Ad Bethlehem

Permalink

Ci avete fatto caso anche voi? Da quando al governo è tornata la Destra, e che Destra, la guerra al Natale sembra essersi bruscamente interrotta. Forse da qualche parte effettivamente una scuola non ha fatto il presepe, o il coro non ha cantato una canzone necessariamente cristiana; forse qualcuno da qualche parte ha risposto "Buone Feste" e non "Buon Natale" a chi gli faceva gli auguri; ma tutto ciò improvvisamente non fa più notizia; e del resto era strano che facesse notizia prima. Magari mi sbaglio, magari non sfoglia con la dovuta attenzione i giornali peggiori; ma davvero sembra che il Natale scivoli molto più liscio da due anni in qua. Magari perché aa Meloni veglia, affinché i suoi sudditi cristiani non siano defraudati di addobbi e regali.

Oppure perché questa cosa di festeggiare un bambino, che di tutti i posti del mondo è nato proprio a Betlemme, ci dà sempre più fastidio. Passiamo così tanti giorni all'anno, così tante ore al giorno, a fingere che tutto vada bene; che non stiamo collaborando a un massacro proprio là – e lui proprio là deve nascere; sembra quasi che lo faccia apposta.

Comments (1)

Il santo sotto il portico

Permalink

23 dicembre: San Servolo, paralitico e mendicante (VI secolo)

La basilica di San Clemente a Roma

Con l'approssimarsi del Natale, i santi importanti sembrano volersi ritirare dal calendario. Come se tutti fossero impegnati a cercare i regali, montare gli addobbi, l'albero, il presepe. C'è una spiegazione più plausibile: la Chiesa cattolica non consente celebrazioni solenni di santi nella novena di Natale (dal 16 al 24 dicembre). Perciò ai pezzi grossi conviene morire in altri periodi. Se proprio non ci riescono (come Torlaco patrono d'Islanda, appunto defunto il 23/12/1193), molto spesso le loro celebrazioni vengono spostate in altri mesi. Così sotto Natale chi rimane? Santi appena arrivati, perché dall'Ottocento in poi le date sono diventate cose serie ed è diventato più difficile modificarle; patriarchi e profeti dell'Antico Testamento; e poi figure di secondo piano, personaggi molto umili persino tra i santi, come questo Servolo o Servulo, che portava già il nome più modesto possibile ("piccolo schiavo"). Essendo nato paralitico, o essendolo diventato molto presto, nella società romana del tardo VI secolo si trovò una sua nicchia disagevole ma non priva di un certa dignità sociale: quella del mendicante. 

Il suo posto fisso era nel portico che conduceva alla basilica di San Clemente: chi doveva entrarci passava da lì e poteva ricevere i saluti, i ringraziamenti e i saggi consigli di Servolo. Se si trattava di un sacerdote, Servolo poteva domandargli di leggere qualche passo di un volume delle Scritture che era riuscito a procurarsi. La figura del mendicante annidato sotto un portico, che nasconde sotto il mantello un testo sacro, potrebbe avere ispirato a qualche agiografo la leggenda di San Giovanni Calibita, anche lui mendicante, ma di buona famiglia, che custodiva sotto i suoi panni lerci un Vangelo d'oro. I romani  hanno sempre avuto un debole per i santi mendicanti. Ma Servolo non è un personaggio leggendario. Le poche cose che sappiamo di lui ce le ha tramandate Gregorio Magno, in un'omelia e in un passo dei suoi Dialoghi, senza nessuna concessione al sensazionale o al miracolistico. Gregorio lo definisce "povero di mezzi, ricco di meriti, disfatto da una lunga malattia", e mostra di stimarlo come mendicante professionista, che con l'aiuto della madre e del fratello distribuiva i proventi della sua attività ai poveri. La Sacra Scrittura non gli era capitata tra le mani per miracolo; se l'era comprata, e doveva essersi trattato di un sacrificio economico notevole, con quel che costava un codice scritto a mano. Servolo è insomma un personaggio fortemente innovativo, che dimostra la determinazione con cui la Chiesa già nel VI secolo si dedicava a valorizzare esistenze irregolari che nel mondo pagano erano considerate irrimediabilmente inferiori: non soltanto gli schiavi, ma anche gli schiavi paralitici potevano contribuire attivamente alla missione assistenziale della comunità, diventando esempi di successo.    

Gregorio ci racconta che quando Servolo capì che era l'ora di andare, chiese ai pellegrini che sostavano nel portico di alzarsi e cantare qualche salmo. Anche lui si mise a cantare, e poi improvvisamente ammutolì. "Tacete", disse: "non udite le lodi che cantano in cielo"? Secondo un agiografo più tardo, alla sua morte Servolo sarebbe finalmente riuscito a entrare nella basilica di San Clemente per trovarvi sepoltura, in una cappella dove sarebbero state dipinte scene della sua vita; ma non ci è rimasto niente. Servolo dovette godere di una certa popolarità, prima di essere soppiantato nella devozione dei romani da mendicanti leggendari dalla vita più romanzesca, come Sant'Alessio, e più tardi ancora da Benoit-Joseph Labre. Siete naturalmente liberi di trovare questa passione dei cattolici per i mendicanti un po' pelosa: come se le elemosine davvero avessero il potere di salvare il mondo, o di alleviare qualcosa che non sia il nostro senso di colpa, mentre le concediamo. Nel frattempo anche stavolta è l'antivigilia di Natale, i Santi importanti sono tutti al calduccio nelle loro comode nicchie, e in piazza c'è un Servolo a ogni angolo. Buone feste anche a voi. 

Comments (2)

Una cattolica in America

Permalink

Lei è Cristiana Dell'Anna. 
22 dicembre: Santa Francesca "Saverio" Cabrini (1850-1917), missionaria italoamericana

Frequento una scuola cattolica, e per qualche motivo l'Arcidiocesi di cui facciamo parte ha deciso che era assolutamente necessario che noi vedessimo questo film, per cui ha prenotato un casino ("a shit ton") di cinema per più scolaresche. A quanto pare, tutto questo è stato pagato da una ricca famiglia cattolica che voleva davvero che andassimo a vedere il film, e in più sembra che dietro a tutto questo ci sia anche Angel Studios, la compagnia che lo ha prodotto. Penso che abbia a che fare con il fatto che vogliono che i loro investitori credano che questo tipo di film abbia successo, quindi immagino che forzare un sacco di scuole cattoliche a portare i loro studenti al cinema aiuti in questo senso. Onestamente, non sono sicuro di come funzioni tutto ciò, è solo quello che ho sentito da varie fonti. (La seconda "più popolare" recensione di Cabrini su Letterboxd). 

Malgrado questo e altri sforzi distributivi, Cabrini è stato un fiasco al botteghino. Un po' mi dispiace, anche se trovavo inquietante l'idea che il regista del film più cospirazionista degli ultimi anni avesse deciso di dedicare un biopic alla patrona degli emigranti italiani (e dei migranti in generale). Diciamo che se avesse avuto un successo paragonabile a quello di A Sound of Freedom, avrebbe fatto notizia anche in Italia, dove Santa Francesca Cabrini è tuttora un'illustre semisconosciuta. A quel punto magari il film sarebbe stato distribuito seriamente anche da noi, e non soltanto qua e là per tre miseri giorni d'ottobre. E forse sarei riuscito a vederlo, ehm, legalmente, scoprendo se si tratta di un buon film o di una puttanata intercontinentale; perché se le recensioni americane sono migliori di quanto ci si aspetterebbe, bisogna sempre ricordare che per loro un film agiografico è una novità, probabilmente non conoscono Luigi Magni e potrebbero essersi anche dimenticati di Zeffirelli o Liliana Cavani. Ma soprattutto non si sono fatti gli ossi con le fiction di Lux Vide. Così magari approfittando del film avrei finalmente trovato l'ispirazione per il pezzo su Santa Francesca Saverio che ogni tanto qualcuno mi chiede di scrivere (una frase, mi rendo conto, molto blog-anni-zero: però davvero, in tanti anni, due o tre persone me l'hanno chiesto. Un numero infinitamente superiore a quelli che mi hanno preteso un pezzo su San Michea). 

E invece no. La santa dei migranti (che è anche la prima santa statunitense) ha dimostrato nell'occasione di non avere lo stesso appeal della cospirazione pedofila di Sound of Freedom, della mitomania del veterano di American Sniper, o del Gesù splatter di Passion of the Christ. Evoco questi tre titoli perché erano probabilmente i tre argomenti che rendevano plausibile la sfida produttiva di Cabrini; film che hanno avuto uno spaventoso successo ai botteghini proprio perché pensati per un pubblico diverso, al di fuori dei circuiti abituali della distribuzione; gente che al cinema non ci va mai, al punto che in certi casi la distribuzione deve affittare le corriere, come se si trattasse di un pellegrinaggio – ecco, questi film sono paragonabili a pellegrinaggi postmoderni, e se i primi tre erano rivolti soprattutto a un pubblico bianco e protestante, Cabrini guardava appunto al bacino inesplorato delle comunità cattoliche. Alcune scuole, come si legge sopra, devono aver risposto all'appello: ma non è stato sufficiente 

Per quanto riguarda le mie impressioni su questo film, era tutto sommato accettabile. Hanno stipato tutta la mia classe in una sala, quindi mi aspettavo fosse un caos, ma a parte un ragazzo che ha portato un altoparlante e ha suonato dei suoni divertenti di tanto in tanto, non è andata male. Non penso che Cabrini fosse brutto, ma non mi ha colpito particolarmente. Ha chiaramente un messaggio importante da trasmettere, ma nella pratica non risulta così. Inoltre, qualsiasi film che devo vedere per scuola automaticamente mi rende meno interessato, purtroppo.

