Valditara e la riscossa del contenutismo
04-02-2025, 15:46governo Meloni, italianistica, Manifesto, scuolaPermalink(Questo pezzo è apparso sul Manifesto del 1/2/2025). Al momento non è così facile indovinare come cambierà la scuola italiana nei prossimi anni. Quel che sembra di capire è che Valditara vorrebbe passare sia per un restauratore sia per un riformatore; ne sapremo certamente di più quando finalmente le nuove Indicazioni Nazionali saranno pubblicate. In effetti, tutto quello di cui si è discusso nelle ultime settimane (il ritorno del latino, delle poesie a memoria ecc.), non è che un'anticipazione, una serie di parole d'ordine gettate ai giornalisti per saggiare le reazioni dell'opinione pubblica. Non è certo un caso che a tener banco sia stato il latino. Che sia una "palestra di logica", come il ministro ha affermato, è discutibile e discusso; invece è facilmente dimostrabile che sia un argomento su cui amiamo tutti litigare, su media e social. I litigi provocano discussioni, le discussioni aiutano a mantenere la visibilità di un ministro che si trova in una posizione difficile (come tanti suoi predecessori): deve dare l'impressione di voler dare alla scuola una scossa salutare, e deve farlo a costo zero.
Purtroppo nessun giornalista ha avuto l'indelicatezza di chiedere quanto il governo avrebbe intenzione di stanziare per l'assunzione di nuovi insegnanti di latino alla scuola secondaria di primo grado. Il sospetto è che anche stavolta una massiccia discussione sulla centralità della cultura classica genererà un topolino: due o tre ore pomeridiane alla settimana, opzionali, magari a spese dei genitori. Quanto basta per creare classi di serie A e di serie B: non abbastanza per affrontare con metodo l'apprendimento di una lingua che poi al liceo si ricomincerà inesorabilmente da zero. Nel frattempo, però, ne abbiamo discusso: e discutendone, abbiamo dato la sensazione che il latino sia tornato di attualità.
Un "latino alle medie" del genere, a dire il vero, non è molto diverso da quello che tante scuole secondarie di primo grado includono già nella loro offerta formativa. Non si tratta nemmeno dell'unica proposta sbandierata ai giornalisti come una novità, e che non lo è affatto: c'è quasi da ammirare l'astuzia del ministro, che avvertendoci che d'ora in poi a scuola si studieranno le poesie a memoria, lascia intendere ai giornalisti che a un certo punto avessimo smesso. No, non abbiamo mai smesso, ma da qui in poi sembrerà che le facciamo studiare perché ce lo ha chiesto il ministro, ed ecco un semplice esempio di come si può passare per riformatori a costo zero. Tutti i poeti italiani citati dal ministro (Saba, Govoni, Pascoli, Gozzano, Penna), non sono in effetti mai spariti dalle antologie scolastiche: aprirle per credere. Anche Stephen King, spacciato come una novità, è in effetti una vecchia conoscenza. Come sempre, chi crede di innovare la scuola arrivando da fuori ha in mente la scuola che ha frequentato lui: magari quella in cui "Verne e Stevenson" non erano ancora ammessi – e quindi si leggevano febbrilmente sotto il banco. Laddove oggi sono testi fin troppo antologizzati, e sempre più distanti dalla sensibilità dei giovani lettori – sarebbe davvero un triste paradosso se L'isola del tesoro diventasse una lettura obbligatoria, ma ne parleremo solo se succederà. Nel frattempo annotiamo un dettaglio rivelatore: in molti casi le novità ventilate dal ministro Valditara sono state presentate dai giornalisti come "nuovi programmi", o "riforma dei programmi". Un termine, "programmi", che segnala la scarsa dimestichezza con la scuola di chi lo usa: è da più di trent'anni che i programmi a scuola non ci sono più. Al loro posto, appunto, ci sono le "indicazioni nazionali": ma questa difficoltà ad accettare il termine non è un semplice errore, bensì l'indizio di una resistenza culturale che la destra di governo condivide con altri settori della pubblica opinione. Le indicazioni nazionali, in effetti, non si preoccupano di stabilire cosa si debba studiare, ma mettono nero su bianco le competenze che lo studente dovrebbe maturare anno per anno. Questo è vero soprattutto per l'insegnamento dell'italiano: le indicazioni nazionali non contengono nessun nome di autore, ma affermazioni del tipo "Identificare attraverso l'ascolto attivo e finalizzato vari tipi di testo e il loro scopo", ecc.
Se dobbiamo giudicare l'approccio della commissione ministeriale da una serie di anticipazioni consegnate ai giornalisti (e fin qui non abbiamo alternative), l'impressione è che si tratti di una riscossa del contenutismo ai danni della didattica delle competenze. Il ministro crede molto in determinati contenuti – la Storia romana innanzitutto, alla quale ha dedicato lui stesso qualche libro – ed è evidentemente favorevole all'istituzione di un canone ufficiale di autori da leggere a scuola, qualcosa che non esiste a memoria di professore di ruolo. In un certo senso è la fine di un'ipocrisia, perché appunto, tutti gli autori nominati sopra a scuola si sono sempre studiati; in mancanza di disposizioni ministeriali, erano i manuali scolastici a perpetuare con una certa inerzia un canone che i docenti e studenti, per comodità, continuano a chiamare "programma". Il canone letterario scolastico attualmente è il risultato di un inconsapevole patteggiamento tra insegnanti, studenti e genitori, intorno a testi che tutti ci aspettiamo di dover leggere a scuola (Omero in prima media, Dante in seconda, Manzoni in terza...) anche se le Indicazioni in effetti non li indicano. Gli insegnanti possono anche fare tutt'altro, ma nei rari casi in cui succede capita che incorrano nelle proteste di genitori e colleghi. Certo, l'idea che spetti da qui in poi a un ente governativo stabilire quali libri si leggono a scuola e quali no ha un che di inquietante: ma va incontro alla concezione popolare che in un canone letterario scolastico non ha mai smesso di credere – e forse ne ha bisogno. In ogni caso, ribadire la centralità di Pascoli e Montale fa fine e non costa davvero nulla: non bisogna nemmeno stampare nuovi libri, perché in quelli di adesso Pascoli e Montale ci sono eccome.
Quando ormai gli echi della discussione si erano spenti, in occasione della Giornata mondiale della scrittura a mano, lo stesso ministro ci ha informato che da qui in poi gli studenti ricominceranno a usare il diario cartaceo. Qualche lettore ne avrà dedotto che avessero smesso di usarlo... ebbene, indovinate: no. Forse il ministro non lo sa. O forse ci conosce fin troppo bene.
