Un frate sposato e un monaco non venerabile
10-04-2025, 01:26santiPermalink10 aprile: Beato Antonio Neyrot da Rivoli, martire (1423-1460)
Su EBay sta a 29,99, dice che è rarissimo |
Per tutto il Basso Medioevo, il cristianesimo si è rifranto contro l'Africa come contro un muro. Se abbatterlo era fuori questione, anche solo penetrarlo si rivelava periodicamente impossibile. Falliscono i primi missionari francescani in Marocco, che almeno hanno la consolazione di morire da martiri; fallisce Francesco stesso, che in Egitto riesce a impressionare il Sultano ma non lo converte; fallisce Antonio da Padova, che si ammala appena mette piede nel continente; fallisce Re Luigi il Santo, che ci prova due volte finché non muore di dissenteria. Ci prova anche, due secoli dopo, il domenicano Antonio Neyrot (o Neirotti) da Rivoli, ma il suo caso è abbastanza singolare, e si capisce perché non gli abbia assicurato una maggiore fama; a quanto pare, prima di morire eroicamente da martire a Tunisi, Antonio si era convertito all'Islam, e addirittura sposato!
È una storia di cui sappiamo poco, né chi l'ha tramandata aveva interesse a saperne di più. I resti di Antonio vengono acquisiti da mercanti genovesi e ritornano a Rivoli nel 1469, nove anni dopo il suo martirio. Probabilmente non erano in un buono stato. I mercanti avevano tutto l'interesse a sostenere di avere acquisito i resti di un martire della fede, i cui resti emanavano il caratteristico profumo: e tuttavia non era affatto chiaro cosa ci facesse Antonio a Tunisi. L'Ordine non ce l'aveva mandato, e si sa che uno dei voti dei domenicani è l'obbedienza. Ma Antonio da questo punto di vista forse non era il perfetto tra i frati. I suoi anni di apprendistato li aveva trascorsi nel convento di San Marco a Firenze, il che ha spinto qualche agiografo a collegarlo con Antonino Pierozzi, il famoso priore che divenne arcivescovo al posto del Beato Angelico. Se Antonio fece in tempo a essere allievo di Antonino, doveva davvero essere l'ultimissimo; dopodiché a venticinque anni avrebbe chiesto un trasferimento in Sicilia. Questo rappresenterebbe un indizio delle velleità missionarie di Antonio; ma davvero nella Sicilia del Quattrocento c'era tutta questa esigenza di missionari? E infatti il priore non era affatto convinto; sicché Antonio avrebbe fatto ricorso nientemeno che alla Santa Sede. È una storia strana, che sconfina definitivamente nel romanzesco quando qualche anno dopo la nave in cui viaggiava viene catturata dai pirati berberi che conducono i passeggeri a Tunisi per venderli come schiavi. Non è che queste cose non succedessero davvero, ma non è chiaro come mai il vascello si trovasse sulla tratta Sicilia-Napoli: stava tornando a Firenze? A Tunisi viene riscattato da un mercante genovese: anche queste cose succedevano; ma invece di tornare in Italia con lui, Antonio decide di restare in città, non si sa bene con che budget. In un qualche modo riesce a trovarsi una sistemazione, e nel 1459 si converte all'Islam e si sposa. Non è chiaro di cosa vivesse, ma gli agiografi riportano i suoi tentativi di tradurre il Corano in italiano. Un altro dettaglio bislacco: i buoni musulmani non apprezzano le traduzioni del libro di Dio, che è tale solo quando è scritto nella lingua in cui fu dettato a Maometto, ovvero l'arabo. Tradurlo sembra un gesto più da studioso che da devoto, per cui non possiamo escludere che Antonio fosse arrivato in Africa per soddisfare una curiosità antropologica più potente della vocazione religiosa. La sua storia per certi versi somiglia all'avventura africana di Vincenzo De Paoli, anche lui rapito dai pirati e rivenduto a Tunisi un secolo e mezzo dopo. E in entrambi i casi si insinua nella nostra mentalità scettica il sospetto: ma davvero se la cavavano così bene, gli schiavi cristiani a Tunisi: davvero riuscivano a riscattarsi così facilmente e trovarsi subito qualche professione interessante? Non è possibile che almeno uno dei due sant'uomini in Africa ci sia andato volontariamente, magari perché il vestito di religioso che indossavano in Europa gli stava stretto e la prospettiva di fare altro, magari anche di farsi una famiglia, li tentava?
Ma non c'era niente da fare: l'Africa respingerà, ancora per qualche secolo, anche i cristiani pentiti. Vincenzo tornerà in Francia dopo due anni, in seguito a una misteriosa traversata che non vorrà mai raccontare in dettaglio. Nel 1460 invece Antonio viene lapidato, probabilmente per apostasia. Possiamo ipotizzare che fosse rimasto cristiano tutto il tempo, come i musulmani in Spagna e in Sicilia che si facevano battezzare ma continuavano di nascosto a pregare in direzione della Mecca; oppure si era stancato di sua moglie; o la moglie si era stancato di lui e l'aveva denunciato, chi lo sa. Agli agiografi tornava più utile raccontare che il fatale ravvedimento fosse stato ispirato da un'apparizione in sogno del vecchio maestro Antonino Pierozzi. Al martirio avrebbe assistito un frate gerolamino, Costanzo da Carpi, che avrebbe scritto la prima agiografia su di lui; un altro resoconto fu fornito dal domenicano siciliano Pietro Ranzano, che avrebbe avuto accesso a lettere provenienti da Tunisi. Tanta documentazione, come si vede, non ha affatto chiarito l'ambiguità del caso: anzi ogni dettaglio sembra smentire un pezzo di storia. Persino il ritrovamento del corpo, che dopo un tentativo di bruciarlo, le autorità avrebbero abbandonato una discarica; eppure i mercanti genovesi dovettero spendere qualcosa per riscattarlo. Dove si vede la potenza del commercio: quel che a Tunisi era un rifiuto da smaltire, a Genova sarebbe diventata una preziosa reliquia che Amedeo duca di Savoia avrebbe acquisito, non senza un esborso importante.
