aree naturaliformi e di Rete Natura 2000; favorire la sicurezza per tutti e gli spostamenti vitali della fauna selvatica, impediti dall’occlusione dovuta soprattutto alle grandi infrastrutture lineari. Operando in questa direzione, verrà fortemente implementata l’occupazione, coniugando lavoro, ecologia e benessere reale.
Promuovere referendum locali per cambiare i regolamenti di polizia rurale e inserire i processi di produzione del biologico.
Deburocratizzare la produzione biologica a favore dei piccoli produttori. Internalizzare i costi ambientali, sociali ed economici a carico dei soggetti responsabili di contaminazione a tutti i livelli. E’ necessario provvedere subito, con investimenti dedicati, alla riforestazione policolturale e alla rinaturalizzazione, al fine di ripristinare l’ecosistema naturale, minacciato dall’antropizzazione crescente. Occorre inoltre creare ecodotti e corridoi ecologici, con alcune finalità principali: preservare le coltivazioni biologiche dall’inquinamento dell’agricoltura convenzionale; contrastare la frammentazione e l’isolamento delle aree naturaliformi e di Rete Natura 2000; favorire la sicurezza per tutti e gli spostamenti vitali della fauna selvatica, impediti dall’occlusione dovuta soprattutto alle grandi infrastrutture lineari. Operando in questa direzione, verrà fortemente implementata l’occupazione, coniugando lavoro, ecologia e benessere reale.
4– INQUINAMENTO DELL’ARIA E MOBILITA’
La pianura padana rientra tra le 3 aree più inquinate d’Europa a livello atmosferico. La prossima generazione sarà la prima ad avere un’aspettativa di vita minore di quella dei propri nonni. Le malattie e le morti legate all’inquinamento dell’aria stanno aumentando in maniera considerevole. Inoltre la attuale legislazione nazionale e regionale in merito al sanzionamento delle emissioni non è adeguata, in quanto troppo spesso sacrifica al profitto e alle retoriche dell’occupazione le questioni ambientali. Riteniamo necessario uscire dall’idea di “emergenzialità” e mettere in campo, quotidianamente, pratiche di sensibilizzazione e informazione. Decostruire la narrazione del “limite” come unità di misura è parte fondamentale di questo. Un occhio di riguardo ai percorsi dei movimenti studenteschi e all’educazione già a partire dalla scuola primaria. E’ essenziale dotarci di strumenti di monitoraggio dal basso, di pratiche e iniziative comuni e replicabili – tenendo sempre conto delle specificità territoriali e del nostro essere “di parte” nella battaglia per la giustizia climatica e non “meri” tecnici.
Si rende necessaria la valorizzazione della mobilità tramite mezzi non inquinanti, la ri-pubblicizzazione e il rifinanziamento del trasporto locale che vogliamo pubblico e gratuito in modo da ottenere una consistente diminuzione di quello privato, la valorizzazione del trasporto locale su rotaia il cui finanziamento è irrisorio rispetto alle risorse destinate alle grandi opere, la riforestazione urbana.
Riteniamo inoltre necessaria un’attenzione particolare all’inquinamento prodotto dal trasporto navale e aeronautico, spesso non considerato nemmeno dai grandi meeting internazionali sul clima. Nello specifico della Regione Veneto, si riscontra un’ingiustificata concentrazione di aeroporti (Istrana / Treviso/ Venezia) in un’area estremamente limitatatenendo contoche tale tipologia di trasporto rappresenta un fattore di rischio innegabile e un danno per la Salute e l’Ambiente. Si chiede pertanto la chiusura dell’aeroporto “Antonio Canova di Treviso” in quanto totalmente incompatibile con il contesto civile ed ambientale in cui è inserito.
5-VENEZIA, PORTO MARGHERA E LAGUNA
Venezia e la sua laguna sono un bene comune del mondo intero e come tali vanno sottratte alla privatizzazione e alla speculazione.
Venezia e la sua laguna dovrebbero diventare il simbolo della lotta dei movimenti per la giustizia climatica.
Venezia e la sua laguna potrebbero essere il luogo adatto per sperimentare nuovi equilibri tra uomo e natura.
Invece oggi Venezia e la sua laguna sono terra di conquista, di speculazone finanziaria, immobiliare, di costruzione di grandi opere inutili e dannose.
– siano bloccati i lavori del MOSE e che siano riconvertite le opere marittime realizzate, che oltre ad essere uno spreco di denaro pubblico risultano obsolete vista la previsione dell’innalzamento del medio mare prevista per i prossimi anni.
– siano estromesse le grandi navi dalla laguna e che non vengano realizzati scavi di nuovi canali o allargamenti degli esistenit.
– che siano effettuale bonifiche a Porto Marghera, che siano fatti investimenti per completare i marginamenti e il Vallone Moranzani
– ci sia una riconversione del sistema produttivo di Porto Marghera iniziando dalla produzione energetica.
– ci sia una gestione dei flussi che sia capace di ripensare il modello turistico proposto, parallelamente servono politiche volte alla tutela del diritto all’abitare, della mobilità, della salute e della città.
– sia tutelata la biodiversità lagunare e la pesca compatibile dagli interessi speculativi.
– non ci sia il deposito di GPL a Chioggia.