Dieci tribù ritrovate
03-02-2025, 01:14Bibbia, ebraismo, Israele-PalestinaPermalink
Questa foto è terribile, ironica e allegra.
È terribile perché tutte queste persone vanno verso un problema, non verso la sua soluzione: la guerra non è finita e per come stanno le cose non si vede proprio come non debba presto riprendere. Hamas ha dimostrato di avere ancora il controllo della Striscia, e Israele non può trovare un accordo con Hamas, nemmeno se fosse ancora governato da persone razionali. Questa foto è terribile perché queste persone stanno scegliendo tra esilio e guerra, e stanno scegliendo la guerra: la stessa guerra che li ha decimati.
Questa foto è ironica, perché mostra un popolo che marcia verso una terra che ritiene sua di diritto. Una cosa che è successa tante volte nei secoli, ispirando miti e leggende. Il più famoso sta nell'Esodo, il secondo libro della Bibbia. Credo che chiunque abbia ricevuto le basi minime di quella educazione giudaico-cristiana che costituirebbe il fondamento della nostra famosa civiltà non possa non sobbalzare, vedendo una foto in cui la Bibbia si realizza nel presente. Questa è una foto che mostra un esodo, nei luoghi dell'Esodo, e non così diversa da come ci immaginiamo l'esodo. Salvo il particolare che a camminare nelle sabbie verso la Terra Promessa non sono gli ebrei di Mosè, ma i loro supposti nemici: i palestinesi. A dispetto di chi li vorrebbe dispersi, trasferiti in Egitto o in Giordania, i palestinesi ritengono che il loro destino sia in Palestina: e questa convinzione, custodita con una ostinazione che ha i tratti della fede religiosa, li accomuna terribilmente ai loro invasori, gli israeliani.
Questa foto è ironica perché mostra, più di mille parole, che israeliani e palestinesi sono stati lo stesso popolo. Lo dicono i genetisti, lo confermano gli archeologi: palestinesi ed ebrei vengono dalla stessa terra e condividono millenni di storia. A chi ancora stesse cercando le Dieci Tribù Perdute, questa foto fornisce la risposta: sono qui, in mezzo a voi, sono i discendenti di chi non fu deportato né in Assiria né a Babilonia; dopodiché si sono mescolati con tutti i popoli che hanno migrato nel frattempo, greci latini arabi curdi turchi persiani – mentre gli ebrei nella diaspora si mescolavano con polacchi tedeschi spagnoli ed eccetera. Ma in un qualche modo sono sempre i vostri fratelli ed è questo che vi fa impazzire: la loro tigna è la vostra tigna. Nessuno ci fa arrabbiare come noi stessi, e subito dopo vengono i parenti più prossimi. La vostra diffidenza è quella dei popoli nomadi nei confronti di quelli stanziali; solo Abele si fidava di Caino, e fu un errore. Chi sostiene ancora che i palestinesi non esistano, che siano un'astrazione moderna, che ha preso forma per ostacolare il progetto sionista, dice una cosa evidentemente assurda – questa foto è già un forte indizio del contrario – ma che contiene il suo germe di verità: i palestinesi sono lo specchio degli israeliani, e lo sono diventati soltanto quando gli israeliani hanno scelto di mettersi davanti a quello specchio. Da dove viene la loro determinazione, più forte di ogni conflitto? Domandatevi da dove viene la vostra. Perché non si arrendono semplicemente, perché non accettano che la guerra è persa e la terra non è più loro? Domandatevi perché non vi siete mai arresi voi. Perché sono sempre meno ragionevoli, perché si radicalizzano invece di cercare un compromesso? Vi state radicalizzando anche voi, fateci caso. Perché catturano ragazze e bambini? Perché avete armato le ragazze, e perché avete imprigionato i loro bambini. Perché stuprano, perché torturano? Guardatevi intorno. Guardatevi bene. Tutto quello che fanno, non lo fareste anche voi nella loro situazione? Certo che lo fareste, ed è il motivo per cui specchiarsi nella loro miseria diventa ogni giorno meno tollerabile.
(Ve la siete presa per i braccialetti. Un prigioniero è stato costretto a portare un braccialetto palestinese. Che assurda idea, da dove l'avranno presa? Questi sono i braccialetti che indossano i prigionieri palestinesi nelle vostre carceri).
Quella foto lassù è allegra, perché mostra tanta gente che torna a casa, e pazienza se la casa non c'è più. Sono tutti vivi, almeno loro. In fondo se guardate bene c'è una specie di nebbia, la polvere dei detriti di cemento e l'ansia per il futuro. Ci sarà tempo per arrivare laggiù e odiare chi ha distrutto case e famiglie. Ma insomma non c'è guerra, per quanto orribile, che non possa finire: non c'è odio che non si possa dimenticare. I palestinesi esistono: bisogna accettare il fatto, o ucciderli tutti quanti; questa seconda ipotesi è stata lungamente esplorata in questi mesi, ma alla fine i palestinesi esistono ancora. Potete accettarli come un popolo ai vostri confini (il che porterà ad altre guerre), o potete riconoscere in loro i vostri fratelli e mescolarvi con loro, come succederà comunque da qui a mille anni. Come è sempre successo, come è naturale che succeda: i popoli migrano, si scontrano, si sciolgono. Oltre quella nebbia sullo sfondo c'è un cielo azzurro e indifferente. Non ha niente da dirci, ma è tutto quello che abbiamo: respiriamo, siamo vivi, alleluja.
Sul Manifesto di oggi
01-02-2025, 17:00autoreferenziali, segnalazioniPermalinkBuongiorno a tutti, un avviso importante (e non proprio tempestivo): c'è un mio pezzo sul Manifesto in edicola oggi, in una pagina che sembra essere la prima. Se non lo trovate più, la versione on line è qui. Mi sembra che non ci siano errori – a parte il nome, ma alla fine non è così importante come mi chiamo, no? E speriamo che ci sia tempo per correggersi da qui in poi.
Posso dirlo? Sono emozionato.
Il pezzo prima o poi lo metterò anche qui sopra, lo sapete che non butto via mai niente. Vi esorto comunque ad abbonarvi a un quotidiano on line che costa poco ed è rimasto in tanti anni un punto di riferimento importante. Per quanto possa averlo criticato tante volte, il Manifesto, alla fine ha dimostrato di avere ragione lui, sopravvivendo meglio di tante altre realtà che sembravano più solide. Come mi sembra di aver detto altre volte, la mia linea d'azione è scrivere in tutti i posti dove mi fanno scrivere (e resistere finché riesco a scrivere quello che voglio io), ma scrivere sul Manifesto mi sembra in questo momento più sensato che altrove – e comunque altrove non mi invitano. Può darsi davvero che io stia diventando più comunista con l'età, anche se alla maggior parte delle persone succede il contrario: non scherzo, più passa il tempo, più il Capitale si accumula e più i soggetti dei miei sogni a occhi aperti sono scioperi di massa, collettivizzazioni forzate, ghigliottine. Ma alla fine credo anche sia l'effetto di quel che succede quando un'intera cultura è sotto assedio da anni: i ranghi si riducono e chi sopravvive si ritrova in prima linea, che se lo meriti o no. Per adesso di sicuro non me lo merito, vediamo come va.