Demetrio, o il Dio in incognito
09-04-2025, 01:54miti, santiPermalinkGiorgio e Demetrio sconfiggono un drago (monastero di Sumela, Trebisonda) |
Nel Settecento i Bollandisti ipotizzano che il Demetrio di Salonicco sia lo stesso Demetrio di Sirmio (oggi Mitrovic in Bosnia): il che spiegherebbe come mai, malgrado un culto così importante, a Salonicco di resti veri e propri non ce ne fossero. Siccome si trattava di un santo soldato, per i Bollandisti era facile ipotizzare che il trasferimento del culto non avesse seguito la traslazione di un cadavere, ma lo spostamento di una legione da Sirmio a Tessalonica. A Sirmio per la verità Demetrio non faceva il soldato, ma il diacono: una volta trasferito nella nuova città avrebbe però perso la sua identità, mantenendo unicamente il ruolo di protettore dei soldati. L'ipotesi è convincente, ma non possiamo nemmeno accantonare la proposta avanzata nel 2000 da uno storico americano, David Woods, che fa notare come le uniche reliquie custodite a Salonicco non fossero ossa, com'era tipico, ma una sciarpa e un anello. È una combinazione di oggetti assai rara, per non dire unica: molto singolare quindi il fatto che una simile coppia di oggetti fosse menzionata dal poeta Prudenzio nel Peristephanon, associata a due martiri spagnoli, Emeterio e Chelidonio. Da cui un'ipotesi: e se i due oggetti fossero arrivati a Tessalonica dalla Spagna, magari portati dall'imperatore Teodosio durante i suoi soggiorni in città (379-380)? Le reliquie, custodite in un luogo sacro, sarebbero state rapidamente dimenticate e riscoperte trent'anni dopo da un prefetto dell'Illiria, Leonzio, che nei paraggi era guarito miracolosamente da un male e voleva capire quale santo lo aveva salvato (i maliziosi penseranno che voleva fondare un nuovo luogo di culto, o magari lanciare una sua linea di olio). Il ritrovamento delle reliquie da parte di Leonzio è documentato da ben due Passio: secondo Woods, Leonzio avrebbe potuto trovato il nome "Emetrius" e aver pensato che la D iniziale era andata cancellata, come doveva succedere spesso in quei secoli in cui la gente scriveva sulle pietre, sulla terracotta e altri materiali facilmente sbrecciabili. Avrebbe quindi deciso di portare anello e sciarpa in una chiesa che a Tessalonica esisteva già, ed era dedicata al Demetrio di Sirmio, contribuendo involontariamente a fondere l'immagine dei due santi.
L'apocalisse è una soluzione
05-04-2025, 01:30apocalittici e integrati, santiPermalink
5 aprile: San Vincenzo Ferrer (1350-1419), angelo autonominato dell'apocalisse. Saverio De Musso.
La svolta avvenne nel 1398, durante l'assedio di Avignone. Fino a quel momento la carriera del valenciano Vicente Ferrer era stata quella del prelato insigne di nobili natali, dottore di teologia e spesso impiegato in missioni diplomatiche. Nulla lasciava presagire che l'ormai cinquantenne domenicano sarebbe di lì a poco l'angelo dell'apocalisse, il primo grande divo del secolo ruggente della predicazione, il Quattrocento. Del resto Dio ti può chiamare in qualsiasi momento, anche se alle prove dei fatti tutte queste apocalissi annunciate non si verificano mai. Agli scettici voglio proporre un'altra ipotesi: nell'Apocalisse, Vicente potrebbe aver trovato una via d'uscita da una situazione che non sembrava più indicarne altre. Vicente in effetti era in trappola: non solo perché Avignone era circondata dalla cavalleria di Carlo VII di Francia. Gli assedi sono cose che capitano, un grande imbarazzo per chi combatte e chi fatica a mettere insieme pranzo e cena, ma di solito si risolvono prima che anche a corte si cominci a far la fame. Il vero dubbio che doveva tormentarlo, era quello di avere puntato sul papa sbagliato.
Ai tempi era un errore piuttosto comune: vent'anni prima, allo scoppio dello scisma d'Occidente, Vicente era un giovane chierico in carriera alla corte del cardinale aragonese Pedro de Luna. Tra il papa di Roma (Urbano VI) e quello fuggito ad Avignone (Clemente VII) non aveva avuto la possibilità di scegliere: la Chiesa aragonese si era schierata con Clemente, fine della discussione. Non solo, ma alla morte di Clemente, nel 1394, i cardinali avignonesi avevano eletto come successore il protettore di Vicente, Pedro de Luna, che aveva preso il nome di Benedetto XIII e nominato Vicente suo maestro di palazzo. Oltre a essere suo stretto collaboratore, Vicente era il suo confessore, e può darsi che il tarlo del dubbio gli si sia insinuato così: conosceva troppo il suo Pedro per ritenerlo un buon papa. D'altro canto, licenziarsi da una carica così prestigiosa e delicata non doveva essere semplice: e anche il fatto che a Pedro non ne stesse andando bene una, poteva rendere la cosa ancora più complicata: Magari non a voi, magari siete quel tipo di persona che non ha difficoltà a mollare una ditta in difficoltà, o una scuola in crisi, o un partner problematico; ma accettate che non sono tutti come voi, c'è gente che piuttosto di abbandonare al suo destino boss che lo aveva scelto e protetto per vent'anni si fa venire la febbre e le visioni apocalittiche. Questa almeno è la mia ipotesi notturna su San Vincenzo Ferrer, che durante l'assedio del 1398 soffrì violenti febbri dalle quali guarì miracolosamente, dopodiché informò il suo papa (che oggi consideriamo un antipapa) che non poteva più lavorare per lui, Cristo gli era apparso insieme a San Francesco e San Domenico per esortarlo a mettersi in strada per convertire l'umanità intera, dal momento che la fine dei giorni era ormai vicina. Cristo, in effetti, era l'unica autorità che Pedro riconosceva superiore alla sua.