6- BENI COMUNI
La gestione comune del territorio e delle sue risorse materiali e immateriali, è sempre più impellente nel tempo della crisi climatica e ambientale, sopratutto in una Regione come la nostra investita da uno sviluppo predatorio ed estrattivo. In tal senso ogni elemento del territorio del territorio va considerato patrimonio collettivo da tutelare e preservare nell’interesse della comunità degli abitanti e delle generazioni future.
Per questa ragione è necessario bloccare i devastanti processi di privatizzazione e mercificazione, porre fine alla subalternità delle politiche pubbliche alle logiche di mercato.
Ciò deve avvenire con il riconoscimento anche giuridico del principio del bene comune su tutto ciò che afferisce alla qualità della vita e dei diritti fondamentali. Il concetto di comune supera l’ordinamento giuridico attuale che vede la proprietà, sia essa pubblica o privata, come dominio esclusivo verso una gestione radicalmente democratica delle risorse.
All’interlocutore Regione Veneto e alla Giunta tutta, ci sentiamo di avanzare delle proposte concrete e soprattutto attuabili a legislazione vigente al fine di progredire sulla strada del riconoscimento giuridico pieno ed efficace del concetto di bene giuridico:
- sul modello della Regione Toscana, introdurre all’interno dello Statuto Regionale la definizione di bene comune, così come emerge dalla Commissione Rodotà: “La Regione tutela e valorizza i beni comuni, intesi quali beni materiali e digitali che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, al benessere individuale e collettivo, alla cooperazione sociale e alla vita delle generazioni future e la promozione di
forme diffuse di pattecipazione nella gestione condivisa e nella fruizione dei medesimi beni e servizi” comuni”; - che la Regione sviluppi e manifesti il suo sostegno alla proposta avanzata dall’ Anci circa il riuso dei beni comuni urbani in abbandono o sottoutilizzati, garantendo opportune concessioni d’uso con finalità culturali e sociali, ivi compresa quella del comodato gratuito o a canoni fortemente agevolati. Da subito la Regione deve rinunciare alla svendita del proprio patrimonio in presenza di usi sociali alternativi, ad incominciare dall’immobile della antica scuola di anatomia a Venezia;
- che venga riconosciuta ed attuata anticipando il recepimento nazionale, ad ora mancante, dela Convenzione di Faro sull’uso del patrimonio culturale, di cui l’Italia è firmataria dal 2005.
- che nella valutazione degli Impatti Ambientali di un Piano, di un Programma o di un Progetto , venga attuato il Principio di Precauzione, che fa obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la SANITA’ PUBBLICA, per la SICUREZZAe per l’AMBIENTE, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici (sentenza Corte Europea).
7- ENERGIA
Il quadro è drammatico: il rapporto IPCC Global Warming of 1,5° (2018) ci ricorda che per limitare i futuri rischi legati al clima sulla biodiversità, sugli ecosistemi, compresa la perdita e l’estinzione delle specie, compresa quella umana, è indispensabile non superare il riscaldamento globale di 1,5 °C. Significa che dobbiamo abbattere le emissioni antropogeniche nette globali di CO2 del 45% entro il 2030 e del 100% entro il 2050, rispetto ai livelli registrati nel 2010. Limitare il riscaldamento globale a 1,5 ° C, rispetto ai 2 ° C entro e non oltre il 2050 potrebbe ridurre il numero di persone esposte ai rischi di diverse centinaia di milioni.
In riferimento all’Italia i dati ISPRA (2018) confermano che siamo ben lontani da registrar una riduzione. Infatti i dati relativi al secondo trimestre del 2018 registrano che le emissioni di gas-serra sono salite dello 0,2% rispetto allo stesso periodo del 2017. L’aumento è dovuto prevalentemente al riscaldamento e ai trasporti.
I dati complessivi relativi ai settori che maggiormente contribuiscono alla produzione di emissioni (in termini di CO2 eq) indicano chiaramente dove dovremmo implementare radicali trasformazioni delle attività (ISPRA 2016):
Industria energetica 24.4%
Residenziali e servizi 17.45
Trasporti 24,42%
Agricoltura 9%
Rifiuti 4,28 %
In questa casistica non è contemplata la quota di gas serra emessa dal settore aeronautico; secondo l’European Aviation Environmental, report 2016 (EAE), entro il 2030 il relativo contributo di emissioni di anidride carbonica-CO2sarà di circa il 17%sulle emissioni totali di CO2nel mondo.
A fronte di questa situazione la strategia energetica nazionale approvata nel 2017 (SEN) è completamente inadeguata in quanto ha l’obiettivo di diminuire le emissioni del 39% al 2030 e del 63% al 2050, facendo tra l’altro riferimento alle emissioni del 1990 ( e non del 2010 che sono più alte!).
Si pone l’obiettivo di gestire il cambiamento del sistema energetico attraverso deboli e limitate strategie: un aumento dell’apporto delle rinnovabili dal 17.5% attuale al 28% al 2030; tra le rinnovabili si punta molto sulle biomasse e biocarburanti, compresi i rifiuti; inoltre è si previsto l’abbandono del carbone, ma sostituendolo con il gas, facendo passare il messaggio, come d’altronde sostenuto a livello europeo, che il gas è un combustibile “pulito” e un partner nelle risorse rinnovabili. Occorre invece ribadire che il gas – nella sua forma convenzionale o quella ora più usata derivante da giacimenti non convenzionali in argille (fracked gas) – sebbene sia una fonte energetica più pulita del petrolio appartiene alla lista dei combustibili fossili e responsabile dell’incremento del cosiddetto effetto serra.
