I nuovi iconoclasti

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Se qualcuno si fosse mai chiesto come fa una civiltà a diventare iconoclasta – a rinunciare all'arte figurativa, dopo averla coltivata per secoli – le polemiche sul banchetto degli Dei durante la celebrazione dei Giochi Olimpici potrebbero darci un'idea. Il che non significa che non si tratti di polemiche pretestuose, elaborate e propagate da agenti in cattiva fede: ma insomma si prende una qualsiasi immagine e si decide che è offensiva in quanto rappresenta in modo caricaturale una raffigurazione sacra. A nulla valgono le obiezioni più sensate (non era l'ultima cena, ma appunto il banchetto degli Dei), perché dopo secoli di arte religiosa, anche raffigurazioni pagane o secolari non possono che richiamare modelli adoperati nell'arte sacra: l'ultima cena l'abbiamo in mente tutti, per il banchetto degli Dei serve un minimo di cultura specialistica. 

Sappiamo che qualcosa di simile è successo agli artisti durante le fasi iconoclastiche: se dipingevano persone, potevano essere accusati di avere dipinto personificazioni di Dio; se dipingevano animali, non era escluso che qualcuno li ritenesse così empi o pagani da avere raffigurato Dio come un animale. Non restava che dipingere fiori o frutta, e poi sempre più spesso motivi astratti. È il nostro destino? Dopo avere tolto ogni limite a ciò che si poteva raffigurare, cominceremo a fare passi indietro perché la gente comincia a offendersi? Credo di no; perlomeno non penso sia l'obiettivo di chi oggi si definisce scioccato da Philippe Katerine tinto di blu. Ormai abbiamo capito che offendersi è un modo di esistere, e per quanto molti offesi di questi giorni si definiscano cattolici, non è la Chiesa di papa Francesco ad avere necessità di queste campagne di indignazione per far notare la propria esistenza. Si tratta anzi di una frangia identitaria che alla Chiesa cattolica fa la guerra da tempo, i cui temi e soprattutto i toni richiamano sempre di più gli evangelicali americani (ma anche certi ortodossi). 

Forse è il momento giusto per raccontare di una cosa che è successa al mio paese pochi mesi fa. Anche se non credo di essere pronto – come tutto quello che mi capita attorno, ho la sensazione di perdermi davanti ai dettagli. Ma può essere utile per capire che questi nuovi iconoclasti non esistono solo sui social, e che a furia di seminare diffidenza e odio, qualcuno si fa male davvero. 

All'inizio di marzo un quotidiano on line "cattolico", che quasi nessuno aveva sentito nominare, fa uno scoop: in una chiesa di Carpi è esposto un quadro in cui San Longino pratica una fellatio a Gesù. "Ma come è possibile? Una fellatio in una chiesa e su un quadro che raffigura Gesù Cristo?" La "chiesa" in realtà è il museo diocesano, che però per secoli è stata una chiesa vera e ne mantiene la forma e l'atmosfera; il quadro non mostra nessuna fellatio, ma si segnala per la soluzione inedita al problema che affligge gli artisti sacri da duemila anni: come mostrare Gesù crocefisso senza svelarne le nudità?

Invece del classico mutandone, il pittore Andrea Santini decide di nascondere il basso ventre di Gesù all'ombra della testa di Longino. Ora, qui è veramente una questione molto soggettiva, ma a mio parere per immaginare che la scena descriva una fellatio serve una determinata immaginazione; non medievale, non barocca e di certo non romantica; un'immaginazione assolutamente anni Venti del secolo XXI, che attesta l'egemonia figurativa dei siti porno. Così come non riusciamo a vedere un banchetto degli Dei senza che ci venga in mente il cenacolo, allo stesso modo non riusciamo a pensare che una testa si frapponga tra noi e un membro virile senza immaginare che tra testa e membro virile non stia succedendo qualcosa. Omnia immunda immundis. Tutto l'articolo del resto mi sembra trasudi l'ipocrisia di chi conosce benissimo le scene che in teoria dovrebbero indurlo immediatamente a coprirsi gli occhi (o a cavarseli, diceva Gesù). Un po' come Pillon che invece di pensare solo alle cose del cielo twitta pubi femminili, e ormai è pure fiero di farlo, ecco, non è escluso che si arrivi all'iconoclastia anche così: perché stiamo cercando di tenere nella nostra testa paradigmi troppo diversi. Cresciamo studiando una Storia dell'Arte che per secoli consta soltanto di santi, cristi e madonne; nel frattempo su internet qualsiasi posizione sessuale è a portata di clic: alla lunga lo choc culturale ci brucia il cervello. Il quotidiano on line "cattolico" in questione è stato fondato da un signore che ha già scritto un paio di libri contro "le bugie degli ambientalisti"; ha una linea decisamente governativa ma soprattutto non perde occasione per attaccare la "Chiesa oligarchica". Un dettaglio interessante è che non contiene pubblicità: neanche una vignetta, niente. Il che forse significa che qualcuno ci sta investendo. 

Nei mesi successivi lo scoop diventa una campagna, sempre meno indirettamente rivolta alla diocesi di Carpi che aveva patrocinato la mostra (e che continuerà a difenderla, con una flemma che va riconosciuta). Accadono altre cose abbastanza strane. Vengono organizzate raccolte di firme, indette veglie di preghiera contro la "mostra blasfema", anche altri organi di stampa cominciano a chiamarla così, con le virgolette o anche senza, tanto ormai che differenza fa. Ogni sabato pomeriggio, una folla si raccoglie in preghiera davanti alla "chiesa profanata": non sono carpigiani, vengono da altre regioni coi pullman, si portano i bambini ai quali spero non abbiano spiegato troppo dettagliatamente la questione. Sono praticamente tutti bianchi, e questo in Corso Fanti fa un certo effetto; per distinguere i passanti curiosi dai fanatici in gita basta un colpo d'occhio. Fanno capannello intorno a un prete che prega in latino e si veste ancora come Don Camillo, a proposito di choc culturali. È il paradosso della destra postmoderna: rimpiange la Chiesa preconciliare e intanto vede porno dappertutto; il che significa quanto meno che i porno li vede. Alla fine non sono così tanti, e però in capo a un mese qualcuno si fa male. 

Un tizio entra nel museo con una bomboletta: comincia a usarla sul quadro di San Longino; quando interviene lo stesso autore, il vandalo tira fuori un coltello. Saltini viene ferito, il tipo scappa, le adunate di preghiera proseguono. Oltre ai fanatici da fuori, cominci a sentire qualche concittadino borbottare che forse la diocesi ha davvero esagerato, che certi quadri non andavano davvero esposti in una chiesa: e vagli a spiegare che Sant'Ignazio non è più una chiesa. C'è una distanza sempre più evidente tra la Chiesa com'è e come la immagina la gente che a volte nemmeno ci entra; una frattura tra cristiani comunitari e cristiani identitari che immaginare rimarginata non è né plausibile né giusto. 

Poi c'è un artista che si è fatto accoltellare per difendere le sue immagini, e che meriterebbe un discorso a parte. Saltini è un artista contemporaneo che cerca di riprendere temi e stilemi dell'arte sacra, davanti a un pubblico che scambia qualsiasi nudità per pornografia. Almeno in una prima fase era il primo a rivendicare il carattere ambiguo e provocatorio delle sue opere, né poteva fare diversamente: l'arte contemporanea è provocatoria per definizione. Finché non si è trovato davanti a un'interpretazione che non poteva accettare di avere provocato; il che lo ha portato a passare lunghi pomeriggi accanto alle sue opere per spiegare agli spettatori curiosi o indignati che no, non aveva dipinto una fellatio. Fatica probabilmente sprecata: qualcuno l'avrà convinto, qualcun altro lo ha accoltellato. In una città più grande, con un pubblico più smaliziato, le cose sarebbero andate diversamente. Ma l'Italia non è fatta di città molto più grandi della mia. 

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Bernardino, santo e assassino?

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2 luglio: San Bernardino Realino (Carpi 1530 – Lecce 1616), poeta pentito e gesuita

Bernardino Realino è nato a Carpi, ma non è il patrono di Carpi: quest'ultimo è Bernardino da Siena, che nel Quattrocento forse passò per il borgo (del resto non stava fermo un attimo). Non solo i carpigiani lo invocano, soprattutto in caso di pestilenze, carestie o alluvioni, ma talvolta battezzano i loro figli bernardini, e così era destino che prima o poi un santo omonimo spuntasse da qui. A Carpi, come si vedrà, Realino non ha fatto in tempo a fare nulla di santo; in compenso è patrono di Lecce, per acclamazione. Le agiografie raccontano volentieri che quando era in fin di ricevette una delegazione della cittadinanza leccese, che gli chiese ufficialmente di diventare santo patrono di Lecce. In quel momento Bernardino non solo non era stato ancora canonizzato da nessuna corte ecclesiastica, ma nemmeno beatificato, e soprattutto – condizione non sufficiente ma necessaria – non era ancora morto; e però tanto erano apprezzate le sue opere di carità e lodato il suo trentennale apostolato tra i leccesi, che tutti questi passaggi ormai i concittadini li davano per scontati e l'unica cosa che volevano sapere era se lui fosse d'accordo: poteva Bernardino non essere d'accordo? Diede il suo assenso, commettendo un veniale e comprensibile peccato di superbia, probabilmente per non contrariare la cittadinanza che sembrava tenerci molto. Non è che puoi sempre fare il muso e dichiararti un peccatore indegno di partecipare alla Tua mensa.

Di Bernardino Realino nessuna agiografia riporta invece il fondamentale peccato di gioventù, che non furono gli scritti e gli studi letterari – e capirai, a quel tempo se da giovane non avevi scritto neanche una corona di sonetti eri un analfabeta – ma qualcosa di un filo più grave, ovvero: mentre i leccesi si proponevano di canonizzarlo da vivo, forse Bernardino era ancora alle prese col senso di colpa per avere ucciso un uomo a vent'anni. Di questo si parla poco, e del resto non è nemmeno chiaro se la cosa sia successa o no (è un giallo? Ma sì, dai, è un giallo). Lo scrive per esempio Silvana Menchi nel Dizionario Biografico degli italiani Treccani: "fu costretto a lasciare gli Stati estensi per aver ucciso in duello un altro gentiluomo (così il Tiraboschi; secondo altri per aver semplicemente ferito la stessa persona, ma aggredendola per vendicarsi d'un torto ricevuto)"; e però lo stesso Tiraboschi nella Biblioteca modenese o Notizie della vita e delle opere degli scrittori natii degli stati del serenessimo signor duca di Modena non parla di un duello ma di una lite con un magistrato in seguito a una discussione su un arbitrato che al giovane Bernardino non era piaciuto; e non di un morto ma di un ferito grave: "ſendo in tempo delle autunnali vacanze tornato a Carpi, abbattutoſi a caſo nel detto arbitro, e venuto a parlar con lui dell’affare, nel diſcorſo ſi acceſe per modo, che dato di mano a un pugnale ferillo in fronte". Il delitto era troppo palese, scrive Tiraboschi, "perchè poteſſe andare impunito; e perciò Bernardino ne ebbe in pena non già l'eſilio, come diceſi nella Vita, ma la condanna al taglio della mano, e una multa di 200 lire". Che si applicasse ancora la legge del taglione a Modena verso il 1550 è cosa che onestamente non sapevo, ma forse era un sistema come un altro per comminare l'esilio: ovvero Bernardino, che era già sulla buona strada per diventare un cortigiano a Ferrara, a quel punto lasciò gli Stati Estensi e non lo videro mai più.

Per prima cosa andò a Bologna a completare gli studi in giurisprudenza che aveva interrotto. È possibile che Realino non si sentisse veramente tagliato per il diritto: la sua intenzione iniziale era diventare medico. A convincerlo a studiare legge era stata la donna amata: "eſſendoſi allora acceſo di caldo amore per una cotal Cloride giovane non ſolo per la bellezza del corpo, ma anche per le rare virtù, che ne adornavano l’animo, degna di eſſere amata da chi gli foſſe in ſaviezza e in virtù ſomigliante, a inſinuazione di eſſa applicoſſi in vece alla Giuriſprudenza"Come mai questa Cloride ritenesse la carriera dell'avvocato più savia e virtuosa di quella del medico non ci è dato sapere, ma non ha così importanza perché Cloride sarebbe morta giovane, come si conviene alle ragazze che ispirano le poesie, salvo che di poesie su di lei non ce ne sono rimaste perché Bernardino, una volta entrato nei gesuiti, distrusse tutto o quasi. I contemporanei che avevano fatto in tempo a leggere avevano parole di apprezzamento, ma si sa che i letterati tra loro tendono a capolavorarsi ogni due per tre, non ci si può fidare. Magari ci siamo persi un grande poeta del Cinquecento, ma i leccesi starebbero ancora cercando il loro santo protettore, chi può dirlo.

Dopo la laurea Bernardino, tramite il padre, trovò subito lavoro nell'amministrazione nei vasti possedimenti del governatorato spagnolo di Milano, segnalandosi dal Piemonte all'Abruzzo come funzionario capace e onesto; di quell'onestà che sconfina talvolta nella dabbenaggine, perché trovandosi sempre più spesso in province gravate da carestie, invece di mettere qualcosa da parte finiva per offrire del suo, al punto che quando a 34 anni a Napoli entrò nei gesuiti, in dote portava più debiti che altro. Gli stessi gesuiti continuarono ad adoperarlo come i datori di lavoro precedenti, mandandolo nei posti difficili dove nessun altro voleva andare: nel suo caso a Lecce, dove la Compagnia aveva appena ereditato un lascito con la clausola di dover aprire una "casa professa", ovvero una filiale in loco. Queste clausole erano spesso una fregatura: i gesuiti non sono mendicanti, le case professe spesso costano più dei lasciti stanziati. Bernardino, col suo curriculum di amministratore, sembrava l'uomo giusto per capire se conveniva davvero aprire o no; ma anche a Lecce Bernardino finì per mettere l'ottimismo della volontà davanti al cubismo del budget, attirandosi qualche rimprovero dai superiori ma l'amore incondizionato dei leccesi, che quarant'anni dopo volevano metterlo nel calendario ancor prima che salisse in cielo.

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Hai il diritto di fare il razzista, io di fartelo notare

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Capita un paio di sere ogni estate. Mentre cerco di parcheggiare sotto casa, trovo una camionetta della polizia. Lì per lì non ci faccio caso. Poi verso le dieci di sera, invece dei soliti echi di pianobar, comincio a udire cazzate alla finestra. Ce l'hanno coi musulmani, con l'Europa, ancora loro? Sono arrivati i tizi di Forza Nuova, più puntuali e molesti di un circo Togni. Sono sempre una ventina, probabilmente nel pulmino non ce ne stanno di più. Non fanno numeri di giocoleria, sanno solo sventolare tricolori, uno per braccio, forse nel tentativo di sembrare il doppio. Non mangiano spade, non sputano fuoco, al massimo sempre quelle tre cazzate, l'Europa è Cristiana Non Musulmana e così via. La gente transita un po' perplessa: il mio piazzale è equidistante tra un kebab e la gelateria. Ma in fondo che male c'è. Hanno diritto di dire quello che vogliono, no? In Italia c'è libertà di parola, e quindi perché non occupare un parcheggio con venti ragazzotti, quaranta bandieroni e un megafono e scandire per due ore "L'Europa è Cristiana, non Musulmana"?

