Quella che va in scena in Qatar non è la festa del calcio ma del capitalismo fossile
22/11/2022EcoMagazine, Global ProjectLe associazioni per i diritti umani hanno denunciato la morte di 6500 lavoratori, per lo più indiani, nepalesi e bangla, per la realizzazione di questo Mondiale di sangue. Le autorità del Qatar hanno risposto che i decessi sarebbero “solo” 35, mentre gli altri decessi sarebbero dovute a non meglio specificate cause naturali. Cause naturali come quel disgraziato che è schiattato in camerata dopo turni di lavoro di 20 ore sotto il sole del deserto E la Fifa ci ha pure creduto. O ha preferito far finta di crederci. Ma siano più di seimila o “solo” una trentina, è innegabile che il rispetto dei diritti umani – per non parlare di quelli delle donne! – abbiano ancora un lungo percorso da fare prima di essere presi in considerazione in questo Paese.
La domanda allora è questa: perché assegnare i Mondiali di calcio proprio al Qatar? La risposta è semplice: per i soldi. Tanti, tanti soldi. Questo che sta andando in scena nel Paese degli sceicchipasserà alla storia come il mondiale delle bustarelle e degli investimenti miliardari. Che il calcio non fosse più solo passione e pallone, ma un giro d’affari da… sceicchi lo avevamo capito da tempo. Il Qatar si è solo inserito nell’andazzo generale investendoci denaro a badilate. Non ha dovuto faticare più di tanto a far “dimenticare” ad una Fifa che gli manco solo di quotarsi in borsa, i lavoratorimorti ammazzati nella costruzione degli stadi e pure a far spostare spostare i calendari dei campionati di tutto il mondo perché, sotto il sole del deserto, si può giocare solo a Natale. E anche a proibire, pena espulsione immediata, una semplice fascia arcobaleno attorno alla braccia del capitano.
E’ cominciato così il Mondiale più ricco di tutti i tempi. Secondo il sito Money – che di soldi se ne intende! – la Fifa incasserà per l’intera kermesse la bellezza di 6,5 miliardi di dollari. Tanto per fare un esempio, l’ultimo Mondiale ha portato nelle casse della federazione “solo” 4 miliardi di dollari. E poi, ci sono gli indotti per le nazionali partecipanti, anche questi in forte crescita, gli sponsor, i diritti televisivi, il marketing come la vendita dei biglietti e dei gadget.
“In totale – leggiamo su Money – l’evento muoverà qualcosa come 17 miliardi di dollari, più o meno il costo di una manovra finanziaria!” E continua: “Di fronte a queste cifre, ecco che organizzatori e Federazioni hanno chiuso più di un occhio sulle accuse piovute negli ultimi anni sul Qatar”.
Insomma, anche se sul campo prenderà – come mi auguro – una vagonata di gol, la nazionale del Qatar il suo Mondiale lo ha già vinto: quello dei soldi. Quello del greenwashing invece, Il Qatar se lo sta giocando con la Cop egiziana, tanto per ricordare un altro Paese dove i diritti umani sono carta straccia.
L’ambiente infatti è la seconda vittima sacrificale di questo Mondiale.
I colleghi giornalisti che stanno seguendo le partite non hanno potuto esimersi dal partecipare ai tour organizzati dalle autorità del Qatar che gli ha fatto ammirare pannelli fotovoltaici ultimo modello, eleganti auto elettriche ed altre meraviglie tecnologiche per dimostrare quanto il loro Paese sia “verde”. Nei comunicati ufficiali, il Qatar fa un gran vantarsi di aver compensato tutte le sue poche emissioni con i famosi crediti di C02. A parte tutte le critiche che potremmo fare sul sistema delle compensazione, viene facile immaginare come uno Stato che è una cassaforte di dollari e un pozzo di petrolio, come il Qatar, non faccia nessuna fatica ad acquistare crediti dai Paesi messi alla fame da quegli stessi dollari e petrolio. Ma anche a voler accettare il discutibile sistema delle compensazioni, la pretesa dei qatariani che si vantano di aver organizzato il primo mondiale neutrale dal punto di vista delle emissioni è una balla stratosferica. Basta pensare ai sette super stadi costruiti ex novo con tanto di infrastrutture a sostegno, il mantenimento del manto erboso sotto il sole del deserto che richiedono oltre 10mila litri d’acqua al giorno, i semi fatti arrivare dagli Stati Uniti in contenitori a climatizzazione speciale.
Wired, in un capitolo dal chiaro titolo “Specchietto per le allodole” ha spiegato che il Mondiale del Qatar “in totale produrrà circa 3,6 milioni di tonnellate di anidride carbonica, secondo il rapporto ufficiale della Fifa sulle emissioni di gas serra. Si tratta di 1,5 milioni di tonnellate in più rispetto alla precedente edizione in Russia del 2018”.
Il fatto è che i “conti” sulle emissioni li hanno tirati giù gli sceicchi, utilizzando evidentemente lo stesso pallottoliere con il quale quantificano i diritti umani e i morti sul lavoro, senza che nessun organismo terzo ci abbia potuto metter mano. “Gli organizzatori – sottolinea sempre Wired – hanno creato un proprio sistema, chiamato Global carbon council, sollevando preoccupazioni in merito alla trasparenza e alla legittimità.”
Anche associazioni come Carbon Market Watch hanno evidenziato tutte le manchevolezze delle ottimistiche dichiarazioni degli sceicchi sulle reali emissioni del Paese: ”L’indagine che abbiamo condotto sulle prove a disposizione getta seri dubbi su queste affermazioni, che probabilmente sottostimano i veri livelli di emissioni e l’impatto climatico del torneo”. Soltanto le emissioni imputabili alla costruzione degli stadi, secondo Carbon Market Watch, sarebbero sottostimate di almeno di otto volte.