Facendo riferimento ai nostri territori, dobbiamo renderci conto che la situazione in Veneto è molto compromessa. A livello regionale i dati ufficiali più recenti risalgono al 2013 e sono contenuti nell’Inventario delle emissioni in atmosfera – INEMAR Veneto 2013 realizzato da ARPAV che stima le emissioni riferite a 11 macroinquinanti e 5 microinquinani.
Le emissioni di CO2 eq derivano principalmente da:
– attività produttive (produzione di energia, combustione nell’industria e processi produttivi) 37%;
– trasporti su strada 24%
– combustione non industriale (terziario e residenziale) 21%
– agricoltura 9%
dalla produzione di energia (responsabile per circa il 23%), da combustioni non industriali (responsabile per circa il 27%), dai processi industriali (responsabile per circa il 18%), e con i trasporti su strada che contribuiscono per il 31%.
A fronte di ciò, le priorità di azione dei comitati, in termini sia di resistenza ambientale che di proposte e rivendicazioni devono necessariamente essere orientate ai settori del trasporto (delle persone e delle merci), e dei consumi energetici del terziario e del residenziale.
Come necessità per un cambiamento radicale verso una transizione ecologica diventa essenziale il controllo popolare e democratico delle informazioni e delle scelte politiche ed economiche. Da questo punto di vista diventa strategico, come comitati e presidi territoriali, promuovere la creazione di comunità energetiche locali, sulla base di zone omogenee (non possiamo applicare le stesse ricette dappertutto, ma rispettare le diverse conformazioni dei territori) e di cominciare fin da subito a incentivare l’acquisto di energia da fonti veramente rinnovabili sostenendo concretamente le pratiche innovative.
Il tema della pianificazione urbana e territoriale assume una valenza strategica proprio in funzione di una ri-organizzazione degli spazi, delle attività, della mobilità e delle relazioni volta a una conversione ecologica.
Le rivendicazioni che proponiamo come comitati del Veneto nei confronti della regione sono:
– che vengano messe a disposizione dati ufficiali, leggibili e aggiornati relativamente alle emissioni di gas clima alteranti e alla produzione e consumo di energia
– riconoscimento dei comitati come interlocutori protagonisti nei tavoli che andranno a discutere le scelte regionali così come d’altronde già previsto dal SEN 2017 e nell’ambito dei POR-FESR e PSR.
– l’istituzione di un fondo regionale da almeno 500 milioni di euro annui per finanziare la transizione ecologica ed energetica fuori dal fossile e in particolare per quanto riguarda gli aspetti di efficientamento energetico e diffusione delle rinnovabili nei settori del terziario, residenziale e per implementare e migliorare il trasporto pubblico. Questo fondo dovrà essere finanziato attingendo da tassazioni delle attività speculative ed inquinanti e clima alteranti (estrattive, metanodotti, smaltimento rifiuti, etc.) e anche riservando una percentuale dalla tassazione regolare (es.IRPEF sui redditi oltre i 33.000 euro, così come del resto fatto per finanziare la Pedemontana nel 2017);
– bloccare i lavori del MOSE e avviare uno studio di fattibilità per la sua riconversione ai fini della produzione di energia elettrica sfruttando le maree;
L’obiettivo generale è di utilizzare il risparmio così come l’autosufficienza energetica a livello di comunità anche come modo di redistribuzione della ricchezza.
Segnaliamo che il problema dell’inquinamento elettromagnetico, di cui al momento poco si discute, è invece un fronte molto importante e urgente.
8- LAVORO, ECONOMIA CIRCOLARE E RIFIUTI
Il tavolo ha espresso con chiarezza la necessità che la transizione ecologica sia pagata dai ricchi e dai grandi centri d’inquinamento. Questo riprendendo anche uno slogan dei gilet gialli, che intrecciano nella loro lotta i temi della giustizia sociale e della giustizia climatica. L’onere di tale transizione deve necessariamente includere tanto la bonifica e riqualificazione dei territori quanto l’erogazione di un reddito garantito universalmente.
- È necessario rendere sostenibili le condizioni di lavoro tutelando i diritti dei lavoratori e dotando le aziende/compagne di dispositivi a ridotto impatto ambientale. Da questo punto di cita la logistica offre un ottimo esempio di applicazione, sia per quanto riguarda le condizioni materiali di lavoro e del diritto alla salute, che per quanto concerne i mezzi di trasporto, che devono essere scelti per il loro basso impatto ambientale (si vedano i mezzi a metano). Per il raggiungimento di questi fini necessario un approccio da sindacalismo sociale, costituendo alleanze tra sindacati, comitati e movimenti.
- È altresì necessaria la revisione delle concessioni regionali agli stabilimenti che sfruttano beni comuni nei processi produttivi in modo impattante e a dronte di prezzi irrisori, come ad esempio fa la CocaCola nello stabilimento di Nogara (VR).
- Collegata a questa, c’è la necessità di trasparenza e tracciabilità delle filiere produttive per quanto riguarda i dati/costi ambientali e sociali di ogni azienda.
- Su un piano più etico, si è parlato della costruzione di campagne che coinvolgano scuole superiori e università al fine di boicottare l’offerta di stage a studenti da parte di aziende che abbiano un comprovato impatto ambientale negativo.