Detto questo, resta da spiegare come fece un domenicano quasi cinquantenne che fino a quel momento aveva frequentato la curia e le facoltà di teologia a trasformarsi in un imbonitore di piazza, un santone dal miracolo facile, l'impresario di un circo apocalittico che trascinava un codazzo di fanatici in giro per l'Europa. La spiegazione carismatica, anche in questo caso, è la più semplice: Dio ti può scegliere in qualsiasi momento per combinare qualsiasi cosa. Può darsi che mettendosi in strada, Vicente abbia messo a frutto dei talenti che fino a quel momento erano rimasti inespressi. Il pubblico ad esempio andava in visibilio perché, in ogni città, Vicente riusciva a farsi capire, benché parlasse per lo più in lingua valenciana. Secondo i linguisti è possibile che a inizio Quattrocento i dialetti romanzi tra Spagna e Italia fossero così poco differenziati da permettere a Vicente di predicare senza traduttori. E però si può anche notare che Vicente aveva un passato di studioso e diplomatico, e forse come Antonio da Padova poteva contare su un talento naturale per lingue che ai tempi (tempi in cui a studiare erano molto in pochi) più facilmente veniva scambiato per una facoltà miracolosa. Tanto più che nei suoi discorsi preferiva concentrarsi su contenuti semplici (la fine del mondo è vicina, pentitevi) e mantenere l'attenzione con effetti di scena – i miracoli, appunto. Vincenzo è forse il santo che è riuscito a farsene omologare la maggiore quantità: quando, su impulso del re Alfonso d'Aragona, fu avviata la pratica delle canonizzazione e furono trascritti i miracoli, si scoprì che ce n'era almeno un'ottantina di documentati – una stima largamente difettiva, dal momento che di lui dicevano che se un giorno non avesse fatto miracoli, ecco, quello sarebbe stato un miracolo.
Nel suo viaggio verso la fine del mondo Ferrer lasciava dietro di sé una scia di storpi raddrizzati, epidemie sanate, siccità risolte. Si racconta che una volta vide un tizio cadere dalla finestra e lo bloccò a mezz'aria, perché Benedetto XIII gli aveva proibito di fare altri miracoli e lui voleva prima il suo permesso. I miracoli lo resero popolarissimo presso i ceti più umili, disorientati da uno scisma che non finiva mai. I papi erano quasi sempre due, quando finalmente si arrivava a un compromesso se ne nominava un terzo. Predicando l'Apocalisse, Vicente era riuscito a chiamarsi fuori dalla contesa, anche se per mantenere il suo personaggio doveva vivere frugalmente, girare l'Europa occidentale in sandali, accompagnarsi da flagellanti che oltre che infliggersi ferite ne arrecavano parecchie soprattutto agli ebrei che saccheggiavano di città in città. Quando gli proposero lo zucchetto da cardinale, lo rifiutò, così come rifiutò di partecipare al Concilio di Costanza che doveva risolvere lo scisma una volta per tutte. Ma quando a Costanza fu proclamato un nuovo papa, Martino V, a Ferrer toccò l'ingrato compito di comunicare a Benedetto XIII che anche il re Ferdinando di Aragona non lo considerava più un papa: una missione resa ancora più penosa dal fatto che era stato grazie a Benedetto che Ferdinando era salito al trono. Ma anche Vicente doveva quasi tutto al vecchio antipapa a cui diede il benservito. Fu una delle sue ultime missioni ufficiali: morì nel 1419 in Bretagna a 69 anni, senza aver visto l'Anticristo che pure secondo i suoi calcoli doveva essere nato intorno al 1402. Gli sopravvisse per due anni Pedro detto Benedetto XIII, ancora convinto di essere l'unico papa legittimo, barricato nel suo castello di Peñiscola con tre prelati che considerava i suoi cardinali, ai quali chiese di eleggere un successore.
San Vincenzo di Valencia è venerato un po' dovunque, anche se in Sudamerica a volte è confuso o sovrapposto a Vincenzo di Saragozza. A Napoli è particolarmente festeggiato in luglio, quando "O munacone" viene portato in processione nel rione Sanità. È una statua di San Vincenzo che tradisce le origini domenicane della Basilica di Santa Maria della Sanità; benché l'ordine fosse stato sciolto a inizio Ottocento, la statua fu considerata risolutiva durante l'epidemia di colera del 1836. Tra i santi domenicani è abbastanza facile da riconoscere: spesso, oltre al saio bianconero dell'ordine, porta due ali d'angelo, dal momento che si considerava l'angelo dell'apocalisse.
Adolescenti, non li spiamo mai abbastanza
04-04-2025, 01:26cinema, delitti e cronaca, forze dell'ordine, scuola, tvPermalinkHo visto Adolescence, ci ho messo i miei tempi. Non mi sembra dica nulla di troppo profondo sulla violenza di genere, anche se lo dice con espedienti che destano sempre ammirazione (i piani sequenza) e a volte rischiano di mettersi tra noi e il messaggio – ma immagino sia un problema soltanto per chi tiene molto a questa cosa del messaggio. Senz'altro viene incontro a un'esigenza di aggiornamento che ogni tanto assale il mondo degli adulti, la necessità di svecchiare il lessico; come dice il ragazzino, voi parlate sempre di bullismo, ecco, in effetti potremmo considerare il bullismo la punta di un iceberg, e avere la curiosità di cosa c'è sotto. Sotto ci sono i redpillati, i ragazzini che per rompere il ghiaccio prendono le dritte dagli youtuber e li senti dire sciocchezze terrificanti (ma almeno ci provano), i gamer con i loro limiti empatici e attentivi che sono onestamente quelli che mi inquietano di più, forse perché ho la sensazione che abbiano preso il potere, almeno a Washington. Mi inquieta però anche il modo in cui gli autori di Adolescence hanno pensato di impostare il discorso, ma non credo di essere oggettivo, in fondo si parla delle persone con cui lavoro.
La serie si aggira in un mondo in cui tutto è sempre accessibile e visibile: del resto gli inglesi oltre ad avere le migliori scuole di recitazione al mondo sono all'avanguardia anche nella diffusione delle videocamere di sorveglianza – qualcuno prima o poi metterà in correlazione le due cose; forse Adolescence è un tentativo di metterle in correlazione. I primi tre episodi potrebbe averli previsti Foucault, sono come tre piani del Panopticon: la Stazione di Polizia, la Scuola e l'Istituto Psichiatrico. La scelta del piano sequenza potrebbe alludere a questo: siccome tutto è sempre visibile, ci è consentito di aggirarci sulla scena tra i personaggi: ma non è vero, tutto è visibile solo a chi possiede i circuiti chiusi, e inoltre le videocamere non si aggirano così, avrebbe avuto più senso un montaggio di camere fisse. Questa disparità tra chi vede tutto e chi può solo sperare di non disgustare gli spettatori esplode nel terzo episodio, dove il ragazzino crede di essere il protagonista della sua tragedia e invece è sedotto, spiato, svuotato e respinto con un moto di genuino fastidio (quel mezzo conato di vomito della psicologa, quando sta per addentare il tramezzino, per me è il momento più notevole). Il quarto episodio spiazza un po' lo schema che mi stavo facendo, ma anche seguendo la famiglia, gli autori non smettono di dirci che tutto è visibile, tutto è videocamera, tutto è giudicabile e da questo giudizio costante e universale non si può più sfuggire. Va bene. Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di instagram. Ma vorrei tornare ai primi due episodi, perché sono quelli che mi hanno lasciato le sensazioni peggiori.