Francesca Saverio è un personaggio enorme. Ancora prima di sbarcare in America, e non aveva quarant'anni, aveva già combinato abbastanza per passare alla Storia, almeno come fondatrice del primo ordine femminile missionario. L'idea fissa intorno a cui girava sin da bambina era la conquista cristiana della Cina, proprio come l'inquieto gesuita da cui aveva preso il nome. Il vescovo di Piacenza la dirotta verso New York, dove sbarca la prima volta nel 1889, in un momento in cui le prime ondate di immigrati dall'Italia sono confinate al livello più infimo della catena alimentare, guardati con diffidenza anche dalla diocesi cattolica, saldamente in mano alla comunità irlandese. Nel giro di pochi anni Francesca riesce ad accreditarsi come il volto umano della comunità. Dietro all'apparenza ascetica conferitale dalla tubercolosi c'è una grande lavoratrice e organizzatrice. Se gli italiani vedono in lei un'emissaria della carità, gli anglosassoni ne ammirano le capacità imprenditoriali: credo sia l'unica santa di cui si racconta che sia morta alla scrivania, come un vero businessman (eppure morì di malaria, una malattia così italiana ai tempi). Il film in effetti è stato finanziato, tra l'altro, da un milionario della Pennsylvania, J. Eustace Wolfington, che considera la Cabrini la sua grande ispiratrice: non certo in quanto suora, ma in quanto imprenditrice. "Volevano farne una favola, ma io dovevo realizzare un film migliore. Dovevo catturare chi era lei davvero, una donna che non accettava un 'no' come risposta, neanche dal papa, né dall'arcivescovo, né dal sindaco di New York o dal presidente del senato in Italia. Non c'era bisogno di mostrarla mentre predicava e pregava, perché la sua vita è il vero sermone". Ecco, questo mi interessava del film: capire se l'ideologia degli investitori protestanti era riuscita a snaturare la vita di una missionaria cattolica con una spiccata vocazione assistenziale. 

Se ogni santo somiglia a un precedente e a un successivo, Francesca Cabrini ha tutte le carte per essere considerata il precedente ottocentesco di Teresa di Calcutta: una piccola donna di fragile salute, che davanti a un continente intero di sofferenza non si perde d'animo e comincia a colonizzarlo fondando conventi su conventi, diventando un personaggio mitico e santificato già in vita. 

Si tratta di un precedente molto più epico e avventuroso perché alla fine per Teresa i poveri della terra erano a portata di aeroplano, mentre la Cabrini per raggiungerli in America dovette attraversare l'oceano in transatlantico una ventina di volte, attraversare le Ande a dorso di mulo, ecc. E se il culto di Teresa si è sviluppato in un secolo scettico, davanti a osservatori disposti a mettere in discussione le sue imprese, nel caso di Francesca Cabrini, e in generale di tutti i santi/benefattori ottocenteschi, è veramente difficile riuscire a filtrare qualcosa di oggettivo da tutti i resoconti biografici che per partito preso non potevano parlarne che bene. Quel che sembra di capire è che con la Cabrini la Chiesa cattolica accetta finalmente che le donne possono fare le missionarie, muoversi in un mondo da evangelizzare senza perdere la rispettabilità; magari un po' tardi rispetto a una società in evoluzione, ma giusto in tempo per assumere un ruolo fondamentale nella società delle nuove metropoli americane, dove il Welfare State è perlopiù demandato alla beneficenza dei ricchi, al buon cuore dei pochi che ce l'hanno fatta e non si dimenticano della miseria su cui poggiano le proprie radici. Servono intermediari affidabili tra milionari e poveracci, gente al di sopra di ogni sospetto in grado di percepire donazioni e lasciti e ridistribuirli in modo efficace: le suore missionarie del Sacro Cuore svolgono questa funzione necessaria e diventano un punto di riferimento di tutte le comunità italoamericane. Ai poveri parlano in italiano, ma sono disponibili a insegnare ai loro figli l'inglese. Morta nel 1917, viene beatificata quasi subito ed entra nel calendario già nel 1946: e siccome nel 1909 aveva ottenuto la cittadinanza USA, è anche la prima santa statunitense.

Non è difficile capire perché una santa italiana così importante in America non abbia mai 'forato' qui in patria; la sua leggenda dal 1889 in poi attraversa una delle pagine più imbarazzanti della nostra Storia: quella in cui i migranti eravamo noi, brutti, sporchi e criminali. Oggi la Cabrini viaggerebbe sulle navi che Salvini ordinava di speronare. Ma perché uso il condizionale. Oggi la Cabrini viaggia sulle navi che Salvini ordina di non soccorrere. 

Comments (4)

Michea il provinciale

Permalink

21 dicembre: San Michea, profeta di provincia (VIII sec. aC)

Basilica della Natività, Betlemme, Palestina. 

Ma insomma Gesù veniva da Nazareth o da Betlemme? Perché sono a più di 100 km di differenza. Non solo, ma anche a quei tempi sorgevano in due Stati diversi, benché controllati dallo stesso impero, in questo caso il romano. Nazareth è in Galilea, un territorio che grosso modo coincide con l'attuale distretto settentrionale di Israele. Dai vangeli risulta chiaro che il Gesù predicatore provenisse da lì; più volte viene chiamato "Gesù di Nazareth" e "nazareno". Ora, può anche darsi che in un primissimo momento – un momento in cui i vangeli non erano ancora stati scritti, e si tramandavano oralmente – la parola greca "nazoràios" associata a Gesù non indicasse una provenienza geografica. "Nazoràios" potrebbe derivare da "nazarà", una parola aramaica (Gesù e i suoi primi seguaci parlavano aramaico). Quest'ultimo termine potrebbe sì, alludere a una cittadina della Galilea che a quel tempo sarebbe stato poco più di un villaggio: ma potrebbe anche essere il contrario, che il villaggio abbia preso il nome dall'epiteto di Gesù, visto che in precedenza né nella Bibbia né in altri documenti era mai stato nominato. 

"Nazarà" potrebbe derivare dall'ebraico nazir, "separato", e alludere al carattere scismatico del movimento fondato da Gesù, che si era separato dall'ebraismo tradizionale. Oppure dall'ebraico netzer, germoglio, che in Isaia 11,1 allude proprio alla nascita del Messia ("Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse"). Non si può nemmeno escludere che Gesù non fosse "nazareno", ma "nazireo", ovvero consacrato per la vita al Signore secondo un rituale descritto dalla Torah: il nazireo più famoso è l'eroe Sansone, e come Sansone anche Gesù è spesso raffigurato coi capelli lunghi. Ai nazirei non era consentito partecipare ai funerali, il che potrebbe spiegare come mai Gesù non si presenti a quelli dell'amico Lazzaro. Più difficile immaginare un Gesù totalmente astemio, visto che i nazirei non potevano consumare prodotti della vigna; ma in effetti se Gesù più volte fa bere gli altri, non è mai descritto nell'atto di bere; e sulla croce rifiuta persino una spugna intrisa d'aceto. 

Per quanto insomma non si possa escludere che sia stato Gesù "Nazoràios" a dare il nome al suo luogo d'origine, e non viceversa, nel momento in cui la sua vita viene messa per iscritto ormai l'idea è che "Nazoràios" alluda a un luogo in Galilea. Per questo motivo Ponzio Pilato, non sapendo bene come gestire il prigioniero, tenta di trasferire il caso a Erode Antipa, figlio di Erode il Grande, che pur essendo il Tetrarca della Galilea (una sorta di viceré) preferiva risiedere a Gerusalemme. La Galilea era già al tempo una regione molto periferica. Gli abitanti erano più vicini ai porti del Libano che a Gerusalemme e dovevano scontare un forte pregiudizio da parte dei giudei gerosolimitani, di cui resistono tracce nel Vangelo di Giovanni; "da Nazareth non può venire niente di buono", dice Natanaele all'apostolo Filippo; "dalla Galilea non sorgono profeti", spiegano i farisei a Nicodemo. E i due Vangeli che raccontano dell'infanzia di Gesù (Matteo e Luca), pur accettando l'idea che provenisse dalla Galilea, lo danno per nato a Betlemme, in Giudea, a poche miglia da Gerusalemme.