La Piagnona del Consiglio
31-01-2025, 19:17fascismo, giustizia, governo Meloni, invettivePermalinkNon parlo da esperto di diritto, né internazionale né tennistico; non sono affatto sicuro che l'avviso di garanzia fosse un fatto dovuto, come ho letto un po' dappertutto, o se il giudice non avesse margini di discrezionalità – già mentre scrivo margini di discrezionalità mi vien da ridere, non sono neanche sicuro che significhi qualcosa. Perciò quello che le dico prescinde dalla mera questione giuridica, che lascio agli esperti; è più una cosa che ha a vedere con la comunicazione, e so che lei ci tiene molto alla comunicazione. Degna erede, anche in questo, di un movimento politico e sociale che nacque sui giornali e proseguì sui cinegiornali Luce, che credeva tantissimo nella comunicazione, anzi era pura comunicazione: non a caso, mentre in Germania costruivano panzer su panzer, il vostro capo lasciava scritto "LA CINEMATOGRAFIA È L'ARMA PIÙ FORTE", probabilmente perché i soldi per costruire panzer non c'erano, laddove con qualche centinaio di cinematografi e un po' di parate di balilla vi poteva convincere di essere una grande potenza. Ecco, le vorrei parlare di questo, presidente Meloni: del modo in cui lei comunica.
E quindi, insomma.
Presidente, lei è una frignona insopportabile.
Lo so che si potrebbe dire meglio (a proposito di comunicazione). Ma anche peggio di così, quindi si contenti. Lei è insopportabile. È sgradevole. Lei è il vicino di casa che augureremmo al nostro peggiore vicino di casa. Lei è quel tipo di persona che si fa strada nella vita lamentandosi sempre di tutto e di tutti, finché tutti e tutto non la lasciano passare per stanchezza. Lei ha ricevuto un avviso di garanzia perché i cialtroni che lei ha nominato qua e là hanno gestito un affare di Stato in un modo ridicolo, e invece di mordersi le labbra, mantenere compostezza e affettare fiducia nella magistratura, no, lei è già lì a calcolare quanti centimetri quadrati di consenso mediatico riuscirà a rosicchiare recitando l'unica parte che ha imparato a recitare: il piagnina rancoroso. Lei è quel tipo di persona che quando c'erano le file alla posta stava davanti alla fila a litigare con la cassiera per un bollettino postale – come fosse la cassiera responsabile delle multe che prende. Lei è quel tipo di studente che se lo interpelli anche solo per cognome, Ehi Meloni!, quel tipo di studente che ha già pronto il dito da puntare su qualche compagno perché sicuramente qualcuno gli sta dando la colpa di qualcosa, e lui non vede l'ora di scaricarla su qualcun altro, sui Magistrati Rossi della fila dietro che chissà che bigliettini stanno scrivendo, sicuramente è un complotto contro di lei.
Qualsiasi cosa, quando ci entra lei, diventa un teatrino con lei protagonista, e posso dirlo? Si capisce benissimo che viene da una casta di scrittori e sceneggiatori; si capisce benissimo che se l'industria cinematografica italiana fosse ancora quella di una volta, lei avrebbe avuto una rispettabile carriera di caratterista e noi ci saremmo risparmiati la fastidiosa carriera di una piagnistoide nazionale. Però la politica non è solo una recita, o perlomeno non dovrebbe. Si è fatta beccare mentre liberava un criminale internazionale, non ha avuto i riflessi di coprire la cosa col segreto di Stato, e mò se la prende con magistrati e giornalisti che fanno il loro lavoro, ma lo sa cosa vuol dire fare il proprio lavoro? No che non lo sa, per lei tutto è teatro. Fosse almeno un teatro divertente.
Berlusconi – eh lo so, si finisce sempre lì – Berlusconi faceva il pagliaccio, a volte esagerava ed era patetico, ma così allentava la tensione. Lei no, lei con le sue querule scenate riesce solo a infastidire e infastidire e infastidire e a un certo punto qualcuno deve avervi spiegato che infastidire il pubblico era un valore in sé, triggerare, fare impazzire, asfaltare, bla bla bla, tanti modi di dire che l'unico modo che avete di farvi notare è farvi detestare. Io la trovo una grave menomazione, questo almeno è il mio limitato parere. È pur vero che non ho mai fondato un partito e non ci ho neanche vinto le elezioni, per cui evidentemente la Storia sta dando ragione ai piagnina come lei.
Può anche darsi che tra qualche generazione anche lei sarà protagonista di una saga a puntate in cui ogni tanto fora la quarta parete e spiega al pubblico di domani come si fotte il pubblico di oggi: magari ci sarà una puntata in cui ci spiega che la sciocchezza di cui si discute in questi giorni è solo un pretesto per mettere sotto scacco la magistratura e ottenere un po' di più potere che poi le servirà a... a lamentarsi più forte, immagino. Va bene, può darsi che vincerà lei anche sulla lunga distanza. Ma questo per ora non mi impedisce di scrivere ciò che penso, e quello che penso, è che lei è una frignona insopportabile che dovrebbe vergognarsi di tutte le figure che si autoinfligge, vergognarsi lei come ci vergogniamo noi che forse non ci vergogniamo abbastanza, anzi forse da qui in poi punterò la sveglia dieci minuti in anticipo per vergognarmi un po' di più.
Mi scusi lo sfogo, di certo non all'altezza dei suoi. Sto ancora imparando, nella vita ho fatto altro. Lei forse no.