- Per quanto riguarda invece il tema dei rifiuti, occorre mutare prospettiva nella loro accezione di “scorie” da smaltire, eliminare, e aprire ad un approccio che ne favorisca la gestione come bene pubblico.
- Anche per quanto riguarda il riciclo è necessario uno slittamento in termini di riuso, che favorisca cioè la produzione di beni riutilizzabili e che incentivi pratiche collettive destinate a conferire un valore d’uso ai beni, piuttosto che un valore di scambio.
- Dal punto di vista pratico, occorre costruire strategie comuni legate all’uso di strumenti di democrazia diretta, come diffide o referendum comunali, o anche class action.
- Infine, pur tenendo presente che per quanto riguarda i temi ecologici la responsabilizzazione individuale è importante, è necessario indicare chiaramente che le responsabilità del climate change sono legate al modo di produzione capitalistico. Pertanto occorre individuare strategie dal basso, azioni collettive finalizzate al superamento dell’attuale modello di sviluppo.
Comitato Zero Pfas Padova – Collettivo MalaCaigo – Comitato Opzione Zero – Comitato No grandi Navi Venezia – Associazione Ambiente Venezia – Comitato No Pedemontana Treviso – ADL Cobas – Altreconomia – Cilsa Arzignano – Comitato Conegliano senza Pesticidi – Assemblea permanente contro il rischio chimico di Marghera – Coordinamento No Triv – Associazione Ecofilosofica Treviso – Collettivo Resistenze Ambientali Padova – Genuino Clandestino Treviso – No dal Molin Vicenza – Eco-Magazine.info – Associazione Eddyburg – Collettivo Ambiente Territorio-Vicenza – No Tav Verona – Comitato Acqua Bene Comune Verona – Verdi del Veneto – Potere al Popolo Veneto – Comitato contro ampliamento aeroporto di Treviso – Lab Para Todos Verona – CSA Veneto
Un venerdì per il clima. Scendono in piazza gli studenti del pianeta Terra
6/02/2019EcoMagazine
E’ cominciato tutto da lei, Greta Thunberg, la bionda ragazzina svedese di sedici anni che dal palco della Cop 24 ha cercato di smuovere le coscienze dei leader mondiali ad affrontare seriamente, e senza calcoli elettorali, quello che è il problema più grande che l’umanità abbia mai dovuto affrontare da quando il primo primate sceso dagli alberi per diventare un essere umano ad oggi: i cambiamenti climatici.
Sul fatto che il suo appassionato intervento – che pure ha fatto il giro del mondo – sia davvero riuscito a muovere le coscienze dei capi di Stato, abbiamo qualche dubbio. Ma di sicuro Greta è riuscita a sensibilizzare migliaia, milioni di giovani e giovanissimi che hanno compreso come la questione climatica sia determinante per il futuro della terra. Soprattutto le ragazze ed i ragazzi hanno capito che, se non si mobiliteranno loro, nessuno lo farà al loro posto. E’ una questione, questa dei cambiamenti del clima, che investe tutto il nostro essere: dai nostri personalissimi comportamenti quotidiani all’organizzazione della società in cui viviamo. E se è vero che, soprattutto le generazioni più giovani, sono consapevoli della necessità di effettuare la raccolta differenziata, risparmiare l’acqua, consumare meno, riciclare di più, e, in poche parole, di adottare uno stile di vita più sostenibile, è anche vero che continuiamo a vivere sotto una economia ancora basata sul fossile e sul consumo sfrenato.
Per questo, uno degli slogan preferiti dai ragazzi di tutto il mondo che si stanno mobilitando per chiedere alla politica di porre un freno a questa economia che ha trasformato in merce anche le catastrofi climatiche, è Non abbiamo un pianeta di riserva. O si cambia strada, o tutta l’umanità precipiterà in un baratro climatico di cui nessuno può prevedere completamente le conseguenze.
Va sottolineato, che la protesta degli studenti per il clima, proprio in virtù della sua spontaneità, ha in qualche modo spiazzato le grandi associazioni ambientaliste che si sono viste, per così dire, “superate a sinistra” e si sono trovate a rincorrere una mobilitazione che non hanno organizzato loro. Un segnale che riteniamo positivo, perché la questione climatica, proprio per la sua complessità e varietà, non si presta ad essere rinchiusa in contenitori stagni ed investe tutti i cittadini di questo pianeta che chiamiamo Terra.
La protesta è una protesta del nostro tempo e, come è lecito aspettarsi, prima ancora che per le strade, corre sui social; Facebook, Twitter, WhatsUp, Linkedin, Instagram… La mobilitazione viene taggata con gli hashtag #FridaysForFuture, #ClimateStrike, #SchoolStrike4Climate, #SystemChangeNotClimateChange. In italia il tag più usato è #SiamoAncoraInTempo. A mobilitarsi e ad invadere la piazze delle principali città italiane, saranno gli studenti delle superiori.
Il primo appuntamento sarà venerdì 15 marzo, perché è ogni venerdì che l’imperterrita Greta va a sedersi davanti al parlamento svedese con il suo cartello di protesta in mano. Il luogo: tutto il mondo perché nessun luogo del mondo può dirsi sicuro dai cambiamento del clima.