E se io scendessi ad avvertire che hanno rotto i coglioni: non sarebbe libertà di parola anch'essa?
È una domanda retorica. Chi ci ha provato le ha prese un po' da loro, un po' dalla polizia: poi è stato denunciato e condannato a pagare multe da 2000 euro. Sembra insomma che la libertà di parola dei forzanovisti sia molto preziosa. Dev'essere il motivo per cui, ogni volta che me li ritrovo nel piazzale, tutto intorno è silenzio: il sindaco fa bloccare il traffico. Il sindaco in effetti non sembra mai molto entusiasta di trovarseli tra i piedi, ma in questura pare che ci tengano molto al diritto di parola dei forzanuovisti. Ci tengono talmente che di solito mandano almeno due camionette, più di una quarantina di agenti bardati di tutto punto, sicché i ragazzotti di Forza Nuova che vengono dal Veneto a sgolarsi sul concetto dell'Europa Cristiana non hanno solo due bandieroni a testa, ma anche due o tre o quattro agenti di pubblica sicurezza che vegliano sulla loro incolumità e sulla loro libertà di espressione. Così la mamma è contenta, dev'essere una tizia assai apprensiva, tesoro, dove vai? Vado in Emilia Romagna a difendere la civiltà cristiana. Tesoro, ma sei sicuro? Tranquilla mamma, ci assegnano quattro agenti a testa, e li paghi tu con le tue tasse, sei contenta?

Se vuoi protestare contro il tour estivo di Forza Nuova devi trovarti in una piazza ad almeno 500 metri di distanza, e accomodarti dietro la transenna, dove ci sono i poliziotti più simpatici che spiegano ai cittadini che non ci possono fare niente, anche loro sono antifascisti, siamo tutti antifascisti, però ehi, la libertà di parola dei forzanuovisti è tutelata dalla Costituzione e quindi dietro la transenna e muti. Ché tra un po' il siparietto finisce, i ragazzotti tornano a casa in pulmino e i poliziotti si pigliano auspicabilmente una serata di straordinario in busta, win win e buonanotte. Vien da pensare che il senso sia tutto qui: questi sbandieratori da noi non se li fila nessuno, e dire che di razzisti anche qui sarebbe pieno, ma più che razzisti sembrano la caricatura. Non ce l'hanno un po' d'orgoglio anche loro, non si vergognano di essere trattati dalle forze dell'ordine come una specie protetta? Anche a Brescia, ho letto che la polizia li scorta mentre fanno le ronde, perché da soli non si azzarderebbero ad andare in giro nei quartieri difficili. Dunque, se ho capito bene: nei quartieri difficili di Brescia si sente la mancanza delle forze dell'ordine; da questa mancanza scaturisce la necessità di una ronda di Forza Nuova, e a questo punto la polizia ci va per scortare i ragazzotti di Forza Nuova che da soli in effetti potrebbero farsi male. Qualcosa non mi torna.

D'altro canto devono pur potersi esprimere: libertà di parola! Quel che non sopportano è che gli altri si esprimano su di loro. Alla vigilia della finale della Coppa del Mondo di calcio un giornalista sportivo molto vicino a Casa Pound scrive un tweet dove saluta la nazionale croata "completamente autoctona, un popolo di 4 milioni di abitanti, identitario, fiero e sovranista", contro il melting pot della selezione francese. Nessuno lo picchia per quel tweet, nessuno lo minaccia; qualcuno ridacchia perché ha scritto "melting pop" che come refuso è abbastanza geniale; molti lo prendono in giro, ma ehi, non si può piacere a tutti, no? Specie se manifesti insofferenza con tutti quelli che non sono "autoctoni", cioè più o meno chiunque. E sicuramente un po' di polverone aveva messo in conto di sollevarlo; non è un ragazzino. Però succede che prenda le distanze la Mediaset, nientemeno: e questo forse non l'aveva calcolato Il tizio in questione infatti non scrive solo su "Il Primato Nazionale / Quotidiano Sovranista": è anche un riconoscibilissimo dipendente dell'azienda, e Mediaset tra l'altro è in una fase delicata. L'approccio allarmista adottato in campagna elettorale nei confronti dei migranti si è molto stemperato, ormai è normalissimo ascoltare opinionisti in prima serata su Rete4 che spiegano che l'Italia ha bisogno di badanti, quindi di migranti – regolari, s'intende – che Salvini dovrebbe pensare a farne entrare di più di regolari, invece di prendersela con quei poveretti sui barconi. Insomma Mediaset sta correggendo il tiro, e così le redazioni giornalistiche e sportive approfittano del tweet del suo dipendente per prendere le distanze dal "contenuto razzista" del tweet. Apriti cielo. Come puoi parlare di "razzismo" per un tweet che difende il sovranismo degli autoctoni? Pare che non sia ammissibile (continua su TheVision).

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Un paese normale (dove sfondano le scuole con gli autobus)

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Questo forse ve lo siete perso, perché è successo nella mia piccola città, dove di solito non succede molto. Invece in questo mese, nei venti giorni tra la visita di un papa e quella di un presidente della repubblica, e nell'era in cui i camion sono diventati l'arma preferita dei terroristi, è avvenuto che:

- tre minorenni di origine africana si siano introdotti nottetempo in un deposito degli autobus,
- abbiano trovato le chiavi, ne abbiano dirottati cinque,
- ci abbiano giocato ad autoscontro in un parcheggio, e poi
- ne abbiano usato uno per sfondare l'ingresso della scuola che due di loro frequentavano:
- il tutto, ovviamente, filmandosi (esiste persino la soggettiva dello sfondamento scolastico).

Proprio i video hanno consentito ai carabinieri di acciuffarli nel giro di 48 ore (sabato pomeriggio, al McDonald, con i cellulari nelle tasche e i video nei cellulari), ma non è solo di questo che voglio ringraziarli. Soprattutto di come hanno gestito mediaticamente la vicenda: di come non abbiano perso né tempo né occasione per ribadire che si trattava di ragazzi "del posto", provenienti da famiglie "di lavoratori, ben integrate, che risiedono a Carpi da decine di anni", il che forse non è preciso, ma è prezioso; il fatto che il comandante abbia speso anche solo cinque secondi della conferenza stampa a comunicare che le famiglie dei ragazzi sono disperate. "Che non si venga a dare un taglio xenofobo a ciò che è successo". 

Non credo mi sia successo spesso di ringraziare le forze dell'ordine: ma se di questa storia non avevate sentito parlare fin qui; se nessun'emittente nazionale ha fatto in tempo a mandare una delegazione di cronisti allucinati a montare a neve un allarme terrorismo, credo sia stato soprattutto grazie a loro. E magari qualcosa comincia a crescere anche nelle redazioni locali, che hanno mostrato nell'occasione un'umanità di cui non le credevo più capaci.

Questo non rende la storia meno tragica (per quanto buffa): non significa che noi educatori non dobbiamo porci un problema (e chi custodisce le chiavi degli autobus non debba trovare un ripostiglio meno in vista). Però quella che ho visto in questi giorni mi è sembrata una città più normale di altre: un posto dove tre ragazzi fanno una cazzata e vengono giudicati per la cazzata, e non per il colore o per il cognome. Se vi sembra una cosa da poco, una cosa normale, beati voi.
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29/5/12, il giorno che ci ha cambiato la vita (per un po')

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Una settimana fa l'allarme ha suonato. Malgrado io scuotessi la testa, i ragazzi si sono messi sotto il banco in un lampo. Succede sempre la stessa cosa. Ho aspettato venti secondi e poi li ho fatti uscire. Solo quando ho visto il dirigente nel cortile sono stato sicuro che si trattava dell'esercitazione a sorpresa. Di ritorno in classe, la solita scena: ragazzi, siete tanto buoni e cari, ma se suona l'allarme è l'anti-incendio, non il terremoto. Non può andare sempre così, che bruciamo vivi ogni sei mesi.

"E l'allarme del terremoto come suona?"

Sospiro. È pur vero che loro non c'erano, e poi non consiste in questo il mio mestiere: nello spiegare sempre le stesse cose nel modo più chiaro possibile? Figliolo, l'allarme del terremoto lo riconosci perché arriva tardi. Se hai bisogno dell'allarme per sentirlo, non è un gran terremoto. Se invece è una scossa seria, fidati, la senti. Molto prima che il bidello azioni l'allarme. Di che stavamo parlando? Dunque, Napoleone cede Venezia agli austriaci, dopodiché...

Fino a un certo punto ci abbiamo creduto. Non so esattamente quale punto. Magari l'anno scorso ci credevo ancora; magari se me l'avessero chiesto avrei risposto che sì, il 29 maggio 2012 era il giorno che ci aveva cambiato per sempre. Non saremmo più stati gli stessi. All'inizio era ovvio. La terra si era messa a tremare sul serio, e non si sapeva quando avrebbe smesso (questo era l'aspetto più angosciante: avrebbe potuto durare per mesi, per anni, nessuno sapeva quanti).

In quei giorni prendemmo alcune risoluzioni solenni. Non saremmo mai più entrati in quel capannone. Non saremmo mai più entrati in nessun capannone. Avremmo dormito in tenda per tutto il tempo necessario. Avremmo fabbricato una seconda casa, di legno. Qualcuna è resistita, ingombra ancora il giardino di qualche villetta. Avremmo ristrutturato tutto a regola d'arte. Non avremmo mai più accettato in classe più alunni di quanti ne consentiva la legge. Era una cosa seria. Non si scherzava più.

La stessa sera dell'esercitazione ero a un concerto, nell'ultimo posto al mondo dove avrei pensato di trovarne uno, la Cantina Sociale di Sorbara - dove fanno il lambrusco.
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Cosa c'entra Beppe Grillo

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Due anni esatti fa, verso le nove del mattino, io avevo appena chiuso questo stesso portatile e stavo radunando le mie cose per andare a scuola, quando sentii un rumore che arrivava da lontano senza lasciarmi un minimo spazio per il dubbio: era il terremoto che veniva a prenderci.

Panic & Publish

Non volevo mettermi a scrivere di questo, ma già che ho cominciato faccio presente che di solito un terremoto è un evento sorprendente e imprevedibile, ma almeno nel nostro caso non andò così: la scossa del 29 venne a bussarci alla porta, e alle finestre, e alle pareti, e al pavimento, come un ospite che ha fatto tutto per avvisarci: e dopo dieci giorni di ambasciate, dieci giorni di sciame e chiese crollate e caseifici, se nonostante tutto questo uno si fa trovare con un mutuo sulla casa, una bimba piccola e in ciabatte, sono anche un po' cazzi suoi. Non era di questo che volevo raccontare; però una cosa che ricordo di aver provato è proprio quel senso di inadeguatezza: la catastrofe mi viene a trovare, dopo tanto girare in tondo ora punta diretta verso me e i miei cari, e io fino a quel momento com'era possibile che me ne fossi restato in ciabatte?Non li avevo visti i segni? Perché non li avevo presi sul serio? Questa pretesa così modenese di poter sempre sopravvivere sul margine semiserio delle cose (e infatti anche quella volta il terremoto ci avrebbe preso soltanto di sbieco; ma non potevo saperlo); non è qualcosa che in fondo merita una punizione, se non da parte di un dio-padre responsabilizzante, perlomeno da madre natura? Cioè io stavo risalendo a mettermi le scarpe, e già razionalizzavo. Già cercavo di prendermi una colpa non mia, come se davvero tutto lo sciame avesse senso perché in mezzo c'ero io che potevo percepirlo come un messaggio da decifrare.

Non volevo mettermi a scrivere di questo, è una storia che ho già raccontato e c'è da sottolineare come tutto sommato a scuola andò tutto bene: d'accordo, la prima cosa che vidi furono i genitori che stavano soccorrendo una mia collega semisvenuta. Ma pure lei, prima di semisvenire aveva evacuato la sua classe. Tutti avevano evacuato la loro classe. Migliaia di studenti in tutta la Bassa, nessun ferito o forse un paio. Voi non avete idea di che rumore fa una scuola quando lo senti arrivare da lontano, quando sai benissimo cos'è, e le ragazzine cominciano con quegli urli spielberghiani all'unisono. Sembra una sciocchezza portarli giù per le scale in fila per due - no, non sembra affatto una sciocchezza. C è anche da dire che, quando arrivai, la mia classe - la classe di cui dovevo prendermi la responsabilità - non esisteva più, perché nell'ora precedente era stata smembrata a causa dell'assenza di un collega: i supplenti di un giorno non ce li possiamo più permettere, e così sparpagliamo questi ragazzi in tante classi diverse, lamentandoci costantemente perché non è professionale e anzi pericoloso, nonché - se proprio vogliamo tenerci alla lettera della normativa - illegale.

Così io mi aggiravo col registro di classe per le aiuole e il campo di pallamano, cercando di capire dove fossero finiti i miei, e intanto dal suolo partivano certe scossette giusto per ricordarci di non avvicinarci troppo al plesso. Ora col senno del poi è possibile persino riderci sopra, ma in quel momento non avevamo la minima idea di cosa stava succedendo (i telefoni non andavano) e di cosa sarebbe successo: ci sarebbero state altre scosse? Ancora più forti? Ogni tanto arrivavano genitori con notizie, non necessariamente vere, ad es. è venuta giù la Gambro. Io sapevo che c'era il Many alla Gambro. I genitori stavano facendo la cosa che avevamo più volte chiesto di non fare: bloccavano il traffico per venire a prendere i loro figli e portarli in altri cortili non necessariamente più sicuri. Molti, in perfetta buona fede, prelevavano anche i nipoti e gli amici degli amici, cinque minuti prima che arrivassero i genitori di costoro a cercare i loro figli, e a non trovarli, e a minacciare i professori che li avevano abbandonati al primo venuto. Ma insomma verso mezzogiorno non c'era più nessuno e ce ne andammo anche noi. L'anno scolastico era finito. I libri e i quaderni sarebbero rimasti aperti sui banchi per un altro mese.

Io tornai a casa - non volevo mettermi a parlare di questo - trovai in cortile tutta la mia famiglia, tutti bene. Il piano era molto semplice: scappare il più lontano possibile, il più velocemente. Bisognava però salire a fare le valigie e fu un altro momento di inadeguatezza - ricordo che da lì a cinque minuti stavo già pensando a che giocattoli portare, cosa fosse più o meno adatto ecc.. ancora razionalizzavo, che in questi casi è la cosa meno razionale da fare. Fummo molto fortunati, perché la scossa dell'una - quella che molti considerano la più forte di tutte, e s'incazzano se gli fai vedere i tracciati dei sismografi - bussò appena fummo di nuovo fuori nel cortile. E poi di nuovo mentre caricavamo i bagagli: fu l'ultima scossa veramente forte, ma non potevamo saperlo. Sembrava viceversa che tutto stesse accelerando, e io in particolare sentivo l'euforia da 11 settembre, quei rarissimi momenti in cui la vita intorno a te prende quella forma tutto sommato snella, scattante, che è prevista dagli action movie. Noi tre sulla terza corsia dell'autostrada ad ascoltare il notiziario del traffico, dice che c'è stata un'altra scossa fortissima! Ah, no, aspetta, è ancora quella delle nove.

Ci fermammo a far benzina ed eravamo già a Cremona: per dire l'ultimo posto al mondo dove mi aspettavo di ritrovarmi quel mattino. Ormai ogni vibrazione ci metteva in allarme: l'ha sentita? dissi al benzinaio. Una scossa, proprio adesso, l'ha sentita? Un matto. Poi ci ritrovammo al lago e decidemmo che lì era un posto sicuro. Non era di questo che volevo mettermi a parlare.

E allora di cosa.