Il primo comincia con un'irruzione della polizia che lì per lì ci sembra esagerata, ma tutto il resto della serie vorrà dimostrarci che non è vero, che la polizia ha fatto benissimo a irrompere così. Dopodiché seguiamo i personaggi in una Stazione di Polizia dove tutti sanno quello che stanno facendo, e lo fanno con professionalità e sollecitudine. È un procedurale nel senso letterale del termine, nel senso che per l'80% non fa che mostrare cosa succede passo dopo passo quando la polizia inglese ti arresta per sospetto omicidio. L'unica cosa che mi ha lasciato perplesso è che nessuno, per più di mezz'ora, chiede ai poliziotti chi sia morto: sinceramente sarebbe la prima cosa che domanderei, persino se l'avessi ucciso io. Ma forse gli inglesi hanno un più alto concetto della privacy, che ne so. In compenso il padre dice qualcosa come: ci avete sfasciato la casa, e il poliziotto gli risponde: Non è vero. Comunque ci sono i video e potrà sporgere reclamo. Se non avete un avvocato ve lo diamo noi ed è bravissimo. La polizia possiede i video e gestisce l'oggettività: può affermare in qualsiasi momento cosa è vero e cosa non lo è, e la cosa non ci preoccupa perché vediamo che i poliziotti sono esseri umani con debolezze standard, ma anche un buon livello di professionalità ed empatia. Fantastico.La seconda puntata è ambientata in una scuola media, e forse questo sta offuscando la mia oggettività, ma il confronto tra i due piani concentrazionari è impietoso. A scuola niente funziona. I professionisti non sono professionali, non riescono a controllare i ragazzi che si pestano ferocemente anche sotto i loro occhi, che comunque a volte nemmeno ci sono, perché come nelle scuole del cinema americano assistiamo a sequenze importanti dove gli adulti non si fanno vivi, per quanto sia irrealistico; forse semplicemente sono in ritardo, o in pausa caffè; non insegnano, non consolano, non risolvono, sanno solo dire "fermo lì" e: "guardate il video". Ci sono video dappertutto, dice il poliziotto disgustato (lo stesso poliziotto che senza le videocamere non avrebbe risolto il caso). Invece la poliziotta ci ricorda un paio di volte che la scuola puzza, di cavolo e masturbazione. (La Stazione di Polizia probabilmente sa di caffè e inchiostro per le impronte). La scuola è il luogo del delitto, che in effetti è avvenuto a qualche iarda di distanza, ma è a scuola che i ragazzi si sono conosciuti e si sono predisposti per odiarsi a morte. Ora, io non so se le scuole inglesi siano davvero così – e a tal proposito comincio a capire la saggezza dei nostri antenati, che decise di isolare le Medie Inferiori sia dalle Elementari sia dalle Superiori, perché è davvero una fase critica che è meglio sia guardata a vista, da professionisti abituati alla stupidità così peculiare di quella fascia di età. Quel che mi disturba davvero è vedere un contrasto così netto tra forze dell'ordine e scuola del caos. Un contrasto che il terzo episodio non fa che fortificare: anche stavolta il contrasto è tra una psicologa superprofessionale e un ragazzino cresciuto in una jungla finta che crede che fare "buh" lo renderà più interessante. È difficile assistere alla sequenza senza provare un compiacimento sadico per il modo in cui il Caos viene interpretato e definitivamente represso.
Infine, se proprio vogliamo unire i puntini, nella quarta puntata il padre ricorda che non ha mai picchiato suo figlio, perché? Perché suo padre lo cinghiava troppo. E qui forse c'è il vero gap culturale, perché gli inglesi in effetti sono stati gli ultimi europei a togliere le punizioni corporali a scuola, laddove in Italia la generazione che si era ripromessa di non toccare i figli tutto sommato era quella dei miei genitori (i boomer, sì). È il momento in cui i genitori si stanno lambiccando per capire dove hanno sbagliato, se hanno sbagliato: forse il padre non doveva voltarsi dall'altra parte mentre il figlio portiere prendeva tutti quei goal (nella società delle videocamere, voltare lo sguardo è l'offesa estrema). Oppure, chi lo sa, gli autori non lo dicono, ma unendo i puntini uno potrebbe anche giungere alla conclusione che la cinghia ogni tanto va usata; che la scuola era più seria al tempo dei frustini e dei righelli; che l'unica istituzione che funziona davvero – la Polizia – funziona perché non si fa scrupolo di puntare un fucile su un adolescente nel suo letto durante un'irruzione, o di inseguirne un altro tra i marciapiedi anche se a conti fatti è inutile, dove vuoi che scappi, hai l'indirizzo, hai il telefono, lo riacciuffi tra tre ore al Macdonald, a Carpi i tizi che entrarono con un autobus in una scuola li presero lì. Insomma ci ho messo i miei tempi, ma ho concluso che Adolescence è una serie reazionaria che ti spaventa coi ragazzini omicidi per suggerirti che ci vuole più repressione. L'estremo opposto dei 400 colpi: se li lasci un po' liberi sapranno solo farsi male, l'unica è sequestrargli le lame e spiarli in modo più capillare: mai distogliere lo sguardo, mai. Onestamente mi dispiace pensarla così, non mi sembrava così terribile guardandola, ma rileggendomi purtroppo mi ritrovo d'accordo.
Forse ti senti a volte Sant'Ulpiano
03-04-2025, 00:20poesia, santiPermalink![]() |
Il santino è disponibile su EBay. |
Forse ti senti a volte Sant'Ulpiano,
che a Tiro dentro un sacco, crudelmente,
siccome si ostinava a esser cristiano,
fu chiuso con un cane ed un serpente.
La gente, attratta dal supplizio strano,
ti giudica passivo e connivente:
Sei complice del cane, Sant'Ulpiano?
Non prendi le distanze dal serpente?
Il sacco quindi fu gettato in mare:
in questo sembri a volte Sant'Ulpiano,
che non lo vede, ma sa di affondare.
Intorno il mondo punge e abbaia, invano.
– Fratelli, avete fretta di affogare?
Mordete, per favore, un po' più piano.
