In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Scuola-lavoro, muore un altro ragazzo: colpito da una lastra

Morti bianche L’incidente vicino Venezia. La vittima aveva 18 anni e studiava in un istituto tecnico

Un’altra giovane vittima, un altro studente morto durante uno stage in azienda. L’incidente è accaduto ieri a Noventa di Piave, in provincia di Venezia, verso le 5 del pomeriggio nella ditta Bc Service, specializzata nella lavorazione del metallo. La vittima è Giuliano De Seta, un ragazzo di 18 anni di Ceggia.

Era studente di un istituto tecnico di Portogruaro e seguiva uno stage lavorativo per maturare i crediti per il diploma. Secondo le prime ricostruzioni dei carabinieri, l’incidente è avvenuto poco prima della chiusura dell’azienda: il giovane è rimasto ucciso da una lastra di metallo caduta da un cavalletto che gli ha schiacciato le gambe. Inutili i soccorsi. Il ragazzo è morto pochi minuti dopo. Sul posto è intervenuto anche lo Spisal, il Servizio prevenzione igiene sicurezza ambienti di lavoro dell’Ulss locale, i cui tecnici stanno cercando di mettere a fuoco la dinamica della tragedia.

L’incidente che ha ucciso Giuliano è avvenuto a poca distanza da quello capitato il 21 gennaio scorso al giovane Lorenzo Parelli, anche lui schiacciato da una putrella mentre eseguiva un lavoro di carpenteria metallica nell’azienda meccanica Burimec, nella zona industriale di Lauzacco, in provincia di Udine. Anche Lorenzo stava seguendo un progetto di alternanza scuola-lavoro e studiava nell’Istituto superiore Bearzi di Udine, gestito dai salesiani.

Lorenzo e Giuliano non solo le sole vittime di incidenti avvenuti durante gli stage obbligatori in azienda, previsti dalla riforma del 2015 (la cosiddetta «Buona scuola») . Il 14 febbraio scorso è morto il 16enne Giuseppe Lenoci, impegnato in uno stage in una impresa termoidraulica di Fermo, nelle Marche, mentre era a bordo di un furgone dell’azienda. Ancora più lunga la lista dei ragazzi feriti in questi stage obbligatori, alcuni dei quali hanno riportato pesanti traumi.

«L’alternanza scuola-lavoro non è altro che un lavoro non retribuito deregolamentato e che può durare anche due mesi. Uno sfruttamento che ingrassa le imprese di produzione e di servizi», ha commentato Sergio Zulian dell’Adl Cobas del Veneto. In questi stage, spiega il sindacalista, «la sicurezza è un optional e a farne le spese sono soprattutto gli studenti in stage che hanno meno esperienza dei lavoratori. Con la scusa di imparare il mestiere, i ragazzi non solo vengono sfruttati ma viene insegnato loro che è giusto così: lavorare è una fortuna per pochi privilegiati e devono accettare quello che viene loro offerto senza stare a sindacare sui diritti salariali e contrattuali».

L’Adl Cobas propone di «sostituire l’alternanza scuola-lavoro con l’alternanza lavoro- scuola», conclude Zulian. «Ai lavoratori va data la possibilità di studiare e di migliorare la loro formazione professionale frequentando corsi culturali negli orari di lavoro».
Sulla tragedia di Noventa di Piave interviene anche il leader Pd Enrico Letta: «Morire sul lavoro a diciotto anni per uno stage: una tragedia che lascia attoniti, agghiacciati. Non può succedere. Non deve succedere».

Venezia, cariche contro l’onda verde

 Fuori concorso Alla 79esima Mostra del Cinema irrompono gli attivisti climatici. Fermati a pochi metri dal Tappeto Rosso. La polizia usa gli idranti: colpita anche una locandina del film Siccità


Cariche, manganellate e idranti sotto i riflettori della 79esima Mostra del Cinema di Venezia. Un imponente cordone di polizia in assetto antisommossa ha impedito alle attiviste e agli attivisti del Climate Camp di raggiungere il Tappeto Rosso e portare la crisi climatica sotto le luci della ribalta.

Tre anni fa un nutrito gruppo di ambientalisti riuscì a occupare la passerella delle Stelle con un’azione alle prime luci del giorno e a resistere sino all’arrivo del corteo del Climate Camp. Nei due anni successivi, la pandemia impedì l’organizzazione del meeting ambientalista che è stato riproposto solo quest’anno, sempre al Lido di Venezia e sempre in concomitanza con la Mostra cinematografica. Cinque giorni densi di dibattiti e incontri, da mercoledì 7 a oggi, domenica 11 settembre, con personalità del calibro di Vandana Shiva, Andreas Malm e Mario Alberto Castillo Quintero dell’Asamblea de pueblos indigenas, organizzato da Rise Up 4 Climate Justice e Fridays For Future Venezia. Centinaia di partecipanti provenienti da tutta Italia e anche da Paesi Europei.

Ieri pomeriggio, era la giornata della Climate March: un corteo colorato e chiassoso che si è ritrovato partito alle 17 dal centrale piazzale Santa Maria Elisabetta: in testa una grande sfera verde e azzurra a simboleggiare il nostro pianeta, l’unico che abbiamo a disposizione, e tante bandiere al vento: da quelle dei Fridays For Future a quelle dei No Navi che a Venezia non mancano mai, sino agli striscioni dei comitati contro l’inceneritore di Fusina.

Il corteo si è mosso pacificamente al ritmo dei tamburi suonati dagli attivisti fiorentini del collettivo di fabbrica Gkn. Clima, diritti, lavoro: sono tutti aspetti della medesima lotta contro un sistema economico fallimentare. «Non è la crisi del clima ma la crisi di un sistema colonialista che ha mercificato la terra e i beni comuni in nome dell’interesse di pochi – dice Mario Alberto Castillo Quintero -. Non è la crisi del clima ma la crisi di una politica che non riesce più a governare i cambiamenti e a costruire una valida alternativa a potere della finanza mondiale». Gli unici partiti ad aver aderito alla manifestazione sono stati Alleanza Verdi Sinistra e Unione popolare le cui bandiere sventolavano in fondo al corteo.