Ma niente, ho solo fatto caso a un fatto buffo, che forse mi mette a fuoco in tutta la mia inadeguatezza eccetera. Fu un giorno molto complicato, come non ne vivevo da un decennio e come mi auguro di non viverne più; non solo per la paura, che in fondo passò presto, ma per l'angoscia di non sapere quanto sarebbe durato ancora tutto quanto: mesi? anni? e non poter ancora calcolare cosa avremmo perso. Eppure.

Eppure se controllo nel mio impietoso archivio, scopro che anche nel giorno in cui il terremoto venne a prendermi a casa, e mi trovò in ciabatte con un mutuo e una bimba piccola; il giorno in cui persi i miei studenti nel cortile della scuola e scappai, e non sapevo quando sarei tornato; pure quel giorno riuscii a trovare il tempo per scrivere un post.

Un post su Beppe Grillo.
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Le luci dei natali passati

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Frozen

Ma al tramonto del nove gennaio che ci fanno ancora le luci di natale al mercato. Facessero almeno allegria.
Invece sono bianche.

Non si dovrebbe mai generalizzare la propria angusta esperienza della vita, e però a un certo punto qualche anno fa ho avuto la sensazione che ci si sbiadisse il natale. Era sempre stato un affare pacchiano, di luci gialle e rosse intermittenti. Ci fu anche quella breve e scelleratissima moda dei babbi natale appesi alle finestre; poi a un certo punto qualcuno deve aver detto che erano brutti e deve essere stato molto convincente, perché da un anno all'altro nessuno li ha visti più - centinaia di migliaia di babbi natale buttati via, discariche intere di materiale natalizio ancora in buone condizioni ma definitivamente out - e nello stesso periodo le luci hanno smesso di essere rosse, verdi, gialle, e si sono tutte convertite al bianco.

All'inizio era glaciale e meraviglioso. Elegante, persino. Io non credo che il natale debba essere elegante, in generale; voglio dire, è una festa per i bambini e le famiglie - ma almeno per un paio d'anni funzionò. Passavi sotto queste stalattiti fosforescenti che sporgevano dai cornicioni e ti sentivi il degno abitante di una fiaba nordica, non le nostre solite zampognate. A dare l'impulso fu il comune, ma anche i privati si adeguarono presto. Quando un anno al mercato montarono di nuovo le luci dorate, le tennero due sere e poi tornarono all'argento. L'oro era diventato cheap, insostenibile. Resisteva soltanto qualche vecchia traccia di un'antica civiltà colorata sulle porte delle case; lampadine rosse e verdi intermittenti che avvisavano della presenza di pensionati fuori del mondo.

Poi forse è successo qualcosa, che non posso dimostrare - se almeno avessi fatto una foto - ma insomma, le luci bianche sono diventate tristi. Forse sono state sostituite da illuminazioni dello stesso colore ma meno sontuose, più semplici. C'entrerà il risparmio energetico. Ma può anche darsi che siano esattamente le stesse luci di tre o quattro anni fa; che svanito l'effetto "wow" sia rimasta soltanto la freddezza. Il freddo è bello, per qualche istante è persino piacevole. Ma non dura.

Non sarà primavera per altri tre mesi. Tra qualche giorno sulla repubblica o sul corriere pubblicheranno uno studio di scienziati che dicono che il giorno più triste dell'anno è intorno al 20 di gennaio. Lo fanno più o meno tutti gli anni, e io li leggo sempre. Spiegheranno che è il punto critico in cui svaniscono gli effetti delle vacanze natalizie, e le speranze e i tremori della primavera sono ancora lontani. Chissà se poi esiste davvero quello studio e se dice davvero così. Ci credo come credo a certi oroscopi fuori contesto, riferiti ad altri giorni mesi e segni zodiacali: faccio finta che siano il mio oroscopo del giorno e a volte funzionano. E poi non sono davvero meteoropatico, è uno di quegli abiti che si mettono da adolescenti per darsi un tono. Posso essere felice tutti i giorni che voglio, se voglio.

Togliessero quelle luci bianche alla finestra.
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Noi emiliani siamo razzisti (tranne te)

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Il 29 maggio da noi non sarà esattamente un giorno come gli altri. Mercoledì 29 maggio alle 21 sono al Mattatoio, un posto che ha rischiato di chiudere e invece è bello aperto, a leggere pezzi della Scossa, un libretto che ho scritto un anno fa per Chiarelettere. È un testo che racconta alcune cose sul terremoto in Emilia, dalla postazione in cui era forse più difficile capirci qualcosa, cioè il bordo del terremoto. È stato scritto tra il 29/5 e il 29/6, in un mese difficile, in una situazione particolare. Oggi lo rifarei completamente diverso - ma oggi non tremo a ogni vibrazione dei vetri, per esempio. 

Il libro è ancora in vendita - è per una buona causa. Ne infilo un capitolo qui sotto un po' stagliuzzato, giusto per dare un'idea:

 Noi siamo razzisti (tranne te)

«Capo!»
«Eh?»

Mettiamo che capiti a voi, di perdere temporaneamente la casa, di ritrovarvi nella mensa di un campo profughi, con un buco nel cuore ma anche, enorme, nello stomaco. Però non siete del posto – magari vivete e lavorate lì da anni, però non vi considerano del posto, oh! sono fatti così. E hanno gusti strani, per esempio mangiano carne di topo. Che bisogna dire non è come il topo nostro, schifoso, il ratto di fogna, quello fa ribrezzo anche a loro, no: siccome sono millenni - che ne mangiano, hanno selezionato una razza di roditori d’allevamento placidi, non hanno neanche più i denti, e poi li macellano, e poi li mangiano – però voi non ne volete sapere, non ne avete neanche mai assaggiato uno.

Ve l’hanno detto tutti che non sapete cosa vi perdete, che il roditore stagionato di quella zona è un’eccellenza assoluta, un presidio slow food. Vi hanno spiegato che siete vittima di un condizionamento culturale, che non è colpa vostra poverini se nella vostra terra d’origine circolavano superstizioni e infamie contro i roditori, che in fin dei conti è carne, ed è buona, e insomma, che rompipalle che siete a non volerla mangiare. Comunque, proprio perché sono ospitali, e non si dimenticano le buone maniere neanche nella calamità naturale, vi hanno fatto il pentolone a parte con il ragù senza topo, va bene?

E voi siete contenti, perché sarebbe lunga cercare di spiegare che condizionamento o no, slow food o no, voi proprio il topo non riuscireste a mandarlo giù, nemmeno nel terremoto e nella carestia. Quindi siete lì, state aspettando che vi scodellino il piatto. Quando fate caso a un particolare. La volontaria che passa con le razioni ha un cucchiaio di legno solo. Uno solo. Per voi e per i mangiatopi. E adesso sta puntando verso di voi.

Questa storia è successa davvero, in una tendopoli. Il topo in realtà era un maiale. Il cucchiaio era un cucchiaio. Voi non eravate voi, ma alcuni musulmani che del maiale avevano orrore. Il giorno dopo circolava – anche a mezzo volantini – un invito a liberarsi di questi stranieri ingrati e schifiltosi.

«UN MIRANDOLESE IMPEGNATO NEI SOCCORSI POST TERREMOTO SCRIVE
Averli accolti, aver dato loro spazi, averli rispettati nelle loro tradizioni fino al punto di calpestare le nostre, averli istruiti sui loro diritti senza mai chiedere il minimo dovere, vederli comodamente seduti a tutte le ore nei bar, non vederli mai salutare o cercare un contatto. E vederli ora nelle tendopoli chiedere la carne tagliata in un certo modo, chiedere il cibo e poi gettarlo perché non è loro gradito, guardarli ridere mentre ci si affanna per tirare su tende e strutture di accoglienza, guardarli mentre si rifiutano sdegnati di aiutare, guardali mentre fumano ridono e scherzano... guardarli. È il fallimento dell’integrazione, i nodi sono venuti al pettine. Basta.
MANDIAMOLI TUTTI FUORI DAL NOSTRO PAESE!»

La cosa che mi ha fatto più male di questo volantino è la punteggiatura. Perché i contenuti più o meno li conoscevo, potevo immaginarmeli. Questo volantino, non lo avessi ritrovato in rete, avrei potuto riscriverlo da solo, le chiacchiere da bar alla fine sono sempre le stesse. Ma la punteggiatura. Non avevo mai visto un volantino razzista con una punteggiatura così efficace. Dietro c’è qualcuno che ha letto, che ha studiato. Certo, questo non lo ha smosso di un centimetro dalla convinzione di vivere nella migliore delle Emilie possibili, un luogo dove tutti vogliono venire, al punto che c’è da tirarli fuori con la pala.
Nello stesso giorno in cui girava questo volantino, un sacco di residenti extracomunitari al posto di blocco mi salutavano col trolley: se ne stavano andando da soli, senza aspettare il fallimento dell’integrazione. Un pachistano dell’età di mio padre mi spiegò che andava in Danimarca, aveva degli amici là. Gli feci i complimenti, la Danimarca per quel che sapevo era non sismica. Mio padre in Danimarca non c’è mai stato. Neanch’io, ora che ci penso, ci sono mai stato. Neanche il tizio del volantino, magari.

Chiedo scusa ai mirandolesi, di cui qui si fa il nome, solo per associarli all’iniziativa di un tizio razzista che ha scritto un volantino. Però era veramente un testo interessante. Non solo per quella cosa del «cibo non gradito» – che davvero vien da ridere, se avete mai incontrato un modenese all’estero. Non è difficile, basta andare nei ristoranti modenesi. Li troverete là alle ore pasti, che discettano di ripieno di tortellini e si fanno riportare il carrello dei bolliti. Ma il volantino non parla di questo. Parla soprattutto dell’invidia. Guardateli, dice, questi stranieri. Come fumano ridono e scherzano. Guardateli. Cosa c’è da ridere? Cosa c’è da scherzare?

C’è che loro hanno perso meno di noi, tutto qui. Una casa? Ne troveranno un’altra. Un lavoro? Vabbe', di sicuro non era il migliore lavoro sulla terra. Ci sarà qualche altra terra dove andare, qualche altra opportunità. Tanto il cordone ombelicale lo hanno reciso da un pezzo. È a noi che duole, a loro no. «MANDIAMOLI TUTTI FUORI.» Ma se ne stavano già andando. Ho insegnato in anni in cui ogni classe ne aveva quattro o cinque, e già sembrava un’invasione. Da qualche anno a questa parte stava calando il coefficiente di cognomi strani, anche se non calava il disagio. So di cinesi che sono tornati in Cina. Turchi in Turchia. Ingrati fino all’ultimo, non aspettano nemmeno che li cacciamo coi forconi. Tipico.

Noi emiliani siamo razzisti. Noi emiliani però si era detto che non esistevamo, e quindi tolgo la parola e la frase rimane così: noi siamo razzisti. No, tu che leggi senz’altro no, ma dico in generale. Ci sono eccezioni, ma comunque siamo più razzisti di quanto dovrebbe essere consentito, e lo si vede da centinaia di cose – potrei parlartene per ore, ma diciamo che ti fidi, va bene? Siamo razzisti perché proprio in questa stagione cominciamo ad andare a scuola a chiedere che i nostri figli siano inseriti in una certa classe e non in un’altra, e perché? Che differenza c’è?

Tante volte la differenza la fanno gli stranieri. Che poi stranieri non sono, la stragrande maggioranza è nata nell’ospedale a cinquecento metri dalla scuola, però sono figli di stranieri e quindi per noi sono stranieri anche loro. Il razzismo in fin dei conti è tutto qui.

Noi siamo razzisti perché abbiamo accolto molti stranieri, sembra un controsenso ma è andata così. Forse fino a un certo punto contavamo su una nostra ospitalità, una nostra disponibilità, che alla prova dei fatti non si è mostrata all’altezza. Certo, se ci fossimo guardati un po’ meglio ce ne saremmo resi conto, che non eravamo così ospitali come credevamo di essere. Sarebbe bastato vedere come parlavamo dei «marocchini», che fino agli anni Ottanta non erano quelli che venivano dal Marocco, ma da Caserta in giù, coi quali lavoravamo nelle fabbriche e nei cantieri, ma senza legare più di tanto.

Nel frattempo magari tendevamo a idealizzare minoranze che ancora non avevamo imparato a ospitare. Poi improvvisamente da un anno all’altro sono arrivati, a ondate, e ci hanno messo paura. C’è chi davvero parla di invasione, e ci crede: basterebbe un occhio alle statistiche per rendersi conto che non è verosimile. Ma la gente non ha voglia di guardare i fogli con i numeri. Esce al pomeriggio e in certi quartieri trova in giro solo loro. Si sono presi le palazzine brutte che gli italiani stavano mollando: a un certo punto a molti padroni di casa conveniva affittare soltanto a loro, creavano meno problemi e il mensile continuava a restare alto, perché i nuclei famigliari sono sempre numerosi. Ed è vero che tendono a farsi vedere in giro più degli italiani: forse perché hanno meno spazio in casa.

«Capo, dico a te.»
«Sì?»

Quella sera mi giravano un poco, vuoi perché il turno di notte è quel che è, vuoi perché non ha senso mettersi lì impalati per otto ore davanti a un accesso, se poi a cinquanta metri ce n’è un altro e non lo controlla nessuno. Far la guardia ha un senso, ma il picchetto a un recinto aperto, grazie, no. E allora ho detto al mio compagno: ma in via Narsete c’è qualcuno? Non lo sapeva. Scusa, stiamo qui a rompere le palle alle suore che vogliono andare in Sant’Antonio, e intanto in via Narsete può entrare chi vuole? E l’ambulatorio che hanno svaligiato ieri, ricordami, in che via era? Narsete. Ah, ecco. Senti, hai detto che sei qua fino all’una? Allora è inutile che stiamo in due. Io mi vado a mettere in via Narsete.

È un passaggio pedonale, senza lampioni; la sera diventa buio subito. Ma non ci si sente soli, nel parchetto lì davanti si sono accampate due famiglie di africani, quelli che hanno un tono di voce sempre alto come se litigassero, anche se non litigano mai. Ma a noi razzisti sembra così. Dal modo in cui articolano l’inglese potrebbero essere nigeriani o ghanesi. Tutti piuttosto alti di statura. Sto scrivendo un messaggino quando mi sento chiamare

«Capo!»
«Eh?»

E dall’oscurità mi viene incontro un africano di due metri e venti.

«Ciao, fai la guardia?»
«Eh, sì.»
«Ma qui non c’è mai nessuno, capo.» Me lo dice con un tono che interpreto come di rimprovero.
«Lo so, adesso però ci sono io.»
Mi guarda con un’espressione che interpreto come di scetticismo: ah, beh, capo, se ci sei tu siamo a posto. In effetti, col mio bel casco giallo, non gli arrivo al naso.
«Qui può passare un sacco di gente.»
«Eh lo so, si fa quel che può.»
«Capo, domani voglio venire io.»
«Tu?»
«Io li conosco tutti quelli che abitano qui, io sto in via IV novembre ma l’anno scorso stavo lì in via Narsete, li conosco tutti. E loro conoscono me, faccio passare solo chi ci abita.»
«Beh, guarda... ti do il numero della protezione civile, così se hanno bisogno di aiuto...»
«Ecco, grazie capo.»

In quel momento ti si accende come una lampadina. Cosa stai facendo? Sì, lo sai, sarebbe una sentinella perfetta. Alto come una torre, nero come la notte; conosce tutti, e tutti lo conoscono. Però.
Ti ricordi dove abitiamo?
Te lo immagini mentre chiede la carta d’identità alla tizia che ha la gioielleria all’angolo?
Vuoi metterlo nei guai?
Vuoi costringere qualcun altro a dirgli di no, vuoi scaricare su qualcun altro quella piccola dose di razzismo che ci stiamo dividendo in parti uguali?