Entrambi gli evangelisti si preoccupano di risolvere questa contraddizione, offrendo però soluzioni diverse: secondo Matteo fu Giuseppe a decidere di trasferirsi con la famiglia dopo il soggiorno egiziano, su ispirazione di un sogno; secondo Luca invece i genitori di Gesù risiedevano entrambi a Nazareth, e a Betlemme ci erano capitati per caso mentre andavano a compilare il censimento a Gerusalemme. Il che fa un poco a pugni con la geografia: rispetto alla capitale, Nazareth è a nord, Betlemme a sud. Ma potrebbero davvero esserci arrivati in giornata mentre cercavano un alloggio per la notte. 

Il perché sia così importante ambientare il Natale a Betlemme lo mette per iscritto Matteo: dipende tutto da un versetto del profeta Michea risalente a sette o otto secoli prima (5,1), una delle profezie più impegnative dell'Antico Testamento perché mentre di solito i profeti si mantenevano nel vago, Michea non ci era riuscito e aveva messo nero su bianco che il futuro dominatore di Israele sarebbe nato a Betlemme. Matteo è l'evangelista più legato alla tradizione ebraica: per lui è fondamentale che la profezia si avveri. Luca a questa storia del dominatore di Israele non sembra crederci molto, ma la sua sensibilità sociale potrebbe essere rimasta colpita dal fatto che secondo Michea Betlemme era "il più piccolo dei capoluoghi di Giuda": l'idea già fiabesca per cui il Re dei re sarebbe apparso in una piccola città, tra pastori e carpentieri.

In effetti se di ogni profeta è lecito isolare un tratto distintivo, per cui Isaia è il poeta, Geremia il brontolone, Ezechiele il visionario, Osea il cornuto... Michea, nato anche lui in un villaggio ai confini con la Filistea, è decisamente il provinciale. A tutti i profeti capita di prevedere la disgrazia di una città, ma Michea sembra provarci gusto a decretare la rovina di Samaria (capitale del regno di Israele), la disgrazia di Gerusalemme (capitale del regno di Giuda), insomma di tutti i centri abitati cinti da mura e che non si riducano a un crocicchio di sentieri. Il fatto che tutto sommato ci abbia preso (Samaria fu distrutta dagli Assiri, Gerusalemme dai Neobabilonesi) non scaccia il sospetto che Michea parli a nome di tutti gli abitanti dei contadi, e dia una forma scritta alla loro profonda diffidenza per queste assurde sfide alla natura che sono le grandi città.

I ricchi della città sono pieni di violenza,

i suoi abitanti affermano il falso

e la loro lingua non è che inganno nella loro bocca.

Perciò anch'io ti colpirò, ti produrrò gravi ferite

e ti devasterò a causa dei tuoi peccati.

Tu mangerai, ma senza saziarti

e la fame ti rimarrà dentro;

porterai via, ma non salverai

e ciò che avrai salvato lo darò in balìa della spada.

(Michea 6,12-14)

Comments

Zefirino e la Trinità

Permalink
20 dicembre: San Zeffirino o Zefirino, papa dal 198 al 217.


In alcuni periodi Zef(f)irino è stato considerato un martire: una festa di Zefirino "papa e martire" in agosto è resistita nel calendario romano fino alla revisione del 1969. Può darsi che una leggenda andata perduta lo considerasse vittima delle persecuzioni che ripresero verso la fine del regno dell'imperatore Settimio Severo. Ma siccome per tutte le altre fonti risulta spirato serenamente, al termine del pontificato più lungo del terzo secolo, e addirittura sepolto nel nuovo cimitero sulla via Appia che i cristiani avevano avuto il permesso di comprare, il termine "martire" doveva avere creato imbarazzo già a qualche cronista antico. 

Il titolo, dice la Wikipedia inglese, se lo sarebbe comunque meritato per gli sforzi e i dolori patiti nel condurre la Chiesa di Roma per quasi vent'anni: un lungo periodo in cui forse non vi furono persecuzioni (quella di Settimio Severo potrebbe veramente essere stata poco più che una crisi diplomatica, risolta con un compromesso e senza molte vittime) ma uno scontro estenuante tra correnti teologiche nel quale anche gli esperti faticano a raccapezzarsi: e tra questi esperti pare non vi fosse Zeffirino. Da millenni pesa su di lui l'epiteto affibbiatogli dall'autore di un Trattato contro tutte le eresie, che lo definisce senza mezzi termini "ignorante", "illetterato" e "inesperto dei provvedimenti ecclesiastici". Chi abbia scritto questo Trattato non lo sappiamo con certezza, ma per accusare di inesperienza il titolare di un pontificato ventennale bisogna veramente credersi chissà chi, così un po' tutti pensiamo che l'abbia scritto Sant'Ippolito – chi altri a Roma poteva avere una così alta concezione di sé stesso? Ippolito in effetti era un teologo raffinato che stava già partecipando alla disputa teologica del secolo: la questione trinitaria. Si trattava di una questione spinosissima – Dio è uno solo o sono tre? – che Ippolito era convinto di poter risolvere con la pura speculazione filosofica; dal suo studio dove immaginava di dialogare coi dottori della Chiesa, Ippolito doveva guardare con un certo disprezzo ai compromessi a cui scendevano gli uomini delle istituzioni come Zefirino e il suo braccio destro, l'usuraio bancarottiere Callisto. 

A sua discolpa, Zefirino doveva destreggiarsi in una situazione in cui veri e propri dogmi non c'erano, col rischio ricorrente di lasciarsi andare ad affermazioni che in seguito avrebbero potuto essere interpretate come eresie. Che Dio fosse uno e trino non era affatto chiaro, nel 200, e se dobbiamo essere onesti non lo è nemmeno adesso. Certo, leggendo le Scritture risulta abbastanza evidente che Gesù Cristo non sia il Dio dell'Antico Testamento; se quest'ultimo è il Creatore, Gesù più volte lo chiama "Padre" (anche sulla croce) e ribadisce di essere sceso sulla terra per una missione di riconciliazione. Non solo, ma lo stesso Gesù avvertiva che dopo la sua dipartita, il Padre avrebbe inviato agli apostoli uno "Spirito" che li avrebbe sorretti e ispirati. Dunque Dio è Padre, Figlio e Spirito; e allo stesso tempo è anche Uno Solo. L'ipotesi di tre Dei diversi, magari parenti, è da escludere nel modo più reciso; contrastava non solo con l'orgoglioso monoteismo dei cristiani di origine ebraica, ma anche col monismo propugnato dai filosofi neoplatonici che negli stessi anni stanno conquistando l'egemonia culturale nel mondo pagano. Dunque un solo Dio, diviso in tre... in tre cosa? manifestazioni? sostanze? persone? Se uno è Padre, significa che all'inizio c'era soltanto Lui, e poi ha creato gli altri due? Ma in tal caso non potrebbe essere veramente un Dio solo, ecc. La questione era abbastanza complessa e non sarebbe stata definita dogmaticamente che nel 325: nel frattempo chi aveva incarichi istituzionali, come Zefirino, navigava a vista cercando di non scontentare nessuno, né di sbilanciarsi con affermazioni troppo recise (un po' come quando chiedono alla Schlein del campo largo, a voi non viene la nausea?) 

Nel frattempo si sviluppavano diverse scuole di pensiero che i vincitori del dibattito avrebbero in seguito definito eresie: gli adozionisti monarchiani, ad esempio, erano così affezionati all'idea che Dio fosse Uno che credevano che Gesù fosse nato uomo e fosse stato "adottato" da Dio dopo il battesimo. All'estremità opposta, i modalisti/patripassiani consideravano Gesù soltanto un "modo" di essere di Dio Padre, che quindi aveva patito personalmente sulla croce. Può risultare difficile immaginare che i cristiani del II secolo litigassero intorno a definizioni così complesse. Non si può escludere a priori che il dibattito coinvolgesse anche il popolo minuto (come nota Gregorio di Nissa, un secolo più tardi, scrivendo dalla Cappadocia: vuoi sapere quanto costa una pagnotta, ti rispondono: “Il Padre è il maggiore, e il figlio gli è soggetto”). Ma dobbiamo ricordare che ogni dibattito è un iceberg. Immaginate di atterrare oggi sulla Terra, e di assistere senza preconcetti a un litigio tra un interista e uno juventino. Di calcio sapreste molto poco, ma dal fervore con cui i due argomentano, e dalla dovizia di episodi che citano, potreste dedurre di trovarvi davanti a due esperti, due studiosi che hanno dedicato anni di studio alla materia. Deducete quindi che si tratti in primo luogo di una disputa dottrinale sul giuoco, sulla sua filosofia e le sue regole, e in un certo senso è così: ma sotto c'è anche dell'altro; materiale meno astratto e quindi meno facile da immaginare per chi arriva da lontano. Ci sono storie complicate e intrecciate, la secolare rivalità tra due sensi di appartenenza, rancori mal sopiti, a volte persino coscienza di classe: di tutto questo stanno litigando, l'interista e lo juventino, e magari anche di beghe personali che col calcio non c'entrano niente. Così probabilmente i monarchisti e i modalisti rappresentavano milieu sociali e visioni del mondo che ormai non riusciamo più a definire; perché ai cronisti del tempo interessava più la dimensione dottrinale che la composizione sociale dei gruppi che lottavano per affermare la propria prominenza. Inoltre, non ci parlano quasi mai di soldi.