«Uno scenario davvero desolante questa campagna elettorale alla quale abbiamo la sventura di assistere – dice al microfono un’attivista napoletana della Terra dei Fuochi -. In piena crisi climatica ci tocca sentire politici che parlano di rigassificatori come di una scelta compatibile con l’ambiente». «Tre anni fa, quando abbiamo occupato il tappeto rosso – racconta Sebastiano dei Fridays For Future di Venezia – c’era ancora qualcuno che negava l’evidenza scientifica dei cambiamenti climatici. Oggi queste stesse persone hanno adottato una tecnica diversa: far passare le peggiori scelte per il clima come ecosostenibili. Un greenwashing che sta cercando di far passare anche il nucleare come una soluzione ecologica. Questo è quanto volevano denunciare portando la questione della giustizia climatica sotto i riflettori delle mostra del cinema. Le cariche della polizia ce lo hanno impedito ma non possono impedirci di continuare a lottare: ricordiamo a tutte e tutti lo sciopero mondiale per il clima che i Fridays For Future hanno proclamato per il prossimo 23 settembre. È una lotta alla quale non possiamo rinunciare perché non abbiamo possibilità di scelta. Non abbiamo un pianeta B».

A pochi metri dal Tappeto Rosso, il corteo è stato fermato dal cordone di polizia. Inutile ogni tentativo di mediazione. Non è stato permesso neppure a una piccola delegazione di avvicinarsi all’entrata della Mostra del Cinema e l’unica risposta delle forze dell’ordine sono state le cariche e gli idranti. Ironia della sorte, l’acqua ad alta pressione delle pompe ha staccato da un muro la locandina del film di Paolo Virzì che si intitola Siccità.

Foto di Stian Rampoldi 

La siccità tra cambiamenti climatici e quotidiane emergenze

Mai così a secco. Il centro e il sud d’Italia sono in allarme rosso. Le Regioni del nord sono già al collasso e si concretizza sempre di più l’ipotesi di un razionamento idrico senza precedenti in queste proporzioni e in aree così vaste. Ma per il Governo la colpa è tutta delle avverse condizioni atmosferiche e di cambiamenti climatici, il ministro della (non) transizione ecologica, Roberto Cingolani, non vuole proprio sentir parlare, impegnato com’è a cercare petrolio e gas, ed a rallentare il passaggio alle rinnovabili. Più comodo invocare l’”emergenza”, concetto utilissimo per giustificare tutti i mancati interventi che ci hanno portati al disastro. E pazienza se il trend era giù intuibile dalle sempre più frequenti siccità che hanno attanagliato il Paese negli ultimi anni, come quella del 2003 o del 2017. I media danno ampio spazio alle preoccupazioni – reali – degli agricoltori, alle dichiarazioni – discutibili – di politici più avvezzi ad agitare paure immaginarie che ad affrontare problemi veri, e ad arcivescovi, come quello di Milano, che fanno il loro mestiere e si affidano alla misericordia divina. 

Sono pochi i media che hanno ricordato come, secondo gli esperti, questo sarà l’anno più fresco dei prossimi 30 anni, che con siccità come questa, o peggio, dovremmo imparare a convivere perché saranno sempre più frequenti, e che l’unica “emergenza” di cui abbia senso parlare sia quella climatica. Emergenza che deve essere affrontata proprio all’opposto di come la sta affrontando il Governo: uscendo, il prima possibile ed a tutti i costi, da una economia basata sui combustibili fossili. 

Eppure si continua a parlare di “emergenza siccità”, nonostante già dalla fine del 2021 un rapporto dell’Unione Europea avesse messo in guardia il ministro Cingolani sull’arrivo di questa ecatombe estiva. Il fatto che ancora oggi le preoccupazioni del ministro, sottolineate nelle sue ultime dichiarazioni alle agenzie, siano tutte per il funzionamento delle centrali – “Speriamo che almeno questo problema migliori presto” – dimostra ancora una volta la sua lontananza dall’aver capito, o dal voler affrontare, il nocciolo del problema. 

Questa siccità altro non è che la dimostrazione che abbiamo perso la battaglia per il clima e che è il momento di pensare realisticamente a varare politiche di mitigazione. Il che ovviamente, non significa che non bisogna continuare a lottare contro le lobby del fossile. Il futuro – se ci sarà, un futuro – dell’umanità sul pianeta terra non è ancora scritto. Ma anche nelle migliori delle ipotesi, indietro non si torna più. Troppi sono gli obiettivi che abbiamo mancato. 

Proprio per questo, oggi, più di ieri, non sono più accettabili proposte di privatizzazione di un bene prezioso come l’acqua. Giusta la proposta di Europa Verde e di Sinistra Italiana di abolire l’articolo 6 dal decreto Concorrenza che permette di fatto ai Comuni di privatizzare le reti idriche, bypassando il risultato del referendum. L’Italia, ricordiamocelo, è il Paese con la maggiori risorse idriche dell’Europa. Nel nostro territorio scorrono 7 mila 594 corsi d’acqua e sboccano oltre un migliaio di falde sotterranee che sarebbe bene tutelare e non inquinare, come è stato con i Pfas. Ma le infrastrutture sono obsolete, molte risalgono al dopoguerra. Dal 1996, al tempo della legge Galli, il settore è stato privato di tutti i finanziamenti, appositamente per portare avanti una politica di privatizzazione che il referendum ha allontanato ma non ancora sconfitto. 

