L'abate che si chiuse nelle Celle

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10 marzo: Beato Giovanni dalle Celle (Giovanni da Catignano, 1310-1396), intellettuale autorecluso

A questo punto della vostra vita, quanti libri avete letto, di quelli che bisognerebbe prima di morire? Probabilmente state accettando il fatto che non ci riuscirete mai, nemmeno se... passaste il resto della vita recluso in una cella. Giovanni da Catignano ci è riuscito – no, non a leggere tutti i libri importanti, che comunque nel Trecento costituivano senz'altro una lista più breve di adesso – ma ad autorecludersi. E dire che aveva avuto un ruolo di responsabilità: abate del monastero della Santa Trinità a Firenze. Il pretesto fu piuttosto imbarazzante: non conosciamo i dettagli, sappiamo solo che c'entrava almeno una donna, e che Giovanni andava già per la quarantina. Girolamo da Raggiolo, agiografo fiorentino del Quattrocento, sostiene che Giovanni, dilettandosi di negromanzia, era riuscito a far apparire nella sua cella "figure seducenti di donne". Questa ipotesi, che candiderebbe Giovanni al patronato degli utenti di Pornhub, sembra oggettivamente improbabile: magari era una voce messa in giro per spiegare il fatto che qualche "figura seducente di donna" in abbazia si fosse intravista davvero. 

Il reato, confessato all'abate del monastero di Vallombrosa che era il suo diretto superiore, doveva essere grave, ma non gravissimo, visto che dopo un anno di isolamento in una cella della torre di Pitiana (a pane e acqua!) avrebbe potuto recuperare la sua dignità di abate. Invece si sentiva ancora colpevole – o forse aveva concluso che quell'isolamento gli era congeniale. Così, dopo un pellegrinaggio a Roma per il giubileo del 1350, scelse così di isolarsi definitivamente dal mondo in una dépendance dell'abbazia vallombrosiana, dall'atmosfera così penitenziale che in seguito sarebbe stata soprannominata "il Paradisino". Nel silenzio di una cella, Giovanni poteva finalmente concentrarsi sugli studi: leggere, scrivere, corrispondere con i più famosi letterati di quel secolo complicato ma stimolante. Come quel grafomane di Petrarca, che forse avrebbe invidiato la tranquillità di Giovanni, da cui nessuno pretendeva più che lasciasse lo studiolo e girasse l'Italia per sbrigare estenuanti faccende diplomatiche; o Caterina da Siena, anche lei barricatasi nella casa dei suoi, da dove scriveva lettere meravigliose ai potenti della terra, ma anche a Giovanni delle Celle. 

In effetti la relativa fama di Giovanni è per lo più luce riflessa di Caterina, di cui fu uno degli sponsor più illustri: anche se per parecchi anni non osò scriverle direttamente. A rompere il ghiaccio fu un equivoco: nel 1373 Gregorio XI, stimolato da Caterina, aveva bandito l'ennesima crociata, nell'indifferenza generale delle teste coronate che avrebbero dovuto assumersene il carico. Nel frattempo però a Firenze la fanbase di Caterina strepitava, tra loro persino alcune donne si dicevano pronte a partire per la Terrasanta e una di loro, suor Domitilla, doveva aver manifestato questa volontà anche a Giovanni, che era il suo direttore spirituale. Giovanni aveva ovviamente scritto una lettera per dissuaderla, ma questa lettera, copiata e diffusa fuori dal contesto, era parsa a molti una critica nei confronti di Caterina. L'unico modo di correggere il tiro era chiedere pubblicamente di essere ammesso tra i seguaci di Caterina: la richiesta fu accettata dalla santa stessa, con una lettera datata 10 ottobre 1376. Purtroppo le lettere di Giovanni a Caterina sono andate perse, mentre nel carteggio di Caterina se ne conservano due indirizzate a lui. Ci è rimasto invece il lamento funebre scritto al suo discepolo Piero Canigiani, appena seppe della morte di Caterina nel 1380. "Figliuolo mio Barduccio. Come oggi mai vivremo più, poiché è morta la nostra madre, la nostra consolazione? Che potremo noi fare altro se non piangere la nostra desolazione?" Caterina se ne era andata a 33 anni, durante un digiuno più intenso del solito; Giovanni ne aveva già 80 e ne avrebbe vissuti altri sedici. La vocazione eremitica lo aveva messo al riparo dalla grande peste del 1348, e dalle guerre e carestie di quel secolo complicato. Non ci è dato sapere se ogni tanto, nel segreto delle sue celle, riuscisse ancora a visualizzare seducenti figure femminili: una volta però sarebbe stata proprio Caterina ad apparirgli "circonfusa di luce" mentre Giovanni celebrava una messa in suo onore.  
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Buon 8 marzo, merde

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È uscito il nuovo singolo delle Solite Stronze, giusto in tempo. Io respingo ogni addebito.

 
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Fate bene, fratelli di Giovanni

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Giovanni di Dio mette in salvo i pazienti
durante l'incendio dell'ospedale.
8 marzo: San Giovanni di Dio (1495-1550), fondatore dei Fatebenefratelli

Ci sono certe vite di santi che, a leggerle tra le righe, e con un po' di esperienza (che non significa purtroppo competenza), ti lasciano intendere che il santo in questione potrebbe avere sofferto di un disturbo bipolare. Ecco, la storia di Giovanni di Dio non è tra queste. La vita di Giovanni di Dio non ti lascia intendere qualcosa: la vita di Giovanni di Dio ti urla letteralmente DISTURBO BIPOLARE a ogni paragrafo, con una veemenza che alla fine ti induce a dubitare, cioè alla fine noi cosa ne sappiamo della vita di Giovanni di Dio? Tutto quello che ha raccontato ai suoi seguaci dei suoi primi quarant'anni potrebbe esserselo inventato lì per lì, molte cose sono inverosimili, e poi cos'è che renderebbe riconoscibili i bipolari nei secoli, sentiamo. 

Mah, le solite cose. L'alternarsi di lunghi periodi di stasi e improvvise fiammate di euforia. Illuminazioni, epifanie, momenti in cui il protagonista ha la sensazione di aver capito tutto della vita. Qualche allucinazione, qualche gesto sconsiderato. Se avete letto Aurélia di Gérard de Nerval, ecco, oggi sarebbe probabilmente curabile, e invece è morto poeta in un vicoletto, a metà racconto, convinto di essere sulla soglia di chissà cosa. A Giovanni di Dio è andata meglio, anche se deve avere sofferto parecchio. A volte la santità serve a questo: a trasformare dolori immensi in qualcosa di socialmente utile. Non succede spesso, e quando succede c'è davvero da gridare al miracolo. Giovanni addirittura avrebbe anticipato la psicoterapia, il che mi pare un po' esagerato. Però è suggestiva questa idea che l'abbia inventata un tizio che in manicomio un po' c'era stato, e non per motivi di studio. 