In altre parole, il Qatar se ne frega dell’ambiente pressapoco come se ne frega dei diritti umani. Il che non impedisce che anche il nostro Paese, ci faccia dei gran affari. Anche grazie ai Mondiali, lo scambio commerciale dell’Italia verso il Qatar ha registrato nei primi otto mesi dell’anno in corso, un aumento del 140% rispetto agli stessi mesi del 2021, raggiungendo i 4 miliardi di dollari. Esportiamo abbigliamento di alta moda, pregiati prodotti alimentari, macchine e soprattutto… armi! Voce questa che nei bilanci viene sempre etichettata col termine di “ tecnologia di difesa”! Tanto per non farci mancare la giusta dose di ipocrisia. Ma se l’Europa questo inverno potrà rimanere al caldo dei termosifoni, ha spiegato l’Aie, Agenzia internazionale dell’energia, lo farà soprattutto grazie alle esportazioni di gas e di petrolio dal Qatar. Questo è anche il motivo per il quale, al di là di qualche ammirevole presa di posizione individuale – come la nazionale tedesca i cui giocatori si sono fatti fotografare con le mani davanti alla bocca -, i Governi europei si sono ben guardati dall’esprimere severi giudizi o dal prendere drastiche prese di posizione su questo Mondiale della vergogna. Italia compresa che, tramite l’ambasciata di Doha, ha inviato i migliori auguri alle autorità qatariane per la riuscita di questo Mondiale modello rammaricandosi solo di non poter essere presente con la nostra nazionale.
Mondiale che, come avrete intuito, col calcio, perlomeno con quel calcio che ci aveva fatto innamorare da ragazzini, non ha più niente a che fare. Ce lo spiega, efficace come una sua indimenticabile pedata, una leggenda del calcio, quello vero: Éric Cantona. “Siamo onesti: questa Coppa del Mondo non ha senso! Peggio ancora, è un abominio! Il Qatar non è un Paese di calcio! Non c’è fervore, non c’è sapore. Un’aberrazione ecologica, con tutti gli stadi climatizzati. Che follia, che stupidità! Ma soprattutto un orrore umano, con migliaia di morti per costruire questi stadi che serviranno solo per divertire il pubblico presente per due mesi. L’unico senso di questo evento – e lo sanno tutti – è il denaro!”
Dopo il lavoro, i diritti, la socialità e l’ambiente, il capitalismo si è mangiato anche il pallone.
Una Cop al gusto di Coca Cola
7/11/2022EcoMagazine, Global ProjectRicordiamo che l’accordo di Parigi, nella cop 21, poneva l’obiettivo di limitare l’aumento delle temperature sotto i 2° C rispetto all’era preindustriale, impegnandosi per rimanere prudentemente dentro il grado e mezzo. Oggi, all’apertura della Cop 27 in Egitto, l’obiettivo prudenziale del grado e mezzo è già andato a farsi benedire da un pezzo. E anche l’aumento di soli due gradi è lontano. Il Rapporto sul Divario, (Gap) che l’Agenzia per l’Ambiente dell’Onu compila ogni anno per monitorare l’efficacia degli impegni delle nazioni del mondo sulla questione del cambiamento climatico, indicano un probabilissimo aumento della temperatura di almeno 2,8° C entro la fine del secolo. “Il fatto è che la crisi climatica richiederebbe una rapida trasformazione delle società – scrive il meteorologo Luca Lombroso -. Sono necessari infatti enormi tagli delle emissioni di gas serra entro il 2030: il 45% rispetto per arrivare a 1,5°C e il 30% per stare entro 2°C. Esistono soluzioni per trasformare le società, ma è giunto il momento di un’azione collettiva e multilaterale”. Vien da chiedersi se questa azione collettiva e unilaterale invocata dall’ambientalista possa venire da una Cop targata… Coca Cola! Proprio così. Il colosso multinazionale della celebre bibita frizzate sarà lo sponsor degli incontri di Sharm El Sheikh!
“Sono stata una delegata alla Cop 26 di Glasgow – ha raccontato la scienziata ed ambientalista londinese Georgia Elliott-Smith — Quasi tutti i giorni mi sentivo disperata, alcuni giorni piangevo. L’infiltrazione delle multinazionali nella conferenza era nauseante: i CEO delle aziende più grandi inquinanti del mondo riuniti, a fare pressioni sfacciate sui politici per proteggere i loro interessi e gonfiare i loro profitti. Quest’anno è anche peggio: la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ha annunciato che Coca-Cola sarà lo sponsor aziendale della conferenza globale sul clima, Cop 27”. L’ambientalista inglese ha lanciato una petizione contro questa operazione di sfacciato greenwashing che ha ottenuto quasi 300 mila firma ma senza per questo riuscire ad annullare la suddetta sponsorizzazione.
Non c’è niente da fare: inquinatori e petrolieri continueranno a farla da padroni anche a Cop 27 e i Governi dovranno mediare le loro richieste con quelle degli scienziati e degli ambientalisti.
D’altra parte, anche le aspettative degli ecologisti sono assai basse su una Cop come questa che non fa neppure notizia. In discussione ci sono solo alcune procedure burocratiche e non si parlerà di ulteriori limiti alle emissioni o, men che meno, di impegni vincolanti per i Governi. Il nostro Governo poi, andrà a Sharm El Sheikh solo per “fare il tifo per il clima che cambia”, come titola l’Huffington Post. Dopo dieci anni di assenza, un premier italiano – la nuova presidente (declinato al femminile, toh!) del Consiglio, Giorgia Meloni – parteciperà ad una Cop ma soltanto per sostenere la necessità di rallentare l’uscita dalle energie fossili. Come dire che era meglio se restava a casa.
Il fatto è che, come abbiamo scritto in apertura, il capitalismo ha imparato a giocare d’attacco. Nessuno oggi nega la necessità di contrastare i cambianti climatici ma la risposta che viene data è che bisogna tener conto della guerra, della crisi economica, delle bollette, della pandemia, dei rave party (questo solo in Italia) e della sacra difesa dei confini nazionali… Tutte questioni che, in analisi, dovrebbero spingerci ad agire ancora più drasticamente verso un rapido cambio di rotta perché sono tutti problemi legati al clima e all’energia, ma il gioco del capitalismo è ancora quello, dividi et impera, di negare ogni correlazione tra di loro e usarle come scusante per rimandare ogni azione.