Nessuno è stato stronzo come Dylan (ma Chalamet s'impegna)
29-01-2025, 22:41Bob Dylan, cinema, musicaPermalink(Premessa che non c'entra quasi nulla con A Complete Unknown e quindi si può allegramente saltare)
Qualche tempo fa, non sapendo cosa guardare ho visto The King, un film del 2019 in cui Chalamet, non sapendo chi interpretare, interpreta Enrico V d'Inghilterra. È un film curioso perché Shakespeare ha fornito il materiale per una saga in tre stagioni, mentre gli sceneggiatori hanno deciso di tenere soltanto qualche suggestione (l'idea che Enrico da principe passasse il tempo nelle bettole con Falstaff), e raccontare un'altra storia, che sostanzialmente è... Dune. E notate che è un film del 2019. Ma c'è quasi tutto: un erede un po' recalcitrante ma che a un certo punto accetta l'idea di essere l'Eletto, onde per cui si fa convincere a guidare un esercito nella battaglia definitiva, senonché verso la fine (spoiler) una donna gli fa venire il sospetto di essere stato manovrato come un pupazzo, e di non essere l'eletto di un bel niente. È un canovaccio che davvero somiglia più a Herbert che a Shakespeare, e non mi pare che fosse molto diffuso prima di Herbert; anzi ho la sensazione che stia diventando popolare adesso, un altro film che ha un canovaccio simile ad esempio è il Blade Runner di Villeneuve; anche gli ultimi capitoli di Matrix e Joker se ho capito bene giocano sulla demistificazione dell'Eroe, insomma è una storia che fino a qualche anno fa non ci raccontavamo e di colpo ce la stiamo raccontando sempre più spesso. Forse ci dice qualcosa di noi, ma cosa? Che dovremmo smetterla di considerarci gli Eletti; che questa convinzione ci rende infelici oltre che pericolosi a noi e agli altri. Finirla con un certo calvinismo, finirla con un certo messianesimo troppo autoriferito. Se è la storia giusta al momento giusto, forse questo spiega il successo di Timothée Chalamet, un attore bravo e persino versatile, eppure sempre con l'aria di essere lì perché è l'amico di uno importante, una combinazione di ingenuità e arroganza che ti fa sempre istintivamente prendere le distanze. Chissà cosa avrebbe fatto con Dylan, mi sono domandato. E appena ho potuto sono andato a vedere A Complete Unknown.
(Se volete potete cominciare qui).
Forse davvero Bob Dylan contiene più moltitudini di ciascuno di noi. A questo punto Scorsese gli ha già dedicato due documentari, mentre di biopic ne abbiamo avuti altri due: fatevi venire in mente un altro artista vivente ispiratore di tanta produzione audiovisiva. E malgrado questo, ci sembra ancora di essere in superficie: i due film sembra che lo facciano apposta, uno si chiama Non sono qui e l'altro Un completo sconosciuto. Quest'ultimo si limita a inquadrare una brevissima stagione (il quinquennio 1961-1965), ma come ha osservato Alessandro Carrera (che su Dylan è autorità definitiva) lascia fuori talmente tante cose interessanti che potremmo farci un altro film. Sul serio: potremmo lasciar fuori Pete Seeger – tanto nessuno riuscirà mai a interpretarlo come Ed Norton – e metterci Dave Van Ronk, che in A Complete fa da tappezzeria: ma è stato lui a lasciare a Dylan uno spazio sul divano del suo appartamento nel Village, e uno slot di dieci minuti sul palco del Gaslight Café; è stato Van Ronk il primo a farsi fregare un pezzo da Dylan, il suo arrangiamento di The House of the Rising Sun. Potremmo mostrare un Dylan sconosciuto che guarda la Baez in tv cantare Silver Dagger, con i canini che brillano ai riflettori, cercando di restituire quel misto di invidia, di senso del pericolo e di attrazione che deve aver provato. La scena in cui finalmente la incontra di persona ma non se ne accorge perché ci sta provando con la sorellina Mimi, mentre Joan si domanda chi è quel campagnolo e perché puzza così tanto. Potremmo inserire il viaggio a Roma per fare una sorpresa a Suzie Rotolo che forse non lo voleva tra i piedi. Potremmo mostrare tutte le volte che è stata Suzie a dire no, non ci andiamo a vedere il solito film romantico in bianco e nero, invece andiamo a una mostra o a teatro perché è ora che impari due cose sul mondo. Potremmo mostrare un Bob terrorizzato dall'idea di passare due ore su una poltrona a guardare una cosa di Brecht, e poi rimane folgorato da Jenny dei Pirati e decide che questo bisogna fare: canzoni che avvisino il gentile pubblico che sarà giustiziato prima dell'alba. Potremmo mostrare un Dylan molto più sardonico, a patto di trovare un interprete che sappia cantare i talkin' blues che facevano scoppiare a ridere gli avventori del Gaslight: apparentemente Chalamet non ci è riuscito, ma chissà se gli hanno chiesto di provarci. Potremmo soffermarci un attimo su quanto fosse una iena Grossman, il suo agente, col quale poi sarebbe rimasto in causa per vent'anni. Potremmo mostrare Dylan in sala di registrazione che cerca subito di fare qualcosa di elettrico con Mixed Up Confusion, ma deve rinunciarci perché non è capace, non riesce a suonare a tempo, per cui da subito il folk è un ripiego.
Potremmo togliere una Blowin' in the Wind, che nel film si sente tre volte, e aggiungere una Hattie Carrol. Potremmo mostrare davvero la scena del perfido Zantziger, sudista ubriaco che si mette a bastonare una povera cameriera afroamericana che muore di spavento, e se la cava col minimo della pena: e tutto questo all'indomani della Marcia su Washington, proprio quando Dylan ha deciso che è ora di cantare la rivoluzione sul serio. Potremmo mostrare Dylan coi capelli corti sul Mall di Washington, davanti a centinaia di migliaia di afroamericani che non giocano alla rivoluzione, che stanno davvero rischiando la vita (i razzisti li aspettavano agli incroci, tiravano alle corriere) – Dylan che sceglie con cura le canzoni meno adatte all'occasione, e anche in quel caso la Baez che ci mette una pezza. Potremmo inserire qualche pantera nera, Malcolm X, o anche solo Emmett Till (come in Ali di Michael Mann), perché a quel bambino linciato per un saluto Dylan dedicò delle sue canzoni più barricadere, e poi per qualche motivo si vergognò di avergliela dedicata. Sicuramente non dimenticheremmo quella volta che doveva ritirare un premio a una cena di liberal americani, ma arrivò ubriaco e si mise a raccontare che aveva tanti amici che andavano a Cuba, e che a volte si sentiva un po' l'assassino di Kennedy. E l'incontro coi Beatles, o quella volta che ascoltò The House of the Rising Sun rifatta dagli Animals e saltò sulla sedia: qualcuno aveva rubato la stessa canzone di Van Ronk e aveva cambiato la storia della musica, e non era lui, fuck fuck, fuck. Mostrare qualche seminterrato in cui "mescolavano le medicine" – affrontare con meno censure gli aspetti più sordidi del sottobosco di Manhattan, o almeno qualche canna ogni tanto, per il realismo. Perché questa cosa che fumassero tutti continuamente ma solo roba legale, come dire.