Giovanni di Dio, al secolo João Cidade Duarte era convinto di essere nato nel 1495, a Montemor-o-Novo, sud-est di Lisbona. Ma a otto anni sarebbe stato rapito da un sacerdote che l'avrebbe portato in Castiglia. Possibile che João fosse stato tolto ai genitori senza il loro consenso? La madre sarebbe morta dal crepacuore, il padre sarebbe entrato nei francescani. Di entrambi si è persa ogni traccia, per cui davvero c'è qualcosa che non torna. Una tesi intrigante è che i genitori fossero ebrei espulsi dalla Spagna con il decreto del 1492: forse venivano da Toledo ed è proprio a Toledo che il sacerdote lo avrebbe riportato Giovanni, magari per affidarlo a parenti dei genitori, ebrei convertiti. Anche se il primo biografo fosse stato a conoscenza dei particolari della vicenda, avrebbe avuto più di un motivo per nasconderli: si chiamava Francisco de Castro, era il cappellano dell'ospedale fondato da Giovanni, che era morto da appena trent'anni. L'obiettivo era dimostrare che Giovanni meritava la canonizzazione: l'idea che fosse figlio di ebrei fuggitivi non aiutava in nessun modo la causa e anche questo prete rapitore risultava imbarazzante.  

Giovanni forse era già a quel punto soprannominato "di Dio", come capita ai trovatelli. Un piccolo proprietario lo avrebbe assunto come guardiano di pecore nel villaggio di Oropesa. Da otto anni fino a 22, Giovanni non avrebbe fatto altro: dopodiché, per evitare un matrimonio ormai impellente con la figlia del proprietario, si sarebbe aggregato a una compagnia di soldati di ventura che andavano a combattere per Carlo V alla frontiera basca. Questa prima esperienza militare non si sarebbe rivelata incoraggiante: i commilitoni, dopo averlo messo di guardia a un ricco bottino, si erano accorti che ne era sparita la maggior parte. Giovanni non aveva rubato niente; forse si era appisolato, ma questo sarebbe bastato per condannarlo a morte; invece in un qualche modo viene graziato, ma abbandona l'esercito. Ritorna ai suoi pascoli – può darsi che nel frattempo la promessa sposa avesse trovato un partito più affidabile. Quattro anni dopo, la Storia lo viene a stanare proprio a Oropesa: i lanzichenecchi di Carlo V stanno marciando verso l'Ungheria, assediata dai turchi. Giovanni corre ad arruolarsi e stavolta resterà sotto le armi per 18 anni, combattendo a Pavia contro i francesi e a Vienna durante l'assedio dei turchi. Cosa deve avere sperimentato in quegli anni, Giovanni non lo ha mai raccontato con chiarezza, ma le battaglie nel Cinquecento potevano essere molto cruente e lasciare ricordi e rimorsi indelebili. Non è escluso insomma che Giovanni soffrisse di traumatofilia o altre patologie tipiche del mestiere delle armi: né che dietro alle sue imprese penitenziali ci fossero sensi di colpa inespiabili. 

Al termine della campagna turca, Giovanni si ritrova congedato a bordo di una nave che lo sbarca a La Coruña, non molto lontano dal Portogallo. Decide di andare in cerca dei genitori, di cui non ricorda nemmeno il nome. In un qualche modo riesce a ritrovare parenti che gli raccontano come entrambi siano ormai morti. Non resta che tornare ai pascoli, salvo scoprire che no, la vita pastorale non fa più per lui. Deve cambiare la sua vita (di nuovo): una voce gli suggerisce di partire per l'Africa dove, per male che andasse, può sempre morire da martire testimoniando il Vangelo. Le cose non vanno esattamente così; Giovanni arriva a Ceuta che a quel tempo è un enclave portoghese in Marocco. Diventa confidente di un cavaliere in disgrazia, appena esiliato a Ceuta con moglie e figli. Quando il cavaliere scopre che i suoi beni sono stati confiscati, Giovanni si sobbarca delle necessità di tutta la famiglia. È il primo vero indizio di una eroica propensione al servizio per gli altri, che può essere facilmente confusa per dabbenaggine. Quando un altro compagno di viaggio si converte all'Islam, Giovanni si spaventa: forse a questo punto intuisce di essere lui stesso abbastanza preposto alle conversioni improvvise. Era venuto in Africa per salvare la sua anima, chissà da quali crimini commessi da soldato; ma lì rischiava di perderla. Il colloquio con un sacerdote lo convince a tornare in Ispagna, così che Giovanni entra a far parte di quell'interessantissimo insieme di santi (Antonio da Padova, Vincenzo de Paoli) che l'Africa ha tentato e respinto. Approdato a Gibilterra, Giovanni si ritrova sradicato tra Estremadura, Mancia e Andalusia, un Don Chisciotte in cerca di mulini. A orientarlo verso Granada sarebbe stato il bambino Gesù con un'apparizione in cui per la prima volta lo avrebbe chiamato "Juan de Dios" – se non è un espediente escogitato dal biografo per allontanare l'idea che Giovanni portasse il tipico cognome dei digli di nessuno. 

A Granada Giovanni riesce a mettere insieme un negozio di libri, un settore in rapida espansione: i libri sfusi, senza copertina, erano la novità del secolo, andavano via come oggi le cover dei telefoni, e da qualche parte tra l'Ungheria e il Marocco Giovanni aveva anche imparato a leggere. Non diventerà un grande scrittore (ci ha lasciato solo qualche lettera), e nemmeno un grande libraio perché un giorno, ascoltando le parole di un predicatore itinerante, tale Giovanni d'Avila, ha un'epifania di quelle da ricovero: gridando ossessivamente "Fate bene fratelli, per il nome di Dio" devasta il negozio e si mette a mendicare e flagellarsi per strada, finché i concittadini non lo portano nell'ala dell'ospedale riservata ai matti. Aveva 42 anni. Ci resta qualche mese; viene incatenato, frustato, affamato: tutte terapie che Giovanni, una volta guarito, avrebbe rigettato come inutili e dannose, e oggi saremmo tutti d'accordo con lui, senonché dobbiamo ammettere che da quel manicomio, Giovanni è uscito guarito – o perlomeno stava molto meglio di quando si flagellava a sangue per le strade gridando Fatebenefratelli. Può darsi che a risolvere la crisi sia stata una visita di Giovanni d'Avila, che lo convince a lasciar perdere gli eroismi penitenziali e a dedicare le sue energie a fare il bene, sì, ma agli altri. Parole di buon senso, ma a Giovanni non bastano: le deve ratificare un'apparizione di Maria, incontrata al santuario della Vergine della Guadalupe (in Estremadura, da non confondere con quello messicano). Giovanni torna dunque a Granada e si mette ad assistere i poveri. All'inizio non è molto meno povero di loro, per cui avviene questa cosa incresciosa che lo lascino talvolta nudo per strada. Un vescovo risolve la questione disegnando per lui una tonaca bianca personalizzata, ingiungendogli di non levarsela più; e così, dopo qualche anno di intenso lavoro, Giovanni si ritrova a capo di una comunità socio-assistenziale dedicata a poveri, infermi ed ex prostitute. Questa svolta ha davvero qualcosa di miracoloso, perché è evidente che le famiglie più ricche di Granada, pur sentendosi obbligate a opere di beneficienza, difficilmente si sarebbero fidate di un tizio che ricordavano aggirarsi per le strade della città seminudo e sanguinante, appena pochi anni prima: eppure Giovanni in un qualche modo riesce a conquistare stima e fiducia di chi lo aveva visto impazzire, e a fondare due ospedali. Non diventa comunque un metodico organizzatore: l'ordine dei Fratelli Ospedalieri, che solo in Italia vengono chiamati Fatebenefratelli, si darà uno statuto ufficiale e otterrà l'approvazione ecclesiastica solo dopo la sua morte. La figura di Giovanni in effetti si prestava a diventare una leggenda, ma non sappiamo quanto certe rivoluzionarie intuizioni sanitarie siano davvero farina del suo sacco, o non siano state attribuite a lui dagli orgogliosi successori. Gli ospedalieri furono tra i primi a dividere i malati nelle camerate a seconda della patologia: è persino possibile che questa idea provenisse dalla lunga esperienza militare di Giovanni, durante la quale aveva senz'altro sperimentato gli ospedali da campo. E soprattutto Giovanni sarebbe il primo infermiere che invece di legare i matti prova a discutere con loro, proprio come Giovanni d'Avila aveva discusso con lui. Gli ultimi mesi della sua complicata vita sono particolarmente eroici: nel luglio del 1549, mette in salvo i pazienti dell'Ospedale Reale di Granada da un incendio, salendo ai piani alti e continuando a gettare dalla finestra le suppellettili, calandosi alla fine dal tetto – forse anche in questo caso l'esperienza militare gli era stata utile. In inverno, durante la piena del fiume, cerca invano di salvare un ragazzo dall'annegamento, rimediando una polmonite che forse è la causa della sua morte, l'otto marzo 1550, quindi 475 anni oggi. Fu canonizzato nel 1690: a fine Ottocento Leone XIII lo proclamò patrono degli ospedali e dei malati. 
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Verso nuove radiose giornate