Eppure, dovremmo chiederci tutte e tutti, è possibile intraprendere un serio percorso che ci porti ad uscire dal capitalismo fossile senza rispettare i diritti, la democrazia e la libertà? Correttamente, gli ambientalisti parlano di “giustizia climatica” perché, senza giustizia sociale, l’ambientalismo è solo giardinaggio.
Non è quindi nemmeno un caso se questa disgraziatissima Cop 27 si svolgerà in una Paese che i diritti umani non li ha mai presi seriamente in considerazione. L’Egitto è uno Stato di polizia. Anche senza voler ricordare la tragica vicenda di Giulio Regeni, nelle sue carceri sono rinchiusi e seviziati almeno 60 mila prigionieri politici. L’associazione Human Right Watch ha denunciato alla Bbc che nelle prigioni egiziane le torture vengono praticate in maniera sistematica e organizzata seguendo una vera propria “catena di montaggio”.
Eppure i potenti della terra che andranno a Sharm El Sheikh, stavolta non per una vacanza o per fare immersioni, ma per un vertice internazionale, fingeranno di ignorare tutto questo e applaudiranno qualche pannello fotovoltaico che gli organizzatori del summit mostrerà loro. Agli ambientalisti, anche a quelli internazionali, è vietato fare domande scomodo ed anche organizzare manifestazioni perché il regime ha paura che si trasformi in una protesta contro il premier Abdel Fattah al-Sisi. “L’Egitto di Al-Sisi ha messo su un grande spettacolo di panelli fotovoltaici e cannucce biodegradabili, ma in realtà il regime imprigiona gli attivisti e vieta la ricerca. Gli ambientalisti non dovrebbero stare al gioco” scrive sul Guardian Naomi Klein. Greta Thunbergl’ha presa in parola e, per la prima volta, ha scelto di rimanere a casa.
Addirittura, per proteggere le attiviste e gli attivisti che scenderanno a Sharm nei giorni del vertice, la rete Climate Legal Defense ha approntato una speciale assicurazione, dei numeri di emergenza ed una guida per difenderli da eventuali imputazioni legali. Assicurazione che sarà utile soprattutto a chi viene dai Paesi africani come la Nigeria. Paesi che sono i primi a pagare gli effetti dei Cambiamenti Climatici ma ai quali l’Egitto non darà nessuna voce. “L’Africa contribuisce solo al 4% alle emissioni globali di gas serra contro il il 19% degli Usa e il 13% dell’Unione Europea – spiega al Fatto Quoitidiano l’attivista Goodness Dickson dei Fridays for Future della Nigeria, uno dei tanti che non potrà esserci al vertice perché l’Egitto non gli ha fornito il pass di partecipazione – eppure siamo noi a pagarne gli effetti. Un milione di persone sono rimaste senza casa a causa delle inondazioni che continuano a ripetersi. Non distruggono solo gli edifici, ma anche i campi e i raccolti, ci portano alla fame, alla carestia ed a migrare in altri Paesi. Mi chiedo, perché non possiamo far sentire la nostra voce alla Cop?”
Con Dickson sono rimasti fuori della porta come sgraditi ospiti tantissimi ambientalisti africani. Vuoi per motivi economici (gli hotel a Sharm costano un occhio fuori della testa), vuoi per motivi politici. Il risultato è che non ci sarà nessuna rappresentanza di attiviste e attivisti provenienti da Congo, Sudafrica, Tanzania, Mali, Marocco Somalia e altri Paesi africani. Non è solo colpa dell’Egitto. Molti, pur avendo ottenuto i documenti e racimolato il denaro grazie a Ong europee, sono stati costretti a rinunciare al viaggio per paura di ritorsioni nei confronti delle loro famiglie o di essere imprigionati una volta tornati a casa.
“Vale più l’ambiente o la libertà? – Si chiede il giornalista Nicolas Lozito nella sua preziosa newsletter ‘Il Colore Verde’ -. La battaglia per sistemare il clima del pianeta, per salvare vite umane, animali e vegetali… può fare a meno dei diritti e della democrazia? Secondo me no. Tra l’ambiente e la libertà, io risponderò sempre ‘la libertà’, ben consapevole di indispettire molti e far arrabbiare chi cerca realismo e concretezza dei risultati. Il cambiamento climatico non è un fatto tecnico-scientifico: è anche politica, economia, società, idee, paure e sogni. Non esiste giustizia climatica senza democrazia”.
Venezia, residenti contro il ticket di Brugnaro: «Serve solo a far schei»
24/09/2022Il ManifestoTURISMO MORDI E FUGGI. Assemblea pubblica alla pescheria di Rialto. Ingresso in città da 2 a 12 euro al giorno: «È incostituzionale, serve invece un tetto alle presenze»
Marianna è nata a Venezia e a Venezia si ostina a vivere nella sua casa a Sant’Aponal, nel cuore del sestiere di San Polo. Il suo appartamento è assediato da B&b e altre locazioni turistiche come un Fort Apache di hollywoodiana memoria: «Ne ho 12 dietro casa, 10 di fianco, 2 in calle di fronte e pure uno sul pianerottolo – spiega – Nelle ore di punta, uscire di casa diventa una impresa da tutti i turisti che ci sono in calle». La sua è una delle tante voci che mercoledì sera, sotto le volte della Pescheria di Rialto, si sono levate per denunciare il malessere di una città malata di overturism. Una malattia che la giunta del sindaco Luigi Brugnaro pretenderebbe di curare imponendo un ticket di accesso alla città. «Ma per limitare l’afflusso di turisti ci vuole un limite e non un prezzo», contesta Marianna.