«Senti, scusa... io adesso il numero te lo do... ma tu... sei sicuro?»
«Certo capo.»
«Si tratta di stare qui, e fare entrare soltanto i residenti...».
«Li conosco tutti.»
«Ma anche, per dire, se non ne conoscessi uno, dovresti chieder loro i documenti, cioè...».

Capo, mi stai chiedendo se so leggere?

«Vabbe’, comunque il numero è questo.»

Noi di qua siamo razzisti, ma non lo saremo per sempre. O ci mescoleremo – ci stiamo già mescolando, però ci vuole tempo – o se ne andranno loro, in cerca di meglio. Di lavoro, soprattutto: da noi l’offerta stagnava già da un paio di anni, e molte facce scure in giro per i quartieri erano semplicemente in cassa integrazione.

In certi casi il terremoto dev’essere stato la goccia che fa traboccare il vaso, o la strattonata di un conoscente che ti dice: dove stai buttando la tua vita? In quel posto di zanzare e sciami sismici? Ma lo sai che qui da noi in India / Cina / Turchia il Pil cresce che è un piacere? Si dice, non so se sia vero, che il governo marocchino abbia offerto a tutti i residenti nei comuni terremotati il biglietto aereo per rientrare. A volte conviene, tenere una madrepatria lontana da qualche parte. Qualcuno che per male che vada ti può pagare un biglietto. In realtà possiamo andarcene anche noi, quando vogliamo. Da qualche parte dove saremo anche noi un’etichetta, gli «italiani», che vuol dire tante cose e quasi nessuna che somigli a noi davvero. E nessuno ci offrirà di fare la sentinella: senza offesa ma... non sei adatto.  
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Il soviet in provincia di Grosseto

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15 gennaio – Don Zeno Saltini, (1900-1981), sovversivo, sacerdote, nomadelfo. 

Lo so, lo so, ma Castellitto aveva già fatto
sia don Milani che padre Pio.
Zeno Saltini non è per ora un santo, nemmeno un beato – sua sorella Marianna, lei sì; ma nel suo caso ci sono miracoli documentati. Zeno in compenso ha già avuto la sua fiction, e il processo di beatificazione comunque dovrebbe essere iniziato nel ’09, campa cavallo. In questi casi servono miracoli, e non dovrebbe nemmeno essere così difficile trovarli; ma non è probabilmente quel genere di miracoli che interessa al giorno d’oggi. Prendi Nomadelfia. Per come si sono messe le cose dagli anni Cinquanta in poi, il solo fatto che in Italia esista ancora un luogo come Nomadelfia, in cui “tutti i beni sono in comune, non esiste proprietà privata, non circola denaro, si lavora solo all’interno e non si è pagati” è un discreto miracolo. Siamo nel 2013, i kolchoz sono stati tutti privatizzati, la comunione dei beni è un’eresia persino in Cina, e Cuba fa tristezza; ma Nomadelfia resiste, quattro km quadrati per 270 abitanti in provincia di Grosseto, se siete curiosi andateci, è gente ospitale. Io non sono stato in molti posti in vita mia, ma a Nomadelfia ci sono stato. È stato tantissimo tempo fa, l’Unione Sovietica era ancora al suo posto nelle cartine. Ma ho la presunzione che non sia quasi cambiato niente, che i villaggi di prefabbricati siano ancora al loro posto, sulla collina sormontata da un’antenna. Se penso a Nomadelfia la prima cosa che mi viene in mente è un’antenna. C’è un motivo.

La chiesa di San Giacomo Roncole, dopo le scosse  del 29 maggio
scorso. Anche Fossoli è stata duramente colpita dal terremoto.
Un’altra cosa che ricordo è il vento battente, una cosa poco familiare qui da noi, che ti spazzava appena mettevi il naso fuori dai prefabbricati. Un vento che “ti mette appetito”, dicevano i locali. Era vero, avevo sempre una fame nervosa, per la verità non insolita nelle settimane a cavallo tra dicembre e gennaio. Di solito la combattevo frugando nella mia dispensa, concedendomi generose merende a base di avanzi di pandoro, ma a Nomadelfia si cenava sempre in lunghe tavolate, nei gruppi familiari, e mi vergognavo a chiedere che mi si riempisse di nuovo il piatto. Alla fine circolava questo panforte in fettine sottilissime; fino a quel momento ero stato piuttosto diffidente verso i dolci a base di frutta secca, ma quel panforte mi faceva impazzire. Avrei voluto mangiare tutte le fette dei miei commensali, avrei voluto scappare in cucina e mangiare tutta la scorta di panforte. Fino a quel momento il comunismo era stato per me un orizzonte teorico, non l’avevo mai immaginato in modo concreto, un posto dove anche se hai fame devi aspettare che mangino gli altri. Concettualmente ci arrivavo, ci ero sempre arrivato; ma il mio stomaco, scoprii allora, era un maledetto capitalista.

Danilo, “Barile”.
Don Zeno non parlava di capitalismo, né di comunismo. Un po’ forse nel tentativo (vano) di risparmiarsi qualche guaio con le varie autorità che gli complicarono la vita, un po’ perché erano paroloni, lui quando faceva le prediche a metà film amava tenere un registro più basso. Ai tempi in cui mio nonno lo sentiva comiziare a San Giacomo Roncole, lo slogan del suo Movimento per la Fraternità Umana era Fev do mòcc’, “fate due mucchi”: i poveri da una parte e i ricchi dall’altra, chiaro? Altro che capitalismo: i rècc’, i ricchi. Altro che classi sociali: i mucchi.

A differenza di altri preti rivoluzionari, che sotto la tonaca nascondevano una formazione classica persin troppo raffinata, Zeno non diede mai nella sua vita l’impressione di semplificare le sue idee per il volgo incolto: le idee di Zeno erano già semplici, e il volgo incolto era quello da cui proveniva lui, che aveva abbandonato la scuola a 14 anni, per poi vergognarsene. Quattro anni più tardi, arruolato alla Grande Guerra, sperimenta lo choc che gli cambia per sempre la vita. Niente bombardamenti: una semplice discussione di politica nelle retrovie con un compagno di branda, un amico anarchico. L’eloquenza di quest’ultimo lo annienta, lo umilia di fronte ai camerati. “Come in una bolgia infernale quasi tutti i soldati presenti cominciarono ad esaltarsi in favore del mio avversario: fischi, sgarberie, urla mi costrinsero al silenzio“. Perché non è riuscito a difendere le sue idee di bravo cattolico? Perché non è istruito, l’anarchico sì.

Al ritorno dal fronte Zeno informa il suo prete che ha intenzione di studiare teologia e diritto, da privatista. Le prime pagelle saranno agghiaccianti, ma Zeno è determinato: vuole diventare l’avvocato dei poveri. Riesce effettivamente a laurearsi alla Cattolica, ma poi preferisce farsi prete, convinto che i poveri si difendano meglio così. Nel ’31, durante la stessa cerimonia prende i voti e adotta il suo primo figlio, “Barile”, un giovane molto promettente ladro di polli che era andato a prelevare direttamente alla caserma dei Regi Carabinieri. Il primo di quattromila, dice la biografia ufficiale. Per tenere occupati i suoi piccoli apostoli, Zeno si affida alle sue passioni: il circo e il cinema. Trasforma gli orfani in saltimbanchi e affida loro la spericolata gestione delle sale parrocchiali. Gli porta fortuna la passione per i film americani, boicottati dal circuito delle sale ufficiali fasciste: noleggiarli costa poco, e le sale alla domenica sono sempre piene. A metà spettacolo i ragazzi accendono le luci e don Zeno fa la predica per quelli che a messa al mattino non c’erano, la maggior parte. Però chi a messa ci è venuto entra gratis: fuori dalla chiesa i Piccoli Apostoli ti timbrano il polso, come in disco.

A metà anni Trenta, nella Bassa modenese, i double feature dei Piccoli Apostoli, film+predica, sono lo show più trasgressivo consentito dal regime. Zeno riuscirebbe anche a guadagnarci, se non avesse una famiglia sempre più numerosa e se non reinvestisse parte del ricavato in una tipografia e in una bicicletta di corsa, poi in una moto, poi in una Balilla Torpedo, nel tentativo di simulare l’ubiquità in quello che ormai è un circuito alternativo, cinque sale diverse nel giro di 70 chilometri, in cui si proietta film americani introvabili altrove.

Un’altra cosa che ricordo di Nomadelfia è il religioso silenzio con cui il gruppo familiare assisteva alla trasmissione del telegiornale. “Religioso silenzio ” non è un modo di dire, era il medesimo che si sentiva durante le preghiere. Noi visitatori eravamo sorpresi dal fatto che i nostri coetanei guardassero i notiziari con tanta attenzione, e in breve scoprimmo che era una delle poche cose che si potevano guardare senza, come dire, censure. Perché a Nomadelfia quando ci sono stato c’era una sola antenna, in cima alla collina, che captava i programmi e alcuni (i notiziari) li ri-trasmetteva direttamente; tutti gli altri li filtrava, lasciando passare soltanto le cose, come dire, adatte. Era il secolo scorso, non esisteva ancora non dico il wi-fi ma nemmeno il protocollo http, magari adesso è tutto diverso. Anche se il sito di Nomadelfia dice che
L’uso della televisione è libero per quanto riguarda l’informazione, mentre si opera una scelta dei programmi visibili che sono trasmessi via cavo dalla emittente interna.

Siori e siore, i piccoli apostoli.
Per esempio, scoprimmo, niente cartoni animati. Era l’anno di qualche capolavoro Disney che non ricordo, la Sirenetta o simili. Alcune mie compagne scoprirono discutendo coi coetanei che nel villaggio quelle cose lì non si vedevano, e i pochi spezzoni che filtravano dal notiziario venivano trattati con ostile diffidenza, in quanto cose “non vere”, e quindi non utili, non interessanti. Io nel frattempo pensavo ad altro, per esempio oltre che a combattere con l’imperialismo del mio stomaco ero molto preoccupato dal catalogo della biblioteca. La mia consapevolezza politica di liceale mi diceva che se censuravano le onde radio probabilmente avevano anche censurato la biblioteca, il che mi preoccupava assai di più dell’eventuale messa al bando di Mike Bongiorno o Pippo Baudo. Fui molto rassicurato, nella mia dabbenaggine, quando vidi che esponevano una copia dei Fiori del Male. La cosa più decadente e satanica che mi veniva in mente. Se c’è Baudelaire va tutto bene, mi dissi, non c’è totalitarismo (tutte le volte che ripenso a questa cosa, misuro una distanza sempre più estesa tra me e quel coglione che pensava che un libro di Baudelaire sullo scaffale contasse di più, in termini di apertura culturale, della possibilità di mostrare un film animato a un bambino. Come se noi fossimo diventati quel che siamo perché al liceo abbiamo letto cinque o sei poesie di Baudelaire, e non perché abbiamo visto La Carica dei 101 e il Libro della Giungla).


Irene?
Nel 1941 a San Giacomo arriva la prima “mamma di vocazione”, in realtà una ragazza, Irene, che aveva visto Zeno e la sorella Marianna adottare decine di monelli e intendeva seguire l’esempio. Orfani non ne mancavano, e negli anni successivi il fenomeno sarebbe esploso. Zeno, che in un qualche modo era riuscito a evitare grossi guai con le autorità per tutto il ventennio, si ritrova arrestato dai carabinieri di Badoglio per un volantino. Dopo l’otto settembre capisce che è meglio cambiare aria: nel frattempo molti dei suoi Piccoli apostoli aderiscono alla Resistenza, facendosi anche ammazzare. L’amico Odoardo Focherini si prodigherà a mettere in salvo gli ebrei, lui l’hanno fatto beato l’anno scorso. Intanto Zeno a Roma frequenta gli esponenti della nuova Democrazia Cristiana, quel tanto che gli basta a capire che non vuole averci a che fare. “Se il Cristianesimo fosse quello predicato dalla Democrazia Cristiana, io sarei, o ebreo o ateo”, scrive nel ’47 all’amico monsignor Crovella. “Noi Piccoli Apostoli siamo a sinistra molto più dei comunisti, quindi condannabili anche da questi, che sono malati al fegato di politica settaria ed ideologica come gli stessi Democratici Cristiani”. In seguito ritratterà, dirà che Nomadelfia non è né di destra né di sinistra, una cosa che a un certo punto della vita dicono tutti.

"Fev dò mòcc!"
Il fatto è che alla fine della guerra la situazione nella Bassa modenese è così esplosiva che anche un prete collettivista che predica il superamento dell’istituzione familiare può sembrare un moderato, se non altro perché non ha neanche un’arma nascosta in cantina, e poi la sua intransigenza mette quasi in imbarazzo i comunisti. Per cui davvero può darsi che Pio XII a un certo punto abbia dato una specie di via libera a don Zeno e ai suoi Piccoli, che nel ’48 rompono gli indugi e occupano pacificamente l’ex campo di concentramento di Fossoli – nessuno in quel momento avrebbe potuto concepire l’idea di farci un museo, la guerra era ancora un buco nero da riempire immediatamente con un futuro il più possibile luminoso, e il futuro di don Zeno si chiamava Nomadelfia. “Avremo una popolazione di soli Piccoli Apostoli con leggi e costumi del tutto secondo le nostre mire cristiane e sociali”…
Essendo nelle nostre mani anche la parrocchia di Fossoli, ci sarà facile aggregare alla erigenda parrocchia di Piccoli Apostoli soli; quel territorio che man mano ci occorrerà per crearvi le nostre borgate. Così avremo nella S. Madre Chiesa una prima parrocchia dove la legge di vita dei parrocchiani è la fraternità cristiana in tutti i settori della vita personale, famigliare, sociale: Nomadelfia (dove la fraternità è legge).
Sorgeranno le borgate, ognuna di esse sarà parrocchia alle dipendenze dell’Opera e finalmente una diocesi. In pochi anni, se le vie di Dio continuano di questo passo, saremo una diocesi dove non esistono né servi né padroni, ma soli fratelli in Cristo, tutti dediti all’apostolato nel mondo.
Tagliano il filo spinato per entrare.

Le vie di Dio, non occorre sottolinearlo, presero alla svelta un’altra direzione: l’idea di una Diocesi-Kolchoz nella bassa modenese tramontò rapida quanto rapido aumentava il debito dell’Opera Piccoli Apostoli, perché gli emiliani erano ben lieti di prestare al buon Zeno quanto gli serviva, ma mica a fondo perduto, anzi con gli interessi. I debiti furono il modo in cui il sistema bocciò il progetto di don Zeno, ma per farlo sloggiare ci volle la Celere di Scelba. I minori furono dispersi negli orfanotrofi. Nel frattempo, grazie a una pia e generosissima donazione di Maria Giovanna Albertoni Pirelli, Nomadelfia aveva aperto una filiale in Maremma, un luogo dimenticato da Dio e dai lupi, nel quale i Piccoli Apostoli arrivarono come padri pellegrini in un nuovo continente: per due anni, mentre dissodavano e disboscavano, vissero nelle tende. Nasce in quel periodo l’equivoco tra “nomadi” e “nomadelfia”, che in realtà è l’accrocchio di due parole greche, “fraternità” e “legge”. Ma appunto, negli anni Cinquanta accettare la legge della fraternità poteva significare ritrovarsi a vivere come un beduino nella Toscana profonda. Per poter seguire i suoi don Zeno si era temporaneamente spretato, chiedendo e ottenendo la riduzione allo stato laicale.