I quattro cappi di Chris Robinson
31-03-2025, 01:34santiPermalink
31 marzo: Beato Bonaventura Tornielli da Forlì (1411-1491)Bonaventura (sbarbato!)
in una volta del duomo di Forlì
In un secolo, il Quattrocento, in cui i predicatori sono le rockstar – le città li aspettano con impazienza, ne celebrano l'arrivo, riempiono le piazze per ascoltarli, a volte li mettono a capo di rivolte popolari – Bonaventura Tornielli è l'esempio classico di divo minore: un personaggio che avrebbe potuto diventare un Savonarola o un Bernardino e se non c'è riuscito forse è perché, al di là di qualche mancata occasione, non aveva voglia di trovarsi al centro di così tanto baccano. Per conquistare le folle non gli mancava il physique du rôle: i contemporanei lo ricordano con una barba corta e rada (da cui il nomignolo fra Barbetta), piccolo, magro e scalzo, come si conveniva ai predicatori più eroici che forse si giovavano del contrasto tra l'apparenza misera e la voce suadente e loquace. Si tratta di figure che tra l'altro potrebbero aver contribuito a mantenere endemico in Europa il virus della peste, perché se capitavano in una città che ne soffriva, subito proponevano di indire un'affollata processione: come avvenne per esempio a Bonaventura a Perugia nel luglio del 1476 (il primo prelato che dà la netta sensazione di aver capito che le processioni possano essere veicoli di contagio è Carlo Borromeo, un secolo dopo).
Bonaventura probabilmente aspirava a una vita ritirata in uno dei conventi del suo ordine, i Servi di Maria: ma in quanto predicatore apostolico il suo mestiere doveva portarlo di città in città e fu in una qualsiasi, Udine, che gli capitò di trovare la morte ormai ottantenne, mentre partecipava a una celebrazione del giovedì santo, il peggior momento dell'anno per chi voglia lasciare il nome su un calendario. Tornielli fu effettivamente considerato un santo dai confratelli, ma ormai il medioevo è finito e la Chiesa non può più consentire che i santi vengano canonizzati così, per acclamazione. Considerato che le notizie viaggiavano ancora a cavallo, la reazione della gerarchia ecclesiastica fu notevolmente tempestiva: sei giorni dopo la morte il vicario generale del patriarcato di Aquileia aveva già inviato un provvedimento di scomunica a chi avesse pubblicamente venerato Bonaventura come santo. I vestiti e i peli della barba, custoditi come reliquie, furono requisiti; i notai che avevano messo per iscritto le testimonianze di miracoli furono costretti a consegnarli al vicario. I frati serviti di Udine intentarono immediatamente un ricorso, e qui forse è il caso di ricordare che i Servi di Maria a questo punto erano un ordine importante, ma non immune da un certo senso di inferiorità: per quanto potessero vantare origini antiche quasi quanto quelle di francescani e domenicani, non potevano vantare fondatori altrettanto illustri, né santi di primo rango sul calendario. Questo forse spiega l'impazienza con la quale avevano cercato di accreditare Bonaventura in paradiso, ma il Patriarcato non la condivideva e addirittura il 12 aprile ordinò di demolire la tomba di Bonaventura, perché sporgendo troppo dal suolo si configurava come monumento. A quel punto ai Servi udinesi non restava che appellarsi alla Santa Sede, e così fecero: dopodiché la questione, che finché era rimasta locale, era stata gestita con estrema urgenza, si insabbiò.
Il ricorso presentato dai Servi era ancora in attesa di esame diciott'anni dopo, quando un notabile veneziano, Andrea Loredan, tendò di sbloccare la situazione annunciando che Bonaventura lo aveva guarito da una grave malattia; Loredan era il luogotenente della Serenissima a Udine, e aveva dunque abbastanza autorità per prelevare i resti di Bonaventura e riportarli con sé a Venezia, dove furono collocati tra le reliquie nella sagrestia di Santa Maria dei Servi, nel sestiere di Cannaregio. Non era ufficialmente un santo, ma veniva custodito tra i santi, e i confratelli ogni giovedì santo recitavano una messa in suo onore. La chiesa fu però distrutta durante il periodo napoleonico: i resti di Bonaventura tornano, dopo qualche tappa intermedia, a Udine, nel santuario delle Grazie. A Roma un processo di beatificazione sarebbe iniziato soltanto nel 1909, per concludersi con esito positivo tre anni più tardi.
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Supremacy And Survival |
31 marzo: Beato Christopher Robinson (1568-1598), martire inglese
Il nostro parere, purché positivo
29-03-2025, 01:44Il Manifesto, Manifesto, scuolaPermalink[Questo pezzo è apparso sul Manifesto del 27 marzo 2025]. Il ministro ce l’aveva promesso: le «Nuove indicazioni per la scuola», dette volgarmente «programmi», non sarebbero calate dall’alto. Ne avremmo discusso assieme: insegnanti, genitori, cittadini. Anche il controverso documento pubblicato il 10 marzo recava il sottotitolo: «Materiali per il dibattito pubblico». Benché non fosse chiaro in che sede questo dibattito sarebbe stato intavolato.
Da qualche giorno anche questo non è più un mistero: ai dirigenti scolastici infatti è stato consegnato il link a un questionario on line da inviare tassativamente entro il 10 aprile. I dirigenti possono scegliere se compilarlo da soli, o selezionare un gruppo di insegnanti «su mandato del collegio docenti». E siccome un collegio docente non è così facile da convocare in tempi brevi (specie negli istituti comprensivi della scuola dell’obbligo, che a volte comprendono cinque o sei scuole primarie e secondarie), è facile immaginare che la maggior parte dei dirigenti preferirà assolvere questa ennesima incombenza da solo o con qualche stretto collaboratore.
I presidi sono in generale meno inclini alla polemica degli insegnanti: ma anche se qualche dirigente avesse maturato un severo giudizio nei confronti delle «Nuove indicazioni», e non avesse nessuna remora a metterlo per iscritto, Valditara non potrebbe accorgersene perché… il questionario non accetta risposte negative.
Sembra una barzelletta, per quanto poco divertente. Il questionario è composto da ventidue domande a risposta chiusa e uno spazio per «suggerimenti e osservazioni» che in un primo momento accettava un massimo di 250 caratteri, e adesso mille. In particolare i quesiti relativi alle discipline contemplano tutti le stesse risposte: «A. Si condivide l’impianto perché prefigura un percorso “verticale” degli studi meglio scandito e articolato; B. Sarebbe più utile ampliare le conoscenze suggerite nelle diverse classi del primo ciclo; C. L’approccio metodologico è innovativo, ma richiederebbe maggior peso e tempo da assegnare alla disciplina; D. Nessuna risposta». A chi non voglia in nessun modo «condividere l’impianto» o «l’approccio metodologico» non resta che trincerarsi nel silenzio della risposta D, come sta proponendo ai suoi iscritti la Flc Cgil. Per la Cisl scuola «l’impressione è quella di una consultazione di facciata»; un gruppo di associazioni degli insegnanti ha già convocato un presidio per il due aprile presso l’Università di Roma Tre per chiedere l’apertura di una reale discussione.