Potremmo mostrare Phil Ochs, anche solo per allontanare il sospetto di una congiura del silenzio: nessuno parla mai di Phil Ochs (e Love Me I'm a Liberal sembra scritta ieri): potremmo mettere la scena in cui Dylan lo caccia dalla limousine, anche se forse era un semplice taxi. Forse non faremmo in tempo a mostrarlo scambiare frecciatine con Andy Warhol, forse nel 1965 ancora non aveva incrociato né la modella Edie Sedgwick né l'ex coniglietta Sara Lownds (dal 1966 Sara Dylan). Ma insomma il senso è che potremmo raccontare una storia completamente diversa. Potremmo addirittura evitare la battaglia di Newport, che sembra a tutti così fondamentale, ma in sostanza fu un set di venti minuti in cui qualcuno fischiò Dylan, forse perché si aspettava ancora canzoni folk e Dylan era stanco di suonarle: o forse perché il sound system non era adatto e quindi il pubblico sentiva soltanto un gran frastuono. Qualche fan se la prese male, ma non così tanti: e nel frattempo Like a Rolling Stone stava uscendo nei negozi e avrebbe venduto più di tutto quello che aveva pubblicato fino a quel momento, quindi davvero: perché ogni volta bisogna descrivere Newport come una battaglia campale? Cioè, sul serio Mangold ha girato un film su Dylan in cui il nemico numero uno di Dylan è... Alan Lomax?
Trovatevi qualcuno che vi guardo come Suzie, sul serio. |
Mi dispiace doverlo scrivere, perché il film è ben fatto come sa ben farli Mangold, ma temo che questo Dylan Cacciato dal Tempio sia una pagina di vangelo calvinista: l'unico Dylan che può interessare alla sensibilità del tardo capitalismo. Non un rivoluzionario, non un un artista che cerca di evolversi, ma più concretamente un furbastro del Midwest che si prende gioco di tutti questi liberal newyorkesi, questi hobo-chic che giocano alla rivoluzione; Dylan fa il nido nei loro club, copia tutto quello che può servirgli, ma il suo destino è un altro: lui è un Predestinato al Successo. Tutti i comprimari esistono in relazione a lui, e soltanto finché servono a lui: Woody Guthrie è il profeta da cui ereditare la missione, Pete Seeger il padre da tradire, Lomax il censore da abbattere, Joan la rivale da sconfiggere e "Sylvie" la damigella che lo attende alla finestra, e che lo molla per una banale forma di gelosia – almeno hanno avuto il buon gusto di non chiamarla Suze, dato che non lo è.
Ma insomma, esiste solo Dylan. Gli amici sono come le chitarre acustiche: utili e maneggevoli, finché non diventano ostacoli. Il prezzo della fama è scoprire negli occhi ammirati degli altri il verde dell'invidia. E basta, a parte il Successo non c'è nient'altro: l'amore è una parola di quattro lettere, le canzoni non fanno le rivoluzioni ma a dimostrare chi è il migliore: a quel punto si poteva davvero far partire i titoli di coda con Positively 4th Street, la canzone in cui Dylan di alta classifica non ha più niente da dire se non: ce l'ho fatta, sono il meglio, e chi non è con me è contro di me. È più o meno quello che ogni rapper deve ripetere oggi un paio di volte ad album; sono il migliore, sono l'Eletto, mangiate la polvere, voi non mi state criticando; mi state solo invidiando. Dylan non si è mai concesso un dissing ma con Positively ci è andato abbastanza vicino.
Nel mio film (per fortuna non so scriverli), Dylan è un ragazzo in balia degli eventi, che vive in un mondo che può finire da un momento all'altro: nel suo Midwest i contadini costruiscono rifugi antinucleari. Anche la rivoluzione è un'opzione, e per qualche mese del 1963-1964 può veramente aver creduto di esserne l'araldo. Il suo terzo disco, The Times They Are A-Changin', è un monumento di realismo folk; la canzone che gli dà nome è un inno che dà i brividi – li avete sentiti al cinema, ed era la seconda volta, se avete già visto Watchmen. È l'annuncio di un mondo nuovo che farà a meno di tante persone inutili, proprio come Jenny dei Pirati. Dopodiché è successo qualcosa che nessuno ci ha raccontato. Forse, banalmente, Dylan ha avuto paura. Era solo un ragazzo, di mestiere scriveva canzoni e le cantava nei teatri, la rivoluzione avrebbe richiesto un impegno e un'attenzione che non erano alla sua portata. Signore, risparmiami questo calice. Nel giro di pochi giorni Kennedy è morto e negli USA sono arrivati i Beatles: una coincidenza che lo stesso Dylan ha ricordato in una delle sue ultime canzoni inedite, l'incredibile Murder Most Foul. Imbracciando una chitarra elettrica, Dylan ha scelto tra pop e Movimento per i diritti civili. Non se ne è mai pentito. Negli anni successivi, mentre i suoi connazionali scoprivano di essere impegnati direttamente in una sanguinosa guerra in Vietnam, Dylan non ha mai voluto scrivere una canzone sull'argomento. Nel mio film insomma Dylan sarebbe uno dei tanti che per un attimo crede di essere l'Eletto, ma poi cambia idea per un soprassalto di paura o di ragionevolezza. E a recitarlo chiamerei Timothée Chalamet, tra l'altro ho visto che se la cava anche a cantare. E per questi ruoli un po' stronzi è l'uomo giusto.
Israele i problemi li bombarda
28-01-2025, 03:14giorno della memoria, Israele-Palestina, RomaPermalinkQuesta cosa è oggettivamente notevole.
"GAZA IS THE BEST PLAYGROUND"https://t.co/ZkolqKtVud
— Zionism Observer (@receipts_lol) January 26, 2025
La ragazza che gridava: "Via, giudei"
27-01-2025, 19:14antisemitismo, giorno della memoria, memoria del 900, razzismiPermalink(Comunque, davvero non c'è bisogno di spiegare perché non partecipate al Giorno della Memoria. Né di inventarsi pretesti o persecuzioni inesistenti, o di gridare al lupo o all'antisemitismo, che purtroppo ormai è lo stesso grido. Sappiamo perché la memoria vi dà fastidio; sappiamo perché non vorreste ricordare).