Se ci ripenso mi vien fame.
A un certo punto durante il nostro soggiorno ci accorgemmo che ci stavamo annoiando. Non eravamo un gruppo di turisti, ci ispiravamo a una forte idea di servizio, e eravamo abituati a spostarci solo per aiutare qualcuno o qualcosa. I nomadelfi però non avevano bisogno del nostro aiuto: ci tenevano particolarmente a mostrare la loro autosufficienza, e si limitavano a mostrarci tutto quello che facevano e producevano. Insomma andavamo in giro a ispezionare il caseificio, la tipografia, l’officina, eccetera. Sembravamo un gruppo di ispettori sovietici, ma eravamo dei ragazzini, volevamo divertirci. Avevamo notato che c’era un campo di calcio e così sfidammo i nomadelfi a pallone. Noi di solito giocavamo misti, con le ragazze in attacco a creare confusione nell’area avversaria (niente fuorigioco). Le ragazze di Nomadelfia invece non giocavano.
Ci spiegarono che in realtà non avevano mai giocato, “non era costume” che una ragazza giocasse. L’espressione sembrava arrivata diretta dagli anni Cinquanta come una cartolina bloccata in una fessura dell’ufficio postale per quarant’anni; ma del resto a Nomadelfia in provincia di Grosseto resistevano voci del dialetto modenese che in Emilia ormai si stavano perdendo, come “razdora”, ovvero reggitrice, colei che governa la casa, più mater familias che casalinga: il perno del gruppo familiare.

Lo sgombero di Fossoli fu la grande batosta della vita di don Zeno. Fino a quel momento lui e i suoi non avevano forse avuto percezione dell’ostilità del mondo esterno: in fondo non volevano fare nulla di male, soltanto abolire il denaro e le classi sociali. Anche quando la tensione col Vaticano si sarà allentata, e Giovanni XXIII consentirà a Zeno di ri-consacrarsi sacerdote, i nomadelfi esiteranno a mettere radici. Quando ci andai gran parte delle abitazioni erano ancora prefabbricati smontabili: è un popolo pronto a partire, gli è già successo. I sogni rivoluzionari di Zeno finiscono lì, nella difesa appassionata di quattro chilometri quadrati in provincia di Grosseto. Un popolo, dice lui, ma anche una proposta al mondo. I ragazzini studiano ancora da saltinbanchi, e durante l’estate Nomadelfia diventa un teatro tenda itinerante: a metà dello spettacolo c’è ancora il momento fisso della predica.
Gli apostoli a Fossoli
Nomadelfia non è più un orfanotrofio, l’offerta di orfani negli ultimi trent’anni è crollata. Oggi le mamme di vocazione lavorano soprattutto con gli affidi: per quelli c’è sempre richiesta. Me ne ricordo uno che mi mostrò un piccolo crocefisso di legno trafitto nel costato da una freccetta da tirassegno; disse che l’aveva centrato da cinque metri, un colpo incredibile, anche perché non lo aveva mirato, non intendeva colpirlo. L’ultima rivoluzione compiuta da don Zeno, la meno nota, fu forse la più radicale: dopo aver abolito proprietà privata e classi sociali, Zeno tentò di eliminare le famiglie, o almeno di farle funzionare in un modo diverso. Al riguardo le fonti sono vaghe ed evasive, comunque a un certo punto Zeno si rese conto che anche in assenza di denaro, tra le famiglie nascevano dinamiche negative. E allora si inventò il gruppo familiare, un agglomerato di prefabbricati in cui le famiglie avrebbero pranzato assieme, di giorno, per poi ritirarsi in casette separate, la notte. Per evitare che i gruppi col tempo si trasformassero in clan, ogni tre anni si sarebbero dissolti, e rimescolati con gli altri. Non tutti erano d’accordo con l’idea: chi non era d’accordo se ne andò.

Questa più o meno era la situazione quando ci andai, ed è passato davvero molto tempo; ma a leggere i documenti ufficiali in rete non noto nessuna novità. Mi riesce facile immaginare che Nomadelfia sia ancora lì, prefabbricata e sbattuta dal vento; che l’antenna trasmetta ancora quello che ritiene giusto trasmettere, che le madri più eminenti siano chiamate razdore. Può darsi che il comunismo non abbia niente che non vada, ma tende all’equilibrio, e se le cose vanno abbastanza bene le lascia come stanno: Nomadelfia quando ci andai mi sembrava un posto tutto sommato in pace con sé stesso, la foto di don Zeno (scomparso nel 1981) era appesa un po’ dappertutto insieme a quella di Giovanni Paolo II che l’anno prima aveva voluto visitare quel villaggetto pacificamente opposto a tutto il mondo. Il comunismo forse non ha niente che non va, il problema è quando ne esiste solo una piccola bolla in un universo capitalista che per sua natura non può star fermo, deve stravolgere tutto in continuazione. Occorre scoprire necessità diverse, esaudirle, rimanere insoddisfatti, cercare di diventare persone diverse, riuscirci, rimpiangere quelli che eravamo prima eccetera. L’idea che in questo vortice Nomadelfia resista tranquilla ha del miracoloso, ma non credo che sia quel tipo di miracolo che ti svolta una causa di beatificazione.

Io non sono stato in tantissimi posti in vita mia, ma a Nomadelfia ci sono stato, e devo essere sincero: mi aspettavo qualcos’altro, chissà cosa. Un posto più aperto all’esterno, la versione stabile di quella bella compagnia in cui stavo crescendo in quel momento, in cui ragazzi e ragazze si davano del tu e giocavano a pallone. Il gruppo si è sciolto qualche anno più tardi quando i più grandi hanno cominciato a metter su famiglia: in questo Zeno aveva ragione, famiglie e comunità non vanno così d’accordo. Ogni tanto trovo i volantini degli spettacoli itineranti di Nomadelfia e mi viene tenerezza, mi domando se una cosa così fuori dal tempo non dovrebbe essere protetta, non so, dai beni culturali. Ma il più della volte non ci penso a Nomadelfia. Solo qualche volta tra dicembre e gennaio mi vedete alla coop che cerco il panforte in offerta speciale. È una cosa particolare quella tra il panforte e me, se ne apro uno posso mangiarlo intero, i miei familiari lo sanno e mi tollerano, ma ignorano lo choc che ci sta dietro, il momento cruciale della mia vita in cui il mio stomaco ha capito cos’era il comunismo e non gli è piaciuto, veramente, mi piacerebbe poter raccontare di sì ma la verità è che no, non mi piace il comunismo, preferisco le mandorle.
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Teoria narratologica della sf

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(Una cosa di cui colpevolmente non m'interesso molto è il festival di filosofia che fanno praticamente sotto casa mia - avete presente quelli che abitano dietro un monumento e non lo visitano mai? Ecco. Mi dispiace che ci sia stata una polemica su Fabio Volo, che secondo alcuni non dovrebbe andare a un festival di filosofia - probabilmente la stessa gente nel Settecento avrebbe snobbato quegli autori di romanzetti dozzinali e satirici, come si chiamavano, Voltaire e Diderot. Comunque. L'unico mio vago contributo al filosofume in cui sono immerso è questo pezzo che scrissi un paio di anni fa per una di quelle belle iniziative di Barabba. Lo riciclo oggi. Era molto più divertente dal vivo (niente dello spessore di un Fabio Volo, comunque)).


Noi vogliamo leggere di eroi: li vogliamo buoni e generosi, positivi e propositivi. Questo la narrativa ce lo può dare. Però li vogliamo anche veder impattare con il nostro stesso mondo (o meglio, un mondo perfettamente identico al nostro). Questo la narrativa non può darcelo senza pretendere qualcosa in cambio. Questo qualcosa lo possiamo definire Sfortuna. Vogliamo degli eroi? Li vogliamo alle prese con le difficoltà del nostro mondo? Dobbiamo accettare che siano molto sfortunati. In caso contrario non si dà verosimiglianza, e senza verosimiglianza non si dà narrativa.
Cerco di spiegarmi meglio. Nel nostro mondo, gli eroi che pretendiamo dalla narrativa non ci sono. Se ci fossero, il mondo migliorerebbe all’improvviso. L’esempio più classico resta Superman: se esistesse, non perderebbe certo tempo a combattere contro il crimine più o meno organizzato: devierebbe un paio di fiumi, risolverebbe il fabbisogno energetico degli Stati Uniti, risolverebbe le controversie internazionali (Eco, 1964). Questo è quanto sarebbe logico aspettarsi da un superuomo verosimile. Quindi, o rinunciamo alla verosimiglianza e caliamo Superman in un altro universo, dove gli sia consentito cambiare la sorte di altri pianeti (e a quel punto avremmo un fantasy di scarso interesse), oppure lo lasciamo in un mondo verosimile fatto di grattacieli realistici e cabine telefoniche identiche alle nostre, operando però affinché, malgrado la sua buona volontà e i suoi poteri ultraterreni, non riesca a rendere il mondo neanche un briciolo migliore di quanto lo abbia trovato. Ma come si fa?
Lo si circonda di sfortuna. Si crea una pletora di antagonisti, a volte in calzamaglia e mantello come lui, che non gli lasciano un attimo di tregua. L’unico modo per ammettere Superman nel nostro mondo è dotarlo di una sfortuna tale da neutralizzare del tutto i suoi superpoteri, affinché alla fine di ogni sua avventura gli enormi sforzi positivi di Superman e le enormi energie negative dei suoi antagonisti diano una somma zero. Il nostro mondo imperfetto diventa così il risultato della lotta titanica tra Superman e i suoi perfidi avversari. Questo alla lunga rischia di rendere Superman e i suoi successori antipatici: con tutti i loro poteri in fondo non fanno che difendere lo status quo, saranno mica per caso eroi di destra? Conservatori, se non addirittura reazionari? Ma è la narrativa a essere in qualche misura conservatrice: per essere interessante ha bisogno di restare in frizione col mondo vero, ma il mondo è quel che è, uno status quo molto discutibile, e la narrativa accetta di non poterlo cambiare. La rivoluzione si fa nelle strade, o al limite nei fantasy: nei romanzi realisti non può che finir male. Poi date la colpa all’autore, ma è colpa vostra che accettate il patto finzionale senza far caso alle clausole scritte in piccolo.
Eroe + Sfortuna = 0
Eroe = 0 – Sfortuna
Sfortuna = 0 – Eroe
In pratica, a ogni azione positiva dell’eroe corrisponde una sfortuna di uguale valore e di segno contrario. Più l’eroe sarà potente, più grande la sfortuna intorno a lui. Più Ulisse è astuto e curioso, più Itaca si allontana. Più Ercole è forzuto, più gli tocca faticare. La sfortuna è in fondo il calco in negativo dell’eroe, e questo si vede in metafisica semplicità nelle opere di Kafka: i suoi quasi anonimi eroi sono definiti esclusivamente dalla sfortuna che li plasma. K esiste finché c’è un Castello che non lo lascia passare, o un Processo che non gli consente di difendersi: rimosso lui, il Castello apre i cancelli e il tribunale si scioglie. Solo un po’ di vergogna sopravvive.
La sfortuna è quindi proporzionale alle capacità dell’eroe. Nel caso di Superman essa tende all’infinito: finché Superman vivrà, l’universo di Metropolis sarà sotto costante minaccia di folli che lo vogliono dominare o distruggere. Fortunatamente di solito gli eroi hanno poteri più modesti, e di conseguenza anche la sfortuna che li contrasta è minore. Prendi i Malavoglia: sono una piccola impresa a conduzione famigliare, i cui membri all’inizio del romanzo appaiono dotati di un minimo di spirito d’iniziativa. Anche se il carico di lupini arrivasse in porto, essi non salverebbero certo il mondo: al limite porterebbero ad Aci Trezza un po’ di moderna mentalità imprenditoriale. Il che però è inammissibile: non perché Verga non lo desideri, ma perché semplicemente ciò non è avvenuto nel mondo reale, a cui l’autore è vincolato da una clausola di verismo: e quindi la tempesta deve infuriare, e la sfiga colpire a ripetizione finché dei Malavoglia non resti che qualche superstite incanaglito e riconvertito al mito arcaico della Casa del Nespolo.
Proseguendo per questa china si arriva agli antieroi: quei personaggi la cui carica è prossima allo zero o addirittura negativa: ebbene, a loro potrà capitare anche qualche occasionale botta di culo, al fine di mantenere l’equilibrio: vedi il caso dell’Idiota. Sappiamo che l’idea iniziale era quella di creare un personaggio “buono”. Dostoevskij all’inizio ha l’aria di pensare che la bontà non sia una qualità, quanto una mancanza di qualità negative: così l’Idiota sarà privo di fondi, privo di salute, privo di malizia… dopo un centinaio di pagine però l’autore si dev’essere reso conto che tutte queste privazioni rischiano di renderlo un osservatore inerte, e allora cosa ti combina? Ma guarda un po’: una zia sconosciuta, un’eredità improvvisa. Il Deus ex machina dei canovacci ottocenteschi.
Il più sfacciato resta comunque Zeno Cosini: chi più fortunello di lui? S’innamora di sua moglie, il suo rivale in amore e in affari s’ammazza per sbaglio. Persino quando il malessere esistenziale sembra prevalere, non ha che da scoppiare una guerra mondiale per trasformarlo in uno speculatore soddisfatto. Zeno doveva evidentemente contenere un potenziale negativo altissimo: non è difficile immaginare che il tizio “un po’ più ammalato degli altri” che si arrampica al centro della terra e la fa esplodere sia egli stesso. Per evitare che ciò succeda, per salvare il mondo (e la verosimiglianza del racconto), Svevo è costretto a servirgli colpi di fortuna a ripetizione.
Per i narratori insomma non c’è scampo: o inventano eroi positivi e li sommergono di sfighe, o s’ingegnano a elaborare colpi di fortuna per antieroi inetti. Di solito quelli più buonisti all’apparenza sono proprio quelli che nascondono in cantina orribili attrezzi con cui tormentare i loro eroi senza macchia. Essi tuttavia amano presentarsi in società come padri di eroi, e quindi un po’ eroici essi stessi, senza troppo insistere sul fatto che ne sono anche i più instancabili persecutori. Del resto, perché dovrebbero insegnare i più oscuri segreti del loro mestiere? La fortuna commerciale di un narratore dipende dalla quantità di dolore, frustrazione e sofferenza che riesce a infliggere ai suoi eroi prediletti. Egli dovrà essere spietato, come si addice a un padreterno. Ma persino il padreterno, tra un diluvio e una pestilenza, ha quei momenti in cui ci terrebbe ad apparire come un tizio misericordioso. Allo stesso modo quando i narratori vanno alle conferenze o ai corsi di scrittura creativa, hanno sempre quell’aria di “io non farei male a una mosca”. Il risultato è che poi da questi corsi escono un sacco di discepoli buonisti che credono che per raccontare una storia sia sufficiente inventarsi un simpatico eroe (spesso aspirante narratore egli stesso), al quale succedono solo cose simpatiche e mai niente di veramente grave, perché la violenza è una cosa ripugnante, no?
Anche quando è violenza su creature immaginarie. Da qui il corollario più interessante della teoria: come si distingue un vero narratore da un aspirante? Dalla pietà per i personaggi. Il vero narratore ne sarà totalmente privo. Ti è venuto bene quel tenero ragazzino, Nemecsek? Bravo Molnár, ora stroncalo con una polmonite fulminante. Generazioni di giovani lettori piangeranno per quello che stai facendo al più eroico soldato semplice delle strade di Budapest. Milioni di fanciulli e fanciulle t’imploreranno e ti malediranno, ma sarà per sempre troppo tardi: Nemecsek è morto, fatevene una ragione, e se non fosse morto il romanzo non sarebbe finito negli scaffali su cui lo avete trovato.
Diventare veri narratori significa accettare il proprio ruolo di assassini di eroi, dispensatori di disgrazie, reggitori di cornucopie di ininterrotta sfiga. Questo è il destino del narratore. Non ti va? Nessun problema, il mondo ha più bisogno di idraulici.
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Certi giorni (sono meglio di altri)

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Certi giorni ti svegli e c'è il sole, le tende ai giardini pubblici sembrano un camping, ti danno l'illusione che dietro i pini ci sia una spiaggia da qualche parte. La badante che dorme sulla panda all'angolo, il sismografo meglio calibrato del quartiere, dice che scosse lei non ne ha sentite; il cornetto al bar si scioglie in bocca, e pensi che non c'è nulla che non si possa risolvere: casca un campanile, lo rifaremo più bello. E anche le industrie, prima delocalizzano, prima si sbrigano a tornare indietro. Abbiamo mille sfollati? Fammi ridere, prima del sisma avevamo quattromila appartamenti sfitti, tutti ancora in piedi, tutti nuovi antisismici. All'ex coop rilevata dai cinesi stanno cambiando i mattoni, giuro: tolgono quelli vecchi evidentemente crepati, e ne mettono di nuovi, sembra un lego. Nel frattempo i cinesi hanno riaperto, dalla porta di servizio per non disturbare i muratori. Vai così. Se ci credono i cinesi, che hanno il mondo a disposizione, un margine c'è.