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First we take Aviano. Che aria frizzante, che voglia di armarsi, che subbuglio tra i nuovi eroi al caffè. Per quanto potessimo averlo previsto, è abbastanza sorprendente vederlo realizzato nel giro di un mese: là dove era tutto un "difendiamo l'Occidente", adesso c'è scritto che dobbiamo difendere l'Europa, e mica a parole: servono armi e servono subito. Non vi commuove tutto questo improvviso europeismo? E chissà cosa difenderemo l'anno prossimo. Poi per carità: se è la fine della Nato, io non ho molto da obiettare, e immagino che un massiccio riarmo sia inevitabile – ma solo se è la fine della Nato, altrimenti è una farsa. Fare la guerra a Putin a questo punto non è troppo diverso dal fare la guerra a Trump; non mi sembra un'impresa all'altezza delle nostre forze, ma soprattutto non è cosa che possiamo pensare di fare mentre ospitiamo militari e agenti americani in centinaia di basi del nostro territorio. E quindi, amici interventisti, un po' di chiarezza: volete davvero strappare l'Occidente, e in che modo? Sono sinceramente curioso. 

Le nuove Radiose Giornate. Uno dei motivi per cui a volte chi viene qui a commentare non mi capisce, è che più che due lingue diverse, parliamo due guerre diverse. Molti commentatori parlano la Seconda Guerra Mondiale: per loro non è semplicemente l'ultima guerra importante, ma il mito fondativo dell'Occidente, l'architrave morale che definisce il Male assoluto (il nazismo) nonché giustifica qualsiasi male relativo (se devi combattere il nazismo puoi anche spianare Strisce e deportarne la popolazione). Quindi arrivano qui e si giocano invariabilmente la carta dello Spirito di Monaco. Qualsiasi guerra è necessaria, perché l'alternativa alla guerra è l'appeasement e l'appeasement è la colpa primigenia, senza l'appeasement non vivremmo del frutto del nostro sudore e le donne non partorirebbero con dolore. Va bene. (Cioè no, non funziona così, non è più Storia, è un mito, ma io credo nella tolleranza religiosa e quindi devo tollerare anche la vostra buffa religione). Però io parlo un'altra guerra, la Prima: e ogni volta che si dibatte sui motivi per farne una – che molto spesso sono i motivi per farla fare agli altri – io mi ritrovo di nuovo nel 1914 nelle bagarre tra Interventisti e Neutralisti, a litigare con futuristi, lacerbiani, dopo un po' è arrivato anche quel socialista romagnolo che prima scriveva quei fondi trucidi sull'Avanti, tutti avventurieri con scarse nozioni di strategia, tutti eroi ar caffè, voi venite qui a darmi del Chamberlain e non sapete neanche quanto somigliate a Giovanni Papini e quanto sia offensiva questa cosa che vi sto dicendo.


Scurati ci vorrebbe più guerrieri. Ieri sulla Repubblica appare un pezzo di Scurati che segnala "la principale carenza europea rispetto alla possibilità di combattere autonomamente una guerra difensiva: la mancanza di guerrieri". Siamo già a questo? L'intellettuale che pochi mesi fa era diventato l'icona dell'antifascismo, è già pronto a litigare coi compagni e rifondare il Popolo d'Italia? Sì e no; Scurati queste cose le ha sempre scritte, salvo che non se ne accorgevano in molti perché i riflettori erano altrove. Se lo conoscessi un po' di più mi azzarderei a dire che un certo gusto melodrammatico per la guerra guerreggiata Scurati lo ha sempre conservato nello stile: certi fregi liberty come, nel pezzo su Repubblica, la definizione del nostro continente come "scoglio euroasiatico popolato di guerrieri feroci, formidabili, orgogliosi e vittoriosi". Da cui il sospetto che l'approccio romanzesco a Mussolini fosse anche un'accettazione di certe radici stilistiche nietzscheano-dannunziano-lacerbiano-futuriste, nonché un tentativo di rovesciarle, profanarle, ricordare a sé stesso e al suo pubblico che un certo stile ha un esito pratico, tante parole culminano portano a un punto, e questo punto è la guerra. Va bene. Diciamo che Scurati è un intellettuale che in questo preciso momento torna utile mettere sulle prime pagine, come certe Fallaci d'antan. E così come il Popolo d'Italia, per sensibilizzare il pubblico italiano sulla necessità di salvare l'eroico Belgio dall'imperialismo prussiano prendeva fondi dalla Fiat, questo pezzo di Scurati, che auspica che "l’Europa ritrovi lo spirito combattivo e, con esso, il senso della lotta", ricordiamocelo, ci è offerto da Stellantis. (La guerra, poi, se proprio dovremo farla, la faremo combattere agli immigrati. Un'alternativa interessante ad assemblare macchine già obsolete in Tunisia o in Serbia).

Il nuovo irredentismo. L'avreste mai detto che ci sarebbe toccato morire, tra tanti motivi, proprio per il Donbass? Un posto tuttora difficile da trovare sulla cartina. La sensazione è di assistere a una partita a carte che doveva essere una cosa alla buona, tra amici che si erano portati un pollo da spennare in fretta, questo Vladimir Putin. Molte ore dopo, Putin sta vincendo ed essi hanno perso talmente tanta credibilità che l'idea di alzarsi dalla sedia e salutare non li sfiora nemmeno; devono rifarsi in qualche modo, ritirarsi adesso significherebbe ammettere che i polli erano loro, e questa cosa è inammissibile. Gli USA, che avevano organizzato la partita, se ne sono già andati a casa e senza perdere un soldo, anzi a ben vedere ci hanno guadagnato. I tedeschi ci hanno perso due gasdotti e la certezza di essere la locomotiva d'Europa, ma questo è impossibile da accettare: per cui ora cominceranno a firmare assegni e andranno avanti fino all'alba, metodici nella sconfitta com'erano stati metodici nella vittoria. 