Il contributo di ingresso nella città insulare, più volte vantato dalla giunta fucsia come una panacea per tutti i mali di Venezia, dovrebbe entrare in vigore a gennaio. Usiamo il condizionale perché la delibera deva ancora passare per il consiglio comunale e la sua discussione in ordine del giorno viene continuamente posticipata. Neppure di un regolamento attuativo c’è traccia. Stando alle dichiarazioni di sindaco e assessori, il costo del biglietto dovrebbe variare da 2 a 12 euro a seconda dei giorni della settimana: più c’è flusso turistico e più il biglietto costa. In questo modo, sempre secondo il sindaco, i visitatori sarebbero incentivati a venire in città quando c’è meno gente per risparmiare qualche euro. Esenti i residenti, i lavoratori, gli studenti e i turisti con una prenotazione in un hotel che hanno già pagato la tassa di soggiorno. Esenti anche i familiari e gli amici in visita per i quali il residente dovrebbe attivare uno speciale Q Code di acceso su una app.
Gli ultimi veneziani che ancora resistono tra calli e campielli, l’hanno già chiamata con tragica ironia la «tassa sui corni» e si chiedono: «Se invito a casa mia l’amante, devo prima comunicarlo ai vigili?». Battute a parte, rimane l’umiliazione per un residente di dover mettersi in fila e superare un tornello esibendo un Q Code per poter tornare a casa la sera dopo una giornata di lavoro in terraferma. Oppure di non poter ricevere visite a sorpresa di amici o familiari e di dover organizzare anche una semplice festa di compleanno preparando le certificazioni per gli accessi. Senza contare gli immancabili “furbetti” della situazione che avranno mano libera nel certificare come «amici» anche comitive da 100 persone per mettere in tasca qualche euro.
«La mia impressione è che la giunta si sia infilata in una situazione di cui non vede l’uscita – spiega Aline Cendon, presidente del Gruppo 25 Aprile che è stato tra gli organizzatori dell’assemblea a Rialto – . Sono talmente superficiali che non hanno consultato né il garante della privacy né l’avvocatura civica. Questo provvedimento viola apertamente la Costituzione che sancisce la libertà di circolazione dei cittadini. Il provvedimento inoltre ha sollevato forti proteste non solo dei residenti ma anche di chi viene in città per lavorare. Non ultimi gli avvocati, spaventati che i loro clienti debbano ottenere un pass per recarsi nel loro studio. Brugnaro, lo si sa bene, vede Venezia come uno sportello di bancomat e la sua idea è quella di monetizzare il turismo realizzando una sorta di Disneyland per ricchi dove i residenti sono solo d’impiccio all’alberghizzazione selvaggia alla quale ha sempre concesso mano libera».
«Questo balzello non c’entra niente con una politica di gestione dei flussi: c’entra con la politica del far schei che tanto piace al sindaco – commenta Gianfranco Bettin, consigliere della lista Verde Progressista – c’entra con la mercificazione ulteriore della città: dopo la storia, l’arte e la bellezza, si tenta di mercificarne anche il disagio. Il ticket non solo è inutile ma anzi rappresenta l’alibi per continuare a subire l’eccesso turistico fingendo di fare qualcosa e, magari, lucrandoci sopra. Occorre invece definire una soglia limite di presenze da rispettare. Così la città si difenderebbe dal sovraffollamento e dalla monocultura turistica restando libera e non a disposizione di chi paga».
Stage di Stato
18/09/2022Il Manifesto«Non è una fatalità ma un omicidio. Basta scuola-lavoro»
Scuola-lavoro, muore un altro ragazzo: colpito da una lastra
18/09/2022Il ManifestoMorti bianche L’incidente vicino Venezia. La vittima aveva 18 anni e studiava in un istituto tecnico
Un’altra giovane vittima, un altro studente morto durante uno stage in azienda. L’incidente è accaduto ieri a Noventa di Piave, in provincia di Venezia, verso le 5 del pomeriggio nella ditta Bc Service, specializzata nella lavorazione del metallo. La vittima è Giuliano De Seta, un ragazzo di 18 anni di Ceggia.
Era studente di un istituto tecnico di Portogruaro e seguiva uno stage lavorativo per maturare i crediti per il diploma. Secondo le prime ricostruzioni dei carabinieri, l’incidente è avvenuto poco prima della chiusura dell’azienda: il giovane è rimasto ucciso da una lastra di metallo caduta da un cavalletto che gli ha schiacciato le gambe. Inutili i soccorsi. Il ragazzo è morto pochi minuti dopo. Sul posto è intervenuto anche lo Spisal, il Servizio prevenzione igiene sicurezza ambienti di lavoro dell’Ulss locale, i cui tecnici stanno cercando di mettere a fuoco la dinamica della tragedia.
L’incidente che ha ucciso Giuliano è avvenuto a poca distanza da quello capitato il 21 gennaio scorso al giovane Lorenzo Parelli, anche lui schiacciato da una putrella mentre eseguiva un lavoro di carpenteria metallica nell’azienda meccanica Burimec, nella zona industriale di Lauzacco, in provincia di Udine. Anche Lorenzo stava seguendo un progetto di alternanza scuola-lavoro e studiava nell’Istituto superiore Bearzi di Udine, gestito dai salesiani.
Lorenzo e Giuliano non solo le sole vittime di incidenti avvenuti durante gli stage obbligatori in azienda, previsti dalla riforma del 2015 (la cosiddetta «Buona scuola») . Il 14 febbraio scorso è morto il 16enne Giuseppe Lenoci, impegnato in uno stage in una impresa termoidraulica di Fermo, nelle Marche, mentre era a bordo di un furgone dell’azienda. Ancora più lunga la lista dei ragazzi feriti in questi stage obbligatori, alcuni dei quali hanno riportato pesanti traumi.
«L’alternanza scuola-lavoro non è altro che un lavoro non retribuito deregolamentato e che può durare anche due mesi. Uno sfruttamento che ingrassa le imprese di produzione e di servizi», ha commentato Sergio Zulian dell’Adl Cobas del Veneto. In questi stage, spiega il sindacalista, «la sicurezza è un optional e a farne le spese sono soprattutto gli studenti in stage che hanno meno esperienza dei lavoratori. Con la scusa di imparare il mestiere, i ragazzi non solo vengono sfruttati ma viene insegnato loro che è giusto così: lavorare è una fortuna per pochi privilegiati e devono accettare quello che viene loro offerto senza stare a sindacare sui diritti salariali e contrattuali».