Ed è un vero peccato, perché di soldi ne giravano. Intellettuali come Ippolito potevano anche permettersi di non preoccuparsene, ma queste nuove religioni monoteiste stavano diventando un business interessante. Sin dall'inizio il cristianesimo aveva funzionato mediante le collette dei fedeli più abbienti, ai quali veniva già chiesto di meritarsi la Grazia con le opere di bene; nelle grandi città in cui si concentravano grandi masse di schiavi e semischiavi, la Chiesa aveva assunto rapidamente un ruolo assistenziale a cui nessun altra istituzione si sobbarcava. Dobbiamo ipotizzare che le comunità religiose avessero ormai cospicui patrimoni da gestire: questo spiega il successo di personaggi ambigui come Callisto, che da usuraio diventerà il successore di Zefirino, con grande scandalo di Ippolito; ma spiega anche il proliferare di confessioni religiose alternative, che col pretesto non riconoscersi in una determinata dottrina, consentivano ad altri personaggi di tagliare fette importanti da una torta sempre più grossa. In fondo bastava convincere i fedeli più facoltosi di essere i veri possessori della realtà rivelata; se ci pensate è un trucco che funziona da millenni. 

Il caso più eclatante in quegli anni era il Montanismo, una setta nata verso il 150 dalla predicazione del greco Montano e di altre due profetesse, che si ritenevano in comunicazione con lo Spirito Santo. Di Montano si dice che fosse molto ricco e che avesse conquistato così i suoi fedeli; ma potrebbe essere un caso di inversione causa/effetto, ovvero Montano avrebbe potuto diventare molto più ricco proprio grazie al seguito che aveva saputo conquistarsi. Con le sue rivelazioni choc sulla solita fine del mondo, il montanismo riuscì a irretire anche un vecchio baluardo dell'ortodossia come Tertulliano, e per molto tempo non fu considerato un'eresia: a Roma fu Zeffirino a condannarlo. Quanto agli adozionisti, il loro leader romano era un cambiavalute, Teodoto il Cuoiaio: sembra proprio che le organizzazioni religiose attirassero i faccendieri esperti in gestione della liquidità. A tal proposito Eusebio di Cesarea racconta del pentimento di un chierico, il confessore Natalio, che Teodoto aveva portato dalla sua parte offrendogli l'incarico di vescovo adozionista. Molto più del titolo, a convincere Natalio doveva essere stato lo stipendio mensile previsto da Teodoto: 150 denari d'argento, sei volte la paga di un legionario. Eppure non bastarono a sedare il senso di colpa di Natalio, che continuava a sognare Gesù che lo rimproverava, finché gli angeli non lo flagellarono per una notte intera, convincendolo ad andare a chiedere perdono a Zeffirino. 

Il quale Zeffirino, dovendosi barcamenare tra tante fazioni, non era così ansioso di districare il problema trinitario: messo alle strette, ammetteva di riconoscere un solo Dio, il "Signore Gesù Cristo". Ovviamente per i modalisti questa affermazione suonava come una pericolosa concessione ai monarchiani, e viceversa. Il dibattito sarebbe durato ben oltre la morte di Zeffirino, anzi fu proprio la successiva elezione di Callisto a causare il primo vero scisma perché Ippolito, indignato, decise di fondare una Chiesa tutta sua di cui si autonominò papa. A riportare l'unità tra i cristiani di Roma sarebbero state paradossalmente le persecuzioni degli anni Venti e Trenta, durante le quali Ippolito si ritrovò condannato alla stessa miniera del papa in carica, Ponziano: in quell'occasione i due si riconciliarono ufficialmente e chiesero ai rispettivi seguaci di fare altrettanto.
Comments (1)

Beato Guglielmo, ma povera mula

Permalink

19 dicembre: beato Guglielmo di Fenoglio (1059-1120)

Incaricato dal suo priore di raccogliere le offerte e portarle al monastero di Casotto, il giovane Guglielmo, monaco certosino, si lamenta che i boschi intorno Mondovì pullulino di briganti che già in precedenza lo avevano derubato. Il priore gli ordina di difendere le offerte in qualsiasi modo, "anche con la zampa della mula". Guglielmo è un converso, ovvero un confratello laico che non ha preso i voti sacerdotali, e come tale deve obbedire al superiore anche se l'ordine è assurdo; perciò, quando i briganti arrivano Guglielmo stacca miracolosamente la zampa alla mula e mulinandola in testa ai malintenzionati riesce a metterli in fuga. Dopodiché riattacca la zampa e riprende la via del monastero: e solo quando a Casotto il priore gli fa notare che la zampa zoppica, si accorge di averla attaccata a rovescio. Nessun problema: davanti agli occhi esterrefatti del superiore, Guglielmo stacca l'arto e lo riattacca correttamente, senza che la mula accenni a un lamento. Questo è senz'altro il più famoso dei "miracoli burleschi" attribuiti a Guglielmo, anzi fin qui è l'unico che sono riuscito a trovare, benché tante agiografie suggeriscano che ne abbia fatti tanti altri: e immaginate quanto sarei felice di riportarli, questi miracoli burleschi: ma non li ho ancora trovati. 

Purtroppo su Internet è successo qualcosa di paragonabile a quello che ha fatto la Legenda Aurea di Iacopo di Varazze con i testi medievali: i copisti hanno smesso di copiare quelli più antichi perché la Legenda era più comoda e sembrava un lavoro ordinato ed esauriente, e il risultato è che ci siamo persi parecchie leggende per strada. Molte probabilmente erano poco più che barzellette, come il miracolo della zampa della mula, che sembra alludere soprattutto al tema dell'obbedienza: un valore fondamentale della vocazione monastica, che Guglielmo doveva incarnare anche e soprattutto in quanto patrono dei conversi. Comunque, ovunque io cerchi notizie sui miracoli di Guglielmo, trovo sempre ripetuta la storia della mula (che almeno ha fornito ai pittori un espediente originale per renderlo riconoscibile: mettergli in mano una zampa di mula o, nel caso della certosa di Pavia, un intero cosciotto simile a un prosciutto gigante). A volte chi ha più spazio aggiunge anche, indovinate, che una volta Guglielmo strinse un patto con un diavolo per costruire un ponte in cambio dell'anima del primo peccatore che ci transitasse: ecco, quello del ponte del diavolo è proprio il classico miracolo che si inventa chi non sa quali altri raccontare – peraltro finisce sempre nello stesso modo, cioè con il santo che beffa il demonio facendo transitare sul ponte un animale, che in questo caso ovviamente è la povera mula. Mettetevi del resto nei panni di un agiografo tardomedievale che deve riempire una colonna sulle gesta di Guglielmo di Fenoglio, e non ne sapete niente tranne che girava per le Langhe con una mula... la prima cosa che vi verrebbe in mente, appunto, è farla transitare su un ponte del diavolo.

Con tutto questo non voglio negare che Guglielmo non sia stato un santo popolare, nei suoi primi secoli, per motivi che in parte ci sfuggono: in quanto patrono dei conversi certosini, era invocato e conosciuto in tutta Europa; ma nel suo territorio, più che per i "miracoli burleschi", è verosimile che i pellegrini fossero attratti dalla sua fama di guaritore. A un certo punto però deve essere sorto un problema, una complicazione, qualcosa che ha spinto i monaci della Certosa di Casotto a un gesto davvero insolito: ne hanno occultato il cadavere. Si può pensare che non apprezzassero più di tanto il viavai dei pellegrini, che pure portavano doni ed ex voto. Di solito la tomba di un santo è un motivo di vanto per una località, il che spinge più spesso i religiosi a trovarne i resti che a nasconderne. La leggenda però suggerisce che dopo tre secoli i certosini di Casotto avessero maturato una certa insofferenza per il culto del santo, dato che più volte avrebbero cercato di trasferirne la tomba: invano, perché le sue spoglie si rimaterializzavano sempre al loro posto, in ottimo stato di conservazione. (Può anche trattarsi di un altro espediente per rimarcare il patronato del Santo: il luogo dove le sue spoglie ostinatamente tornavano era la "casa bassa", la sede dei conversi). Dopodiché la situazione cambia e il corpo viene nascosto, ufficialmente per evitare le profanazioni in epoca napoleonica: è ancora da qualche parte entro i muri della certosa, ma nessuno sa dove.

Qualcosa di curioso è successo anche a livello di burocrazia vaticana: Guglielmo è un raro caso di Beato declassato. In effetti in una Bolla del 1568, papa Pio V lo aveva chiamato, senza mezzi termini, "santo", ratificando il termine che circolava già nelle agiografie medievali. Quando però nel 1860 Pio IX ne approva ufficialmente il culto (fissando la festa al 19 dicembre, cioè oggi), Guglielmo risulta soltanto "beato". 