Ecco, di seguito, le istruzioni diffuse nella rete per aderire al Venerdì per il Clima #climatestrikeCosa devi fare per prepararti:-cerca la pagina Fridays for future locale più vicina a dove abiti, metti il like e unisciti alle iniziative– invita e condividi questo evento con i tuoi amici, nel gruppo della scuola e della tua città– Diffondi la voceSii tu stesso il cambiamento che vuoi portare nel mondo 🌎 #fridaysforfuture
Queste le pagine Facebook più seguite:
Tra coloro che sostengono la mobilitazione, anche il meteorologo Luca Mercalli che ha diffuso questo appello
A Vicenza nasce la piattaforma Veneta per la democrazia climatica. La marcia mondiale per il clima non si arresta
28/01/2019EcoMagazine, Global Project
Una tappa fondamentale per la nostra Regione. Almeno 250 persone, in rappresentanza di comitati, associazioni e spazi sociali di tutto il Veneto, si sono riuniti al Bocciodromo di Vicenza per mettere insieme proposte, idee, iniziative, problematiche e costruire un percorso condiviso che porti alla marcia per la giustizia climatica, contro le grandi opere, che si svolgerà a Roma sabato 23 marzo.
Un percorso, questo lanciato in Italia sotto l’hashtag #siamoancoraintempo, che apre spazi di mobilitazione in tutto il pianeta, perché non c’è zona della terra che non sia messa in pericolo dai cambiamenti climatici. Se è vero che siamo ancora in tempo, è anche vero che il tempo è questo. E’ necessario, per rispolverare un vecchio slogan ambientalista, pensare globalmente ma agire localmente. Tanto più in una Regione come il Veneto, da decenni ostaggio di una cricca di potere che ha mercificato l’ambiente sotto il tallone di grandi opere, inutili e dannose, come la Pedemontana, la Tav, il Mose, inquinando l’acqua con Pfas, la terra con capannoni, per lo più inutilizzati, e cemento, l’aria con valori di Pm10 che sono tra i più alti in Italia. E senza contare che già in Italia sono tra i più alti d’Europa!
Al di là di ogni inutile compromesso, a Vicenza è stato ribadito quando detto in occasione della marcia dell’8 dicembre a Padova: per difendere il clima non c’è che una sola strada, quella che cambia il sistema. Giustizia climatica è giustizia sociale. La lotta per difendere il clima è la lotta per difendere i diritti dell’uomo e per un lavoro che non sia asservito al capitale ma ricondotto alla sua funzione originale di sostentamento. Si lavora per vivere e non si vive per lavorare. Anche questa è una lotta contro l’inquinamento!
Nei nove tavoli tematici in cui l’assemblea vicentina si è divisa, sono stati affrontati tutti gli argomenti -dall’inquinamento delle falde alla cementificazione del suolo, dal traffico automobilistico agli allevamenti animali intesivi – volti a mettere insieme una piattaforma completa di rivendicazioni per la giustizia climatica. Una piattaforma che, prima ancora che a Roma, sarà presentata alla Regione Veneto.
Il 23 febbraio l’arcipelago ambientalista organizzerà in un campo di Venezia ancora da stabilire, una festa per l’ambiente che mescoli informazione, protesta e divertimento (siamo proprio nel bel mezzo del carnevale).
Altri appuntamenti, li segnaleremo su EcoMagazine, non appena saranno pronti. Sempre su EcoMagazine, troverete, una volta conclusa la stesura, il documento finale del meeting al Bocciodromo ed i testi delle rivendicazioni ambientali preparate da ogni tavolo.
Su Ecomagazine.infouna panoramica in stile “foto di famiglia” del meeting vicentino, gentilmente realizzate per EcoMagazine dal fotografo Attilio Pavin, al quale vanno i nostri ringraziamenti.
A Katowice è stato un funerale
22/12/2018EcoMagazine, Global Project
Cop 24 è conclusa. Adesso sappiamo cosa bisogna fare per evitare ila catastrofe. E sappiamo anche che i Governi non lo faranno. La 24esima conferenza mondiale sul clima è finita come era cominciata. Ed era cominciata proprio male, con il discorso di apertura del presidente polacco, il nazionalista Andrzei Duda, che augurava buon lavoro ai delegati di quasi 200 Stati presenti, aggiungendo subito dopo che “la Polonia non può rinunciar al carbone”. Non è neppure un caso che Katowice, scelta come sede della conferenza, si trovi proprio nel cuore della regione mineraria più importante della Polonia, la Slesia, che copre oltre l’80 per cento dei suoi bisogni energetici bruciando carbone.
L’obiettivo di Cop 24 era quello di approvare il cosiddetto “rulebook“, cioè l’agenda per rendere operativo l’accordo di Parigi. Accordo che, ricordiamolo, impegnava i Paesi firmatari ad attuare tutte le misure necessarie a limitare l’aumento della temperatura globale a 2 gradi centigradi rispetto all’epoca pre-industriale ed a contenerlo possibilmente entro il grado e mezzo. Accordo immediatamente criticato dai movimenti ambientalisti di tutto il mondo, in quanto non vincolante e basato tutto sulla “buona volontà” dei vari Governi. Tutto vero. Ma dobbiamo tener presente che, se l’accordo fosse stato vincolante, almeno un quarto dei Paesi firmatari – e, guarda il caso, proprio quelli più inquinanti! – non lo avrebbero sottoscritto col risultato che di politiche volte a ridurre i gas serra non se ne sarebbe più parlato. A Parigi, si è scelta la via diplomatica. Una via che, se non altro, ha tenuto aperte le porte a future negoziazioni ed ha consentito ai movimenti ambientalisti di tutta la terra di attivarsi, agendo localmente su prospettive globali, per chiedere ai Governi dei loro Paesi il rispetto di quegli accordi che loro stessi hanno sottoscritto.