A tante critiche si potrebbe obiettare che, per quanto evidentemente manipolatorio, il questionario lascia pur sempre uno spazio finale libero per le critiche e gli sfoghi. Ora, sarà una diabolica coincidenza, ma proprio in questi giorni, sull’ondata di un episodio folkloristico (si è scoperto che una maestra d’asilo ha un account OnlyFans), Valditara ha ventilato la possibilità di varare un «codice etico» che tratterrà gli insegnanti dal pubblicare «dichiarazioni, immagini o commenti che possano danneggiare il prestigio o l’immagine dell’amministrazione».
Nel frattempo un deputato leghista da un quotidiano tuona contro i «troppi docenti fanatici e ideologizzati nelle nostre scuole», facendo nomi e cognomi di professionisti incensurati. Dal Corriere della Sera il presidente della Commissione che ha lavorato alle «Nuove indicazioni» denuncia la «partigianeria», «l’odio per l’avversario, l’avversione cieca» di chi non condivide l’ultraoccidentalismo delle sue tesi. Questa è l’atmosfera nelle due settimane in cui il ministero ci chiede un parere telematico sui suoi programmi scolastici: se molti dirigenti non riterranno opportuno inoltrare il questionario ai propri sottoposti, spesso non sarà per scarsa fiducia, ma per proteggerli. In fondo lo sappiamo – i social network ce l’hanno insegnato – che chi ci propone un test on line vuole per prima cosa profilarci. Di fronte a un documento controverso e perfino provocatorio come la bozza delle «Indicazioni nazionali», è così difficile immaginare che un questionario on line serva anche a schedare chi, a dispetto di ogni prudenza, vorrà utilizzarlo per dichiarare davvero cosa ne pensa?
Il santo più brutto di Sicilia
28-03-2025, 00:42santiPermalink![]() |
Diciamo che è un tipo. |
Un carattere fondamentale di San Cono è la bruttezza. Secondo la Bibliotheca Sanctorum la sua statua aveva "occhi grandi e spaccati, naso aquilino, labbra grosse, faccia... bronzina, larghissima", e potrebbe trattarsi dell'unica volta in dodici volumi più appendice che gli autorevoli autori decidono di citare un proverbio dialettale: Avi ’a facci ’i san Conu. Gli stessi concittadini, capite? che pure lo festeggiano più volte all'anno per la protezione garantita contro epidemie, turchi e terremoti, quando vogliono contrariare l'interlocutore gli dicono: avete la faccia di San Cono. Era così brutto?
Non è escluso, e in generale la vita dell'eremita non aiuta a preservare la bellezza (Benoit-Joseph Labre è l'eccezione). Ma l'opinione più diffusa è che il volto veramente sgradevole, se non spaventevole, più che quello del santo fosse quello della statua che lo raffigurava, e che veniva portata in processione a settembre. La bruttezza proverbiale di questa statua aveva una spiegazione, che magari serviva a coprire l'incapacità dell'artista, lo scarso gusto del committente e il braccino corto di chi non trovava i fondi per farne scolpire una migliore: era brutta come diventò brutto il santo, quando apparve miracolosamente durante un'incursione dei turchi e li mise in fuga proprio in virtù della sua insostenibile bruttezza, che purtroppo non possiamo verificare perché la statua era di legno e rimase polverizzata durante un incendio nel 1920. L'importanza della leggenda è tale che anche la statua contemporanea di San Cono, benché sia scolpita con abilità e competenza, conserva qualche dettaglio dissonante, un vago strabismo, insomma ormai si è deciso che Cono dev'essere brutto, almeno in effigie.
Di santi assassini e pugnali
25-03-2025, 11:14miti, santiPermalinkBeerk beeerk. |
Se fino al terzo secolo per diventare santi occorreva, in sostanza, morire male – santità e martirio coincidevano – dal quarto in poi la categoria si apre a figure magari meno coraggiose, disposte a patire digiuni e solitudine ma non necessariamente torture e uccisioni: prima gli eremiti e poi i monaci. Eppure anche nei monasteri, questi luoghi in teoria lontani dal mondo e vicini a Dio, ogni tanto qualcuno moriva ammazzato. Abbiamo già visto come Benedetto, l'ispiratore della regola monastica più diffusa, dovette salvarsi da più di un attentato ai suoi danni, ed erano tutti organizzati da confratelli scontenti o invidiosi. Se le vicende di Benedetto possono apparire per lo più leggendarie, molto più concreto è il pugnale che due secoli dopo, nel monastero di Montier-en-Der (Champagne), trafigge a morte l'abate Bercario: lo ha maneggiato un suo confratello e figlioccio, Daguino, per vendicarsi di una punizione subita, in un giovedì santo. Bercario non dispone degli strumenti miracolosi di Benedetto: non può salvarsi la vita ma prima di chiudere gli occhi salva l'anima al suo assassino, perdonandolo. Oltre che per questo gesto magnanimo, Bercario è ricordato per avere fondato monasteri maschili e femminili nella valle della Marna, anche se proveniva dall'Aquitania. Ciononostante io non riesco a non immaginarmelo un po' scontroso e irruente, mentre rampogna il suo sottoposto. Dev'essere il potere dei nomi propri: siccome si chiama Bercario, io me lo immagino a berciare. Ovviamente mi sbaglio, perché "Bercario" deriva dal germanico Berachar, che ha qualcosa a che vedere con l'orso (ber) e con i soldati (hari). "Berciare" invece è un verbo italiano di etimo incerto, anche se è suggestiva l'idea che all'inizio fosse il verso dell'orso. (Berciario potrebbe comunque anche essere una variante di Bertario, che non ha un orso nella radice, ma l'aggettivo beraht, "celebre").