Il risultato dei mancati finanziamenti su un settore vitale come quello idrico, lo stiamo vedendo in questo giorni. La nostra rete idrica lunga circa 600 mila chilometri, accusa una perdita di circa il 42 per cento, conto una media europea dell’8 per cento. Uno spreco inaccettabile. Questo è un capitolo su cui bisogna intervenire con urgenza e non basta la miseria di 900 milioni stanziati dal Pnrr. Non solo. Dobbiamo capire che la siccità si combatte anche lottando contro l’inquinamento dei fiumi, fermando le urbanizzazioni e la cementificazione del territorio, responsabili dell’impermeabilizzazione del terreno, causa prima dell’impoverimento e dell’abbassamento delle falde, favorendo una agricoltura sostenibile e non intensiva.

Non è una emergenza, questa siccità, ma una conseguenza di tutto quello che non abbiamo fatto per fermare i cambiamenti climatici o per difendere l’ambiente dalle speculazioni. Se cadiamo nell’errore di addossarne la colpa alle “avverse condizioni meteorologiche”, tanto vale fare come l’arcivescovo di Milano ed affidarci all’aiuto di dio. Così stiamo freschi anche senza bisogno del condizionatore. 

Foto di copertina: il fiume Isonzo a Gorizia durante un periodo di secca T137

Guerra e pace (e clima)

La Sardegna è presa d’assedio da una esercitazione Nato condotta in clima di guerra mentre le compagnie petrolifere fanno affari d’oro e dei cambiamenti climatici non se ne parla più

Il primo a dare la notizia è stato l’Unione Sarda. Giornale non propriamente di sinistra ma che aveva il vantaggio di giocare in casa e l’onestà di indignarsi proprio come un quotidiano che parla alla gente deve fare. Ben diciassette aree marine sarde, per lo più nel cagliaritano, sono state improvvisamente prese d’assalto da un esercito di 4mila soldati, 65 navi militari tra cui una portaerei Usa, con contorno di elicotteri, carri armati e mezzi anfibi. L’operazione targata Nato e battezzata Mare Aperto è scattata all’improvviso, senza nessun avvertimento alla popolazione dell’isola. Proprio in giorni come questi in cui la Sardegna sta rilanciando la sua offerta turistica, dopo i duri tempi della pandemia. Semplicemente, l’Alto Comando della Nato ha improvvisamente deciso di giocare alla guerra e ha ordinato, senza nessun preavviso, alla Capitaneria di Porto di interdire ai “civili” l’ingresso alle coste e alle aree di mare segnalate.

La Capitaneria non ha potuto far altro che obbedire. Se è vero che la Sardegna è sempre stata utilizzata come un grande poligono di tiro dall’esercito – complice anche la sua bassissima densità – è anche vero che esercitazioni di questa portata, con eserciti di ben sette Paesi, non ne erano mai state fatte negli anni precedenti e, in ogni caso, tutte le operazioni venivano comunicate con largo anticipo. Ma siamo in guerra. E in guerra tutto è permesso. 

Nel  giornale di venerdì 13 maggio, l’Unione Sarda ha denunciato in un articolo intitolato: “Blitz militare: Sardegna circondata”: ”Non bastavano i 7.200 ettari del Poligono di Teulada i 12.700 di Perdasdefogu e i 1.200 di Capo Frasca, la più imponente esercitazione militare mai messa in campo nel mare di Sardegna e nei poligoni sardi si estenderà anche in aree che non hanno mai avuto niente a che fare con le servitù militari. E non sarà una passeggiata”.”. Sempre l’Unione cita espressamente Venezia chiedendosi se una simile operazione militare che scavalca ogni logica di tutela ambientale e di conservazione, sarebbe stata possibile nella laguna dei Dogi. Da veneziano, posso rispondere ai colleghi sardi: “Sì, purtroppo. Nella laguna hanno fatto anche di peggio”. Ma non questo il punto. Il punto è la catastrofe climatica. 

A dirlo stavolta è l’Onu. Lo scorso anno, ha avvertito l’Omm, l’organizzazione meteorologica mondiale delle Nazioni Unite, ben 4 indicatori chiave dei cambianti climatici hanno toccato dei record che definire “preoccupanti” è prenderli sottogamba. Si tratta delle concentrazioni di gas serra, dell’innalzamento del livello del mare, dell’acidificazione e del riscaldamento degli oceani. Tutti avvertimenti che “Il sistema energetico globale è rotto e ci avvicina sempre più alla catastrofe climatica”, come si legge nell’ultimo rapporto. L’unica speranza è: “porre fine all’inquinamento da combustibili fossili e accelerare la transizione verso le rinnovabili, prima d’incenerire la nostra unica casa”.
Ma la guerra sta spingendo l’umanità verso una direzione completamente opposta. 

Guerra e pace, si sa, sono agli antipodi. Esattamente come guerra e clima. E questo per almeno due motivi. Il primo è che per affrontare un problema complesso come la crisi climatica, servono diplomazia, tavoli di trattativa, un forte spirito di collaborazione internazionale. Tutte cose che i conflitti armati mandano a catafascio. La seconda è che tutte le soluzioni di “emergenza” per affrancarsi dal gas russo prevedono l’utilizzo, anzi, l’implemento proprio dei combustibili fossili. In altre parole stiamo finanziando esattamente quel modello economico che dovremmo superare. Non è certo un caso se i profitto delle multinazionali petrolifere siano schizzati in alto da quando è cominciata la guerra tra Russia e Ucraina. Nei primi tre mesi dell’anno la Shell, tanto per fare un esempio, ha realizzato profitti record: 9,1 miliardi di dollari, quasi tre volte rispetto al primo trimestre del 2021. 