L'ideologia è sempre quella degli altri. Michele Serra lancia un appello per andare tutti in piazza senza bandiere o stemmi, non per la Palestina che si sa, la pulizia etnica è un tema divisivo, bensì... per l'Europa. Che è una cosa bellissima, lo dico senza ironie, ma Europa in che senso? Per fare la pace con Putin prima che la faccia Trump (e pigliarsi le materie prime prima che lo faccia Trump) o per proseguire la guerra anche se Putin si mette d'accordo con Trump, ovvero a questo punto farla a un Putin spalleggiato da Trump? Serra non lo dice, sarebbe un tema divisivo.
Elly Schlein fa subito sapere che ci sta, in due righe: noi ci siamo, senza bandiere, ok. Poi per chi vuole leggerla c'è una lenzuolata di motivazioni in cui, senza chiarire nessuno dei punti lì sopra (trattiamo subito una pace o proseguiamo la guerra, magari con contingenti europei) avanza comunque una serie di proposte operative (federalismo soprattutto fiscale, togliere l'unanimità, un'altra next generation da 800 miliardi), insomma un po' di politica la Schlein la fa: accetta una piattaforma molto vaga e con tanta cautela introduce i temi che le interessano. E verso la fine fa anche notare la debolezza dell'avversario politico, l'indecisione daa Meloni tra UE e Trump.
A questo punto, con fragore di tromboni e fagotti, irrompe Mattia Feltri e intona Nooooooo! Come ti permetti Elly Schlein, sei troooooppo divisiiiiiva! Vuoi trasformare una piazza non politica in una piazza politica, e così Forza Italia non verrààààà! Tod und Verzweiflung. Dove si vede che la "politica" è sempre quella sporca che fanno gli altri, perché se in quella piazza Elly Schlein incontrasse Tajani e scoprisse una corrispondenza di amorosi sensi che fosse propedeutica a un governo Draghi 2 che spianasse la strada a un'UE draghiforme, ebbene Mattia Feltri non troverebbe nulla di "politico" in ciò, nulla di divisivo, perché le uniche divisioni che contano sono tra i soggetti politici che vorremmo vedere a letto assieme. Questa mania di trovare "ideologica" solo l'ideologia degli altri, questa ottusa incapacità di Feltri e similfeltri di capire che anche loro hanno un'ideologia, anche loro hanno un'agenda politica, che a volte uno pensa: ma lo sanno benissimo, fanno solo finta, e invece no; i loro genitori facevano finta, loro no.

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I 42 martiri di Amorio

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6 marzo: 42 martiri di Amorio (845)

Il califfo riceve diplomatici bizantini 

Quando furono decapitati, il 6 marzo dell'845 lungo le rive dell'Eufrate, i 42 prigionieri di Amorio erano reclusi da sette anni. Amorio, la loro città, era già parzialmente ricostruita; il disastroso assedio dell'837 ormai una pagina di Storia, ancora fresca ma già voltata; i due protagonisti della vicenda, il califfo Al Mutasin e il basileo Teofilo, entrambi morti. Eudosio, l'autore dell'agiografia, racconta come i carcerieri arabi avessero tentato in tutti i modi di convertire i prigionieri all'Islam, con minacce e blandizie ma soprattutto con la forza dei ragionamenti, inviando nel parlatorio del carcere sapienti musulmani e altri ex cristiani convertiti. Solo l'empio Baditze si era lasciato circoncidere, ma poi era stato condannato a morte ugualmente, e alla fine il suo era l'unico cadavere che invece di galleggiare era stato mangiato dai coccodrilli. 

Baditze era l'ufficiale ritenuto colpevole di tradimento: perché Amorio era stata la Caporetto dei bizantini, e proprio come gli italiani dopo Caporetto, i bizantini non riuscivano a concepire che fosse caduta grazie alla superiorità militare del nemico: no, qualcuno doveva aver tradito. 

Quella di Eudosio è l'ultima agiografia tardoantica. Più che a una vecchia storia di cristiani perseguitati, l'eccidio dei 42 comincia a sembrare qualcosa di diverso: l'esecuzione di un gruppo di ostaggi, un crimine di guerra. Siamo nell'Anatolia del nono secolo, in un angolo cieco della nostra memoria storica, nel mezzo di una guerra infinita tra due imperi teocratici, due dinastie che non dureranno ancora molto. Entrambi i monarchi traggono la loro legittimazione dalle vittorie sul campo: se vincono, è segno che Dio è dalla loro parte; se perdono, presto o tardi saranno destituiti. Questo è vero soprattutto per il più giovane dei due, Teofilo l'Amoriano, l'ultimo imperatore iconoclasta: ma per dimostrare che Dio davvero non ama essere raffigurato, e apprezza i roghi delle vecchie icone, bisogna dare battaglia e vincerla. Nell'833 la situazione è favorevole: l'avversario, il Califfo al-Mutasun, è distratto da beghe interne, mentre nel Caucaso sta creando scompiglio una nuova setta, i khurramiti. Costoro, combinando elementi di zoroastrismo e islam sciita, hanno fatto proseliti soprattutto presso la popolazione azera: il loro esercito è una spina nel fianco arabo. Nel 834, la svolta: un leader khurramita si fa battezzare, assume il nome di Teofobo e sposa una sorella dell'imperatore. Nel tentativo di liberare un gruppo di khurramiti prigioniero del califfo, Teofilo e Teofobo marciano assieme verso le città di Sozopetra e Arsamosata con un'armata, per i tempi, assolutamente smisurata (centomila uomini secondo Al-Tabari, in un secolo in cui con venticinquemila era già guerra totale). Una volta prese le città, Teofilo sente di aver compiuto la sua missione e riparte subito per Costantinopoli dove celebrerà il trionfo dell'iconoclastia. Teofobo invece rimane sul campo e, non essendo riuscito a liberare i correligionari, lascia i suoi uomini liberi di saccheggiare le città e abusare dei civili. 

Il resoconto dei profughi che riusciranno attraverso il deserto ad arrivare a Samarra, capitale del califfato, scuoterà la corte: stavolta gli infedeli hanno esagerato, occorre rispondere con quella che un cortigiano del tempo avrà definito "violenza incomparabilmente superiore". Al-Mutasin chiede ai dignitari di segnalargli l'obiettivo più inaccessibile: gli viene fatto il nome di Amorio (Ἀμόριον), roccaforte della Frigia, "dove nessun musulmano è mai entrato". Presso i bizantini, gli spiegano, è più famosa di Costantinopoli: tutte balle, Amorio era una roccaforte importante ma sicuramente meno famosa ed espugnabile di Costantinopoli, tant'è che gli arabi l'avevano già presa e tenuta per due anni tra il 666 e il 668. Si trattava soprattutto di un obiettivo di importanza simbolica, come quella Stalingrado su cui i nazisti si intestardirono irrazionalmente perché portava il nome di Stalin; Amorio invece era la patria del padre di Teofilo, Michele II, fondatore di una dinastia che qualcuno cominciava già a chiamare amoriana. A parte questo, assediarla non aveva molto senso. Occorreva penetrare nell'Anatolia cristiana per qualcosa come cinquecento chilometri, e farlo con un esercito ancora più grande di quello messo in campo da Teofilo: secondo alcuni cronisti anche un mezzo milione di effettivi, ma è davvero difficile crederci. 