Foto di Benjamin Smith Abbazia di Brantôme. (Dordogna), statua di inizio Novecento. Sicario è il neonato. |
Sempre il 26 marzo alcuni martirologi ricordavano un vescovo di Lione, Sicario; senonché il nome sembrava più inverosimile di altri a Godfried Henschen. Quest'ultimo era il primo collaboratore di Jean Bolland, il gesuita che nel Seicento con gli Acta sanctorum trasforma l'agiografia in una disciplina storiografica. Henschen era persino più scrupoloso del maestro, e quando chiese di controllare davvero presso gli archivi della diocesi di Lione, saltò fuori che Sicario non c'era. Ora è vero che la gente dà ai figli i nomi più strani, anche nell'Alto Medioevo, quando le lingue germaniche si ritrovano improvvisamente a circolare in mezzo agli embrioni delle lingue neolatine; ma sicarius in latino vuol dire assassino, chi è chiamerebbe suo figlio così? Tra l'altro deriva proprio da sica, pugnale ricurvo di origine trace, il che mi ha fatto fantasticare, perché per Erodoto i traci avevano la lingua più antica del mondo: il Faraone che aveva fatto il solito esperimento di allevare dei neonati proibendo a tutti di parlare con loro, aveva a malincuore scoperto che essi crescendo parlavano in lingua trace, e non egiziana (quando Federico II rifece l'esperimento, i bambini morirono, dettaglio realistico che ci fa purtroppo dubitare che si tratti anche stavolta di una leggenda).
Erodoto oggi probabilmente scriverebbe fake news su Atlantide per acchiappare i clic dei terrapiattisti, ma i Traci potrebbero davvero essere stati i primi indeuropei approdati in Europa. Così quando mi capita di vedere dei sikh in giro ho sempre pensato che il loro nome derivasse dal pugnale che gli adulti devono portare sempre con sé. Mi sbagliavo anche in questo caso, sikh in sanscrito significa "discepoli". Quanto al loro pugnale, che in ogni momento ricorda loro che devono essere disposti a combattere per la verità, si chiama kirpan.
Come aveva fatto un San Sicario a finire nei martitologi? Henschen, che di mestiere vagliava manoscritti slabbrati e scoloriti, supponeva che qualcuno avesse commesso un refuso scrivendo Sygarius in luogo di Syagrius, Siagrio, un nome molto più diffuso. Io aggiungo un dettaglio: magari l'agiografo aveva ancora in testa il nome "Bercarius", che aveva trascritto pochi paragrafi prima, tanto più che anche nella sua storia c'è un pugnale. Non capita anche a voi? Dovete scrivere "Siagrio", ma state pensando a "Bercario", e allora scrivete "Sicario". Dopodiché magari vi accorgete del refuso, ma a cancellarlo c'è il rischio di rovinare un intera pagina di pergamena, e poi chi lo sente l'abate. Tanto chi vuoi che vada a leggersi i santi minori del 26 marzo, che è sempre quaresima...
Qualche secolo più tardi, da qualche parte un bambino muore dopo il parto, appena in tempo per essere battezzato. Questo permette ai genitori la consolazione di seppellirlo in terra consacrata, come un piccolo santo: e siccome magari è nato e morto il 26 marzo, i genitori scelgono di chiamarlo Sicario: è un nome strano, ma se è sul calendario è ok. Nel frattempo magari il sintagma "sicaire" non suonava più così omicida, magari nell'uso comune era già stato sostituito da assassin che come è noto significa in arabo "dedito all'hashish", e deve il suo successo europeo alla leggenda del Veglio della Montagna, riportata da Marco Polo. Le ossa del piccolo giungono, attraverso i secoli, a Brantôme, un'abbazia in Dordogna che comincia a festeggiare un San Sicario il 2 maggio (la data della traslazione delle reliquie?) E siccome ogni santo reclama una sua leggenda, qualcuno ha immaginato che Carlo Magno avesse fatto dono all'abbazia delle ossa di un neonato caduto durante la strage degli innocenti. In seguito anche questa origine deve avere annoiato un predicatore in fissa con gli ebrei, ed ecco circolare la storia di un piccolo Sicario rapito e assassinato dagli ebrei: del resto è quel periodo dell'anno. E se nemmeno questa leggenda è abbastanza truculenta, nell'Enciclopedia della scienza proibita del 1990, Gremese Editore, robaccia da far impallidire Erodoto, si favoleggia di certe blasfeme "messe di San Sicario", celebrate da preti indegni e apostati in chiese abbandonate e sconsacrate della Guascogna, possibilmente infestate da pipistrelli e rane nel fonte battesimale. Lo scopo di queste celebrazioni sataniche sarebbe accorciare la vita della persona a cui vengono dedicate: così alla fine potrebbe averci messo più di mille anni, ma quell'errore di trascrizione ha veramente creato un Santo Assassino. E chissà cosa potrebbe nascere, tra un po', dagli errori che lascio in giro tutti i giorni.
Due film che non c'entrano nulla
20-03-2025, 19:42Americana, cinema, governo Meloni, memoria del 900, scuolaPermalinkForse perché non ho mai avuto molte illusioni sulla statura politica e morale di Giorgia Meloni, che mi ritrovo sempre meno in sintonia con chi la rimprovera. È un po' come Berlusconi, ai tempi in cui i suoi detrattori sbagliavano costantemente obiettivo: quello corrompeva la guardia di finanza, e loro gli davano del nano pelato. Aa Meloni invece l'altrieri ha osato non riconoscersi nel Manifesto di Ventotene, il che non può essere una sorpresa per chiunque conosca un po' sia lei sia il Manifesto: ma improvvisamente questo diventa un delitto di lesa maestà, all'improvviso una mattina il Manifesto di Ventotene diventa una specie di carta costituzionale benché nessun parlamento l'abbia approvata, e la maggior parte di noi l'abbia nemmeno letta. Però Repubblica la pubblica in edicola, e Benigni ci farà la sua predica annuale, quindi aa Meloni come si permette. Ora, quand'è successa questa cosa? Quand'è che Spinelli e Rossi, la cui eredità politica sembrava essersi perduta nell'immediato dopoguerra, sono diventati i nostri Padri Fondatori?
Non ne ho idea, è un caso che sinceramente non ho seguito. L'idea che la carta sia l'atto di concezione dell'Unione Europea mi è sempre sembrata una forzatura: Spinelli e Rossi avevano qualche buona idea (ma anche qualche abbaglio, inevitabile vista la situazione in cui scrivevano), ma non credo che senza le loro idee non avremmo avuto i trattati di Roma e poi di Maastricht. Così come è una forzatura affermare che l'europeismo sia nato a Ventotene, quando ne parlava ed esempio Mazzini già un secolo prima. A Ventotene la sinistra italiana arriva tardi, credo a metà degli anni Novanta: non ho argomenti per dimostrarlo, soltanto labili suggestioni (una Festa Nazionale dell'Unità a Reggio Emilia, più di vent'anni fa, con un padiglione che ricostruiva scala 1:1 la camera di Spinelli).