Hai presente quel balcone che si affaccia sotto il campanile, dove ci sta una famiglia di paki. Sono tornati. Cioè, dormono ancora nel parco, ma di giorno stanno nell'appartamento, i bambini vanno persino sul balcone. Quel balcone sporge troppo, mi preoccupava anche prima dello sciame, così ho detto al padre di starci attento. Magari mi ha dato retta, portavo il casco giallo.

Certi giorni dopo mezz'ora si mette a piovere, ti dicono che il duomo e il teatro forse sono da buttare giù e il sindaco è ricoverato, la scuola non si sa nemmeno se riapre in settembre, al centro di coordinamento nessuno coordina un cazzo, e il tuo architetto è latitante. I marocchini stanno disertando in massa, c'è l'ambasciata che li rimpatria gratis. Insomma ci credono giusto i cinesi, e il muschio, e i licheni. E non sono ancora le otto di mattina. Piove nelle chiese, nelle case scoperchiate dopo quattrocento anni, e tu sei lì col tuo casco giallo limone, l'omino playmobil di guardia a un solaio sfondato.

Sei arrabbiata con me? Ho tradito la tua fiducia, quando ci siamo conosciuti avrei dovuto almeno accennare alla faglia ferrarese, al terremoto del 1570? Vorresti che ti dicessi che non durerà altre settimane, altri mesi, altri anni? Che non succederà mai niente a noi e ai nostri figli, assolutamente niente mai?

Certi giorni non ti svegli nemmeno, sei su dal giorno prima. Dovresti buttar già qualcosa ma hai la nausea dei casolari diroccati, della magnitudo, invidi gli inviati speciali che a un certo punto prendono un taxi, un treno, e il loro terremoto finisce lì. Guardi le case in cui nessuno forse avrà più coraggio ad abitare, e pensi a quanto costavano al metro quadro quando ne stavi cercando una. Adesso per la stessa cifra potresti prenderti una contrada intera e farci un ospizio, che è poi quello che diventerà questo quartiere, quando le imprese delocalizzate non torneranno, i giovani se ne andranno e resteranno i vecchi, resteremo noi.

Due ragazze sono cadute dal quarto piano. In ospedale hanno detto che i ladri erano entrati nell'appartamento e le avevano costrette a buttarsi di sotto. Stasera ho ridato un'occhiata e la storia era cambiata, c'erano due ragazze che tentando di svaligiare la casa dei vicini erano cadute giù.

Certi giorni puoi solo incassare e sperare che tramonti presto, anche se il terremoto veramente non si corica mai, ma alla fine sei stanco anche di aver paura. Lascia perdere l'INGV ci siamo presi quello del secolo e siamo ancora qui, siamo vivi. Possiamo ancora andare dove vogliamo, vuoi che andiamo via? Ero di guardia al campanile ma al telefono con te, ricordo che mi stavi dicendo che l'Italia comunque è fottuta, quando ho visto una, due, tre bolle di sapone cadere giù dal balcone dei paki, e non scoppiare fino al marciapiede. Certi giorni alla fine tieni duro e sono meglio di altri.

(Stamattina, mi hanno detto, riaprono il Centro).
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Sovrani cercansi

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Riotta, perdio, sai che rumore fa il terremoto?
Un rombo che arriva da lontano. Ogni volta che arriva,
a qualcuno saltano la coronarie. Non è una metafora, si
sentono le ambulanze, gli saltano davvero. Perché non
organizzi un bel match di baseball benefico molto
fuori dai coglioni?
E poi ci siete voi.

Voi che la colpa è dei politici.
Voi che siccome la collisione di due faglie a decine di chilometri di profondità è oggettivamente difficile da collegare ai politici, voi però non vi tirate indietro, vi lambiccate, e dai e dai un modo per dimostrare che è colpa dei politici anche la tettonica a placche la si trova.
Voi che quando martedì scorso Cavezzo è andata giù, coi suoi edifici a norma, coi suoi capannoni appena ispezionati, voi nel giro di poche ore avevate pronta la soluzione: bisognava rinunciare alla parata.
Voi che, siccome Napolitano non poteva rinunciare alla parata, ecco, lo vedi? È colpa di Napolitano. Facile.
Voi che quando vi si chiede, con diplomazia, ma che cazzo state dicendo? Secondo voi a sospendere una parata già montata si risparmiano i fondi necessari a ricostruire? Ma l'avete capita che è più o meno come sospendere una festa di compleanno per curare la leucemia? Voi fate spallucce, lo sappiamo, eh. Non siamo mica cretini, noi. Però...
Voi che però cosa? Non siete cretini però cosa?

Voi che però sarebbe stato un gesto simbolico.
Rinunciare alla festa di compleanno.
E anche Napolitano, perché non è corso a farsi inquadrare sullo sfondo dei calcinacci? Sarebbe stato un bel gesto simbolico. Sicuramente chi sta nelle tendopoli a Novi o Rolo avrebbe apprezzato, non è vero, un ampio spiegamento di forze per garantire le inquadrature di Napolitano sullo sfondo dei calcinacci. Ah, e anche il Papa. Andava a Milano. Poteva fermarsi per strada (per strada?) Con tutto il codazzo di bodyguard necessario. Sarebbe stato un bel gesto simbolico, un caos logistico che gli sfollati avrebbero senza dubbio apprezzato. Però non ha voluto, lo vedi? È colpa del Papa. Poteva stendere le mani e non l'ha fatto. E di Napolitano. Non è degno di fare il presidente della, della Repubblica.

Voi che non siete cretini, però... eh, è tanto liberatorio. C'è un terremoto? Si dà addosso al Papa. In mancanza di meglio. Si dà addosso al presidente della Repubblica. In mancanza del re. Certo una volta era comodo. Il terremoto era un messaggio di Dio al sovrano. Ferrara 1570. Terremoto. Dio vuole punire Alfonso d'Este, sovrano indegno e sterile. Facile. Poi, certo, viene l'Illuminismo, nasce la scienza moderna, Wegener si fa ridere addosso con la deriva dei continenti che poi diventa la tettonica a placche, maledetta tettonica a placche. Chi te lo legge un bel messaggino indignato su facebook contro la zolla africana che si sfrega contro quella euroasiatica? Chi ti clicca “mi piace”? Invece un etto di indignazione contro Napolitano o Ratzinger o Monti te lo affettano tutti fine fine, è roba che va a ruba, e allora no, non siamo cretini, però... però su facebook un po' ci conviene.

E anche la Repubblica, la cosa di tutti, che rottura di palle. Era molto meglio quando era tutto intestato a o're, si faceva molto prima a dare addosso a lui. Napolitano si ingegna, ma non è proprio la stessa cosa.

Ciao sono Leonardo, scrivo da una piazza di Carpi appena fuori dalla zona rossa. Ci sono quattro bar aperti in cento metri, vorrei poter prendere un caffè da tutti, ma non mi farebbe bene. Erano aperti anche ieri, neanche dodici ore dopo una scossa di 5,1 magnitudo. La gente passa a chiedere: quando riaprite il centro? Quando posso riaprire il negozio? Quando riaprite la scuola?, mia figlia vuole i libri per studiare. Molti dormono in tenda. Non hanno mica aspettato che gliela portassero. Se la sono comprata.

Sapete di cosa ha bisogno questa gente? Di un'altra polemica antipolitica un tanto al chilo? No, mi dispiace, no. Vi sta sulle palle la parata? Vi capisco, io trovo deprimenti i compleanni. Scrivete pure di quanto vi sta sulle palle la parata. Ma per favore non mettete in mezzo i terremotati. Loro l'hanno capito cos'è la repubblica. Via, non è difficile. Basta leggere le prime due righe: la sovranità appartiene al popolo. Al popolo, capite, non a un notaio del Quirinale che deve andare a farsi inquadrare con la fascia. Non è il re: è un funzionario. Se la terra trema, non ha colpe e non ha nemmeno particolari poteri. Siamo una repubblica. I sovrani siamo noi. Siete voi. Volete fare un bell'atto simbolico, pensate che i terremotati ne abbiano bisogno? Venite voi. Non serve neanche una fascia, meglio una pettorina anti-infortunistica.

Ieri mattina al presidio ho trovato un sovrano, uno tra tanti. Era venuto da Pescara, faceva la guardia al centro storico. Ho molto apprezzato il gesto, non solo simbolico, visto che la sera prima si era trovato sotto il campanile di San Francesco quando aveva cominciato a oscillare come un pendolo. Sono tornato sedici ore dopo, era ancora lì, si era fatto due turni filati ed era contento perché non avrebbe dormito in macchina, bensì in palestra. Ecco, con sovrani del genere, scusate, ma chi ha bisogno di Napolitano.
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Non imboschiamoci

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Ciao, sono un campanile in controtendenza
Oggi avrei qualcosa da dire, purtroppo non tanto a voi che leggete, quanto ai miei compaesani tra Modena e Carpi che dormono ancora in auto o in tenda. Difficilmente verranno qui a guardare - però due cose comunque io devo scriverle, e sono queste.

Prima cosa: chiunque vi dica che c'è un altro grosso terremoto in arrivo - e so che ce ne sono, so che la voce gira - vi sta mentendo. Nel migliore dei casi è un mitomane, nel peggiore un infame, uno sciacallo: e così dovete trattarlo. Non vi chiedo di prenderlo a ceffoni, anche se li meriterebbe, ma ridetegli in faccia: ridicolizzatelo, umiliatelo, fate sì che si vergogni di andare in giro a dire certe cose, e che chi lo ascolta si vergogni di avergli dato retta per più di un istante. I terremoti non si prevedono: i terremoti si sconfiggono con la prevenzione, la prudenza e il coraggio.

L'altra cosa che vorrei dirvi è appunto questa: ci vuole coraggio. Un po' di più di quello che abbiamo avuto fin qui. Vorrei dirvi che il terremoto è un evento catastrofico, che scatena sotto le case l'energia di un bombardamento misurabile in megatoni; però anche il terremoto non è che sia più forte di noi. Di noi tutti assieme, intendo, se ci facciamo coraggio. Chi ha una casa distrutta ha tutto il diritto di piangerla, ma guardiamoci negli occhi: la stragrande maggioranza delle nostre case non è distrutta. La stragrande maggioranza delle nostre case ha ballato su una scossa superiore ai cinque magnitudo, ed è ancora lì. Lo sapevate di avere case così robuste? Ora lo sapete. E quindi adesso si tratta di tornarci, di riprendere a vivere e a lavorare. So anch'io che non è facile.

Ci vuole coraggio. Quel coraggio che hanno avuto per esempio i nostri nonni, molto più poveri di noi, che si sono presi una medaglia d'oro. C'era il nazismo e loro hanno avuto un po' di coraggio. Non credo che oggi ce ne serva più di quello che hanno avuto loro. Noi poi andiamo molto fieri del loro coraggio, lo festeggiamo tutti gli anni e non facciamo che parlarne: ecco, è l'ora di mostrare che lo ricordiamo per un motivo. Fingete solo per un attimo che il terremoto sia il nazismo: che si fa, si scappa? È' un nemico insensato che rade al suolo paesi inermi, e lo fa per spaventarci: ci imboschiamo?

Io non posso dirvi quando finirà - e chiunque sostiene di potervelo dire è un bugiardo, un traditore, una spia. Potrà metterci anni, e forse ci saranno altre crepe e altri caduti. Può benissimo succedere, e allora? L'unica cosa che so è che alla fine se ne andrà, perché alla fine i terremoti se ne vanno tutti: e avremo vinto noi. Se non saremo scappati, se avremo tenuto in vita i centri piccoli e grandi, se non l'avremo data vinta al declino e alla paura del declino, che sono la stessa cosa. Quel giorno avremo vinto: e ricorderemo chi è caduto perché cercava di rimettere in funzione una linea di produzione; ricorderemo chi ha tenuto i negozi aperti anche oggi 2 giugno; chi ha aiutato negli ospedali da campo e nelle tendopoli; chiunque abbia lottato ogni giorno per tornare a una vita normale; e gli imboscati non li ricorderemo. Avete paura per la vostra famiglia? Mettetela al sicuro, ma poi tornate qui. Abbiamo bisogno di voi, anche solo per festeggiare quando sarà tutto finito. Le vostre case, in nove casi su dieci, non vi hanno tradito: non lasciatele sole.

(C'è anche un'altra cosa. L'altra sera, al presidio contro gli sciacalli, c'erano volontari venuti da Reggio ad aiutare. Molto nobile da parte loro: ma davvero vogliamo farci salvare le case, col rispetto parlando, dai reggiani?)
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Bernardino 5 Stelle

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20 maggio - San Bernardino da Siena (1380-1444), predicatore.

(Si legge intero qui).

'Ci saranno bombe, terremoti, falsi profeti
che vi diranno che ve l'avevano detto...'

C'è crisi. Da parecchio. Ce n'è così tanta che non ci ricordiamo nemmeno quand'è cominciata, e nulla ci lascia sperare che possa finire. Le vecchie ricette non funzionano più, i vecchi partiti si sono scannati tra loro senza portarci nulla di buono. C'è confusione e non c'è nessuno che ci spieghi cosa fare. No, veramente uno c'è. È un tizio fuori degli schemi. Per dire, è esperto di Apocalisse e di teorie economiche. Però non è tanto questo l'importante. L'importante è che lui si fa ascoltare. Gli altri sono noiosi e battibeccano sempre, lui quando occupa la scena può tenerla per ore, giorni, settimane. Si capisce che ne sa a pacchi, ma non te lo fa pesare; cita gli economisti ma anche i barzellettieri, ti fa spetasciare dal ridere, certe volte; altre volte ti fa pensare. Quando arriva in città, col suo battage pubblicitario un po' rozzo ma innovativo, le ragazze fanno la fila per occupare i primi posti, dove si sente tutto. I ragazzi occupano i secondi posti, dove si vedono meglio le ragazze. Insomma è l'uomo dell'anno, del decennio. Dove passa ammainano le bandiere dei partiti e innalzano la sua. Gli hanno offerto cariche importanti, ma lui la politica preferisce lasciarla fare agli altri. Quello che veramente gli interessa non sono gli onori (ne ottiene), né i guai (se li procura). Quello che davvero vuole fare, lo sta già facendo: predicare è la sua più grande gioia, continuerà finché le forze non lo abbandoneranno. Sto ovviamente parlando di Bernardino degli Albizzeschi, il più grande predicatore del quindicesimo secolo.