Teofilo, che tenta di intercettare una delle colonne ad Azen, viene sconfitto e si salva per un pelo dalla cattura. Da lì in poi tenterà più volte di fare la pace, inviando scuse formali per i crimini di guerra commessi a Sozopetra e Arsamosata dopo che lui – questa è la versione ufficiale – se n'era già andato. Il califfo non accetterà nessun tipo di indennizzo, salvo la testa dell'irreperibile Teofobo. L'assedio durerà due settimane e costerà, ma sono davvero numeri esagerati, centomila vittime: la città sarà resa al suolo, la popolazione decimata e ridotta in schiavitù. Tentato di continuare la campagna fino a Gerusalemme, Al-Mutasin sarà invece richiamato a Samarra dalla notizia di una congiura ai suoi danni. Con sé porterà il generale Ezio, il presunto traditore Baditze e altri importanti dignitari che Teofilo tenterà più volte, negli anni successivi, di riscattare. 

Amorio è l'ultima grande vittoria degli abbasidi in Anatolia, ma non porterà a conseguenze durature: nel giro di un secolo il califfato subirà le invasioni degli sciiti iraniani e poi dei turchi. Quanto a Teofilo,  morirà tre anni più tardi, forse prostrato dalla sconfitta, ma la provincia sarà riconquistata dal figlio, Michele III detto (ingiustamente) l'ubriacone. Amorio sarà ricostruita, anche se non sarà mai più così importante. L'effetto più duraturo della guerra sarà la fine del movimento iconoclasta: le icone, che non erano mai veramente sparite dalle case di Bisanzio, torneranno a essere esibite anche a corte. Eppure i 42 martiri non entreranno mai nel repertorio di pittori e autori di mosaici. Come se fossero arrivati troppo tardi.

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Grande televisione, terribile diplomazia

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Alla fine credo che la sintesi migliore l'abbia fatta proprio Trump: This is going to be great television. Quello che abbiamo tutti visto l'altro giorno nella Sala Ovale è un esempio di cosa succede quando selezioni una classe dirigente in televisione. Per quanto Trump e Zelensky siano personaggi a più dimensioni, la dimensione che hanno in comune è appunto la tv: una grande parte della costruzione del personaggio Trump proviene da The Apprentice (compreso il tormentone, "You're fired", che è poi quello che sta applicando al personale federale), Zelensky prima di fare il presidente dell'Ucraina ha recitato in una serie in cui faceva il presidente dell'Ucraina. Entrambi sono piuttosto bravi sotto i riflettori ed entrambi, a questo punto della loro carriera di successo, possono essersi convinti di poter svoltare la situazione improvvisando in diretta. È deformazione professionale: se metti sotto i riflettori un insegnante, lui cercherà di farti una lezione; se metti due personalità televisive nella stanza dei bottoni, inevitabilmente ne verrà fuori un talk e potrà anche essere un successo (prova è che ne stiamo tutti parlando), ma non diplomazia: almeno una diplomatica di professione a un certo punto si è coperta agli occhi dall'orrore. 

La diplomazia non funziona così, ma a tanti osservatori oggi questo non interessa perché, da anni, non si stanno interessando più alla concreta situazione delle forze in campo – alla politica, insomma – bensì al teatro, dove ogni questione politica viene immediatamente trasformata in un apologo morale: i buoni devono essere ricompensati, i cattivi puniti, il pubblico non sarà contento finché non succederà, e in effetti oggi il pubblico è inquieto e deluso. Se davvero c'era soltanto "un invasore e un invaso", perché tutto sembra doversi decidere a Washington, che non è né l'uno né l'altro? Si cerca di capire se Zelensky abbia o fatto una bella o una brutta figura, e si cerca di capirlo contando i tweet o i comunicati di sostegno, come se davvero si trattasse di un attore la cui efficacia si misura sulla popolarità, e bisogna concedere che Zelensky in questi anni è stato anche questo, un testimonial molto efficace. Ma le guerre non si vincono così. 

Chi avesse sul serio a cuore la situazione dovrebbe applicare lo sforzo costante di intravedere le quinte; Trump interpreta il ruolo del padrone arrogante, ma dietro di lui c'è un sistema militare-industriale che non ritiene più necessario sostenere la resistenza ucraina. Zelensky interpreta il ruolo di eroico presidente integerrimo e sono pronto a convenire che lo interpreta in modo convincente, mettendoci il cuore e a rischio della vita: ma dietro c'è una nazione che non ce la fa più. Questi sono i fattori di cui tener conto: chi vuole restare in superficie può senz'altro inveire alle smorfie di Trump o godere perché 'ha messo Z. al suo posto', cioè può restare nel teatrino, nel ruolo di pubblico che applaude ride e piange a comando.

Una parola per gli americanisti che professano ad alta voce la propria delusione: ricomponetevi. Davvero siete cresciuti pensando che l’America fosse “the land of the free and the home of the brave”? E si vede che non siete cresciuti abbastanza, non so quanto sia il caso di farlo sapere in giro. Capisco quanto sia comodo immaginare che Trump non sia quell'America, bensì un marziano venuto chissà dove e arrivato a Washington per puro caso. Ma Trump non è un incidente, Trump è la necessaria evoluzione di un capitalismo in fuga e di una politica imperialista in un mondo che cresce a ritmi che l'impero non riesce più a reggere. Trump è un imprenditore tipicamente americano, un palazzinaro di NY che ha ereditato un po' di soldi dai genitori come succede tipicamente ai ricchi americani, attirando l'attenzione dei media americani con un'ostentazione tipicamente americana; si è candidato alle elezioni americane e grazie alla deregolarizzazione dei media consentita dalle amministrazioni americane da Reagan in poi, è riuscito a costruirsi un consenso che gli ha consentito di vincere due elezioni presidenziali col sistema elettorale tipicamente americano – addirittura in un caso ha preso più voti dell'altra candidata, una cosa che negli USA non è nemmeno necessaria per vincere le elezioni, ma lui lo ha fatto lo stesso. Nel frattempo era stato complice di un tentativo di colpo di Stato, ma le autorità giudiziarie americane non hanno ritenuto necessario evitare che si ricandidasse e rivincesse. Una volta reinsediato, benché si sia comportato in modo straordinariamente arrogante, non ha fatto nulla che la costituzione americana e la prassi non gli consentano di fare. Certo, ha reso questa arroganza molto più trasparente di prima: è questo che non gli perdonate, ma cercate di capire. Intorno a voi ci sono persone che si ricordano cos'è successo con l'intervento americano in Afganistan – un disastro, e ora il giogo dei talebani è più stretto di prima – e con l'intervento in Iraq: un milione di morti. Ci sono persone che hanno visto tutte le amministrazioni USA, nessuna esclusa, spalleggiare Israele in operazioni di pulizia etnica sempre più tendenti al genocidio. Se oggi scoprite che l'America è arrogante coi suoi alleati e spietata coi suoi nemici, almeno non fate quella faccia stupita: ora sapete come ci sentiamo noi da sempre, benvenuti.

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La spaventosa polenta antifascista

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[Questo pezzo è uscito sul Manifesto del 27/1/2025]. Può darsi che fra qualche giorno, presso il Senato della Repubblica, si debba discutere di una “polentata antifascista”. Non perché manchino, davvero, problemi più importanti. Ma il senatore Barcaiuolo, capogruppo di Fratelli d’Italia in Commissione Esteri e Difesa, ha annunciato un'interrogazione sulla polentata, e nessuno sembra in grado di dissuaderlo. Il sospetto è che a infastidirlo, più che la polenta, sia l'antifascismo. 