Comments

In monopattino è meglio (se sei bianco)

Permalink

 1893

Buongiorno, mi chiamo Leonardo e sono un fuorilegge; non lo faccio certo per vantarmi, ma è appena entrato in vigore un codice della strada che prevede la targa per i monopattini. Targa che nessuna motorizzazione ha ancora prodotto: quando ho chiesto un parere ai vigili del mio comune, mi hanno detto di attendere. Non è chiaro se io debba attendere a piedi o possa farlo in monopattino; detto questo, domattina se non nevica probabilmente salirò sul mio mezzo elettrico preferito, infilando il casco che ho appena comprato e che lascerà passare il freddo d'inverno e il caldo d'estate. Farò più o meno lo stesso percorso che faccio tutti i giorni e che comprende qualche tratto di ciclabile, benché credo che ora sia vietato – ma è così comoda la ciclabile in inverno, completamente vuota – e se incontro un vigile o un poliziotto, beh, sono abbastanza sicuro che capirà la situazione e non vorrà rovinarmi la vita. E sapete perché ne sono sicuro?

Perché sono bianco.

E fino a qualche anno fa mai l'avrei pensato, ma è andata così. Sono bianco, il che riduce di diversi punti percentuali l'eventualità che un uomo d'ordine voglia rompermi i coglioni. Mentre se fossi appena appena un po' meno bianco, beh, sarei molto più nervoso. Ma non credo comunque che lascerei il monopattino a casa, perché il monopattino mica si usa per fare bella figura con gli amici: è uno strumento pochissimo cool, anzi davvero sfigato, che serve per lo più a portarti sul luogo di lavoro. Può darsi che in altre città si sia sviluppata una cultura giovanile del monopattino, ma insomma per adesso da noi è così. Voglio dire, è un mezzo che non fa rumore, che non va forte, che s'impara a condurre in cinque minuti e che frena appena deceleri. Non riesci veramente ad ammazzare nessuno: è davvero il mezzo di locomozione più sfigato del mondo. Chi se lo procura ha evidentemente solo la banale necessità di spostarsi, una necessità che condivido con gente che ha spesso la pelle più scura della mia. 

Ora, il nostro governo è quello che è, tutto si può dire salvo che siano coraggiosi. È chiaro che gli piacerebbe tanto implementare la segregazione razziale, ma l'intrepidezza di dircelo non ce l'hanno (e sì che a facce di bronzo non stanno messi male) dobbiamo capirlo da soli. Si possono magari togliere altre risorse al welfare, perché scuole statali e ospedali pubblici sono proprio il posto dove il personale ti cura e ti insegna senza guardare al colore della pelle: per cui meglio privatizzarli. Ma a parte questo, e smantellare il traffico ferroviario, che altro si può fare per rendere difficile la vita a chi ha tutti i diritti di vivere e lavorare in Italia ma ha la pelle un po' più scura degli altri? Bastava guardarsi un po' in giro, e Salvini in giro in questi anni c'è andato, questo dobbiamo riconoscerglielo. 

Buongiorno, mi chiamo Leonardo e sissignore, da più di un anno vado in monopattino. Non dico che mi ha cambiato la vita, ma quasi. C'è da dire che vivo in un piccolo centro, che per il monopattino è la dimensione ideale. Quel che mi affascinava da sempre del mezzo era la commutabilità, ovvero l'idea che avrei potuto caricarmelo in macchina e girare in altre città risparmiando sul parcheggio. Qualche volta l'ho pure fatto, ma quel che davvero è successo è che ho assolutamente smesso di girare la mia città in macchina (il che è un bene) e in bicicletta (il che è un male). C'è da dire che negli ultimi anni mi capitava sempre più spesso, la mattina, di alzare gli occhi a un cielo nuvoloso o grigio o boh, e pensare no, non ce la faccio a uscire in bicicletta oggi. Stavo diventando vecchio e inquinante, almeno ho smesso di essere inquinante – anche se ho il fermo sospetto di essere diventato un personaggio da chiacchiera di bar, il professore in monopattino. E pazienza: è così comodo. È veramente il mezzo di trasporto più facile del mondo, una protesi dei propri piedi, a volte non ti accorgi nemmeno che non stai camminando. 

Ma è sicuro? Beh, dipende. È chiaro che più lo usi più diventi attento (ma a volte poi è proprio l'eccessiva confidenza che ti frega). In venti mesi diciamo che devo avere rischiato la vita solo un paio di volte, e sempre a causa di automobili che la gente userebbe di meno, se sapesse quant'è semplice e bello andare in monopattino. Ma no, devono inquinare, devono comprare altre macchine e neanche elettriche perché altrimenti l'Occidente tramonta e poi non ha abbastanza soldi per pulire etnicamente il Medio Oriente. Una cosa che ho capito molto presto è che la gente tra cui sfrecciavo alla pazza velocità di 18 km/h aveva paura di me. Non dei ciclisti – che hanno un baricentro molto alto, e su bici elettriche possono raggiungere i 25 km/h senza casco e senza targa; non degli automobilisti che possono schiacciarti con una lieve pressione involontaria del piede, anche in retromarcia, ma dopotutto si sa, la strada è roba loro, siamo in Occidente, vuoi far piangere Rampini? No, la gente ha paura di me e devo ammetterlo: non sono il monopattinatore più prudente del mondo. 

In linea di massima credo che un patentino servirebbe, da consegnare dopo un corso minimo (al momento uno può entrare in un negozio, uscire con un monopattino senza nemmeno aver dimostrato di sapere cos'è uno stop). Inoltre un codice stradale serio dovrebbe imporre il tetto dei 15 km/h nei percorsi urbani. Ma toglierci le ciclabili è un puro e semplice dispetto, così come obbligarci al casco. Per il quale casco valgono le considerazioni che negli ultimi trent'anni si sono fatte per i ciclisti (che ripeto, hanno il baricentro molto più alto, e da una posizione seduta possono cascare molto facilmente; mentre dai monopattini si casca in piedi nel 90% dei casi). È chiaro che un casco ti dà una sicurezza in più. Ma in molti casi ti toglie anche la voglia di uscire con un mezzo pulito e pochissimo ingombrante, così che a volte per la fatica di metterti un casco ti ficchi in tasca le chiavi della macchina. Comunque se la legge dice casco, io da domani metto il casco. Spero di non doverlo mettere a lungo, spero che al Ministro degli Interni torni presto una persona sensata – non chiedo molto, qualcuno la cui priorità non sia rendere più complicata la vita ai ne*ri – ma forse chiedo davvero troppo. 

Buongiorno, mi chiamo Leonardo e vivo in un piccolo centro. Può darsi che nessuna delle mie considerazioni abbia senso in una grande città. Non ha molta importanza: l'Italia è fatta di piccoli centri. Mi rendo conto che una nazione un tempo trainata dall'industria automobilistica ci metta un po', a capire che i motori a scoppio sono finiti: e d'altro canto le cose stanno così, e lo sappiamo tutti benissimo: infatti altre automobili, per ora, non ne compriamo. Non mi piace fare previsioni, sono rischiose e invecchiano presto e male, per cui non voglio dire che tra dieci anni andrete tutti in monopattino. Ma credo che dovreste. È facile, è sicuro, è pratico, è divertente. Certo, tocca ficcarsi in testa un casco, e poi quando arrivi non sai mai dove infilarlo. D'altro canto forse del casco non c'è così bisogno, se siete bianchi. Se non siete così bianchi, non so cosa dirvi, salvo che mi dispiace. E che mi vergogno, anche. 

Comments (1)

Ancora sui giovani nei forni

Permalink

17 dicembre: Santi Anania, Misaele e Azaria, i giovani nella fornace (VI sec. aC).


Qualche settimana fa, dopo aver partecipato alle celebrazioni per il Tempio Maggiore di Roma, il vicepresidente del consiglio dei ministri Antonio Tajani ha sentito la necessità di negare che a Gaza si stia verificando un genocidio, perché "i presupposti del genocidio sono la predeterminazione e la decisione, e il 7 ottobre non è stato un attentato, un bombardamento o un attacco militare. È stata una caccia all'ebreo con predeterminazione. Vedere una madre violentata mentre le mettono un neonato nel forno è una cosa che neanche la Gestapo e le SS facevano". Ora, è pur vero che la definizione giuridica di genocidio è abbastanza complessa, e che Tajani queste cose le ha dette a un microfono, senza il tempo e l'agio per elaborare. Ma passano i mesi, e ogni volta che gli viene chiesta un'opinione in merito Tajani sembra sentirsi costretto a ricordare che i nemici di Israele hanno messo un neonato nel forno (qualche mese fa, per esempio, lo raccontò a Porta a Porta), come se altri argomenti non ne avesse. In effetti Tajani, come tanti altri rappresentanti istituzionali, non ha mai tentato di ridimensionare le stragi perpetrate dall'esercito israeliano negli ultimi mesi. Ha preferito insistere sulle atrocità del sette ottobre, come se un crimine abbastanza atroce potesse giustificasse qualsiasi rappresaglia. E in particolare ha insistito, con una certa ossessività, su questa storia del neonato nel forno che è senza dubbio agghiacciante; ma è anche falsa. 