Felicissimo Ben van Beurden, amministratore delegato della compagnia, che ha spiegato al New York Times come i recenti avvenimenti abbiano dimostrato come il petrolio rimanga “l’unica energia sicura, affidabile e conveniente”, sottolineando come nessuno oggi possa mettere in discussione che “l’economia globale sia costruita soprattutto sui combustibili fossili”. Tesi dimostrata anche dal prezzo del gas, che nel corso del 2021 ha intrapreso un  trend crescente di cui non si vede la fine, passando in Italia dai 18 euro per MWh di marzo ai 116 euro per MWh di dicembre 2021. Trend che fa la felicità dei suoi (pochi) azionisti e la disgrazia del resto dell’umanità perché al prezzo del gas è legato il costo del cibo. Fame e carestie stanno già ammazzando più della guerra in Ucraina nelle aree più povere del pianeta. Qui, dalla parte ricca della frontiera, ci si limita, per ora, a veder crescere le percentuali di chi vive sotto la cosiddetta “soglia di povertà”. 

E poi c’è anche un’altra questione per cui guerra e giustizia climatica non vanno proprio d’accordo. Ed è l’aspetto comunicativo. In guerre la prima vittima è la verità e l’unica regola la distrazionedai problemi veri. Questione come il gas e il petrolio vengono utilizzate come arma per farti odiare il nemico. Se la bolletta sale, il colpevole è Putin. Il problema delle emissioni climalteranti dei combustibili fossili che continuiamo ad utilizzare come e più di prima, non sono nemmeno dentro l’agenda politica dei mesi a venire. Così come un deciso passaggio alle alternative rinnovabili. In guerra si pensa solo alla guerra. Ridicolo persino pensare alle cosiddette “buone pratiche individuali”, tipo la differenziata spinta o la dieta vegana, che pure – se certo non bastavano a salvare il pianeta – in qualche modo erano utili a diffondere la consapevolezza che viviamo tutte e tutti sullo stesso pianeta Terra e che la tutela globale dei beni comuni è fondamentale per costruire un futuro sostenibile per l’umanità. Ma oggi? Perché qualcuno dovrebbe sbattersi a girare in bicicletta quando un paio d’ore di volo di uno solo di quegli aerei che stanno giocando alla guerra sopra la testa dei sardi, brucia più carburante di tutto quello che potrebbe bruciare lui nel resto della sua vita? Anche questo è guerra.

 

Foto di copertina. Copyright: Crown Copyright 2011, NZ Defence Force

Il 15 maggio l’Italia va a credito di sostenibilità ambientale

Immaginate di essere tra i fortunati ad avere uno stipendio fisso. Immaginate che il 10 del mese avete già speso tutto e vi tocca andare a credito. Ecco. Questo è esattamente quello che accadrà all’Italia domenica prossima, 15 maggio. Con l’aggravante che il debito del nostro Paese va ad aggiungersi ai già sostanziosi arretrati maturati negli anni precedenti. 

Per noi italiani domenica prossima scatta infatti quello che il Global Footprint Network ha chiamato l’Overshoot Day, traducibile come “il giorno del superamento”. Il giorno cioè in cui un Paese ha esaurito tutte le sue risorse  – da quelle idriche a quelle produttive, sino alle emissioni di gas serra —e deve andare a credito. “Se tutti si comportassero come noi italiani – ci avvisa Nicolas Lozito nella sua preziosa newsletter Il Colore Verde -, la Terra inizierebbe già da metà maggio a essere sfruttata oltre le sue capacità di auto rigenerarsi. Per essere considerati sostenibili ci servirebbero quasi tre pianeti”. 

Il Global Footprint Network è una organizzazione no profit indipendente con sedi negli Usa, in Svizzera e nel Belgio fondata nel 2003 con lo scopo dichiarato di promuovere la sostenibilità. Ogni anno pubblica un calendario degli Overshoot Days di tutti i Paesi del mondo che, seppure i criteri considerati non sia condiviso da tutti gli esperti, restituisce una visione abbastanza realistica di come stia andando (male) il pianeta. Anche la media mondiale – ovvero l’Overshot Day globale della terra -, al di là di tutti i proclami di “transizioni verdi”,  sta arretrando sempre più negli anni. Nel 2014, cadeva il 19 agosto, nel 2015, il 13 dello stesso mese. Nel 2016, l’8 agosto. Il 2 agosto, l’anno successivo. Solo nel 2020, complice la pandemia mondiale, la scadenza si è spostata più avanti, in controtendenza, il 22 agosto, ma stiamo recuperando in fretta! 

Quest’anno la data non è ancora stata annunciata ma dovrebbe attestarsi tra qualche giorno prima del 29 luglio. Come dire, che stiamo correndo verso il baratro. E stiamo accelerando!

Interessante anche l’hit parade dei Paesi più sostenibili. La classifica è guidata dalla Giamaica che quasi quasi ce la fa a completare l’anno (il suo Overshoot Day scade il 20 dicembre). Seguono l’Ecuador, l’Indonesia e Cuba. In maglia nera il Quatar che non va più in là del 10 febbraio. Poco più indietro troviamo il Lussemburgo, il Canada, gli Stati Uniti e gli Emirati Arabi. 

Anche se possiamo discutere sui parametri utilizzati dal Global Footprint, non ci sono dubbi che questo utilizzo di risorse di non rinnovabili, sia una questione di fondamentale importanza per il futuro dell’umanità sul pianeta e che abbia ricadute non solo nell’ambiente ma anche nella società, nell’economi e nella politica mondiale.

Concludiamo con una osservazione del noto filosofo della scienza Telmo Pievani pubblicata su La Lettura del Corriere“La conseguenza più pericolosa è che il consumo crescente di risorse non rinnovabili come carbone, petrolio e gas aumenta la dipendenza da Paesi inaffidabili, fa lievitare i prezzi, destabilizza intere regioni, genera conflitti sempre più allarmanti. Si parla orma di insicurezza strutturale delle risorse e di insicurezza climatica. Rischiamo di pagare caro il trentennale ritardo nella transizione energetica”.