Come siamo arrivati a una situazione tanto grave quanto buffa? Qualche giorno fa, la dirigenza del liceo scientifico Fanti di Carpi (MO) ha ricevuto una mail dalla sezione locale dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. A Carpi l'ANPI organizza diverse iniziative con le scuole, per cui non deve essere sembrato strano l'invito a una “polentata antifascista”, al termine della quale sarebbe stato presentato un libro sui “Treni della felicità”, che nel 1946-47 portavano in città bambini orfani e bisognosi provenienti dalle regioni centromeridionali. Come molte iniziative ANPI, la polentata è anche un'occasione per raccogliere fondi e iscrizioni. Nulla di apparentemente scandaloso, senonché una collaboratrice della dirigente scolastica inoltra per sbaglio la stessa mail agli studenti del liceo. Così una pressione del tasto “inoltra” trasforma una polentata antifascista in un caso nazionale: e questo malgrado la dirigente sia corsa immediatamente ai ripari, ammettendo la svista e smentendo “una volontà politica o di “indottrinamento” di alcun tipo”. Troppo tardi. A contestare da subito la polentata non sono stati né studenti, né genitori, bensì i rappresentanti di un partito che in effetti è l'unico a non riconoscersi nell'antifascismo costituzionale. Il caso arriva alla stampa nazionale; su Libero, Francesco Storace avverte che a Carpi “la scuola invita gli alunni a iscriversi all'ANPI” e lascia intendere che la responsabilità sia di una vicepreside “consigliere comunale del PD”. Il deputato leghista Rossano Sasso denuncia alla Camera l'invio di una “mail di un’associazione politica di sinistra”. Il sindaco di Carpi, Riccardo Righi (PD) reagisce denunciando una campagna orchestrata ai danni della comunità e della scuola. In effetti il liceo era già finito sotto i riflettori, mesi fa, perché su un manuale di Storia compariva un trafiletto su Salvini che (secondo i suoi sostenitori) non gli rendeva giustizia. Il manuale è stato adottato in tante scuole, ma – nota il sindaco – viene spesso presentato come il “libro di testo del Liceo Fanti”. Qualcuno poi si è ricordato che ai lontani dei Fridays for Future (2019) su un muro del liceo era comparso un murales in cui l'allora ex presidente Trump aveva un naso da maiale; chi lo dipinse è diplomato da un pezzo, ma il senatore Barcaiuolo ne parla come di una prova evidente della “propaganda politica” che si praticherebbe nell'istituto.

Quanto agli studenti del liceo, i loro rappresentanti negano recisamente che sia luogo di “indottrinamento”. “Notiamo come la nostra scuola propone una svariata gamma di attività e progetti che ci permette di ascoltare più voci e fare esperienze nei campi più diversi. Troviamo dunque in questo contesto errata l’interpretazione dei fatti degli ultimi mesi che ha sempre visto gli studenti come parte passiva a cui viene impartita un’ideologia”. Lascia ben sperare il fatto che all'allarmismo degli adulti, i giovani rispondano con parole di buon senso e forse anche troppo diplomatiche: perché l'idea che dei diciottenni si facciano “indottrinare” da una mail circolare che li invita a una polentata può essere concepita in buona fede solo da qualcuno che diciottenne non lo è mai stato, e non ne ha mai avuti in casa. 

L'accusa più pretestuosa è spesso un'inconsapevole confessione. Sotto alla passione polemica – che si accende al primo pretesto, e quando non ne trova li inventa – c'è una fiducia commovente nella capacità che avrebbe la scuola di plasmare la coscienza degli studenti. La stessa fiducia che ha ispirato il Giorno del Ricordo – l'idea che basti dedicare un giorno all'anno in tutte le scuole ai massacri delle foibe per iscriverli indelebilmente in una coscienza nazionale. La stessa fede che ispira gli esperti a cui Valditara ha chiesto di riformare i “programmi”, ovvero le indicazioni nazionali. Nei loro interventi c'è un ritorno ossessivo ai temi dell'identità nazionale, che si costruirebbe attraverso l'insegnamento della Storia. Non lo chiamano “indottrinamento”, ma prevedono che cominci sin dalla scuola primaria. È chiaro che chi concepisce la scuola in questo modo non possa che guardare con sospetto a ogni proposta educativa che tradisca una concezione della Storia e dell'identità diverse dalla propria. Persino quando la proposta è una semplice polenta.

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Trump ci è, Trump ci fa

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Ma insomma Trump è un matto? Lo era già? Lo è diventato? Sta cercando di fare impazzire noi, bersagliandoci con contenuti volutamente ridicoli e controversi? Sono domande che mi danno la nausea, forse perché sono italiano e ho vaghi ricordi di un tizio molto potente che anche lui a volte sembrava completamente svalvolato e abbiamo passato vent'anni a discutere sul fondamentale interrogativo Ma Ci È O Ci Fa, senza peraltro giungere mai a una soluzione perché la Storia ti giudica dai risultati, non dalle intenzioni né dagli stati psicotici. Ma alla fine mi domando se non sia la stessa domanda che ci poniamo da millenni, non so se vi ricordate Svetonio... no? Strano, avete frequentato i licei migliori del mondo, ma insomma ci stiamo ancora domandando se Caligola o Nerone fossero psicopatici o statisti di livello. E poi c'è il caso di Claudio, lo zio di Caligola, acclamato imperatore un po' per caso, il quale probabilmente aveva davvero qualche problema nervoso ma lo mascherava... facendo il matto, e forse questo spiega Trump meglio di altre ipotesi, insomma, l'avete visto ballare ai comizi? Trump balla male apposta per mascherare il fatto che non sa ballare; se ci pensate sta comunicando e governando allo stesso modo. C'è ovviamente molta arroganza – ballo come un buffone e voi dovrete applaudirmi lo stesso – ma anche un'accettazione dei suoi limiti che Berlusconi non aveva; B. voleva essere preso sul serio (e amato sul serio), Trump vuole continuare a passare per il furbacchione che chiude l'affare. Magari chiede la Groenlandia per ottenere la riduzione di un'aliquota, o spara la Riviera a Gaza per far capire agli israeliani che sta per chiudere un paio di rubinetti. 

E forse confondiamo anche stavolta effetti e cause: Trump potrebbe essere impazzito perché è troppo potente, ma potrebbe anche essere diventato così potente proprio perché è un povero pazzo; chi altro avrebbe potuto intestarsi con disinvoltura strappi in politica estera e interna inimmaginabili dal 1945. Può darsi che la democrazia ceda alla follia quando non sa più risolvere le sue contraddizioni, o uscire dalle situazioni in cui si è cacciata. Una di queste, al netto dei retroscena che ognuno racconta come più gli garba, è l'Ucraina: una situazione che si è ingarbugliata molto prima del 2022, degli accordi di Minsk e di Euromaiden. Storicamente, i democratici rappresentanti dell'Occidente hanno ritenuto che l'Ucraina fosse scalabile; che messo alle strette, Putin avrebbe dovuto cedere, o che un suo eventuale bluff sarebbe stata la sua fine politica. Possiamo discutere lungamente su chi abbia più di altri abbia commesso questo errore (Obama? Angela Merkel?) Quello che a questo punto dobbiamo accettare è che un errore di valutazione c'è stato. Non solo, ma dobbiamo anche riconoscere che non lo pagherà chi lo ha commesso, bensì gli ucraini e, meno pesantemente, gli europei. La retorica democratica crolla di schianto e ci accorgiamo che oltre a "un invasore e un invaso" c'erano venditori di armi che ci speculavano, venditori di gas che dalla fine dei due Nord Stream hanno tratto un immediato vantaggio, compratori di terre rare che stanno per chiudere un buon affare, ecc. Tutto questo, i cultori della democrazia potrebbero trovarlo osceno, ma possono consolarsi: la democrazia è sospesa, al suo posto c'è un pazzo che fa un po' quel che gli pare. 