L’Adl Cobas propone di «sostituire l’alternanza scuola-lavoro con l’alternanza lavoro- scuola», conclude Zulian. «Ai lavoratori va data la possibilità di studiare e di migliorare la loro formazione professionale frequentando corsi culturali negli orari di lavoro».
Sulla tragedia di Noventa di Piave interviene anche il leader Pd Enrico Letta: «Morire sul lavoro a diciotto anni per uno stage: una tragedia che lascia attoniti, agghiacciati. Non può succedere. Non deve succedere».
Venezia, cariche contro l’onda verde
13/09/2022Il ManifestoFuori concorso Alla 79esima Mostra del Cinema irrompono gli attivisti climatici. Fermati a pochi metri dal Tappeto Rosso. La polizia usa gli idranti: colpita anche una locandina del film Siccità
Cariche, manganellate e idranti sotto i riflettori della 79esima Mostra del Cinema di Venezia. Un imponente cordone di polizia in assetto antisommossa ha impedito alle attiviste e agli attivisti del Climate Camp di raggiungere il Tappeto Rosso e portare la crisi climatica sotto le luci della ribalta.
Tre anni fa un nutrito gruppo di ambientalisti riuscì a occupare la passerella delle Stelle con un’azione alle prime luci del giorno e a resistere sino all’arrivo del corteo del Climate Camp. Nei due anni successivi, la pandemia impedì l’organizzazione del meeting ambientalista che è stato riproposto solo quest’anno, sempre al Lido di Venezia e sempre in concomitanza con la Mostra cinematografica. Cinque giorni densi di dibattiti e incontri, da mercoledì 7 a oggi, domenica 11 settembre, con personalità del calibro di Vandana Shiva, Andreas Malm e Mario Alberto Castillo Quintero dell’Asamblea de pueblos indigenas, organizzato da Rise Up 4 Climate Justice e Fridays For Future Venezia. Centinaia di partecipanti provenienti da tutta Italia e anche da Paesi Europei.
Ieri pomeriggio, era la giornata della Climate March: un corteo colorato e chiassoso che si è ritrovato partito alle 17 dal centrale piazzale Santa Maria Elisabetta: in testa una grande sfera verde e azzurra a simboleggiare il nostro pianeta, l’unico che abbiamo a disposizione, e tante bandiere al vento: da quelle dei Fridays For Future a quelle dei No Navi che a Venezia non mancano mai, sino agli striscioni dei comitati contro l’inceneritore di Fusina.
Il corteo si è mosso pacificamente al ritmo dei tamburi suonati dagli attivisti fiorentini del collettivo di fabbrica Gkn. Clima, diritti, lavoro: sono tutti aspetti della medesima lotta contro un sistema economico fallimentare. «Non è la crisi del clima ma la crisi di un sistema colonialista che ha mercificato la terra e i beni comuni in nome dell’interesse di pochi – dice Mario Alberto Castillo Quintero -. Non è la crisi del clima ma la crisi di una politica che non riesce più a governare i cambiamenti e a costruire una valida alternativa a potere della finanza mondiale». Gli unici partiti ad aver aderito alla manifestazione sono stati Alleanza Verdi Sinistra e Unione popolare le cui bandiere sventolavano in fondo al corteo.
«Uno scenario davvero desolante questa campagna elettorale alla quale abbiamo la sventura di assistere – dice al microfono un’attivista napoletana della Terra dei Fuochi -. In piena crisi climatica ci tocca sentire politici che parlano di rigassificatori come di una scelta compatibile con l’ambiente». «Tre anni fa, quando abbiamo occupato il tappeto rosso – racconta Sebastiano dei Fridays For Future di Venezia – c’era ancora qualcuno che negava l’evidenza scientifica dei cambiamenti climatici. Oggi queste stesse persone hanno adottato una tecnica diversa: far passare le peggiori scelte per il clima come ecosostenibili. Un greenwashing che sta cercando di far passare anche il nucleare come una soluzione ecologica. Questo è quanto volevano denunciare portando la questione della giustizia climatica sotto i riflettori delle mostra del cinema. Le cariche della polizia ce lo hanno impedito ma non possono impedirci di continuare a lottare: ricordiamo a tutte e tutti lo sciopero mondiale per il clima che i Fridays For Future hanno proclamato per il prossimo 23 settembre. È una lotta alla quale non possiamo rinunciare perché non abbiamo possibilità di scelta. Non abbiamo un pianeta B».
A pochi metri dal Tappeto Rosso, il corteo è stato fermato dal cordone di polizia. Inutile ogni tentativo di mediazione. Non è stato permesso neppure a una piccola delegazione di avvicinarsi all’entrata della Mostra del Cinema e l’unica risposta delle forze dell’ordine sono state le cariche e gli idranti. Ironia della sorte, l’acqua ad alta pressione delle pompe ha staccato da un muro la locandina del film di Paolo Virzì che si intitola Siccità.
Foto di Stian Rampoldi
La siccità tra cambiamenti climatici e quotidiane emergenze
25/06/2022EcoMagazineMai così a secco. Il centro e il sud d’Italia sono in allarme rosso. Le Regioni del nord sono già al collasso e si concretizza sempre di più l’ipotesi di un razionamento idrico senza precedenti in queste proporzioni e in aree così vaste. Ma per il Governo la colpa è tutta delle avverse condizioni atmosferiche e di cambiamenti climatici, il ministro della (non) transizione ecologica, Roberto Cingolani, non vuole proprio sentir parlare, impegnato com’è a cercare petrolio e gas, ed a rallentare il passaggio alle rinnovabili. Più comodo invocare l’”emergenza”, concetto utilissimo per giustificare tutti i mancati interventi che ci hanno portati al disastro. E pazienza se il trend era giù intuibile dalle sempre più frequenti siccità che hanno attanagliato il Paese negli ultimi anni, come quella del 2003 o del 2017. I media danno ampio spazio alle preoccupazioni – reali – degli agricoltori, alle dichiarazioni – discutibili – di politici più avvezzi ad agitare paure immaginarie che ad affrontare problemi veri, e ad arcivescovi, come quello di Milano, che fanno il loro mestiere e si affidano alla misericordia divina.