Una “barcheggiata” per ribadire il No alle Grandi Navi in laguna

Buttate fuori dalla porta – quella del bacino di San Marco -, le Grandi Navi sono rientrate dalla finestra – quella dei cinque approdi “provvisori” di Marghera e terraferma. Ma, sempre e comunque, dentro una laguna che non è fatta per il gigantismo navale rimangono. I due decreti legislativi e le sentenze della magistratura hanno sottolineato l’incompatibilità di queste enormi ”villaggi turistici galleggianti” con il delicato sistema idrogeologico della laguna, sposando le tesi sostenute dagli ambientalisti in oltre un decennio di lotte. Come se non bastasse, i recenti incidenti avvenuti alle navi da crociera dirette a Marghera – incidenti più che prevedibili in quanto il canale dei Petroli non ha la larghezza sufficiente a governare lo scarroccio della nave in caso di vento sostenuto – dovrebbe aver dimostrato ancora una volta che il gigantismo navale ha chiuso con la laguna. Sembra che se ne siano resi conto le stesse compagnie di navigazione i cui amministratori hanno dichiarato in un articolo del Sole24ore che sono intenzionati ad escludere Venezia dagli itinerari delle loro crociere. Non è certo una presa posizione, la loro, dettata da motivazioni di tutela ambientale, quanto dalla semplice constatazione che un conto è accogliere i turisti alla Stazione Marittima di Venezia e fargli far passerella davanti a San Marco, ed un altro dirottarli a Marghera lungo il canale dei Petroli col serio rischio di finire in secca al primo sventolare di scirocco!

Eppure, la battaglia non è ancora vinta perché la strada delle “soluzioni provvisorie” ha stimolato gli interessi speculativi su queste aree di attracco ed hanno messo in moto finanziamenti da milioni di euro. E così, invece di pensare ad alternative praticabili che vagano le navi fuori della laguna ecco che nel dibattito politico appaiono soluzioni che sono peggiori del male: scavare altri canali, allargare quelli esistenti, realizzare grande strutture di attracco in aree che da decenni attendono, a contrario, progetti di bonifica. 

Proprio per questo il comitato Grandi Navi ha indetto una “due giorni” di mobilitazione ed ha annunciato un esposto alla Procura contro queste soluzioni “provvisorie “ che minacciano di diventare definitive e di trasformare la laguna in un “porto diffuso”. Venerdì pomeriggio, in mezzo al campo San Tomà (non c’è da pensare che il Comune conceda una sala ai No Navi) si è svolta una partecipata assemblea cittadina in cui è stato ribadito che la soluzione al problema delle Grandi Navi, oggi come dieci anni fa, è sempre la stessa: devono starsene fuori dalla laguna. 

Oggi, il comitato ha organizzato una “barcheggiata” verso l’approdo “provvisorio” (continuiamo a scrivere il termine virgolettato) di Fusina.

“Questa soluzione dovrebbe essere temporanea – hanno dichiarato gli ambientalisti -, ma a guardare quanti soldi si stanno investendo per sistemare tali aree e banchine sembrerebbe il contrario, nonostante nei giorni scorsi abbiamo visto quanti disagi e problematiche implica attraccare a Porto Marghera. Ma anche Marghera è laguna e noi le navi le vogliamo fuori da tutta la laguna”.

Donne e clima. Perché la battaglia per l’uguaglianza di genere è anche quella contro i cambiamenti climatici

 

Sono le donne a pagare il prezzo più alto dei cambiamenti climatici. Sono le donne a dover subire per prime le conseguenze delle inondazioni, della siccità e anche delle violenze e della guerre che la crisi climatica trascina inevitabilmente con sé. E sono sempre le donne, e in particolare quelle che vivono nei Paesi del sud del mondo, a dover fronteggiare in prima persona la scarsità di risorse alimentari di ecosistemi sempre più malati ed impoveriti per l’aumento della temperatura globale. 

“Sono molti i modi in cui il cambiamento climatico incide sulla vita di donne e ragazze – si legge in una ricerca dell’onlus Cesvi – . A cominciare dalla violenza di genere1 che aumenta nelle emergenze come cicloni, siccità, inondazioni o sfollamenti, e in contesti di risorse scarse: il compito di procurare alla famiglia acqua e legna infatti è affidato tipicamente alle donne e questo accresce esponenzialmente il rischio2. Anche le spose bambine sono un effetto collaterale del cambiamento climatico. Le famiglie ricorrono al matrimonio delle figlie ancora piccole come meccanismo di sopravvivenza3“.

Circa il 40% della popolazione mondiale, per un totale di oltre 3,3 miliardi di persone – si legge nell’ultimo rapporto dell’Ipcc – vive in Paesi altamente vulnerabili al cambiamento climatico.  Entro il 2030, l’aumento della temperatura globale potrebbe spingere sotto la soglia della povertà estrema altri 122 milioni4.

L’impatto dei cambiamenti climatici però non è lo stesso per gli uomini e per le donne – continua la ricerca del Cesvi – Queste ultime rappresentano il 70% dei poveri del mondo, 1,3 miliardi di persone, e dipendono in misura maggiore per il proprio sostentamento dalle risorse naturali5Nei Paesi a basso reddito il 50% delle donne è impiegato nel settore agricolo ma meno del 15% possiede la terra che lavora6“.

Non a caso, la stessa Un Women, il comparto dell’Onu dedicato alla parità di genere, ha voluto inserire questo 8 marzo nel più ampio ampio contesto della crisi climatica globale, sottolineando come la battaglia per fermare l’aumento delle temperatura non possa essere dissociata da quella per la parità di genere. 

La crisi climatica infatti, ha avuto come primo effetto quello di marginalizzare ancora di più le donne nei processi sociali. “Le donne nutrono il mondo eppure restano in gran parte escluse dai processi decisionali, dall’accesso a credito, servizi e tecnologie”, conclude la ricerca che ha raccolto una ricca serie di testimonianze di donne ai quattro angoli del mondo. 