Ma non è che nel ventunesimo le cose vadano troppo diversamente. A chi continua ad affettar stupore per gli exploit di Beppe Grillo, porto questa ipotesi in regalo: forse Grillo non è affatto un uomo nuovo, forse è l'incarnazione di un archetipo dell'inconscio collettivo che noi italiani ci portiamo dentro da secoli: il Grande Predicatore. Grillo è tutto lì, un meraviglioso affabulatore, uno spacciatore di apocalissi da coniugare secondo necessità. In un altro secolo si sarebbe messo un saio addosso e avrebbe detto più o meno le stesse cose: guai a voi banchieri usurai affamatori del popolo, guai a voi politici corrotti, le cose stanno per cambiare, eccetera (continua sul Post...)


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Bastardi senza Loria

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Io ho avuto tante fortune nella vita, e una è questa: a un certo punto nella mia città, che è minuscola, è spuntata una delle biblioteche più belle d’Italia. Proprio nel centro pedonale, in una ex scuola elementare, ex fabbrica del truciolo, rimessa a nuovo e rivestita di dischi, videocassette, dvd, postazioni internet, e soprattutto libri… Però se vi dico che è bella, non è tanto ai libri che penso. Ci sono senz’altro biblioteche con più libri, ma non importa: basta avere un prestito interbibliotecario che funziona, dei bibliotecari che sanno il loro mestiere, e ogni biblioteca diventa quella di Babele. Ne ho viste di più grandi in città grandi, di più fornite in città universitarie, ma il mio è un centro piccolissimo senza università – anche se ce ne sono quattro tutt’intorno. Quello che fa della nostra biblioteca una delle più belle d’Italia è il suo pubblico.

Studenti, pensionati, lavoratori, stranieri, nella nostra biblioteca vengono tutti: è il luogo più condiviso di tutta la mia città. La varietà di persone che ci trovi dentro non la vedi da nessun’altra parte: né in parrocchia, né in palestra, nemmeno al pronto soccorso. Forse a scuola, tra i bambini, ma gli adulti anche in piazza si tengono separati, ognuno nel suo capannello. La biblioteca è l’unico posto in cui tutti troviamo qualcosa che ci serve, la dimostrazione più bella di cos’è la cultura: non un castello che svetta nelle tenebre dell’ignoranza, ma il posto dove puoi entrare per guardare un film comico in lingua originale, e scoprire a pochi metri un romanzo di cui non avevi mai sentito parlare, un disco di Beyoncé, una fuga di Bach. Le persone che vengono qui anche alla domenica, dove sarebbero altrimenti? Allo stadio, al cinema, in un internet point? Probabilmente non rischierebbero mai di incontrarsi. Qui il rischio c’è, tutti i giorni, ed è fantastico.

Io ho avuto gran fortuna nella vita, ma forse non me la meritavo... (continua sull'Unita.it, H1t#114).

Io ho avuto gran fortuna nella vita, ma forse non me la meritavo. Ho avuto una biblioteca meravigliosa a pochi passi da casa, e adesso sto qui a guardare mentre va in malora. Lo stesso Comune che ha deciso di aprirla, investendoci cinque milioni appena cinque anni fa, sta per lasciare a casa i 17 dipendenti che l’hanno fatta funzionare fin qui. La cosa che fa più rabbia è che non lo si può nemmeno chiamare licenziamento, perché i 17 non erano dipendenti, bensì “soci” di una cooperativa che aveva vinto già due appalti. Erano persone capaci, selezionate in base al loro profilo professionale: per diventare “socie” avevano dovuto superare la scrematura di un esame. Hanno gestito una situazione non facile, hanno lavorato per sette euro e mezzo all’ora anche il sabato e la domenica senza straordinari, dal momento che il loro contratto non ne prevedeva. Quando nel 2010 il Comune ha iniziato a ridurre l’orario, con la chiusura del lunedì, loro hanno continuato a darci dentro e il servizio è rimasto agli stessi livelli. E dal primo aprile se ne staranno a casa. Pessimo scherzo, ma com’è potuto succedere?
L’impressione è che al Comune non si siano tutti resi conto che non rinnovare una convenzione equivale a licenziare un personale molto qualificato: in fondo il contratto multi-servizi che si fa con le cooperative è lo stesso con cui si gestiscono le pulizie. Qualcuno ai piani alti era convinto che fossero ventenni, belli giovani e (dal primo aprile) disoccupati: gente che al posto fisso non ci tiene, se non c’è più posto tra gli scaffali si può sempre trovarne in un fastfood. E invece molti sono laureati, sopra la trentina, con famiglie a carico, e mutui accesi, eccetera eccetera. Quando dico che la nostra biblioteca è la più bella d’Italia, mi riferisco anche a loro, che riuscivano a portarti sempre tutto quello che cercavi, anche se era in deposito e altrove ti avrebbero detto di ripassare tra qualche ora, o il giorno dopo. Questo era fondamentale, in una biblioteca bella ma piccola, con poco spazio per gli scaffali: erano loro i nostri scaffali viventi, e senza di loro difficilmente la biblioteca funzionerà.
Al Comune dicono che saranno sostituiti da sei dipendenti che vengono da altri settori, e che il servizio continuerà allo stesso livello. Faccio i miei auguri a chi arriverà dal primo aprile, ma posso essere scettico? Non credo che potranno affrontare la stessa mole di lavoro che oggi gestivano in diciassette. Ma il Comune da qualche parte deve stringere – il solito problema – e forse la biblioteca non è così strategica dopotutto: tanto più che forse la nostra squadra di calcio sarà promossa, e quindi bisognerà rifare lo stadio. Ma il pubblico mescolato che popolava la nostra biblioteca, uomini donne e bambini, italiani e stranieri, studenti e lavoratori… chissà se allo stadio alla domenica ci va. Probabilmente molti torneranno ai loro capannelli, o se ne staranno ognuno a casa propria, senza più il rischio d’incontrarsi e magari qualche volta di piacersi.
Ultimi dettagli, di non ultima importanza: il mio Comune si chiama Carpi (MO), la biblioteca multimediale si chiama Arturo Loria, la giunta che ha preso queste decisioni è di centrosinistra. Lo è sempre stata, ma questo alla fine non è che cambi molto la questione. La metto giù semplice: per me è di sinistra chi fa cose di sinistra, e il primo esempio che mi viene in mente è una biblioteca bellissima che forse tra un mese non funzionerà più, dove la cultura non si vergognava di essere una cosa popolare.http://leonardo.blogspot.com
(Su esuberanti.altervista.org si trovano tutte le informazioni aggiornate giorno per sul caso della Biblioteca Loria di Carpi, con una rassegna stampa curata dai bibliotecari. Si può anche firmare la petizione in loro sostegno. Della biblioteca dovrebbe parlare anche la puntata di domani di Ballarò).
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Fuori le pale!

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La neve divide gli uomini in due categorie: chi tira fuori la digitale e chi tira fuori le pale.


Ed è questo il vero problema con la mia generazione, altro che Renzi. Il pezzo in cui si compie la mia mutazione definitiva in accigliato umarell si legge sull'Unita.it (H1t#111). Buon disgelo.

A questo punto probabilmente ne avete abbastanza della neve sui giornali, delle foto di neve degli amici su facebook, della neve in generale, e vi capisco. Racconto solo la mia storia, sperando che abbia un senso anche per voi.
Mercoledì avevo messo la sveglia presto, perché volevo spalarne il più possibile finché era leggera. Non è che temessi di restare bloccato nella banchisa, ma volevo evitare che il più del lavoro lo facesse il signore del piano terra, che si sveglia presto, ma non dovrebbe fare sforzi alla sua età. Poi purtroppo la Creatura aveva altri progetti, e insomma mi è rimasta soltanto una mezz’ora per farmi strada verso il cancello e spazzare il mio pezzo di marciapiede. A un certo punto, mentre spalavo, è arrivata la signora del piano terra a scusarsi del fatto che non fosse uscito suo marito, che purtroppo era febbricitante. Le ho risposto che non c’era problema, che io avrei fatto quel che potevo prima di andare a scuola, e che si riguardasse, ché anche mio padre era a letto con la febbre. Però la signora era uscita con la pala del marito (grossa il doppio della mia), e ci teneva a darmi una mano. Abbiamo pulito il nostro marciapiede, e anche quello della vicina anziana, che ha una badante simpatica che spazza sempre le foglie anche per noi. La mia è una città minuscola dove le foglie cadono tutto l’anno, tranne quando nevica.
Tutto intorno strade e marciapiedi erano in uno stato disastroso, ma d’altro canto aveva fioccato tutta la notte, non si poteva pretendere. In un qualche modo ho raggiunto la scuola: verso la fine delle lezioni il bidello è venuto ad avvisarci che la scuola avrebbe chiuso per due giorni. Nel giubilo generale, ho raddoppiato i compiti e ho ricordato a tutti di aiutare i genitori con le faccende, anche spalando il cortile se necessario. Poi sono tornato a casa anch’io. La strada era ancora una lastra di ghiaccio, ma non mi stupiva. Il Comune fa quel che può. A sorprendermi sono stati i marciapiedi: quasi tutti avevano ancora le orme che ci avevo lasciato al mattino. Ho dovuto camminare sulla rotta incerta delle automobili, finché non ho trovato l’unico marciapiede un po’ decente, che era quello che avevo spazzato io (ho scoperto poi che la badante della mia vicina aveva dato una ripassata). Ho pensato che in fondo erano passate poche ore, e la maggior parte dei bravi cittadini non aveva semplicemente avuto il tempo di spalare: erano al lavoro, o bloccati nel traffico da qualche parte. Sono salito, ho dato un’occhiata a internet. Foto di neve un po’ dappertutto.
Internet è l’unico vero contatto che conservo con la gente della mia età. Al lavoro ho a che fare con preadolescenti e con colleghi un po’ più avanti con gli anni (tranne i precari che di solito hanno fretta). Su internet invece sapete come va, uno anche se non vuole finisce per trovarsi le compagnie che merita. Le persone che trovo sui social network fanno parte della mia generazione. La generazione che mercoledì avrebbe dovuto prendere la pala e pulire almeno il marciapiede, un lavoretto di mezz’ora: invece stavano pubblicando le foto su Instagram. Non è che voglio fare del moralismo, anche se mi viene spontaneo. Però dopo due giorni di bufera, stasera, guardando i marciapiedi intorno al mio ancora coperti da quella che ormai è una lastra di ghiaccio dura, pericolosa per i bambini e per gli anziani… mi è venuta rabbia, certo, per aver sudato inutilmente: a cosa serve un marciapiede pulito in un angolo, se prima e dopo il ghiaccio invade tutto? Ma sotto la rabbia c’è il panico. Fino a qualche anno fa sapevo che ai marciapiedi ci avrebbe sempre pensato qualche pensionato che non chiedeva meglio che mostrarsi utile. Quella generazione ormai si vede che non ce la fa più, è a letto con la febbre e ne ha il diritto: e noi?
La mia generazione, quella che chiede a gran voce di ereditare il mondo e per carità, giustamente, di fronte alle banali difficoltà di una bufera di neve, reagisce come se fosse di nuovo l’Ottantasei: andiamo a giocare e a farci le foto. Io a dire il vero l’Ottantasei me lo ricordo proprio perché per la prima volta i miei mi diedero una pala in mano: niente di speciale, forse una mezz’ora, e poi facemmo anche noi il pupazzo di neve: però ricordo meglio la pala, era il segno tangibile (e pesante) che stavo crescendo, e che ci si aspettava che facessi anch’io qualcosa.
Poi magari mi sto rincoglionendo: magari è un problema della mia città minuscola, o del mio quartiere, magari a due isolati da qui c’è una strada coi marciapiedi perfetti, puliti da trentenni responsabili. Magari avrei dovuto scrivere un pezzo su Monti, o su Renzi. Volevo però spiegare che la mia sfiducia nei confronti dei miei coetanei non ha a che vedere con Renzi. È una cosa che mi viene da più lontano, e si nutre di tante delusioni quotidiane, come uscire di casa e trovare il ghiaccio sui marciapiedi. Qualcuno si farà male. Daranno la colpa al Comune. http://leonardo.blogspot.com
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Morte e Liberazione

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Scava Ferruccio

Con questa vanga, che mi lasciò il povero padre, insieme a un’affittanza e due sorelle da maritare, ora tu scavi, Ferruccio.

Non sai come si fa, ma non mi dire. L’avrai ben visto un giorno un contadino. Si calca il tallone sul pedale e si taglia la terra, zac, un colpo netto, come la gola dei republicanos. Ma te neanche lo sai cos’è un republicanos, Ferruccio, vero? e allora scava.

Ché non sai niente della vita che hai fatto vivere agli altri, non sai niente della morte. Quando m’hai mandato volontario in Spagna, e avevo appena smesso i calzoncini; ad ammazzare contadini come mio padre m’hai mandato: e allora scava, adesso, Ferruccio.

Non ti far fretta, io non ne ho.

Ma t’han da venire le sfioppole alle mani. T’han da venire i calli. T’han da venire le mani da contadino, Ferruccio, che non ti son venute in quarant’anni; le mani di mio padre e di mio nonno, scava, scava. Ma le mani che mi son venute in Affrica, a scavar fosse di negri che non m’avevan fatto niente, le mani d’assassino, le vedi? Per queste non c’è sapone, non c’è sego né lisciva. Queste mani che mi pulsano di notte, quando tutto tace e loro suonano il tamburo, un problema di circolazione dice il dottore, sì, te lo dico io qual è il problema. Son le gole dei republicanos che ho vangato con la baionetta, nella Mancia, e intanto pensavo: sarò dannato, ma almeno le mie sorelle sono a posto. Pensavo, c’è Ferruccio che ci pensa. Bravo Ferruccio. Scava. Scava.

Io che avevo appena smesso i calzoncini perché mi era morto il padre, e quel che mi lasciava era una vanga e due sorelle senza dote. E mi dicesti di andar via tranquillo, ché ci avrebbe pensato il fascio alle sorelle, ma che partire volontario bisognava. Ché le mie sorelle sarebbero rimaste putte sennò, per via che nessuno si voleva portare in casa le figlie di un socialista, e io non capivo, cos’era questo socialismo, una malattia? Se mio padre se l’era presa da giovane, non me l’aveva mai detto, non parlava di politica con me, non parlava di niente. Ho imparato a parlare da per me, Ferruccio, e adesso tu mi ascolti. Mentre scavi.