Persino il Jerusalem Post, e non parliamo davvero di un organo di stampa vicino ad Hamas, già nel novembre 2023 aveva ammesso che questo neonato non l'aveva visto nessuno: era una storia messa in giro dai primi soccorritori, e rimbalzata molto rapidamente su social network e organi di stampa che però, altrettanto rapidamente, l'avevano smentita; persino su X, una delle piattaforme meno moderate in circolazione, qualsiasi accenno al tema del "baby in the oven" viene ormai automaticamente corredato con una nota che dice che "dopo un confronto con l'IDF, questa notizia è stata smentita da un giornalista israeliano". Tajani evidentemente non consulta né il Jerusalem Post né X; ma soprattutto Tajani quel bambino nel forno sembra convinto di averlo visto: ma com'è possibile, se appunto nessun altro è riuscito a trovarlo? 

In proposito ho una teoria, decidete voi quanto complottistica: nelle ore immediatamente successive alle stragi del 7 ottobre, quando i media israeliani e internazionali avevano molte notizie da dare ma poche immagini con cui corredarle, qualche regista o videoeditor con pochi scrupoli potrebbe aver condito i video autentici con altre immagini di repertorio, tratte da film o altre fiction (non sarebbe certo la prima volta), e persino prodotte con l'AI; il che farebbe del 7 ottobre la prima grande strage contemporanea deformata dalle immagini artificiali. Queste immagini si sarebbero impresse facilmente su un pubblico traumatizzato dalle notizie vere che stavano arrivando, creando una falsa memoria collettiva che a distanza di anni continua a funzionare: tanto che non è difficile incontrare sui social altre persone, come Tajani, che quel neonato sono convinte di averlo visto. Senz'altro un fotomontaggio ha continuato a circolare sui social per mesi (benché fosse stato, anche quello, ampiamente sbugiardato): forse Tajani ha visto quello, e vedendolo ha creduto davvero di avere davanti agli occhi il residuo incenerito di qualcosa simile a un neonato. Quanto alla "madre violentata", ecco, no, quella se l'è inventata: magari per amor di sintesi ha voluto montare assieme episodi avvenuti in luoghi diversi

Tra filopalestinesi circola un proverbio: ogni accusa è un'ammissione. Negli ultimi mesi siate incappati anche voi nel video di un testimone che racconta di un bambino gettato in un forno: salvo che l'episodio sarebbe avvenuto non nel 2023, ma nel 1948; il bambino non sarebbe stato ebreo, ma palestinese; e i suoi assassini dei coloni israeliani. Ma sarà vero? Quando si parla di stragi, bisogna ammettere che certe storie funzionano meglio di altre: col tempo si impara a metterle in dubbio semplicemente perché vengono riportate troppo spesso. Accanto al bambino nel forno, a volte viene citata la donna incinta a cui sarebbe stato strappato il feto, con un coltello, o addirittura una baionetta; perlomeno Corrado Augias (Repubblica, 10/11/2024) parla di "bambini squarciati dalle baionette", un anacronismo che svela la ricorsività dell'episodio: Augias non ha certo visto una baionetta nei servizi sul 7/10, ma è possibile che l'abbia confusa con altri episodi analoghi, dato che questi sventramenti sono una costante che attraversa tutto il Novecento, passando anche dalle stragi naziste in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale. 

Il bambino nel forno è un topos ancora più antico. Troviamo vittime arrostite nelle leggende dei martiri, anzi la più antica leggenda di questo tipo potrebbe proprio essere quella dei "tre giovani nella fornace": Anania, Misaele e Azaria. Composta nel secondo secolo avanti Cristo, si trova inserita in quel patchwork di leggende antiche e visioni apocalittiche che è il Libro di Daniele. I tre non sono tecnicamente martiri, perché, seppure gettati in una fornace, non muoiono: il che ci fa sospettare che il concetto di vita oltre la morte, al tempo dell'elaborazione della leggenda, non fosse ancora diventato canonico (a differenza di quel che accade, per esempio, con i sette fratelli del secondo libro dei Maccabei). Per contro il personaggio del torturatore, un sovrano pagano malvagio e impaziente, è già perfettamente a fuoco, così come l'insistenza sulla ferocia del supplizio: una fornace così ardente da incenerire anche le guardie che vi gettano le tre vittime.

Anania, Misaele e Azaria sono i giovani collaboratori del profeta Daniele, il quale però non compare in tutto l'episodio, né la sua assenza viene giustificata; sono "senza difetti, di bell’aspetto, dotati di ogni sapienza, istruiti, intelligenti": in quanto tali vengono scelti insieme a Daniele per diventare funzionari di Nabucodònosor II, il re neobabilonese che ha sconfitto il regno di Giuda e ne ha deportato la popolazione (siamo nel VI secolo aC). Su iniziativa di Daniele, i tre rifiutano la dieta imposta alla corte e continuano a osservare i precetti alimentari della Torah, il che è molto interessante se accettiamo che la Torah sia stata editata, come propendono gli storici, proprio durante l'esilio di Babilonia; gli ebrei avevano già una dieta diversa da quella di altri popoli mesopotamici, ma è ai tempi di Daniele che le abitudini alimentari avrebbero potuto essere formalizzate come precetti, con lo scopo di preservare l'identità di un popolo costretto a mescolarsi con gli altri. Malgrado i tre si nutrano esclusivamente di acqua e verdure, "le loro facce erano più belle e più floride di quelle di tutti gli altri giovani che mangiavano le vivande del re". Diventati alti funzionari del regno, assistono Daniele con le loro preghiere quando quest'ultimo deve decifrare il sogno della statua gigante. Diventano poi protagonisti incontrastati del terzo capitolo del libro, quando si rifiutano di adorare l'idolo d'oro che Nabucodònosor ha capricciosamente imposto a tutti i sudditi. Minacciati di essere gettati in una fornace, i tre non sono del tutto fiduciosi di uscirne indenni, ma rimangono fedeli al loro Dio, "anche se non ci liberasse". Ne escono invece puliti e profumati, senza un solo capello bruciacchiato, causando l'ennesima conversione di Nabucodònosor, che in effetti si era già convertito nel capitolo precedente ma non è certo l'unico imperatore scostante o ciclotimico (nel capitolo successivo regredirà temporaneamente allo stato animale).

Un aspetto curioso dell'episodio è la completa assenza di Daniele: non solo perché è il profeta che dà nome al libro (e vi compare in quasi tutte le pagine), ma perché fino a quel momento Anania Misaele e Azaria erano i suoi compagni: la scelta di osservare una dieta kosher l'avevano presa assieme. Il fatto che nella fornace Nabucodònosor veda non tre, ma  "quattro uomini liberi, i quali camminano in mezzo al fuoco, senza subirne alcun danno", ci fa sospettare che in una prima stesura Daniele potesse essere presente: e siccome, nota Nabucodònosor, "il quarto è simile nell’aspetto a un figlio di dèi", siamo autorizzati a ipotizzare che nel testo originale Daniele non fosse già un profeta, ma l'angelo Daneel ("Dio è giusto") menzionato nel Libro di Enoch (non compreso nel canone biblico), uno degli angeli mandati da Dio ad ammaestrare gli uomini nell'era antecedente al diluvio. Questo Daniele avrebbe però ceduto al fascino delle femmine dell'uomo, generando i nefilim o giganti (Genesi 6,4). Il libro di Enoch è relativamente recente (primo secolo aC), il che lo rende una specie di fanfiction biblica: ma un angelo caduto simile a Daniele compare già nella letteratura dell'antichissima città mediorientale di Ugarit, un millennio prima.

Oltre ad avere ispirato generazioni di martirologi, i tre compagni di Daniele hanno anche lasciato un segno importante nella poesia. Le due preghiere che intonano tra le fiamme ci sono pervenute solo nella versione greca, ma sono due salmi fatti e finiti: in particolare il primo (la "preghiera di Azaria") è una struggente riflessione sulla sorte di un popolo in esilio ("Ora non abbiamo più né principe né profeta né capo né olocausto né sacrificio né oblazione né incenso né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia"). Il secondo (il "Cantico dei tre giovani nella fornace") troverà tra i suoi estimatori e imitatori lo stesso Francesco d'Assisi: non il primo a subire il fascino di un invito martellante a "benedire il Signore", rivolto non solo agli uomini, ma a tutte le creature dell'universo. Sarebbe anche un bel finale per questo pezzo.

Invece devo citare un'altra poesia: "Se dovessi morire, che questo porti speranza, che questo sia un racconto". L'ha scritta un poeta palestinese, Refaat Alareer. Alareer non stava combattendo al fianco di Hamas, ma trovava l'offensiva di Hamas perfettamente giustificabile. Aveva curato più di un'antologia di scrittori della Striscia; stava facendo il possibile per raccontare al mondo la quotidianità di Gaza sotto i bombardamenti ed era anche attivo su X, dove all'ennesimo tweet che riciclava la storia del bambino nel forno aveva replicato: "con o senza condimenti?" La battuta era stata ripresa dalla giornalista americana Bari Weiss, scandalizzata che qualcuno osasse scherzare sulla storia del bambino nel forno. Bersagliato da tweet ostili, Alareer aveva risposto: se verrò ucciso o la mia famiglia sarà danneggiata, la colpa ricada su Bari Weiss. Il 6 dicembre, il palazzo in cui viveva fu bombardato con una precisione che l'ONG Euro-Med ha definito "chirurgica": tra le vittime, oltre ad Alareer, il fratello, la sorella e quattro nipoti. 