Testimonianze come quella di Veronica Nerupe, allevatrice del villaggio di Nasuroi, in Kenya: ”Le bambine di 10, al massimo 12 anni, vengono promesse come spose a uomini adulti in cambio di bestiame. Le collane che portano al collo rappresentano la promessa della famiglia al futuro marito. Spesso una bocca in meno da sfamare è l’unica soluzione per salvare la figlia e il resto della famiglia dalla fame”

Foto Credits Roger Lo Guarro

1 – Climate Change and Gender based violence

2 –Why climate change fuels violence against women

3 – Addressing child marriage in humanitarian settings

4 – Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability,

5 – Women…In The Shadow of Climate Change

6 –Garantire sistemi alimentari sostenibili dipende dalla parità di genere

Storie di radio libere e indipendenti: dall’etere al digitale

EventiSeconda edizione a Padova del Gemini festival: tre giorni di incontri, workshop con il mondo delle emittenti. Un network che vuole essere sperimentazione di rete e condivisione di saperi

La radio con tutte le sue sfaccettature, dal podcast alla musica live, dalla diretta giornalistica al talk show, sarà la protagonista della seconda edizione del Gemini Festival che si svolgerà a Padova negli spazi del Centro Sociale Pedro da oggi a domenica 21. A far gli onori di casa, sarà la storica Radio Sherwood, fondata nel 1976, all’epoca dell’esplosione del fenomeno delle radio libere e alternative per dar voce alla contestazione. Quarantacinque anni dopo, Radio Sherwood non solo è sopravvissuta agli anni del cosiddetto «reflusso» ma si e ritagliata un ruolo sempre più da protagonista nella scena politica e culturale del nordest organizzando manifestazioni come lo Sherwood Festival.

DOPO LA PRIMA EDIZIONE svoltasi lo scorso settembre a Perugia, ospite di Lautoradio, il Gemini Festival farà quindi tappa a Padova con un programma ancora più ricco, forte di un crescente supporto di radio indipendenti che si sono aggiunte alle otto fondatrici del Gemini Network: Radio Sonar, Radio No Border, Radio Roarr, Radio Città Aperta, Radio Senza Muri, Radio Ciroma oltre alle già citate Lautoradio e Sherwood, che garantiscono la presenza di una sorta di «redazione diffusa» capace di coprire dal sud al nord l’intero territorio italiano, intrecciando storie ed esperienze. Il nome del festival e del network è stato scelto in ricordo di Corrado Gemini, attivista politico e teorico del copyleft e delle licenze Creative Commons sulle opere intellettuali. «Al contrario di quando credono alcune persone, oggi la radio è più viva che mai – ha spiegato Antonio Pio Lancellotti, direttore del sito Global Project, tra gli organizzatori del Gemini Festival – Il web ha spalancato nuovi spazi alle diffusione dei nostri contenuti. I nuovi strumenti digitali, come il podcasting, hanno allargato quegli orizzonti che prima erano confinati nell’etere. Un processo questo, che è in continua evoluzione ma che si sta dimostrando capace di aprire nuovi canali alternativi non solo di narrazione, ma anche di fruizioni di contenuti, di confronto e di organizzazione».

LA PANDEMIA e le conseguenti chiusure, hanno avuto un ruolo importante nell’accelerare questo processo. Non è un caso che la prima edizione perugina si sia svolta subito dopo la fine del primo lockdown. Ma se la prima edizione si era posta l’obiettivo di dare un segnale forte verso la ricerca di nuove forme di comunicazione in un momento difficile, l’edizione di quest’anno si colloca in una fase diversa, e per certi versi più contraddittoria della precedente. «Oggi ci troviamo in un momento in cui la comunicazione è completamente polarizzata – spiega Lancellotti -, e la stessa idea di “ripartenza” lascia meno margini a progetti come il nostro che fanno dell’indipendenza il proprio manifesto. Per questa ragione, le radio che si riconoscono nel Gemini Festival ribadiscono l’importanza di non fermarsi al singolo evento, ma di far emergere in esso l’espressione del lavoro che tutti i giorni, il Network svolge. Perché Gemini Network è innanzitutto sperimentazione di rete, vale a dire un costante scambio di competenze, condivisione di saperi, messa in circolo di pratiche ed di esperienze».

IL PROGRAMMA di questa edizione è ricco di eventi che spaziano dai laboratori ai dibattiti e alla musica dal vivo. La giornata odierna sarà dedicata al workshop sulla narrazione della crisi ecologica curato da Marco Stefanelli di Guide Invisibili. La sera appuntamento clou con le attiviste di Fem.In di Cosenza, che racconteranno le battaglie per il diritto alla salute vista da una prospettiva femminista e radiofonica. Sabato saranno due gli appuntamenti principali. Il primo con il dibattito sul diritto d’autore che avrà come protagonisti il giurista Simone Aliprandi e il fondatore di Patamu, Adriano Bonforti. Patamu è un registro online che genera una «prova d’autore» per qualsiasi opera creativa, tutelando gli autori e consentendo loro di pubblicare e condividere in sicurezza i propri lavori. Il secondo appuntamento avrà come tema l’identità della radio all’interno della cosiddetta «Era dei podcast». Tra i relatori Andrea Borgnino di Radio Rai e Jonathan Zenti di Internazionale.
Chiusura domenica con l’assemblea plenaria plenaria della rete di radio indipendenti per disegnare il percorso del Gemini Network e proporre i prossimi appuntamenti. Per accedere agli incontri sarà necessario il Green Pass o comunque un tampone negativo che potrà essere effettuato a prezzo di costo in una area predisposta del centro sociale.

Perché Bolsonaro voleva andare al Santo e perché era necessario rovinargli lo show

Secondo gli ultimi sondaggi raccolti in Brasile, la popolarità di Jair Messias Bolsonaro nell’ultimi 12 mesi è precipitata dal quasi 40 a sotto il 30%. Le cause di questo rapido e, ci auguriamo, irreversibile declino sono imputabili a due fattori principali: la gestione criminale della pandemia e la crisi economica che ha gettato in miseria fasce di cittadinanza che, sino a qualche tempo fa, si potevano considerare benestanti.