E l’adozione del “rulebook” inteso come una tabella di marcia con tanto di regole vincolanti e trasparenti per valutazione degli obiettivi è forse l’unico risultato positivo di questa conferenza polacca. Certo, neppure il “rulebook” sarà vincolante, ma renderà più facile stabilire come, dove, quando e perché un Governo ha sforato i limiti di emissioni che si era prefisso con gli accordi parigini. Ma rimante comunque una incolmabile distanza tra le piccole concessioni strappate ai vari Governi, con mezze promesse e impegni tutti da verificare, e la spaventosa urgenza della crisi climatica in cui il pianeta intero è precipitato.
Gli accordi di Parigi assegnavano alle future Cop il compito di fare il punto sulla situazione climatica del pianeta. Qualche giorno prima dell’apertura dei lavori, l’Ipcc, il “panel” di climatologi dell’Onu impegnato nello studio dei cambiamenti climatici, aveva diffuso un rapporto preoccupante. Dati alla mano, da Parigi in poi, le emissioni di gas climalteranti non soltanto non sono diminuite ma sono addirittura aumentate. La conclusione del rapporto è drastica: abbiamo dodici anni per ridurre le emissioni di almeno il 45 per cento a livello globale altrimenti si apriranno per la nostra Terra degli scenari catastrofici. Senza un’inversione di rotta, raggiungeremo e supereremo già entro il 2030 quel limite che gli accordi di Parigi imponevano di evitare entro la fine del secolo.
Come dire che, davanti al baratro, l’umanità invece di rallentare o cambiare strada, ha accelerato. Una accelerazione climatica che va di pari passo con l’accelerazione a destra che ha portato partiti nazionalista, populisti e radicalmente ignoranti in posizioni di Governo in molti Paesi del Mondo. Ai tradizionali “fan” delle energie fossili, come Arabia, Russia e Kuwait, si sono aggiunti via via Paesi come l’Australia del liberale Scott Morrison e, new entry, il Brasile di quella sorta di macchietta di generale golpista da repubblica delle Banane che altro non è il neo presidente Jair Bolsonaro. Per non parlare degli Stati Uniti, che con Barack Obama furono i protagonisti in positivo della Cop di Parigi ed ora con Donald Trump alla Casa Bianca hanno già annunciato di volersi sfilare dagli accordi di Parigi non appena i tempi della burocrazia internazionale renderà praticabile questa opzione. Trump, d’altra parte, ha più volte twittato che gli scienziati possono dire quello che vogliono ma lui, ai cambiamenti climatici, non ci crede e, riferendosi agli aiuti economici ai Paesi più poveri perché abbassino le emissioni, che non capisce perché mai “i contribuenti e i lavoratori americani devono pagare per ripulire l’inquinamento degli altri paesi”. Il bello di Trump è che è sinceramente convinto che gli Usa non si trovino sul pianeta Terra!
Una marcia indietro, questa degli Stati Uniti, che ha avuto l’effetto di rallentare la conversione verso energie più pulite di Paesi come la Cina (responsabile del 27% delle emissioni globali), dell’India(7%) e pressoché di tutti gli Stati africani. Paesi disposti a cambiare politica energetica ma soltanto nel caso che questa si dimostrasse più conveniente dal punto di vista economico rispetto all’utilizzo del fossile.
Il che ci porta al nocciolo della questione: quali e quanti incentivi assegnare ai cosiddetti “Paesi in via di sviluppo” affinché optino per una scelta energetica sostenibile? Una questione fondamentale che i delegati dei Paesi del mondo riuniti a Katowice hanno semplicemente evitato di affrontare, rimandando tutto alla prossima Cop che si svolgerà in Inghilterra. Perché la proposta di farla in Italia lanciata dal nostro ministro per l’Ambiente, Sergio Costa, è stata valutata dalla comunità internazionale credibile esattamente come il nostro Governo. Cioè, zero.
Con una posta in gioco che è il futuro di tutto il pianeta, i delegati dei vari Governi sono andati a Katowice per litigare sugli spiccioli. Eppure “affrontare il cambiamento climatico farebbe risparmiare almeno un milione di vite all’anno” si legge in una relazione dell’Oms , l’Organizzazione Mondiale della Sanità. I benefici economici di un miglioramento della salute, sottolinea, statistiche alla mano, un articolo di ValigiaBlu, sono più del doppio dei costi di riduzione delle emissioni. “Al momento facciamo finta che i combustibili fossili siano combustibili a buon mercato, solo perché non ne includiamo il costo per la nostra salute e per l’economia” ha dichiarato Diarmid Campbell Lendrum, dell’Oms. “Non si tratta solo di salvare il pianeta in un ipotetico futuro, si tratta di proteggere la salute delle persone in questo momento”.
Per trovare dei politici capaci di guardare oltre i 4 o 5 anni del loro prossimo mandato, bisogna andare alle isole Marshall o alle Maldive. In quei Paesi insomma, che non sono imprigionati in politiche estrattiviste ma che, come colmo dell’ingiustizia, saranno i primi a pagare le spese dell’innalzamento del livello del mari. “Noi saremo i primi a soffrire le conseguenze dei cambiamento climatici – ha spiegato ai delegati la presidente delle isole Marshall, Hilda Heine, – Il mio Paese rischia l’estinzione. Entro il 2050 dovremo abbandonare centinaia di isole. Dove andremo?”