In Palestina, una situazione molto diversa: ma anche lì, dopo aver coccolato per decenni un regime basato sulla segregazione religiosa (e razziale); dopo averlo visto diventare sempre più violento e meno incline ai compromessi, a un certo punto ti scoppia il bubbone, ti ritrovi un genocidio sulla riva del Mediterraneo e cosa fai? Accetti le tue responsabilità? No, perché nel frattempo tu, democrazia occidentale, hai pensato bene di suicidarti. Non fai neanche le primarie del partito democratico; alle elezioni candidi il nonno in carriola e quando diventa chiaro che la carriola ha delle difficoltà lo sostituisci con una vice la cui impopolarità era abbastanza nota; siccome Trump aveva già vinto contro una donna wasp, ci mandi una donna neanche wasp, perché vuoi proprio essere sicuro di perdere. La responsabilità se la prenderà un povero pazzo, anzi una squadra di pazzi un po' nerd incapaci di notare le differenze tra realtà e simulazioni AI, che magari riusciranno a confondere i sionisti eludendo le loro richieste con proposte ancora più folli. È una teoria.

Rimane sempre sul tavolo l'ipotesi che con Trump e Musk il capitale abbia raggiunto il punto di accumulazione dopo del quale la realtà semplicemente collassa: i cittadini contemplano interdetti ma non possono farci niente perché il capitale ha già da tempo attirato a sé non solo gli strumenti del consenso, ma anche le infrastrutture della comunicazione: nonché esercito e finanza, per cui non si vede proprio come uscire da quello che ormai è un buco nero. Ma probabilmente è un'ipotesi troppo pessimistica: voglio dire, tiranni impazziti ne abbiamo avuti sempre, e in un qualche modo ne siamo sempre usciti; probabilmente anche Svetonio era convinto di vivere negli ultimi giorni dell'umanità, tutti sono convinti di questa cosa, e prima o poi qualcuno ci beccherà. Sarebbe molto buffo che quel qualcuno fossi io.  

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Contro Ario e le sue arie

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Chat Gpt. 
26 febbraio: Sant'Alessandro di Alessandria (250-328), vescovo antiariano

A questo punto Sanremo è ormai alle spalle, e ognuno sta tornando alla sua confortante nicchia musicale, alle playlist da cui gli algoritmi escluderanno sempre più ogni cosa che possa infastidire troppo il nostro senso estetico-musicale – il quale risiede in qualche parte della nostra coscienza più prossima ad altre rispetto al senso etico: poche cose ci sembrano ingiuste come le canzoni brutte; pochi individui ci sembrano esecrabili come gli autori che le scrivono, gli interpreti che le interpretano, i maledetti dj che trovano una buona idea programmarle in radio. Bisogna ammettere che chi legge brutti libri non ci offende come chi ascolta cattive canzoni; chi ama i brutti quadri non disturba nessuno andandoli a vedere in brutte esposizioni, mentre le canzoni sì, le brutte canzoni sono moleste per natura. Tutto questo – in attesa che l'Estate rimescoli tutto quanto e ci sottoponga a un nuovo monsone di brutta musica – ci autorizza a formulare un'ipotesi persino su Alessandro, settimo patriarca di Alessandria d'Egitto, e sul grande scisma ariano di cui più di altri fu responsabile. Uno scisma che divise la cristianità per secoli, offrendo pretesti a innumerevoli conflitti armati; uno scisma che senza dubbio traeva la sua ragion d'essere da importanti questioni teologiche, ma a valle di tutto persiste un sospetto: forse Alessandro non sopportava le canzoni che sentiva sempre più spesso salire dalle strade di Alessandria. La grande novità del quarto secolo, in effetti, era che i cristiani, finalmente liberi di pregare ad alta voce, si erano messi a cantare, tutti, a partire dai teologi. E anche allora è facile immaginare che le brutte canzoni funzionassero meglio delle altre, perché in fondo è così che funziona, no? Più è fastidiosa la melodia, più stupido il testo, più la canzone ti si ficca in testa e vorresti uccidere chi l'ha scritta. Ma Alessandro era un uomo di pace e non riteneva fosse il caso di eliminare Ario: purché la piantasse con le sue canzoni. 

Queste canzoni non le conosciamo: gli ortodossi le hanno fatte sparire, così come tutti i libri scritti dal medesimo Ario. I concetti tutto sommato li conosciamo: in particolare il subordinazionismo, ovvero l'idea che Gesù, essendo stato creato da Dio Padre in un secondo momento, non fosse perfettamente Dio. Quello che forse non abbiamo ancora del tutto capito è il motivo per cui questi concetti fossero così popolari ad Alessandria (e ancora di più ad Antiochia di Siria, la metropoli rivale), al punto di resistere a repressioni violente e a diventare (grazie all'opera di evangelizzazione di Ulfila) la fede di gran parte delle popolazioni barbariche che invasero l'Impero. Era una semplice questione trinitaria o c'era dietro qualcosa di più, che non sappiamo perché quasi tutto quello che gli ariani hanno scritto e predicato è andato distrutto? Poteva avere a che fare con una maggiore apertura alla libera interpretazione delle Scritture rispetto all'ortodossia trinitaria, e all'approccio 'popolare' di Ario, che scacciato più volte dalle chiese ortodosse si era messo a diffondere le sue idee scrivendo canzoni?
 
Può darsi che fu proprio l'ascolto di una delle canzoni a far traboccare il vaso della pazienza di Alessandro. Ario era già stato scomunicato verso il 300 da Pietro I, quinto patriarca di Alessandria. Ai tempi Alessandro faceva parte di quella parte del clero che non capiva del tutto i motivi di tanta intransigenza: evidentemente Ario aveva qualità a cui gli ortodossi non avrebbero voluto rinunciare. È ovvio che fosse un valido predicatore, un pensatore interessante e, malgrado fosse destinato a essere ricordato come un eresiarca, non così dogmatico: disposto a discutere le sue idee, inconsapevole della stretta che sarebbe arrivata quando il cristianesimo fosse diventato con Costantino una questione di Stato. Questo partito moderato e dialogante fu quello che alla morte di Pietro I portò sulla cattedra di Alessandria il predecessore di Alessandro, il patriarca Achilla. Con Achilla, Ario viene reintrodotto nella comunità dei credenti alessandrini, in seno alla quale però il suo carisma è tale che ora sono i suoi oppositori a rischiare di essere accusati di eresia. Per risolvere la questione Achilla convoca un concilio ad Alessandria, ma muore prima di prendervi parte, e Ario diventa un possibile candidato alla sua successione. Alla fine però gli ortodossi la spuntano (del resto la spuntano sempre, a volte quasi per caso, ed è il motivo per cui li chiamiamo ortodossi: se anche solo una volta non l'avessero spuntata, oggi chiameremmo ortodossi gli ariani o i monofisiti). 