Uno dei tanti modi in cui le opere d'arte si rendono utili, è il fatto che restano a nostra disposizione, più o meno immutabili; così che ogni volta che torniamo a dare un'occhiata, possiamo misurare la nostra distanza tra loro e noi. Se ci sembra che la Gioconda sorrida in un modo diverso, siamo noi che abbiamo scoperto un nuovo significato in un sorriso. Detto questo, oggi purtroppo non ho avuto l'occasione di rivedere Schindler's List, un film che tanto so a memoria. Eppure ogni volta c'è sempre qualcosa di nuovo che attira la mia attenzione. Malgrado l'industria culturale si sia data molto da fare dal 1993 in poi sull'argomento, Schindler continua a sembrarmi il top di gamma, per tutta una serie di motivi che magari altre volte troverò il tempo di spiegare – nel frattempo però sarò cambiato, e Schindler mi dirà cose diverse. Per ora annoto un dettaglio che mi sembra importante.
La cosa che più mi impressionò, la prima volta che lo vidi, fu una ragazzina. Non la bambina col cappotto rosso (una delle migliori dimostrazioni del geniale cinismo di Spielberg), ma la ragazza polacca o tedesca che grida "Andate via giudei" agli ebrei di Cracovia che marciano per entrare nel ghetto. In tre ore di film credo sia l'unica manifestazione di antisemitismo a non provenire da militari, gerarchi o industriali. A metà Novanta mi lasciò atterrito: una ragazza che tirava fango agli ebrei, era successo davvero? Ecco.
Probabilmente questa è la principale differenza tra il me stesso di trent'anni fa: quella bambina, oggi, non mi sorprende più. Sono cresciuto, ho assistito a tante guerre: tutte da lontano, per fortuna. Il mondo è molto diverso – per lo più abitato da persone che nel 1993 non erano ancora nate. Per certi versi è un mondo migliore (alcune statistiche perlomeno direbbero questo) ma è un mondo in cui una bambina così non mi sorprende più. Quello che per me era il resoconto cinematografico di un orrore che la mia fantasia non era riuscita a immaginare, oggi è una scena di repertorio a portata di telecomando, di clic. Una volta non lo sapevo, ma c'è gente che odia senza vergognarsene, che odia volentieri, a voce alta: e anche quando non sono bambini, non fa più una grande differenza.
Non vi si nota anche se non venite (alla Giornata della Memoria)
25-01-2025, 02:18antisemitismo, giornalisti, giorno della memoria, Israele-Palestina, memoria del 900PermalinkMa io me lo immagino, il povero giornalista (in questo caso Pierluigi Battista), che verso metà gennaio comincia a sfogliare speranzoso i quotidiani. Siccome la consegna è prendersela coi filopalestinesi, quando ci si avvicina al Giorno della Memoria, non resta che trovare qualche filopalestinese che vuole boicottare il Giorno della Memoria, e il pezzo si scrive da solo. Io me lo immagino, mentre ripassa mentalmente tutte le citazioni che gli faranno raggiungere le cinquemila battute. Chi non ha memoria non ha futuro! Meditate che questo è stato! Ecc. Me lo immagino mentre scrolla la testa sconsolato, per questi filopalestinesi che negano il valore della più sacra delle commemorazioni. Senonché.
Senonché passano i giorni, il 27 si avvicina, e il povero Battista questi filopalestinesi boicottanti la memoria non riesce a trovarli. Non fanno che parlare di Palestina, maledetti; non fanno che contemplare le rovine e documentare il disastro, e non ce n'è nessuno disposto a litigare sulla più sacra delle commemorazioni, il che è molto sleale da parte loro; anche perché Battista questo pezzo prima o poi deve consegnarlo. Cosicché.
Cosicché, quando arriva il 23, Battista scioglie gli indugi, siede alla scrivania e scrive un pezzo accorato per informare i tre lettori del Foglio che la Giornata della Memoria la boicotta lui. Perché anche l'antisemitismo a certi livelli è un lavoro, e quando vuoi fare un lavoro serio, devi fartelo da solo.
In questo articolo, tra le altre cose, Battista ci spiega che "Ad Amsterdam, la città di Anna Frank, hanno linciato gli ebrei strada per strada, albergo per albergo, con i taxi guidati da islamisti che coordinavano le aggressioni con le modalità del pogrom". A tutt'oggi la pagina di Wiki sui fatti di Amsterdam registra "5 hospitalized, 20–30 injured": una cifra non molto distante dalla media dei match UEFA. Viene il sospetto che se la partita non fosse caduta proprio nell'anniversario della Notte dei Cristalli – e se non avesse coinvolto tifosi israeliani – i tafferugli avrebbero ottenuto un decimo dell'attenzione internazionale che ottennero. Chiunque altro li paragonasse a un pogrom dovrebbe soltanto vergognarsi di strumentalizzare la tragedia dei pogrom per portare acqua al suo mulino, ma Battista è un editorialista italiano, ha il suo lavoro da fare. Scrive anche che "cacciano gli studenti ebrei dalle Università, da Harvard fino a Torino", una notizia che sinceramente mi era sfuggita (studenti ebrei espulsi dalle università?): a me sembrava di ricordare di una rettrice di Harvard costretta alle dimissioni perché aveva osato affermare che l'antisemitismo del coro "from the river to the sea" dipendeva dal contesto. Il che è discutibile, ma insomma, quando i sionisti dicono di voler unire la Terra Promessa dal Giordano (che è il "fiume") al Mediterraneo (che è un "mare") non saranno mica antisemiti anche loro? Dipenderà dal contesto, o no? Scrive: "Hanno boicottato una nota manifestazione canora perché tra i partecipanti c’era un’ebrea israeliana che cantava con animo straziato le vittime del pogrom di Hamas". Credo sia un riferimento all'Eurovision. Qualcuno ha boicottato l'Eurovision? Al massimo non l'avrà visto in televisione. Battista si è sentito in dovere di vederlo? Si è sentito in dovere di trovare "straziante" la canzone israeliana? Mi spiace tanto per lui, e capisco l'amarezza e persino il disgusto, ma non credo sia un buon motivo per non commemorare il 27 gennaio.
Battista insomma ha strumentalizzato la ricorrenza del Giorno della Memoria per cucinare un pezzo di bassa propaganda imbottito di fake news: cosa di cui, non fosse un editorialista italiano, si dovrebbe tanto vergognare – e dei suoi gusti musicali. I filopalestinesi no: i filopalestinesi italiani per lo più si stanno comportando, in questi giorni, con una maturità sorprendente (perlomeno sorprende me), resistendo alle tentazioni di strumentalizzare la commemorazione ed evitando sciocchi paragoni tra la Shoah e la catastrofe di Gaza, di cui stiamo soltanto cominciando a misurare l'entità. Siccome questi paragoni erano, fino all'anno scorso, una trita consuetudine, mi viene da pensare che almeno qualcuno sta crescendo e sta capendo come evitare certi tranelli; oppure le immagini che ci arrivano da Gaza sono così terribili che non c'è più bisogno di paragoni storici per commentarli: la cronaca è decisamente più dettagliata della Storia, perlomeno finché qualche giornalista in zona sopravvive.