Tra i Paesi convertitisi ad una destra ostinatamente negazionista ci possiamo mettere anche l’Italia. Il siparietto del nostro sopracitato ministro a 5 Stelle in quel di Katowice, che ha proposto di far fare la prossima Cop anche ai bambini – “Loro parlano e noi adulti ascoltiamo. Abbiamo tanti da imparare dai bambini” ha dichiarato – è stato semplicemente pietoso. Ma si sa che i cambiamenti climatici sono rimasti fuori dal contratto del Governo del Cambiamento, proprio come gli incentivi al green sono stati esclusi dalla Finanziaria degli Italiani. Ricordiamo solo per amor di cronaca anche lo sproloquio del capo di gabinetto del ministero per la Famiglia, Cristiano Ceresani, per cui la colpa dei cambianti climatici sarebbe tutta del diavolo e dei peccatori, e chiudiamo qua il “contributo” del nostro Governo lega stellato alla questione del Climate Change.
Chi ha capito invece, che i cambiamenti climatici sono una cosa seria è la finanza. Un articolo del Sole 24 Ore ha spiegato nei dettagli come ci si possa fare i soldi grazie al clima, investendo in operazioni finanziarie volte a “impadronirsi anzitutto di diritti d’accesso a falde acquifere sotterranee, sempre più scarse e preziose”. In particolare “nelle zone tra le più inaridite dall’effetto serra“, magari approfittando di situazioni contingenti come lo scioglimento delle nevi dei ghiacciai che liberano risorse idriche, proprio come è avvento in Nevada, con grande gioia degli investitori che hanno triplicato i loro soldi in due anni appena.
A dettar legge, insomma, continua ad essere l’economia. Non la scienza e nemmeno la politica. In questo modo, i cambiamenti climatici sono stati utilizzati come utile ed emblematico strumento da rapina da un capitalismo che continua a crescere ed alimentarsi sfruttando gli ultimi sussulti di vita di un pianeta condannato.
In mani rapaci, il clima è diventato un’arma da guerra puntata contro i Paesi meno industrializzati, prima per depredarli delle loro ricchezze fossili – le stesse che hanno causato i cambiamenti climatici – utilizzando Governi fantocci e terrorismi religiosi, e poi trasformando la loro ultima risorsa, la migrazione, in una merce da appaltare dove genera più profitto: le organizzazioni criminali, governative o meno.
Il clima è entrato in borsa come un titolo in perenne rialzo. Al di là delle dichiarazioni di intenti, anche i Paesi europei che più si professano a favore di una svolta green, l’ottica di fondo rimane sempre quella capitalista. E’ il caso della Francia di Emmanuel Macron che aumenta le tasse sul carburante senza però impostare una politica di alternativa al trasporto privato, col solo risultato di scaricare i costi del disinquinamento sulle categorie meno abbienti.
Oppure la proposta del nuovo padrone dell’Ilva, il miliardario indiano Adiya Mittal, che ha chiesto all’Europa l’istituzione di dazi verdi sull’acciaio prodotto da Paesi come gli Stati Uniti, le cui industrie non sono soggette al vincolo comunitario che le obbliga a ridurre del 43 per cento le emissioni di gas serra. Va de sé che questi dazi, anche a volerli definire “verdi”, non andrebbero ad intaccare la quantità di Co2 sparata complessivamente nel pianeta Terra dall’inquinantissima industria siderurgica, quanto piuttosto a determinare “dove” questo acciaio viene prodotto.
Ridurre i consumi, utilizzare materiale meno impattanti, riciclare e riutilizzare quanto è possibile, cambiare l’economia e non il clima, insomma, sono concetti ancora lontani dalla sfera di comprensione e di azione dei Governi. Soprattutto di quei Governi che potremmo definire neo nazionalisti ai quali i cambiamenti climatici fanno tutto sommato comodo perché possono cavalcare le tante crisi sociali che questi portano con sé – migrazioni, impoverimento, criminalità, svendita dei beni comuni… – per imporre militarizzazioni e autoritarismi.
Tutto questo è passato sopra Katowice senza che i delegati dell’Onu riuscissero o volessero affrontarlo. Il rapporto dell’Ipcc indicava la luna e non hanno saputo o potuto far altro che guardare il dito. Sappiamo cosa bisogna fare ma sappiamo anche che i Governi non lo faranno. Sappiamo anche che non ci sono alternative e che solo una rivoluzione ci salverà. Quello che è andato in scena a Katowice è stato un funerale. Che sia quello della Terra o quello del capitalismo lo dovremo decidere noi.
Attenzione: il Governo del Cambiamento sta cambiando il divieto di uso di Ogm!
17/12/2018EcoMagazine, Global Project
5 Stelle e Lega hanno aperto la porta agli organismi geneticamente modificati e lo hanno fatto proprio lavorando all’interno della legge che doveva disciplinare le coltivazioni biologiche. Una legge sulla quali le associazioni di coltivatori come Aiab avevano già espresso forti perplessità, soprattutto in merito ai pesanti tagli dei già scarsi finanziamenti deviati verso le grandi e inquinanti coltivazioni che fanno abbondante uso di prodotti chimici. Una legge discutibile, elaborata senza tener conto delle osservazioni in merito dei coltivatori biologici che comunque non immaginavano che in fase di dibattimento, fosse accolto, nel testo approvato dalla Camera, la proposta dell’onorevole Guglielmo Golinelli, giovane deputato della Lega e grande allevatore di suini nel modenese, che abolisce in toto l’articolo 18.