Benché Ario sia il candidato più popolare, i presuli eleggono Alessandro, a cui non resta che prendere atto che la frattura ormai è insanabile: quello che insegna Ario non è più cristianesimo. E siccome quest'ultimo non ha la pazienza di discuterne ai sinodi, ma insegna le sue canzonacce al volgo che le ripete per strada senza accorgersi dei marchiani errori dottrinari, ebbene, la condanna dev'essere ferma e recisa. Alessandro a questo punto ha passato la sessantina, è sopravvissuto a più di una persecuzione e forse non è preparato a quello che succede poi: ovvero a una severa reprimenda del potere politico, perché l'eco della sua polemica è giunto all'Imperatore Costantino, che per la prima volta ha deciso di intromettersi nelle discussioni di questa dottrina che fino al 313 era fuorilegge e ora sta per diventare la religione di Stato. E tuttavia Alessandro non cede e riesce a ottenere che l'imperatore convochi un concilio universale, o come si diceva allora, ecumenico: si terrà a Nicea nel 325, alla presenza dell'imperatore che a quanto pare non si perdeva una seduta (chissà a quali trucchi ricorreva per fingersi sveglio). Non sappiamo esattamente come Alessandro abbia perorato la sua causa a Nicea; in quella sede fu probabilmente Ario a mettersi nei guai da solo, con la sua disponibilità a discutere tesi che la maggior parte dei vescovi presenti non poteva accettare. Alessandro probabilmente era già malato e fece appena in tempo a godersi la vittoria contro l'avversario: morì nel 328, prima di scoprire il voltafaccia di Costantino che dopo Nicea avrebbe riaperto le porte agli ariani, addirittura favorendoli. Gli ortodossi comunque l'avrebbero spuntata anche stavolta, ma questa è ormai un'altra storia.
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Il sudtirolese che non giurò a Hitler

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Manifesto nazista in Sudtirolo,
CC BY-SA 4.0
24 febbraio: Beato Josef Mayr-Nusser (1910-1945), sudtirolese antinazista

Nell'ottobre del 1939 il Brennero divenne il confine inquieto tra due regimi alleati che però a quel punto perseguivano entrambi una politica razziale. Le autorità fasciste e naziste misero i sudtirolesi di lingua tedesca di fronte a una scelta secca tra due opzioni: emigrare nel Reich che aveva appena annesso l'Austria, o restare in un'Italia fascista che già da anni aveva chiuso le scuole in lingua tedesca e perseguiva una politica di italianizzazione forzata. La maggior parte (più o meno 185mila su 267mila) scelse di emigrare, ma la situazione era molto incerta: i tedeschi non chiarivano in quali terre i sudtirolesi si sarebbero insediati. In compenso la propaganda filonazista faceva girare la voce che i Dableiber, ovvero i sudtirolesi che sceglievano di restare in Italia, sarebbero stati deportati in Sicilia o Africa Orientale. Josef Mayr-Nusser aveva 29 anni, proveniva come un po' tutti da una famiglia contadina (il padre era morto di colera combattendo nella Grande Guerra), da ragazzino avrebbe voluto studiare astronomia ma era il secondo fratello di cinque e la famiglia poteva permettersi soltanto l'istruzione del primogenito in seminario. Così Josef si era formato da autodidatta, studiando Tommaso d'Aquino e Thomas More; si era trovato un posto di impiegato a Bolzano, dividendo il tempo libero tra il volontariato per la società di Vincenzo de' Paoli e la militanza nell'Azione Cattolica, l'unica associazione giovanile non fascista tollerata dal regime. 

L'Azione manteneva un minimo di copertura per i sudtirolesi che rifiutavano l'assimilazione e organizzavano scuole clandestine (Katakombenschule) per insegnare tedesco ai bambini. Per Mayr-Nusser scegliere l'Italia nel 1939 significava rinnegare pubblicamente la propria cultura: ma aveva letto il Mein Kampf, e il nazismo gli appariva il male peggiore. Fu una scelta presa in relativa solitudine, mentre anche il vescovo di Bolzano e Bressanone prendeva la via della Germania. Mayr-Nusser invece aderì al gruppo antinazista clandestino che prendeva il nome dall'eroe della resistenza antinapoleonica, l'Andreas-Hofer-Bund. Nel 1942 sposò Hidegard Straub, da cui ebbe subito un bambino (il compositore Albert Mayr). Dopo l'otto settembre 1943, l'Alto Adige fu di fatto annesso al Terzo Reich: nel 1944 Mayr-Nusser fu arruolato forzatamente in un plotone di Waffen-SS e condotto in un campo di addestramento in Prussia dove però il 4 ottobre si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà a Hitler. Condannato a morte, Mayr-Nusser non fece nemmeno in tempo a raggiungere il campo di concentramento di Dachau: morì ammanettato nel carnaio dei vagoni, secondo il referto ufficiale di broncopolmonite. 

Dopo la guerra, Mayr-Nusser restava un martire difficile da ricordare: per molti sudtirolesi rimpatriati era comunque un Dableiber, un traditore. Il fatto che avesse detto di no a Hitler rendeva più evidente come tanti altri avessero detto di sì: vescovo incluso. A incaricarsi della sua memoria fu soprattutto l'Azione Cattolica, il che forse ha fatto sì che la dimensione religiosa del suo martirio occultasse quella politica e sociale. È stato beatificato nel 2016 da papa Francesco. 



25 febbraio: Santa Valpurga (710-779), badessa.

La notte di Santa Valpurga
Avrebbe mai pensato questa nobile monaca, mentre dal Wessex si spingeva nella Franconia, evangelizzando i sassoni e fondando monasteri (il più importante a Heidenheim), che il suo nome sarebbe diventato sinonimo di stregoneria? Destino profondamente ingiusto che Walpurga, o Walburga, nulla ha fatto per meritare. Non è nemmeno morta nella "notte di Santa Valpurga", quella che nel calendario si trova tra il 30 aprile e il primo maggio, come è successo per esempio ad Adolf Hitler. Valpurga risulta trapassata il 25 febbraio del 779, ma come spesso accadeva con i santi morti nei giorni della quaresima, i devoti preferivano celebrarne la memoria in altre date: nel caso di Valpurga la traslazione dei suoi resti nella cattedrale di Eichstätt, avvenuta il primo maggio dell'870. E siccome nel medioevo i giorni cominciavano al tramonto del sole, la festa di Santa Valpurga comincia proprio nel momento in cui i contadini dell'Europa centrale accendevano falò per festeggiare l'arrivo del mese di maggio, con canti e danze pagane che i cristiani avrebbero condannato come manifestazioni di satanismo. Da cui la leggenda romantica – rammentata da Goethe nel Faust – di una "notte di Santa Valpurga" fumosa e ribollente di streghe e demoni in frenetici sabba. Di tutto ciò la monaca Valpurga è assolutamente incolpevole, rappresentante com'è di un movimento di evangelizzazione inverso alla rotta dei Sassoni, dall'Inghilterra alla Germania. 
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