Tutto questo dev'essere molto snervante per alcuni sionisti italiani, che per giustificare il loro boicottaggio del Giorno della Memoria non hanno trovato di meglio che lamentarsi perché sui social qualcuno insulta la Segre. Il che è senz'altro increscioso – la Segre merita rispetto in quanto reduce e testimone, al di là delle opinioni più o meno informate che esprime su altri argomenti – ma è veramente un po' poco: anche perché come ad Amsterdam, manca una riflessione quantitativa; quanta gente perde davvero tempo a scrivere brutte cose alla Segre su Facebook? Cento, duecento, mille, un milione? Farebbe una certa differenza.
Dopodiché, amen. Mi dispiace se qualche ebreo italiano non partecipa alla commemorazione del 27 gennaio, ma spero capisca che il 27 gennaio è di tutti, o meglio: interpella tutti. E non solo in quanto potenziali vittime, ma soprattutto come potenziali carnefici o complici di carnefici. Statevene pure a casa se avete paura del confronto con chi ha opinioni diverse; ma spero che non vi siate davvero convinti che a voi non possa mai succedere questa cosa, di assistere a una carneficina senza muovere un dito, o addirittura di collaborare coi carnefici. Perché vi garantisco che può capitare a tutti; e in particolare a chi meno se l'aspetta. Meditate.
Dio è con noi (in mancanza di meglio)
23-01-2025, 01:17Americana, TwitterPermalinkQuello di Musk potrebbe essere un gesto infelice che gli è sfuggito in una situazione di stress (o fattanza), ma anche la solita manifestazione di nazismo ironico. Sul nazismo ironico mi ritengo un'autorità perché insegno nella scuola media, dove la gente incide le svastiche sui banchi molto prima di associarle al nazismo; e le incide principalmente per dare fastidio a chi gli dice che è una cosa sbagliata; tutto qua, poi crescendo magari diventano anche razzisti e antisemiti, ma in principio c'è questa necessità di fare incazzare l'autorità, che non cessa nemmeno quando l'autorità diventano loro – anche in questo noi italiani siamo all'avanguardia, no? Con tutti i motivi che c'erano per intitolare un aeroporto a Silvio Berlusconi (è brutto, è lontano, è costato un fottio di soldi al contribuente, ha ingrassato tanta cricca disonesta) a un certo punto pareva che il motivo più importante fosse far arrabbiare la sinistra, ok, immagino che per alcuni sia meglio del sesso. Dopodiché Musk è inquietante per tantissimi altri motivi, e uno di questi motivi è che questa deriva, fino a qualche anno fa, era abbastanza inimmaginabile. Questo trumpismo di Musk (e di Zuckerberg, e di Bezos) ha tutta l'aria di un piano B, o comunque di una situazione in cui questi tycoon digitali si sono infilati perché evidentemente altre opzioni si erano esaurite. Altrimenti lo avrebbero fatto otto anni fa, e in teoria loro sono quelli rapidi e sul pezzo.
Otto anni fa può darsi che il piano A di Musk fosse davvero andare su Marte; dopodiché magari la realtà ha presentato il conto. Così come fino a qualche anno fa Zuckerberg era convinto che ci avrebbe portati tutti nella realtà virtuale: un altro pianeta che alla fine non si è rivelato accessibile. In ogni caso fino a qualche tempo fa questi erano progetti più interessanti che prendere il potere a Washington. Oggi no. Oggi sia Zuck sia Musk forse stanno picchiando la testa contro limiti strutturali: ad esempio la Tesla più di tanto non è competitiva e non lo sarà ancora per un pezzo, il che può portare anche il più turboliberista a lobbizzare Washington e a chiedere un po' di sano protezionismo contro l'elettronica cinese. Nel frattempo Musk si è ritrovato proprietario di Twitter, e non sapremo mai se è stato un capriccio, un tranello o la fase di un diabolico piano; ma a quel punto ha dovuto accettare anche lui la grande verità scomoda che con Twitter non si faranno mai i soldi – e in generale nessun social network è mai riuscito a trovare un modello di business che non conduca a un rapido immerdamento.
Se volete è lo stesso equivoco per cui in Italia qualcuno fino a qualche anno fa era convinto che i giornali potessero stare sul mercato da soli, quando la realtà quotidiana ci dice che la maggior parte ricicla denaro del contribuente per amplificare le opinioni politiche del committente. Musk si è ritrovato subito nella stessa situazione: l'unico modo per cavare qualche utile da Twitter era darsi alla politica. Soldi con X non ne avrebbe mai fatti, laddove un po' di influenza politica sugli elettori poteva ricavarla, e quindi se anche il suo obiettivo iniziale non era diventare un demagogo, Musk lo è diventato. Ha comprato un social, era una sòla, l'unico modo per valorizzarla era trasformarla nella centrale della disinformazione occidentale, Musk è diventato il capo della disinformazione occidentale e ora si ritrova nella Sala Ovale della Casa Bianca a spiegare come si governa a gente che ne sa persino meno di lui. C'è di che emozionarsi e alzare braccia a caso.
Alla fine il capitalismo non è che possa fingersi diverso da quello che è: anche chi accumula con le migliori intenzioni si ritrova molto presto incastrato in meccanismi padronali, e non è neanche detto che Musk fosse partito con le migliori intenzioni. Siccome Marte non è terraformabile, le auto elettriche non salveranno il mondo, il metaverso non funziona e anche le AI cominciano a sembrare una bolla, non resta che darsi alla politica, che in effetti era un po' la Cenerentola, uno spazio che interessava sempre meno gente, popolato da personaggi facilmente rilevabili da chi in questi anni ha fatto i soldi veri. Musk li ha fatti, magari più con le crypto che lanciando razzi, vendendo automobili e inserzioni su X. Ma alla fine quando hai tanta liquidità, hai un problema di liquidità. Trump non è mai sembrato l'investimento più sicuro, ma a un certo punto non devono esserci più state molte alternative a comprarselo, e quindi Washington e il mondo – sempre in mancanza di meglio.
Insomma, e sintetizzando: è come se Musk si fosse messo a giocare a Risiko perché si è accorto che Monopoli è un gioco di merda.