Ad esempio l'anno scorso è uscito Un altro ferragosto di Virzì, che essendo il sequel di Ferie d'agosto è ambientato a Ventotene. Nel film Sandro, che già in Ferie era l'archetipo dell'intellettuale di sinistra declassato, ha sviluppato un'ossessione per una specie di pollaio che avrebbero costruito i confinati, e se ricordo bene ha chiesto l'intervento della Sovraintendenza ai beni culturali per preservare il monumento antifascista. Nel frattempo sta sempre peggio di salute e ha allucinazioni in cui vede Spinelli, Rossi, le rispettive mogli, e ovviamente Pertini: tutto un Walhalla laico di eroi che lo attende al di là della malattia. Mentre lo guardavo trovavo tutto molto appropriato, e allo stesso tempo cercavo di ricordarmi se nel film di un quarto di secolo prima Sandro avesse mai anche solo accennato agli antifascisti al confino sull'isola.
L'ho voluto riguardare e ho avuto conferma che no del 1996, Sandro dei confinati non parlava mai, e sì che non teneva molto spesso la bocca chiusa. Rivista con gli occhi di oggi, una dimenticanza del genere è inspiegabile: insomma, il primo film che mette in luce la nuova lotta di classe tra ceto riflessivo impoverito e borghesia berlusconiana abbruttita è ambientato nell'isola che fu il simbolo dell'antifascismo: una metafora cotta e servita, eppure gli sceneggiatori non ne approfittano mai, come mai? Forse nel '96 gli sceneggiatori non sentivano la necessità di sottolineare quanto fosse importante Ventotene per l'antifascismo e l'europeismo perché, come tutti noi, al tempo il manifesto lo ignoravano, dei confinati avevano sentito parlare molto vagamente, e Ventotene l'avevano scelta magari perché era più facile girare lì che, poniamo, a Ponza. Tutti questi Grandi Padri che Sandro si crea nel secondo film, circondandosi di figure serie e sorridenti un po' come Fazio quando sceglie gli ospiti di riguardo, sono adozioni molto tardive, di gente che si è ritrovata orfana di Gramsci e Che Guevara a quaranta o cinquant'anni. Può darsi che gli autori del secondo film l'abbiano ammesso, quando a un certo punto ci fanno scoprire (spoiler) che il pollaio è un falso storico, l'ha rimesso assieme il figlio di Sandro da bambino. È un retroterra culturale postumo, non necessariamente posticcio, perché ai manifesti si può aderire a qualsiasi età. Bisogna però leggerli. Aa Meloni un po' lo ha letto – anche solo un paragrafo – e ovviamente non le è piaciuto, il che è abbastanza in linea col personaggio e la sua storia. Chi invece se la prende con lei, lo ha letto davvero? Non necessariamente. È una generazione cresciuta riempiendo gli scaffali dei soggiorni di supplementi editoriali (libri, vhs, cd, dvd, album di figurine) senza sentire l'esigenza di aprirli troppo, a rischio di consumarli.
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E ora qualcosa che non c'entra davvero nulla, ma siccome si parla di film, segnalo che su Raiplay c'è ancora non so per quanto The Fabelmans in versione originale coi sottotitoli: un altro film in cui a un certo punto ci sono lunghe scene in una scuola dove ragazzi e ragazze interagiscono, si parlano, si innamorano, ma soprattutto si bullizzano come belve e si pestano a sangue. Queste scene, che sono familiari alla mia generazione più dei Promessi Sposi, forse non le avrei mai trovate così strane se poi nella vita mi fossi ritrovato di nuovo nella scuola media, un posto dove ovunque vada il preadolescente devono esserci in media 1-2 adulti a guardarlo, tranne in bagno; e ciononostante colluttazioni se ne verificano ogni giorno, senza gli eccessi delle scuole americane, per il semplice motivo che appunto: adulti ce ne sono dappertutto, e per quanto non sempre siano svelti di riflessi, sono comunque un grosso deterrente che impedisce al cervello del preadolescente di anche solo concepire pestaggi organizzati o assalti alla baionetta nei corridoi.
Insomma se mi chiedete perché la società USA sembra subito più violenta della nostra, senz'altro sono convinto che un certa disponibilità di armi c'entri per qualcosa; ma poi l'idea forse cattolica che i ragazzini van guardati. Senonché.
Senonché in molte scuole adesso va di moda questa DADA, ovvero "Didattiche per Ambienti Di Apprendimento", che significa in soldoni che invece di spostare gli insegnanti dall'aula della classe A all'aula della classe B, sposti le classi dall'aula dell'insegnante A all'aula dell'insegnante B. Come tutte le didattiche, ha una sua funzionalità: ad esempio negli USA diverse materie sono opzionali, per cui è normale che gli studenti cambino non soltanto aula, ma proprio classe, ovvero trovino altri studenti, a seconda della materia. Da noi però succede questa cosa, che molte novità vengono accettate un po' alla svelta perché bisogna semplicemente mostrare ai genitori che stiamo innovando, e a parte questo non è che possiamo permetterci più elasticità di tanto, perché l'organico è quello che è (anzi lo tagliano), quindi le classi rimangono le stesse, però... cambiano aula. Se lo chiedete a me, spostare classi di 25 ragazzi invece che insegnanti singoli è un'autoevidente assurdità logistica, che serve semplicemente per limare altri minuti di intervallo tra una lezione e l'altra: è normale che gli studenti se ne dicano entusiasti, così come molti genitori che appunto, come me sono cresciuti più coi telefilm americani che con Leopardi. Poi in questo modo servono gli armadietti, vi immaginate? Proprio come nelle highschool, ma quanto sarà figo? Quindi qual è il problema?
Mah, ditemi voi. Se l'insegnante A resta fermo nella sua aula A, e l'insegnante B nella sua aula B, cosa succede nei corridoi compresi tra A e B? Esatto, un sacco di ragazzi di tutte le classi liberamente in giro. Capite che ci sono le premesse per cominciare anche noi a scrivere film e serie in cui ci si accoltella sui pianerottoli, è finalmente un gap con la scuola anglosassone che stiamo per colmare, vi immagino entusiasti, e poi tra vent'anni da tutto questo bullismo chissà che geni incompresi verranno fuori, che Spielberg, che Watterson, finalmente.