Comments (1)

Vi siete vestiti, ma non vi siete scaldati

Permalink
16 dicembre: Sant'Aggeo, profeta del Secondo Tempio (VI sec aC). 

There must have been a door when I came in... 

Verso il 520 aC l'esilio babilonese è considerato concluso; per intercessione di Ciro, scià di Persia, Gerusalemme e i suoi dintorni erano stabilmente controllati da una comunità di ebrei rimpatriati da Babilonia, che si riconosceva nella fede nell'unico Dio, il "Signore degli eserciti", nella sua legge e nei suoi rituali. E tuttavia qualcosa non stava funzionando: i fedeli che avevano seguito il leader Zorobabele e il sommo sacerdote Giosuè, credendo alle promesse bibliche di una terra promessa, dovevano constatare che in zona non scorrevano esattamente il latte e il miele. A interpretare questo scoramento è un altro brevissimo libro attribuito a un profeta di nome Aggeo. 

Avevate seminato molto, ma avete raccolto poco; 
avete mangiato, ma non da togliervi la fame; 
avete bevuto, ma non fino a inebriarvi; 
vi siete vestiti, ma non vi siete scaldati; 
l'operaio ha avuto il suo salario, 
ma per metterlo in un sacchetto forato

Aggeo non solo inquadra il problema, ma presenta la soluzione: il Signore degli eserciti è insoddisfatto, perché i nuovi israeliti dopo aver costruito le loro case hanno abbandonato il cantiere del suo tempio, iniziato pochi anni prima e già in rovina. Questo forse a causa di un protratto stato di guerriglia con altre comunità che non riconoscevano la preminenza dei rimpatriati da Babilonia, come i Samaritani: ma è una congettura, per Aggeo la Storia è solo il protratto esame di coscienza di un popolo che non riesce mai a seguire il dettato del padre divino e le orme degli antenati gloriosi. Eppure un futuro meraviglioso è alle porte: è lo stesso Aggeo a socchiuderlo. "L'argento è mio e mio è l'oro, dice il Signore degli eserciti: la gloria futura di questa casa sarà più grande di quella precedente". Con Aggeo la letteratura profetica comincia a tingersi di sfumature apocalittiche: l'età mitica di Davide e Salomone sbiadisce di fronte alla promessa di un futuro regno di rettitudine tra il cielo e la terra. 

È difficile ripassare la storia di Gerusalemme, e del suo popolo, senza alimentare il sospetto di una millenaria coazione a ripetere. Gli ebrei che avevano scelto di tornare da Babilonia non erano la maggioranza né degli ebrei babilonesi, né di quelli che non si erano mai spostati da Israele. Per qualche motivo ritenevano comunque di essere i più importanti: il popolo scelto dal Signore. Nel loro Libro si raccontava di un esodo più antico, dall'Egitto alla Terra Promessa, ordinato da Dio: oggi gli storici tendono a escludere che questo esodo sia mai avvenuto. È probabile invece che si tratti di una narrazione propagandistica, elaborata per fornire a una comunità religiosa un movente per un'emigrazione di massa. Gli ebrei che avevano prodotto quella narrazione non solo credevano in JHWH, Signore degli eserciti, ma lo ritenevano l'unico Dio: non semplicemente superiore agli dei degli altri popoli, ma unico; un'innovazione – il monoteismo – che avrebbe goduto di un certo successo nel bacino del Mediterraneo e oltre. Può darsi che si trattasse di una comunità di intellettuali, se è vero che discendevano dagli esuli di settant'anni prima: i Babilonesi avevano deportato soprattutto la classe dirigente. Ma una volta tornati a Gerusalemme, non è chiaro chi avrebbero dovuto dirigere. Sin dall'inizio qualcosa non va; i primi lavori di costruzione del Tempio vengono ostacolati da non meglio precisati "nemici di Giuda e di Beniamino" (Esdra 4). L'autore di Esdra riferisce che sarebbero stati inviati in zona da un re di Assiria, proprio come Zorobabele era stato inviato da Ciro; ma non li identifica con nomi di altri popoli, così frequenti in altre pagine del Libro: non sono Filistei, né Ammoniti, né Moabiti né Siri né Assiri: insomma, chi sono? 

Giuda e Beniamino sono le due tribù a cui appartenevano i rimpatriati da Babilonia: è insomma lo stesso testo a suggerirci che i "nemici" siano gli ebrei delle altre dieci tribù, quelle che vivevano a nord di Gerusalemme e che in seguito sono state date per perse, mentre invece come la Lettera di Poe erano rimaste lì, proprio dove era così facile trovarle che nessuno le cercava: a casa loro. Sì, alcuni certamente avevano dovuto andarsene: parte in Egitto per scappare dalle invasioni di Assiri e Babilonesi; parte deportati in Assiria, e parte appunto a Babilonia. Ma nessuna deportazione aveva veramente fatto il vuoto; e così quando i discendenti della classe dirigente del regno di Giuda erano tornati verso il 530 a stabilirsi intorno a Gerusalemme, si erano subito scontrati con... altri ebrei: samaritani del nord, ma probabilmente anche giudei del sud. Che si trattasse di rami dello stesso popolo l'autore di Esdra non vuole dircelo, ma lo suggerisce indirettamente  quando riconosce che questi supposti "nemici", in un primo momento, avevano proposto a Zorobabele e compagnia di costruire assieme il Tempio ("anche noi, come voi, cerchiamo il vostro Dio"), ricevendo uno sdegnoso rifiuto ("Non conviene che costruiamo insieme la casa del nostro Dio; ma noi soltanto la ricostruiremo al Signore Dio d'Israele"). Solo allora erano diventati veramente "nemici", e lo stesso autore del libro di Esdra deve ammettere che la loro ostilità non divenne guerra aperta, ma si espresse in una forma diplomatica: scrissero allo scià avvertendolo che "i Giudei, partiti da te e venuti presso di noi, a Gerusalemme, stanno ricostruendo la città ribelle e malvagia, ne rialzano le mura e ne restaurano le fondamenta. Ora sia noto al re che, se questa città sarà ricostruita e saranno rialzate le sue mura, tributi, imposte e diritti di passaggio non saranno più pagati e i diritti dei re saranno lesi". 

Ciro risponde rapidamente confermando la tesi dei "nemici": "Dietro mio ordine si sono fatte ricerche, e si è trovato che questa città fin dai tempi antichi si è sollevata contro i re e in essa sono avvenute rivolte e sedizioni. [...] Date perciò ordine che quegli uomini interrompano i lavori e che quella città non sia ricostruita, fino a nuovo mio ordine". L'ordine arriverà soltanto col successore Dario, almeno sette anni dopo. Nel frattempo, racconta Aggeo, i devoti a JHWH seminavano per raccogliere poco; mangiavano senza sfamarsi; bevevano senza inebriarsi; e custodivano il salario in un sacchetto forato. L'ostilità verso i "nemici" si era trasformata in segregazione: il sacerdote Esdra si stava battendo contro i matrimoni misti. E dire che la felicità era lì nei pressi, a un passo dalla realizzazione: sarebbe bastato completare quel tempio... 

Al Jazeera


Il Secondo Tempio sarebbe stato effettivamente inaugurato intorno al 515: è quello che Gesù avrebbe frequentato, e di cui avrebbe predetto la distruzione poi arrecata dai Romani nel 70 dC. Ne rimane in piedi il muro occidentale, detto anche muro del pianto. Progetti per ricostruirlo ne sono stati fatti diversi: ultimamente c'è meno pudore al riguardo, molti steccati che sembravano invalicabili sono ceduti di schianto. C'è persino chi si è già procurato i vitelli per il sacrificio di purificazione, dono di un allevatore evangelico texano, e questo malgrado gli ebrei non sacrifichino più animali da millenni; ma ultimamente c'è sempre più gente che legge quel Libro, è sempre più difficile evitare che qualcuno lo prenda alla lettera. L'ostacolo principale, fino a qualche mese fa, era notoriamente la presenza in sito di un altro tempio, eretto da dei "nemici" che hanno un altro Dio e non si sa bene da dove vengano, i cosiddetti palestinesi. In realtà si sa benissimo: vengono da lì, non si sono mai spostati, secondo gli studi genetici sono semiti tanto quanto gli israeliani, ma è un discorso antipatico a cui alludo per completezza; onestamente mi sento a disagio quando per stabilire chi ha più diritto a un tempio (o a una terra) si comincia a frugare nel DNA. Diciamo che vengono dalla stessa famiglia, ma mentre i cugini si sono sparsi nel mondo mantenendo la religione tradizionale (pur senza rinunciare a innovazioni e deviazioni), i palestinesi sono rimasti in sito e si sono via e via mescolati con chi arrivava, accettandone usi, costumi e religioni. L'idea di condividere un tempio, già respinta ai tempi di Esdra, oggi non è nemmeno formulabile. 