Per quanto riguarda la pandemia, il presidente brasiliano si è barcamenato sin dall’inizio dal negazionismo complottista ai famosi “trattamenti precoci” basati sull’uso di farmaci come l’idrossiclorochina e l’ivermectina. Trattamenti considerati inutili se non addirittura pericolosi dall’Oms e dalla comunità scientifica internazionale. Il risultato è che lo stesso rapporto sulla gestione della pandemia stilato dalla speciale commissione del parlamento brasiliano ha stimato che circa 606 mila brasiliani sono morti per una gestione definita criminale del Covid. Il senatore Renan Calheiros, tra i conduttori dell’inchiesta, ha dichiarato espressamente: "ho trovato le impronte del presidente nel malaffare” e Bolsonaro è stato ufficialmente incriminato per nove pesanti reati tra i quali figurano anche i crimini contro l’umanità. Come se non bastasse, Bolsonaro è ufficialmente indagato anche per altri due scandali relativi all’acquisto di vaccini, così come risultano indagati alcuni membri della sua famiglia ai quali il presidente, all’insegna del più puro nepotismo, aveva assegnato importanti incarichi.

La crisi sanitaria ha incentivato la profonda crisi economica che era già in atto ed ha causato un aumento dei prezzi che, su base annua, è stato stimato attorno al 10%. Intere fasce di cittadini che prima campavano con lavori precari o gestivano piccole aziende familiari, sono finiti ad ingrossare le file dei senza tetto.

Tutto questo ha infangato l’immagine di un presidente eletto in base alla promessa che, con l’aiuto di dio e di sant’Antonio avrebbe trasformato in nababbi tutti i brasiliani. Per non parlare del sostegno di una campagna di fake news come neppure Trump era riuscito a condurre. Cosa che, proprio come con l’ex presidente statunitense, ha portato ad una vera e proprio guerra tra lui ed i social, tanto che è stato approvato un decreto - non ancora convertito in legge - con l’intento di impedire la cancellazione dei suoi post sulle piattaforme che hanno accettato di moderare i contenuti col fact-checking.

È in questo contesto di profonda perdita di credibilità che Bolsonaro è venuto in Europa con l’intento di partecipare al G20 romano e successivamente alla Cop di Glasgow.

Per dirla come va detta, a Jair Messias del G20 non gliene poteva fregare di meno. E della Cop sul clima, meno del meno. Il vero motivo della sua comparsata europea era quello di recuperare credibilità nel suo Paese toccando i temi ai quali i brasiliani sono più sensibili come la migrazione e la religiosità. Per architettare l’operazione, Bolsonaro si è affidato all’amico Luis Roberto Lorenzato, deputato italiano eletto nella circoscrizione brasiliana (eh sì! L’Italia che è quel Paese dove non ti danno la cittadinanza e non ti fanno votare anche se ci risiedi e ci paghi le tasse da 10 anni, ma fanno eleggere onorevoli a gente che non parla neppure la nostra lingua ma ha un bisavolo italiano).

Tutto era stato orchestrato come la sceneggiatura di un film. Il presidente si fa vedere a braccetto con i “grandi” della terra, poi a spasso per le strade di Roma con la gente - migranti brasiliani ma anche cittadini italiani - che lo osannano come un campione olimpico. Le Tv brasiliane sparano questa spazzatura su tutti i canali. Nei social ufficiali del Governo, spopolano i post di Jair - che torna da vincitore nel Paese dal quale era partito, povero in canna, il suo bisnonno. Ai poster e alle consuete “mascherine” dedicate ai vari canali internet col presidente che sorride accanto alla scritta “il Brasile sopra tutto, dio sopra tutti” viene aggiunto: “L’Italia nel cuore”.

A questo punto, mancava solo la cittadinanza ad honorem. Per fargliela avere, Lorenzato si è affidato ad un altro deputato leghista eletto nel Veneto, Dimitri Coin, che si è fatto carico di perorare il conferimento dell’onorificenza all’amministrazione comunale di Anguillara. Incarico facile, perché il Comune è in mano alla Lega.
E proprio qui, arriva qualcuno a rovinargli la festa, al nostro Jair! E non è il presidio con tanto di sventolio di bandiere rosse in piazza De Gasperi, perché era già pronto a far da comparsa, nei pressi del municipio, un capannello di fedelissimi bolsonariani per permettere alle tv di filmare la “calorosa accoglienza” del ritorno a casa di Jair.

A rovinare lo show sono state solo e soltanto le attiviste e gli attivisti di Rise Up 4 Climate Justice che venerdì scorso hanno letteralmente smerdato la scena in cui il presidentissimo doveva esibirsi! Solo per questo la cerimonia non è stata svolta dove doveva svolgersi: nella sede del Comune di Anguillara. Bolsonaro e il suo seguito han dovuto saltare la tappa e passare direttamente al pranzo in una villa blindata. Nemmeno una passeggiata per una foto ricordo alla casa del bisnonno, ha potuto fare il "nostro" Jair!

E se l'avventura italiana è cominciata male, è finita ancora peggio. Il presidio indetto dal centro sociale Pedro e da altre realtà padovane a Prato della Valle, resistendo alle violente cariche ed agli idranti, ha completato l’opera, impedendo a Bolsonaro di entrare in un luogo famoso e venerato in tutto il Sudamerica come la basilica di Sant’Antonio che, ricordiamolo, è il veneratissimo patrono del Brasile! Anche i frati del Santo, va detto, ci hanno messo del loro, rifiutandosi di incontrare Bolsonaro e sottolineando in un comunicato “le strumentalizzazioni della religione, le devastazione ambientali e l’aggravarsi di una grave crisi sanitaria” imputabili al presidente brasiliano, ospite sgradito.