Come fa notare nel suo sito l’Aiab, l’associazione italiana per l’agricoltura biologica, l’articolo 18 era il muro che difendeva le coltivazioni nostrane dall’assalto degli organismi geneticamente modificati. Non solo l’articolo rimarcava il divieto assoluto di utilizzo di Ogm, ma affermava anche che non poteva essere commercializzato come biologico un prodotto contaminato anche se accidentalmente.
“E’ un fatto che riteniamo gravissimo – ha dichiarato il presidente di Aiab, Vincenzo Vizioli – che rende impossibile il sostegno di chi lavora per il buon biologico italiano. Riteniamo inaccettabile che si liberalizzi la contaminazione accidentale che, per le produzioni in pieno campo, apre pericolosamente la porta a future liberalizzazioni della coltivazione di Ogm. Liberalizzazioni che il nostro Paese più volte ha respinto grazie alla mobilitazione di associazioni e cittadini”.
L’onorevole Guglielmo Golinelli, allevatore di maiali leghista |
“Insomma, invece di lavorare per evitare ogni tipo di contaminazione e qualificare il prodotto italiano, si sceglie la strada più semplice, quella dell’omertà – conclude Aiab -. I consumatori scelgono il biologico perché hanno paura dei pesticidi e vogliono evitare contaminazioni di qualsiasi tipo”. Si invoca da tutte le parti la massima trasparenza dell’etichettatura e di rintracciabilità di tutta la filiera “e poi si tiene nascosto al consumatore che nel prodotto c’è anche quello che lui, comprando biologico, sta cercando di evitare”.
Vincenzo Vizioli conclude invitanfo i parlamentari che riesamineranno la norma a reinserire l’articolo 18, sanando un passaggio che “vorrei poter leggere solo come errore e non come deprecabile strategia”.
Una deprecabile strategia, purtroppo, alla quale il cosiddetto Governo del Cambiamento targato leghisti e 5 Stelle ci ha già abituato da un pezzo!
La mappa mondiale delle lotte ambientali
14/12/2018EcoMagazine
Si chiama Environmental Justice Atlas traducibile come “atlante della giustizia ambientale” e la potete consultare a questo link. Vi sono raccolte tutte le grandi battaglia in difesa dell’ambiente e dei beni comuni che gli attivisti di tutto il mondo stanno portando avanti: dai popoli originari del sud America in lotta per la conservazione della biodiversità, alle denunce degli ambientalisti canadesi e statunitensi sui disastri dell’estrazione petrolifera negli oceani e sugli versamenti dei grandi oleodotti. La mappa è consultabile nel suo insieme ma anche scorporando le singole tematiche: dal nucleare alla difesa dell’acqua pubblica, dalla cementificazione alle miniere, senza dimenticare un’altro tipo di devastazione come la “turistificazione”, ovvero l’impatto del turismo di massa. Anche questa è una lotta per la difesa dell’ambiente. Il bollino viola che contraddistingue questa battaglia per la democrazia ambientale lo troviamo, come c’era da aspettarsi, sopra la nostra Venezia, accanto a quello grigio che indica la presenza di una Grande Opera devastanti: il Mose, per l’appunto.
E non sono certo i “bollini” che mancano nella nostra penisola. Nell’Environmental Justice Atlas, un sito aperto ai contributi di tutti i movimenti dal basso, sono segnalate tutte le lotte ambientaliste del nostro Paese: dalla Tav al Tap, dalle trivelle ai veleni dell’Ilva. Cliccando su ogni bollino si apre una scheda con utili informazioni sul conflitto in corso. La mappa permette inoltre di avere una panoramica delle questioni ambientali di cui i media dedicano poco o nessuno spazio, come quelli in atto nel continente africano.
Un capitolo a parte meritano i luoghi segnalati dal bollino nero che indicano i conflitti per la giustizia climatica. E’ la mappa di Blockadia. Termine coniato da Naomi Klein per indicare la resistenza contro il potere fossile. “Non si tratta di un luogo preciso sulla mappa – scrive l’autrice di “No Logo”-, ma piuttosto di una rovente zona di conflitto transnazionale che sta spuntando con crescente frequenza e intensità ovunque ci siano progetti estrattivi che tentano di scavare e trivellare, che si tratti di miniere a cielo aperto, di fratturazione idraulica o di oleodotti per il petrolio delle sabbie bituminose”.
Uno spazio in continua espansione, questo di Blockadia, come si evince proprio dal nostro atlante per la giustizia ambientale. Negli ultimi 10 anni, si è registrato un continuo aumento, sia come frequenta che come intensità, dei movimenti di resistenza a questi crimini contro la terra che, ricordiamolo, sono i primi responsabili dei cambiamenti climatici. Dagli ogoni del Delta del Niger in azione contro la Shell, sino agli yasuni in Ecuador contro l’estrattrivismo o alle iniziative di disobbedienza civile di massa di Ende Gelände in Renania. Tutto questo è Blockadia. Fermare l’estrattivismo per far vivere la terra.