Così eccoci qui, a contemplare sconsolati i nostri sacchetti forati. Aggeo, questo piccolo e poco conosciuto profeta, oggi sembra il più attuale. Immagino che capiti a tutti quelli che riescono a farsi pubblicare per 2500 anni; prima o poi una profezia si avvera. E allora coraggio. Ciro ormai è tramontato, Dario arriverà a gennaio e ci darà tutti i permessi che servono. La felicità è appena oltre quel muro: dopodiché andrà tutto bene, mangeremo e ci sazieremo, berremo e ci inebrieremo, scorreranno il latte e il miele e fiorirà il deserto. L'argento è mio e mio è l'oro, dice il Signore degli eserciti.
Comments (4)

Con ansias en amores inflamada

Permalink

14 dicembre: San Giovanni della Croce, mistico ed erotico (1542-1591)

Attribuito a Zurbarán
Quando fu l'ora di morire, sul letto in cui agonizzava, Giovanni della Croce – già acclamato come santo dal popolo, ma trattato con diffidenza dai confratelli, che non forse non gli dedicavano le cure necessarie, avendo anch'essi magari fretta che in quanto santo si levasse al cielo e dai piedi – quando fu l'ora di morire, piagato da un'infezione acuta della pelle, nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, Giovanni della Croce chiese che gli leggessero il suo libro preferito, ovvero il Cantico dei Cantici. E qui dovrei mettere punto e rinunciare anche stavolta: non posso scrivere un pezzo su Giovanni della Croce, non posso pretendere di capirlo. Tra me e lui c'è un abisso, e in fondo a questo abisso c'è appunto il Cantico, che per Giovanni era la più sublime espressione della grazia di Dio. Per me invece è una collana di poesie erotiche, alcune anche piuttosto spinte. Capite che non può esserci dialogo. Giovanni della Croce, che pure fu un brillante studioso, a un certo punto scelse di leggere soltanto la Bibbia, e in mezzo a tanta verità biblica, tanta storia, tanto mistero, trovò normale fissarsi sulle pagine in cui un'amata dice al suo amato, tra le altre cose: "Corri sui monti profumati". Giovanni della Croce dedicò una parte della sua vita (peraltro piuttosto operosa, persino avventurosa) a sondare i mistici significati di un versetto del genere, che a me fa venire in mente soltanto un paio di posizioni sessuali, e ci tengo a precisare che non credo di avere ragione io, voglio dire, l'esegesi non è uno sport, nessuno tiene i punti; non è neanche un processo, nessuno impugna il martelletto. Anzi sono pronto a concedere che le interpretazioni di Giovanni della Croce siano molto più interessanti della mia, perlomeno meno banali. Ma non posso comunque condividerle, con tutta la mia buona volontà non riesco ad accettare che un grande poeta e mistico e filosofo abbia passato la vita a sgranare una collana di poesie erotiche scambiandole per gradini verso l'ascesi la beatitudine la grazia, mi sembra una barzelletta triste o un racconto di fantascienza in cui alla fine si scopre che il Libro su cui era stata fondata un'intera civiltà è un libro di barzellette di Pierino. 

La coscienza è un gioco di specchi. Se mi chiedo perché Giovanni per tutta la vita ha cercato di vedere Dio dove c'era una ragazzotta mora ma formosa, non posso che immaginarmi Giovanni, dall'altra parte dello specchio, che si chiede perché devo per forza vedere dappertutto ragazze more (ma formose). Perché pensi solo al sesso, mi chiede? (Ma sa già la risposta: è il demonio). No, Giovanni, sei tu che al sesso non vuoi pensarci, a causa di una pressione sociale che ti imponeva un innaturale regime di castità. Risponde: ma secondo te al sesso davvero non ci pensavo? Hai fatto caso che ho passato interi anni della mia vita in monasteri... femminili? Ad Avila per tre anni sono stato il padre spirituale di centotrenta monache. Le confessavo tutte, capisci, in fatto di donne credi davvero di saperne più di me? Credi di avere avuto amiche più complicate di Teresa d'Avila, o di Anna del Gesù? E soprattutto: credi di avere avuto una vita sessuale più realizzata della mia, soltanto perché accetti di farti ispirare dal demonio ogni volta che ne ha voglia, a causa di una pressione sociale che ti vuole perennemente irradiato da immagini intriganti; credi che la tua fregola pressoché costante sia un regime più vicino alla natura, o alla felicità? Perché magari ti sbagli, in fondo che ne sai. 

Va bene Giovanni, mi sbaglio. Ci sbagliamo tutti, prendiamo i nostri usi e costumi come pietra di paragone per giudicare quelli dei secoli passati, senza nemmeno verificare se siano usi e costumi replicabili, se non dipendano da parametri economici effimeri, che forse stanno già cambiando e potrebbe essere il motivo per cui siamo molto meno felici e realizzati di quanto dovremmo essere. Tu invece sei stato felice, o almeno vorresti tanto farmi credere in questo. Hai scelto la vita contemplativa, hai scoperto quanto fosse tortuosa, hai scoperto che persino nella voluttà di ricevere i sacramenti possono nascondersi la gola e la lussuria, che persino i digiunatori possono digiunare per vanità; hai scoperto con orrore tutto questo e proprio quando ti sembravi perso, in una notte oscura, con ansias en amores inflamada (o dichosa ventura) hai trovato la strada giusta, la via verso la grazia. Tutto giusto. Non credo a una parola, Giovanni. 

Tu eri nato per scrivere poesie d'amore, e in un altro secolo lo avresti fatto, magari tra un'impresa cavalleresca e l'altra. Ma siamo nel Cinquecento, i prezzi in Castiglia non fanno che salire e nessuno capisce come mai, proprio adesso che sta arrivando tanto oro dalle Americhe... tuo padre si è declassato per sposare una tessitrice, gli affari vanno male, tu sei portato per gli studi e in breve tempo la carriera ecclesiastica diventa l'unica praticabile per un secondogenito studioso senza amici in paradiso. Entri in un monastero carmelitano, e a 25 anni incontri Teresa D'Avila, che ha il doppio dei tuoi anni e vuole riportare le carmelitane ai vecchi costumi ascetici di un tempo. Certi monasteri ormai sono alberghi per le signorine di buona famiglia che le buone famiglie non vogliono accasare; non è senz'altro così che si diventa santi e anche tu sei d'accordo, ma appunto, tu hai vent'anni e lei cinquanta: non ti viene in mente che dovendosi trovare un direttore spirituale per il suo nuovo monastero, non abbia scelto te perché eri così giovane e malleabile? Dietro a tante mistiche di successo, c'è un padre spirituale che invece di prenderle per matte si segna le visioni e comincia a sparger voce che c'è una santa in città; con te e Teresa sembra successo l'opposto. Cerchi di riformare i carmelitani come lei ha fatto col ramo femminile, ma siamo nel Cinquecento e questa parola, "riforma", è la più pericolosa che si possa usare in Spagna. I pezzi grossi dell'ordine ti perseguitano; finisci in cella un paio di volte, e lì non digiuni più per la vanità di digiunare, ma perché proprio da mangiare te ne danno punto o poco; non ti frusti più per lussuria, ma sono gli altri a frustarti perché non ritratti determinati punti di dottrina; non preghi più per la vanità di pregare, ma perché sei solo in una stanza oscura. E ritrovi Dio, di questo sei convinto. Sicuramente ritrovi la poesia, perché non hai nemmeno carta per scrivere i tuoi pensieri, e non ti resta che compitarli a memoria, puntellandoti con rime e prosodia. Scrivi poesie d'amore talmente pure che l'oggetto dell'amore è secondario; potrebbe essere Dio come una ragazza come qualsiasi altra cosa. In pratica riscrivi il Cantico dei Cantici, e forse lo scrivi anche meglio dell'originale, perché non c'è dubbio che tu sia un grande poeta, Giovanni, un sorso d'acqua limpida prima che tutto diventi tortuoso e barocco. E quando sarai di nuovo libero, quando le tue amiche monache ti chiederanno cosa significano quelle stanze così chiare a chiunque abbia amato un poco, tu farai proprio come gli esegeti medievali dei Cantici, e diventerai l'interprete anagogico delle tue poesie erotiche. Cosa dire. 

Non lo so, Giovanni, forse c'era una strada più dritta, ma ognuno trova quella che può; senz'altro la tua non l'hai scelta per pigrizia, o perché fosse la più praticata ai tuoi tempi. Non posso dire lo stesso di me, e quindi ti ammiro. Credo che la coscienza sia poco più di un labirinto di specchi; credo che per un po' sei riuscito a fare così buio nella tua anima da illuderti di averli superati, e quando finalmente hai sentito di nuovo qualcosa, hai pensato che fosse Dio, e sei stato davvero felice. Perché no. Se è successo, sono contento per te. Ma non riesco a immaginare che quel volto benigno che finalmente ti perdonava, e ti riconosceva, e asciugava le tue lacrime, non fosse che l'ennesimo specchio. Mi dispiace, non ho abbastanza immaginazione. O è il demonio, perché no.

Comments
See Older Posts ...