Sotto scroscianti applausi
20-01-2025, 23:55Americana, Berlusconi, fascismo, memoria del 900, tvPermalinkNel giorno dell'incoronazione, spendo un pensiero per la persona che più di tutte ha incarnato la sconfitta: l'ex vicepresidente Kamala Harris. Le sue responsabilità in questo disastro (che forse annuncia la fine della democrazia in Occidente) sono tante e tali che è difficile metterle in ordine dalla più grave. Come membro più prestigioso dello staff di Biden, Kamala Harris avrebbe potuto sollecitarlo molto prima a rinunciare a una candidatura insostenibile alla sua età e nella sua condizione; e non l'ha fatto. Il che ha privato i Democratici della possibilità di indire delle Primarie che forse avrebbero portato aria nuova, e messo sotto i riflettori almeno un candidato più interessante di Biden o di lei. Dopodiché Biden si è squagliato al primo confronto televisivo con Trump, così che la Harris si è trovata, senza un'investitura popolare, a interpretare il ruolo di contendente al titolo presidenziale; col senno del poi possiamo anche supporre che si sia sobbarcata di un ruolo di perdente cui nessun altro notabile democratico aspirava. Non è neanche escluso avesse qualche possibilità di vincere; nel caso, le ha bruciate. Come aveva annunciato già prima delle elezioni, in qualità di Vicepresidente avrebbe ratificato la sua sconfitta e la vittoria di Trump; cosa che ha fatto qualche settimana fa, e ad alcuni è sembrata una vittoria della democrazia. Non a me.
Per me la democrazia finisce con Kamala Harris, che più di altre figure si è prestata a interpretare il ruolo di chi cede il potere perché avrebbe troppa paura di usarlo. Lo cede a un conclamato golpista già condannato per aver falsificato documenti, il che è vergognoso; ma d'altra parte se non lo cedesse dovrebbe richiedere l'uso della forza contro un conclamato golpista già condannato per aver falsificato documenti, e non ne ha evidentemente il coraggio. Una democrazia seria, e preoccupata della sua sopravvivenza, avrebbe identificato in Trump una minaccia almeno dal 6 gennaio 2020; e invece per tutto questo tempo la minaccia è stata lasciata in pace, forse nell'illusione che qualche processo penale avrebbe potuto alienargli la base e i finanziatori: uno dei tanti calcoli sballati dello staff di Biden. Quindi la democrazia finisce così? Perché non ha avuto il coraggio di difendersi?
Noi italiani conosciamo il dilemma meglio di altri. Anni fa, Alberto Asor Rosa fu pubblicamente deriso per aver obiettato a quei politici, veramente poco avveduti, che continuavano a ripetere di voler e poter sconfiggere Berlusconi nelle urne (con che risorse? con che giornali? con che televisioni?): poiché lo stesso Berlusconi aveva già dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio di truccare la competizione elettorale, disponendo dei media ben oltre i termini di legge (che modificava a suo piacimento nei periodi in cui era al governo), poiché era evidente quanto il suo conflitto d'interessi fosse una minaccia alla democrazia, Berlusconi andava arrestato dalla forza pubblica, che anche a questo dovrebbe servire. Asor Rosa era molto ingenuo, ma secondo me aveva ragione, e Trump andrebbe arrestato. Qualcuno da fuori potrebbe considerarlo un colpo di Stato, ebbene esistono situazioni di emergenza in cui lo Stato deve difendersi da minacce concrete. Qualcuno all'interno potrebbe insorgere: è il rischio da correre. Se Trump deve trionfare, che almeno questo succeda perché i suoi sostenitori sono disposti a morire per lui. Se la democrazia deve cedere il passo, che almeno faccia resistenza. Armata. Quella che Kamala Harris non consentirebbe mai: suppongo che tra Trump e una guerra civile, lei veda in Trump il male minore. Neanche esattamente un male. Il suo partito continuerà a interpretare il ruolo dell'opposizione parlamentare, istituzionale, pacata, inutile; e a emarginare il dissenso a sinistra. Inoltre l'amministrazione Biden si era infilata in due gineprai – l'Ucraina e Gaza – che dev'essere un sollievo per i Democratici lasciare ai trumpiani la responsabilità di uscirne.
In questi giorni sembra obbligatorio lasciare un'opinione sulla fiction di Joe Wright, M il figlio del secolo. A me il Mussolini grottesco di Marinelli tutto sommato sembra che funzioni. L'aspetto più discutibile, fino alla quarta puntata, mi sembra l'assenza degli industriali. In due ore si sono visti in scena per cinque secondi, in un siparietto brechtiano in cui coprono Mussolini e Cesare Rossi di banconote in cambio del loro sostegno contro i socialisti che insistevano a vincere le elezioni. A me i siparietti brechtiani vanno benissimo, ma Mussolini era in buoni rapporti con Fiat e Ansaldo già da quando nel 1914 aveva cambiato idea sulla Grande Guerra, trascinando tanti socialisti come lui nella follia suicida dell'interventismo. Capisco che gli autori abbiano preferito scorciare, semplificare (la fiction comincia nel 1919), ma anche durante la marcia su Roma sembra che Mussolini sia un uomo solo tra gli esagitati in camicia nera e le istituzioni, un equilibrista che riesce a bleffare e ingannare un re che avrebbe potuto schiacciarlo con un tratto di penna. Sarà andata davvero così? Il re ne aveva paura, o preferiva davvero il buffone ai socialisti? E gli industriali, nel frattempo, non avevano dato qualche segnale?
Forse qua sopra ho commesso un errore simile, attribuendo ai Democratici di Kamala Harris lo stesso ruolo tremebondo di re Vittorio, che avrebbe ceduto la nazione non perché tutto sommato gli conveniva, ma per paura. Come se non ci fossero interessi ben più potenti delle nostre paure. I democratici si sono arresi perché il Capitale aveva scelto Trump, e contro il Capitale non avevano nessuna intenzione di combattere. Vincere contro Trump avrebbe significato interpretare le necessità di gruppi sociali che vogliono un welfare state come ce l'hanno gli stati normali; che non capiscono la necessità apocalittica di sostenere Israele in un'operazione di pulizia etnica; che sanno di non poter vivere ancora di idrocarburi per un'altra generazione. Non ho idea di quanto queste istanze siano diffuse nel popolo americano (che per lo più non vota); ma di sicuro non erano istanze che i Democratici potevano difendere. Il loro programma era un blando capitalismo dal volto umano, ma per l'umanità c'è sempre meno mercato. La democrazia è una società aperta: si dovrebbe difendere mantenendo il pluralismo, combattendo chi sparge paure e ci specula sopra. Non è mai stato chiarito se sia compatibile col capitalismo: forse no, non a lungo perlomeno. In Italia è stata sconfitta vent'anni fa da Berlusconi; negli Usa forse oggi.