Sono pochi i media che hanno ricordato come, secondo gli esperti, questo sarà l’anno più fresco dei prossimi 30 anni, che con siccità come questa, o peggio, dovremmo imparare a convivere perché saranno sempre più frequenti, e che l’unica “emergenza” di cui abbia senso parlare sia quella climatica. Emergenza che deve essere affrontata proprio all’opposto di come la sta affrontando il Governo: uscendo, il prima possibile ed a tutti i costi, da una economia basata sui combustibili fossili.
Eppure si continua a parlare di “emergenza siccità”, nonostante già dalla fine del 2021 un rapporto dell’Unione Europea avesse messo in guardia il ministro Cingolani sull’arrivo di questa ecatombe estiva. Il fatto che ancora oggi le preoccupazioni del ministro, sottolineate nelle sue ultime dichiarazioni alle agenzie, siano tutte per il funzionamento delle centrali – “Speriamo che almeno questo problema migliori presto” – dimostra ancora una volta la sua lontananza dall’aver capito, o dal voler affrontare, il nocciolo del problema.
Questa siccità altro non è che la dimostrazione che abbiamo perso la battaglia per il clima e che è il momento di pensare realisticamente a varare politiche di mitigazione. Il che ovviamente, non significa che non bisogna continuare a lottare contro le lobby del fossile. Il futuro – se ci sarà, un futuro – dell’umanità sul pianeta terra non è ancora scritto. Ma anche nelle migliori delle ipotesi, indietro non si torna più. Troppi sono gli obiettivi che abbiamo mancato.
Proprio per questo, oggi, più di ieri, non sono più accettabili proposte di privatizzazione di un bene prezioso come l’acqua. Giusta la proposta di Europa Verde e di Sinistra Italiana di abolire l’articolo 6 dal decreto Concorrenza che permette di fatto ai Comuni di privatizzare le reti idriche, bypassando il risultato del referendum. L’Italia, ricordiamocelo, è il Paese con la maggiori risorse idriche dell’Europa. Nel nostro territorio scorrono 7 mila 594 corsi d’acqua e sboccano oltre un migliaio di falde sotterranee che sarebbe bene tutelare e non inquinare, come è stato con i Pfas. Ma le infrastrutture sono obsolete, molte risalgono al dopoguerra. Dal 1996, al tempo della legge Galli, il settore è stato privato di tutti i finanziamenti, appositamente per portare avanti una politica di privatizzazione che il referendum ha allontanato ma non ancora sconfitto.
Il risultato dei mancati finanziamenti su un settore vitale come quello idrico, lo stiamo vedendo in questo giorni. La nostra rete idrica lunga circa 600 mila chilometri, accusa una perdita di circa il 42 per cento, conto una media europea dell’8 per cento. Uno spreco inaccettabile. Questo è un capitolo su cui bisogna intervenire con urgenza e non basta la miseria di 900 milioni stanziati dal Pnrr. Non solo. Dobbiamo capire che la siccità si combatte anche lottando contro l’inquinamento dei fiumi, fermando le urbanizzazioni e la cementificazione del territorio, responsabili dell’impermeabilizzazione del terreno, causa prima dell’impoverimento e dell’abbassamento delle falde, favorendo una agricoltura sostenibile e non intensiva.
Non è una emergenza, questa siccità, ma una conseguenza di tutto quello che non abbiamo fatto per fermare i cambiamenti climatici o per difendere l’ambiente dalle speculazioni. Se cadiamo nell’errore di addossarne la colpa alle “avverse condizioni meteorologiche”, tanto vale fare come l’arcivescovo di Milano ed affidarci all’aiuto di dio. Così stiamo freschi anche senza bisogno del condizionatore.
Foto di copertina: il fiume Isonzo a Gorizia durante un periodo di secca T137
Guerra e pace (e clima)
19/05/2022EcoMagazine, Global ProjectLa Sardegna è presa d’assedio da una esercitazione Nato condotta in clima di guerra mentre le compagnie petrolifere fanno affari d’oro e dei cambiamenti climatici non se ne parla più
Il primo a dare la notizia è stato l’Unione Sarda. Giornale non propriamente di sinistra ma che aveva il vantaggio di giocare in casa e l’onestà di indignarsi proprio come un quotidiano che parla alla gente deve fare. Ben diciassette aree marine sarde, per lo più nel cagliaritano, sono state improvvisamente prese d’assalto da un esercito di 4mila soldati, 65 navi militari tra cui una portaerei Usa, con contorno di elicotteri, carri armati e mezzi anfibi. L’operazione targata Nato e battezzata Mare Aperto è scattata all’improvviso, senza nessun avvertimento alla popolazione dell’isola. Proprio in giorni come questi in cui la Sardegna sta rilanciando la sua offerta turistica, dopo i duri tempi della pandemia. Semplicemente, l’Alto Comando della Nato ha improvvisamente deciso di giocare alla guerra e ha ordinato, senza nessun preavviso, alla Capitaneria di Porto di interdire ai “civili” l’ingresso alle coste e alle aree di mare segnalate.
La Capitaneria non ha potuto far altro che obbedire. Se è vero che la Sardegna è sempre stata utilizzata come un grande poligono di tiro dall’esercito – complice anche la sua bassissima densità – è anche vero che esercitazioni di questa portata, con eserciti di ben sette Paesi, non ne erano mai state fatte negli anni precedenti e, in ogni caso, tutte le operazioni venivano comunicate con largo anticipo. Ma siamo in guerra. E in guerra tutto è permesso.