Una bella botta per un uomo che ha fatto della religione e di sant’Antonio i cardini della sua azione politica per giustificare, in nomine dei, il sacco dell’Amazzonia e il conseguente genocidio dei popoli originari! E dire che Bolsonaro ha espressamente evitato la Cop di Glasgow - dove pure era atteso - proprio per non essere contestato!

Non c’è che dire: il ritorno di Jair Messias Bolsonaro in terra patria sarà il ritorno di uno sconfitto. Tenuto anche presente che, intanto lui che cercava inutilmente di mettere piede in basilica per implorare l’aiuto del Santo, in Scozia i delegati brasiliani cedevano alle pressioni internazionali e firmavano l’accordo per mettere fine alle deforestazioni. Sì, certo, è il solito “bla, bla, bla” nel più puro e consolidato stile delle Cop, ma ai suoi amici latifondisti questa nuova presa di posizione non ha fatto piacere. Jair aveva promesso loro ben altro. Ma si vede che stavolta a sant’Antonio son girate le scatole!

Bolsonaro non è gradito, in Veneto show annullato

La visita. Ad Anguillara il presidente brasiliano costretto a disertare il comune. La cittadinanza onoraria della sindaca leghista consegnata in un ristorante. E poi va Padova senza farsi vedere

 

Niente passeggiata commemorativa per le strade del paesello che ha dato i natali a suo bisnonno Vittorio, emigrato in Sudamerica nel lontano 1888, per Jair Messias Bolsonaro. Il presidente del Brasile ha deciso all’ultimo momento di rinunciare alla cerimonia di conferimento della cittadinanza, prevista nella sede del Municipio di Anguillara Veneta, per evitare di transitare in mezzo ad una piazza pronta a contestarlo.

GIÀ ALLE DIECI DI MATTINA, nonostante il freddo e la pioggia battente di una regione in allarme giallo, almeno 200 manifestanti si erano radunati in piazza De Gasperi per attendere l’ospite non gradito. Bandiere di Europa Verde, Cgil, Rifondazione, Anpi e anche tante bandiere dei Sem Terra e del Brasile, sventolate dai migranti provenienti dal Paese sudamericano. Dietro ad un grande striscione con la scritta «Bolsonaro vergogna del Veneto» che ribaltava quello dietro al quale si erano fatti immortalare i consiglieri regionali leghisti «Bolsonaro orgoglio veneto» nei giorni della sua elezione a presidente anche una rappresentanza di consiglieri dell’opposizione.
Senza bandiere e senza striscioni, ma non per questo meno rilevante, la partecipazione di alcuni frati comboniani che hanno ricordato i loro martiri come padre Ezechiele Ramin e don Ruggero Ruvoletto, assassinati per aver difeso le popolazioni originarie d’Amazzonia. Quella stessa Amazzonia che Bolsonaro ha consegnato ai latifondisti e alle multinazionali dei fossili, facendo degli indigeni carne da macello. «Conferire la cittadinanza a uno come Bolsonaro che proprio pochi giorni fa è stato deferito per crimini contro l’umanità da una commissione parlamentare del suo stesso Paese, è uno schiaffo ai valori della giustizia ecologica e sociale ha urlato Paolo Perlasca, portavoce di Europa Verde -. Soltanto con la sua gestione della pandemia, tra negazioni, false cure a base di idrossiclorochina e ritardi nella vaccinazione degli indigeni, ha causato 606 mila vittime! Magari la cittadinanza gliela potevano conferire domani (oggi, ndr) che è il giorni dei morti!».

IL PRESIDENTE BRASILIANO col suo seguito personale e i deputati leghisti Dimitri Coin e Luis Roberto Lorenzato, gli artefici dell’operazione, si è recato direttamente al ristorante di Villa Arca del Santo dove ha pranzato con la sindaca di Anguillara, Alessandra Buoso, e alcuni discendenti della famiglia Bolsonaro, suoi lontani parenti. Qui, «felice e onorato per l’onore ricevuto», Jair Bolsonaro ha ringraziato la sindaca per la cittadinanza e un gruppo di suoi entusiasti fedelissimi che lo hanno osannato davanti ai cancelli di Villa Arca.

Niente osanna per il presidente a Padova dove, nel primo pomeriggio, circa 500 attiviste ed attivisti dei centri sociali e di altre realtà cittadine, si sono dati appuntamento a Pra’ della Valle con l’intenzione di raggiungere il sagrato della Basilica del Santo dove Bolsonaro aveva annunciato che si sarebbe recato per pregare Sant’Antonio, patrono del Brasile. Il corteo è stato fermato da un cordone di forze dell’ordine. Manganellate, idranti, cariche violente, scene da guerriglia urbana e unattivista fermata è il bilancio degli scontri.

FREDDA COME L’ACQUA degli idranti, l’accoglienza che il presidente ha ricevuto dalle autorità civili e religiose della Città del Santo. Il sindaco, Sergio Giordani (a capo di un’amministrazione di centrosinistra), ha fatto sapere che aveva «altro da fare». Il vescovo Claudio Cipolla e il rettore della


basilica francescana, Antonio Ramina, hanno diffuso un comunicato in cui, proprio in virtù del forte legame costruito dai migranti che dalla terra veneta sono andati in Brasile, e «per la presenza missionaria diocesana e di diverse famiglie religiose che vivono il loro servizio in quel Paese, non possiamo dimenticare le testimonianze pagate con il sangue e neppure la sintonia e l’amicizia personale ed ecclesiale con i vescovi del Brasile, che proprio in questi mesi stanno denunciando a gran voce violenze, soprusi, strumentalizzazioni della religione, devastazione ambientali». La protesta trasversale di Padova costringe così il presidente brasiliano, che ieri ha snobbato l’apertura di Cop26 preferendo lo show veneto, a visitare la Basilica solo nel tardo pomeriggio e in forma riservatissima, entrando da un ingresso secondario per non essere visto.
Vedi gli articoli precedenti
Stacks Image 16