Nel giornale di venerdì 13 maggio, l’Unione Sarda ha denunciato in un articolo intitolato: “Blitz militare: Sardegna circondata”: ”Non bastavano i 7.200 ettari del Poligono di Teulada i 12.700 di Perdasdefogu e i 1.200 di Capo Frasca, la più imponente esercitazione militare mai messa in campo nel mare di Sardegna e nei poligoni sardi si estenderà anche in aree che non hanno mai avuto niente a che fare con le servitù militari. E non sarà una passeggiata”.”. Sempre l’Unione cita espressamente Venezia chiedendosi se una simile operazione militare che scavalca ogni logica di tutela ambientale e di conservazione, sarebbe stata possibile nella laguna dei Dogi. Da veneziano, posso rispondere ai colleghi sardi: “Sì, purtroppo. Nella laguna hanno fatto anche di peggio”. Ma non questo il punto. Il punto è la catastrofe climatica.
A dirlo stavolta è l’Onu. Lo scorso anno, ha avvertito l’Omm, l’organizzazione meteorologica mondiale delle Nazioni Unite, ben 4 indicatori chiave dei cambianti climatici hanno toccato dei record che definire “preoccupanti” è prenderli sottogamba. Si tratta delle concentrazioni di gas serra, dell’innalzamento del livello del mare, dell’acidificazione e del riscaldamento degli oceani. Tutti avvertimenti che “Il sistema energetico globale è rotto e ci avvicina sempre più alla catastrofe climatica”, come si legge nell’ultimo rapporto. L’unica speranza è: “porre fine all’inquinamento da combustibili fossili e accelerare la transizione verso le rinnovabili, prima d’incenerire la nostra unica casa”.
Ma la guerra sta spingendo l’umanità verso una direzione completamente opposta.
Guerra e pace, si sa, sono agli antipodi. Esattamente come guerra e clima. E questo per almeno due motivi. Il primo è che per affrontare un problema complesso come la crisi climatica, servono diplomazia, tavoli di trattativa, un forte spirito di collaborazione internazionale. Tutte cose che i conflitti armati mandano a catafascio. La seconda è che tutte le soluzioni di “emergenza” per affrancarsi dal gas russo prevedono l’utilizzo, anzi, l’implemento proprio dei combustibili fossili. In altre parole stiamo finanziando esattamente quel modello economico che dovremmo superare. Non è certo un caso se i profitto delle multinazionali petrolifere siano schizzati in alto da quando è cominciata la guerra tra Russia e Ucraina. Nei primi tre mesi dell’anno la Shell, tanto per fare un esempio, ha realizzato profitti record: 9,1 miliardi di dollari, quasi tre volte rispetto al primo trimestre del 2021.
Felicissimo Ben van Beurden, amministratore delegato della compagnia, che ha spiegato al New York Times come i recenti avvenimenti abbiano dimostrato come il petrolio rimanga “l’unica energia sicura, affidabile e conveniente”, sottolineando come nessuno oggi possa mettere in discussione che “l’economia globale sia costruita soprattutto sui combustibili fossili”. Tesi dimostrata anche dal prezzo del gas, che nel corso del 2021 ha intrapreso un trend crescente di cui non si vede la fine, passando in Italia dai 18 euro per MWh di marzo ai 116 euro per MWh di dicembre 2021. Trend che fa la felicità dei suoi (pochi) azionisti e la disgrazia del resto dell’umanità perché al prezzo del gas è legato il costo del cibo. Fame e carestie stanno già ammazzando più della guerra in Ucraina nelle aree più povere del pianeta. Qui, dalla parte ricca della frontiera, ci si limita, per ora, a veder crescere le percentuali di chi vive sotto la cosiddetta “soglia di povertà”.
E poi c’è anche un’altra questione per cui guerra e giustizia climatica non vanno proprio d’accordo. Ed è l’aspetto comunicativo. In guerre la prima vittima è la verità e l’unica regola la distrazionedai problemi veri. Questione come il gas e il petrolio vengono utilizzate come arma per farti odiare il nemico. Se la bolletta sale, il colpevole è Putin. Il problema delle emissioni climalteranti dei combustibili fossili che continuiamo ad utilizzare come e più di prima, non sono nemmeno dentro l’agenda politica dei mesi a venire. Così come un deciso passaggio alle alternative rinnovabili. In guerra si pensa solo alla guerra. Ridicolo persino pensare alle cosiddette “buone pratiche individuali”, tipo la differenziata spinta o la dieta vegana, che pure – se certo non bastavano a salvare il pianeta – in qualche modo erano utili a diffondere la consapevolezza che viviamo tutte e tutti sullo stesso pianeta Terra e che la tutela globale dei beni comuni è fondamentale per costruire un futuro sostenibile per l’umanità. Ma oggi? Perché qualcuno dovrebbe sbattersi a girare in bicicletta quando un paio d’ore di volo di uno solo di quegli aerei che stanno giocando alla guerra sopra la testa dei sardi, brucia più carburante di tutto quello che potrebbe bruciare lui nel resto della sua vita? Anche questo è guerra.
Foto di copertina. Copyright: Crown Copyright 2011, NZ Defence Force
Il 15 maggio l’Italia va a credito di sostenibilità ambientale
13/05/2022EcoMagazineImmaginate di essere tra i fortunati ad avere uno stipendio fisso. Immaginate che il 10 del mese avete già speso tutto e vi tocca andare a credito. Ecco. Questo è esattamente quello che accadrà all’Italia domenica prossima, 15 maggio. Con l’aggravante che il debito del nostro Paese va ad aggiungersi ai già sostanziosi arretrati maturati negli anni precedenti.
Per noi italiani domenica prossima scatta infatti quello che il Global Footprint Network ha chiamato l’Overshoot Day, traducibile come “il giorno del superamento”. Il giorno cioè in cui un Paese ha esaurito tutte le sue risorse – da quelle idriche a quelle produttive, sino alle emissioni di gas serra —e deve andare a credito. “Se tutti si comportassero come noi italiani – ci avvisa Nicolas Lozito nella sua preziosa newsletter Il Colore Verde -, la Terra inizierebbe già da metà maggio a essere sfruttata oltre le sue capacità di auto rigenerarsi. Per essere considerati sostenibili ci servirebbero quasi tre pianeti”.
Il Global Footprint Network è una organizzazione no profit indipendente con sedi negli Usa, in Svizzera e nel Belgio fondata nel 2003 con lo scopo dichiarato di promuovere la sostenibilità. Ogni anno pubblica un calendario degli Overshoot Days di tutti i Paesi del mondo che, seppure i criteri considerati non sia condiviso da tutti gli esperti, restituisce una visione abbastanza realistica di come stia andando (male) il pianeta. Anche la media mondiale – ovvero l’Overshot Day globale della terra -, al di là di tutti i proclami di “transizioni verdi”, sta arretrando sempre più negli anni. Nel 2014, cadeva il 19 agosto, nel 2015, il 13 dello stesso mese. Nel 2016, l’8 agosto. Il 2 agosto, l’anno successivo. Solo nel 2020, complice la pandemia mondiale, la scadenza si è spostata più avanti, in controtendenza, il 22 agosto, ma stiamo recuperando in fretta!
Quest’anno la data non è ancora stata annunciata ma dovrebbe attestarsi tra qualche giorno prima del 29 luglio. Come dire, che stiamo correndo verso il baratro. E stiamo accelerando!
Interessante anche l’hit parade dei Paesi più sostenibili. La classifica è guidata dalla Giamaica che quasi quasi ce la fa a completare l’anno (il suo Overshoot Day scade il 20 dicembre). Seguono l’Ecuador, l’Indonesia e Cuba. In maglia nera il Quatar che non va più in là del 10 febbraio. Poco più indietro troviamo il Lussemburgo, il Canada, gli Stati Uniti e gli Emirati Arabi.
Anche se possiamo discutere sui parametri utilizzati dal Global Footprint, non ci sono dubbi che questo utilizzo di risorse di non rinnovabili, sia una questione di fondamentale importanza per il futuro dell’umanità sul pianeta e che abbia ricadute non solo nell’ambiente ma anche nella società, nell’economi e nella politica mondiale.
Concludiamo con una osservazione del noto filosofo della scienza Telmo Pievani pubblicata su La Lettura del Corriere“La conseguenza più pericolosa è che il consumo crescente di risorse non rinnovabili come carbone, petrolio e gas aumenta la dipendenza da Paesi inaffidabili, fa lievitare i prezzi, destabilizza intere regioni, genera conflitti sempre più allarmanti. Si parla orma di insicurezza strutturale delle risorse e di insicurezza climatica. Rischiamo di pagare caro il trentennale ritardo nella transizione energetica”.
Una “barcheggiata” per ribadire il No alle Grandi Navi in laguna
30/04/2022Buttate fuori dalla porta – quella del bacino di San Marco -, le Grandi Navi sono rientrate dalla finestra – quella dei cinque approdi “provvisori” di Marghera e terraferma. Ma, sempre e comunque, dentro una laguna che non è fatta per il gigantismo navale rimangono. I due decreti legislativi e le sentenze della magistratura hanno sottolineato l’incompatibilità di queste enormi ”villaggi turistici galleggianti” con il delicato sistema idrogeologico della laguna, sposando le tesi sostenute dagli ambientalisti in oltre un decennio di lotte. Come se non bastasse, i recenti incidenti avvenuti alle navi da crociera dirette a Marghera – incidenti più che prevedibili in quanto il canale dei Petroli non ha la larghezza sufficiente a governare lo scarroccio della nave in caso di vento sostenuto – dovrebbe aver dimostrato ancora una volta che il gigantismo navale ha chiuso con la laguna. Sembra che se ne siano resi conto le stesse compagnie di navigazione i cui amministratori hanno dichiarato in un articolo del Sole24ore che sono intenzionati ad escludere Venezia dagli itinerari delle loro crociere. Non è certo una presa posizione, la loro, dettata da motivazioni di tutela ambientale, quanto dalla semplice constatazione che un conto è accogliere i turisti alla Stazione Marittima di Venezia e fargli far passerella davanti a San Marco, ed un altro dirottarli a Marghera lungo il canale dei Petroli col serio rischio di finire in secca al primo sventolare di scirocco!
Eppure, la battaglia non è ancora vinta perché la strada delle “soluzioni provvisorie” ha stimolato gli interessi speculativi su queste aree di attracco ed hanno messo in moto finanziamenti da milioni di euro. E così, invece di pensare ad alternative praticabili che vagano le navi fuori della laguna ecco che nel dibattito politico appaiono soluzioni che sono peggiori del male: scavare altri canali, allargare quelli esistenti, realizzare grande strutture di attracco in aree che da decenni attendono, a contrario, progetti di bonifica.
Proprio per questo il comitato Grandi Navi ha indetto una “due giorni” di mobilitazione ed ha annunciato un esposto alla Procura contro queste soluzioni “provvisorie “ che minacciano di diventare definitive e di trasformare la laguna in un “porto diffuso”. Venerdì pomeriggio, in mezzo al campo San Tomà (non c’è da pensare che il Comune conceda una sala ai No Navi) si è svolta una partecipata assemblea cittadina in cui è stato ribadito che la soluzione al problema delle Grandi Navi, oggi come dieci anni fa, è sempre la stessa: devono starsene fuori dalla laguna.
Oggi, il comitato ha organizzato una “barcheggiata” verso l’approdo “provvisorio” (continuiamo a scrivere il termine virgolettato) di Fusina.
“Questa soluzione dovrebbe essere temporanea – hanno dichiarato gli ambientalisti -, ma a guardare quanti soldi si stanno investendo per sistemare tali aree e banchine sembrerebbe il contrario, nonostante nei giorni scorsi abbiamo visto quanti disagi e problematiche implica attraccare a Porto Marghera. Ma anche Marghera è laguna e noi le navi le vogliamo fuori da tutta la laguna”.