Quando mi dicesti che ci avrebbe pensato il fascio, che ci avresti pensato tu alla Pace e all’Evelina, Ferruccio. E la Pace ch’era del Diciotto me l’hai lasciata morire di tbc, è così che ci hai pensato. E l’Evelina intanto mi scriveva del moroso, ma che in dote la vanga di papà non gli bastava, e senti, Ferruccio, ma secondo te io non me lo son mai chiesto chi gliele scriveva quelle belle letterine all’Evelina, che non sapeva nemmeno tenere il pennino tra le dita, il parroco gliele scriveva? E al parroco chi gliele dettava? Io che dalla Spagna non ero ancora venuto a casa, e lei che mi scriveva di ripartire in Affrica volontario – l’Evelina! Che quando ero partito si faceva ancora le trecce, e ora mi scriveva del moroso che non l’avrebbe sposata, del disonore, della pancia che le cresceva, Ferruccio! Chi gliele dettava quelle belle letterine! E tu credi che non ho avuto il tempo per pensarci, mentre montavo la guardia sotto l’Ambaradam?

E quando son tornato e ho trovato Evelina zitella, che te l’eri presa in casa come serva; e la trattavi da puttana; e il bambino lo avevi dato ai preti; è stato allora che ho chiesto io di andare in Albania, perché altrimenti v’ammazzavo tutti e due con queste mani: e piuttosto sono andato ad ammazzar dei greci che non m’avevan fatto niente, neanche socialisti erano. Adesso però scavi, Ferruccio.

T’ha da venire il mal di schiena di mio padre; quello lo ha ucciso, altro che il socialismo. T’ha da gelarti il sudore in fronte mentre scavi - e mi dispiace, te lo devo dire, non aver più la forza che ho lasciato in Grecia, perché ti strozzerei, Ferruccio, ti tirerei il collo come al tacchino che sei, che è la fine che ti meriti, ti staccherei la testa a morsi dalla rabbia che m’hai fatto venire, e non sai quanti fantaccini si son presi i ceffoni che volevo dare a te; ma adesso intanto scava, che t’ho da seppellire.

Scava più a fondo, Ferruccio, che devi entrarci te e la tua casa del fascio tutta intera, col capoccione in bronzo. Sai che per quanto scavi non la farai mai grossa come quella che mi sono fatto io, dalla Mancia all’Epiro passando per il Tembien, una fossa grande mezzo mondo ho scavato, per gente che non m’aveva fatto niente, e guarda quel che m’hai fatto tu. T’ammazzassi dieci volte, non sarebbero abbastanza.

Hai scavato?

E allora adesso ascolta. Tu sei morto. Se hai documenti con te, buttali dentro. Poi prendi quella terra, e riempi la buca. Tienti per morto, Ferruccio, e seppellisciti da solo, ché di fosse io ne ho riempite già abbastanza. Hai da colmarla bene, che nessuno ha da sapere dove sei finito. Nessun bambino ha da inciamparci mentre gioca a nascondersi.

Poi prendi la sacca, arrangiati con le carte che ci son dentro. Va’ in montagna dai ribelli, di’ che sei un soldato del re, già di stanza nei Balcani. Di’ che il tuo plotone s’è sbandato a Bologna, che i repubblichini ti volevan metter la camicia nera, che ti sei rifiutato. Fagli veder le mani. Racconta che i miliziani ti volevano ammazzare, e sei scappato. Di’ quel che ti pare, hai sempre saputo raccontarle. Così quando se Dio vuole arrivan gli americani, te sei a posto. E se t’ammazzan prima, ti faranno pure il monumento, Ferruccio, il monumento al martire, ci pensi.

Ma se non t’ammazzano, come non t’ho ammazzato io, tu quando discendi con gli americani hai da tirar tuo figlio fuori dal convento; e mia sorella fuori dal bordello, che è la tua famiglia, Ferruccio, non la mia. Ché un bambino non saprei tirarlo su, son cresciuto ammazzando e solo ad ammazzare son buono ormai.

E se Evelina te lo chiede, sono morto in Albania.

(Schegge di Liberazione è una fantastica iniziativa messa in piedi da Barabba che da due anni riesce a produrre un bel libro collettivo sulla festa che ci sta più a cuore, il 25. Questo pezzo è preso dall'ebook dell'anno scorso: quello di quest'anno probabilmente è più bello, ed esiste anche nella versione cartacea. Dovevamo presentarlo a Carpi oggi, ma c'è stata una disgrazia orribile. Buona Liberazione comunque).
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L'elzeviro con le foglie morte!

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Da morti è più facile

Hai un bel da dire che i tigli sporcano, fosse per te li taglieresti.
Io ho scelto questa casa mentre guardavo gli alberi. Non è che l'abbia scelta per gli alberi. Ma li stavo guardando. Il primo pensiero concreto fu il Bidone Aspiratutto per le foglie sul terrazzo. Mai comprato, per fortuna, era un pensiero concreto ma stupido. Ramazzare le foglie è rilassante.

Un tiglio è un albero fantastico, sporca più o meno nove mesi l'anno. Quando finisce coi fiori passa ai semi, gialli fetenti e appiccicosi; poi ci sono le piccole foglie dei semi, di difficile cattura; poi l'involucro del seme, una piccola biglia che cade di schianto, poc, fa il rumore della grandine... e senza accorgertene è già agosto e cominciano a cadere le foglie serie. Il resto dell'anno la resina cola sulle macchine parcheggiate, e se provi a tirarla via con un semplice autolavaggio, la carrozzeria sbiadisce. Il tiglio non è un animale da salotto.

Guardarlo ingiallire lentamente ti ripaga della fatica (non del mutuo).
Pensa solo a tutte le metafore che puoi tirarci fuori; ad esempio in febbraio i potatori lasciarono un rametto spezzato incastrato nella prima biforcazione. Quel ramo prima o poi sarebbe dovuto cadere, col vento, magari sul tuo parabrezza o sulla testa della vicina; ma si vede che il vento non spira mai nord-nord-ovest/sud-sud-est; che il ramo è troppo pesante o in un qualche modo è rimasto incastrato, fatto sta che è rimasto lì, sempre più nero, in mezzo al verde.

Non ti dico il fastidio.
Come il pezzetto di carne che ti resta tra i denti al ristorante, a mille chilometri dal filo interdentale che ti sei dimenticato di mettere in valigia. Uno poi fa finta di niente, così apre la finestra, aspira a pieni polmoni... e vede quello stecco conficcato tra i due rami, insomma, tutti i santi giorni, perché non cade? è insopportabile.

Lo vedi che non è la natura, sono io?
Che trovo dappertutto cose da non sopportare?
Possiedo un piumino anti-ragnatele telescopico, eredità del mio periodo-mansarda. Certe notti d'estate, dopo aver guardato bene che nessuno mi spiasse, estroflettevo l'ordigno come un gigantesco cotton-fioc, e dalla mia finestra cercavo di urtare lo stecco morto, di smuoverlo, di estrarlo, inutilmente. E' ancora lì, ma in autunno si nota meno (io però lo so che c'è, e mi offende).

L'altro tiglio ha un rametto spezzato, che è rimasto attaccato al suo ramo per un nonnulla, una scheggia di corteccia, un truciolo. Dev'essere stato il vento di marzo, perché il rametto aveva cominciato a mettere piccole foglie, già secche in aprile. Macchioline gialle in un gigante verde, ma le avevo davanti in primo piano, ogni volta che aprivo la finestra del salotto. Non mi davano fastidio come lo stecco morto, erano una sottile promessa d'autunno in primavera, memento mori e tutta questa serie di cose - e poi sarebbero cadute presto, credevo. Al primo vento.

La pianta poi ha messo foglie assai più grosse. E i fiori, e quei chicchi dei fiori che a calpestarli fanno il rumore della neve che scricchiola. Intanto quelle foglioline gialle erano sempre lì, sempre più grinzose, ma non cadevano. A fine agosto, quando tornammo, la prima finestra che aprii fu quella del soggiorno: le morte erano lì, come quelle vecchiette che resistono agli anni, le conosci da bambino e alla fine vengono al tuo funerale col rosario in mano - le foglioline morte erano lì. Vabbe', tanto ormai è autunno, pensavo.

Il tiglio non era dello stesso parere: fino a metà ottobre si atteggiò a sempreverde. Poi, profittando di qualche acquazzone, cominciò a spogliarsi, ma piano, piano, il mio lapdancer personale. Ogni volta che mi ritrovavo una foglia sul davanzale, andavo a vedere se non fosse una delle vecchiette, ma no: il rametto resisteva. E aveva messo una tinta diversa da tutte le altre, un marrone deciso che irrideva il giallino smorto delle compagne cascanti. Sta' a vedere che restano lì, mi sono detto.

Ed è stato così. Novembre ha portato le piogge vere; il vento invece non è che si presenti spesso qui da noi. Le foglie se ne sono andate, lasciando quei nudi artigli neri che fanno gestacci al cielo. Oggi in terrazzo ramazzerò forse per l'ultima volta. Tra un po' magari tornerò a spalare la neve. Intanto quelle foglie sono ancora lì, appese al loro rametto mezzo amputato, che mi fa un cenno ogni volta che apro la finestra. Le prime a morire, le ultime ad andarsene.

Attenta che adesso scatta la metafora.
Sei pronta?

No, niente. E' che davvero quella foglia che si ostina, che non cede, non si arrende, che non le interessa; quella foglia che ha resistito più delle altre, perché tanto era morta tutto il tempo, e da morti è più facile, in fondo, sopravvivere; quella foglia a volte credo di essere io.
Tu magari entri, posi le chiavi, mi chiedi Come va? Sembri pensieroso, a cosa pensi?
Ti dico che va tutto bene, e che non stavo pensando a niente, guardavo le foglie.
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The Happy Birth of You (& me)

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Le Man Avec Les Lunettes è il nome di un gruppo che gode di una certa popolarità in Val Trompia, Svezia, Giappone, e in piazza Rodolfo Pio a Carpi. All'inizio era un duo, poi è diventata una piccola orchestra che suona l'indiepop meno fracassone e più raffinato che possiate sentire in giro. Il loro ultimo album, intitolato più o meno Plaskaplaskabombelibom, per un paio d'anni è stato il nostro privato Sgt. Pepper: ci ha accompagnato in tutti i luoghi e soprattutto in tutti i laghi, senza prendere mai polvere. Mezz'ora di scandalosa armonia. Però una mezz'ora passa in fretta, e in due anni ne sono passate davvero tante, e insomma quando arriva un disco nuovo?

Nel frattempo, voi che non li conoscete potete ascoltarvelo tutto in streaming, e un po' v'invidio. In giro per la rete ci sono decine di video, alcuni molto professionali, che tolgono ogni dubbio sulle qualità artistiche e le competenze tecniche dei componenti del progetto. In un qualche modo però mi sembra ineluttabile mostrarvi questo, dove la resa acustica non è un granché, ma si vede un angolino di Mattatoio e ci si diverte molto. Forse a causa di uno scambio di chitarre, o semplicemente perché suonare nei Le Man è divertente. Questo è il migliore giorno in cui vivere. Buon compleanno.

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Non è la fine del mondo, ma insomma

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Il giorno che aprì il Mattatoio, 22 giugno 2007, io misi persino un annuncio qui (troppo tardi per attirare qualcuno). Quel giorno ricordo che faceva un caldo da fine del mondo, e un mal di denti come mai più ne ho provati in vita mia. Entrando mi salutò un tipo tutto tatuato che poi scoprii Pernazza degli Ex Otago, ma lui invece per chi mi aveva preso? O salutava semplicemente tutti quelli che entravano? Il concerto era all'interno, ma non si riusciva a entrare dal caldo: i mattatoi di una volta li coibentavano per bene. In ogni caso il cocktail di aperitivi e antidolorifici mi stese alle nove di sera. Ogni tanto scanalando la notte tardi lo ritrovo, Pernazza, da Chiambretti, e ogni volta mi chiedo: ma per chi mi avevi preso? O ci salutavi proprio tutti?

Il Mattatoio è un dono di Dio che quando mi vide incidere un po' stanco nel mezzo del cammin di nostra vita decise che no, io avrei continuato a vedere concerti interessanti, a costo di apparire in sogno a dei pazzi e convincerli ad aprire un circolo arci indiepop che potessi raggiungere a piedi. In cinque minuti. Anche in bicicletta è comodissimo, ma l'unico posto dove mi hanno fregato una bicicletta è la rastrelliera di fianco al Mattatoio. Ci ho visto i Fanfarlo e alla fine sono andato a chiedere se avessero un cd, mi dissero che ormai non si facevano più cd, bisognava andare sul loro myspace o una cosa del genere. Due anni dopo hanno suonato da Letterman. Ci ho visto Il Genio la sera della domenica in cui avevano suonato Pop Porno a Quelli che il calcio, passando da perfetti sconosciuti a potenziale tormentone del 2009: li ho visti proprio quella sera lì (forse l'unica sera in cui valesse la pena vedere Il Genio). A volte abbiamo visto un po' e poi ce ne siamo andati, tanto non si pagava: come quando Le Luci Della Centrale Elettrica fecero il pieno e già le ragazze in prima fila sapevano i testi a memoria, o quella notte in cui resistemmo per poche canzone alla visione dei Krisma, appena appena scongelati, giusto il tempo di prenderci l'influenza a capodanno.
Invece Pelle Carlberg meritava. Gli abbiamo chiesto un bis, e lui ha cantato Grace Kelly di Mika. Ho visto gente che non mi ricordo più come si chiama, svedesi intonatissimi con organetti ukulele e poco altro. Ho rivisto Soda Fountain Rag che non aveva capito cosa avessi scritto su di lei (e non credo di averglielo spiegato). Ho persino comprato un cd dei Pip Carter Lighter Maker, non so come sia stato possibile, ma quella sera avevano reso San Francisco un concetto plausibile a Carpi.
Ho visto i Lomas, e cantato che Carpi è Un Posto Come Tutti Gli Altri: E Sei Tu Che Hai Problemi, Non Loro. Ho visto i Leggins, gli Heike Has The Giggles (mi allungarono un cd grezzo, senza nemmeno i nomi dei pezzi) e i Trabant, bravissimi questi ultimi, ma prima del concerto una ragazzina al bancone mi aveva spalancato la porta della crisi di mezza età chiedendomi:

Era la tastierista dei Trabant. Decisi che tanto valeva prendere la vecchiaia di petto, quindi non avrei mai più ballato in pubblico in vita mia, mai più, fine, solo di nascosto il piedino, no, neanche quello, finché una sera non vennero gli Still Flyin' e quella sera veramente il piedino non riusciva a tenerlo nessuno, e guardate che non è mai stato un posto facile per ballare il Mattatoio, e invece quella sera andammo avanti fino all'alba con Max che ci fece la storia del ballabile da Phil Spector ai MGMT.
Ma i più bravi di tutti, posso dirlo? Restano Le Man Avec Les Lunettes. Sarà che ormai ci si sentivano a casa, ma un gruppo dal tocco così delicato, dal vivo, non l'ho sentito mai. La gente arriva senza averne mai sentito parlare e dopo tre canzoni tira fuori paragoni coi Beatles, senza pudore, perché questo ti fanno i LMALL.  Ti vien voglia di rompere il violoncello in testa a qualsiasi altra violoncellista di gruppo pop, sciocca, perché non suoni bene come i Le Man Avec Les Lunettes?
Al Mattatoio ho trovato un solo ex alunno, per ora. In generale ci andavamo a comprare cd di artisti sconosciuti, come ci piace pensare di essere anche noi del resto. Ancora di recente i Record's e i Gloria Cycles: dovevano venirci davvero in casa perché ci accorgessimo di loro. Al Mattatoio stavo quasi per leggere un racconto sulla Resistenza la sera di Schegge di Liberazione, poi Many giustamente mi sostituì con quelli che si erano fatti centinaia di chilometri per leggere il loro racconto sulla Resistenza. Io ero venuto a piedi, nei soliti cinque minuti.

E adesso le centinaia di chilometri toccheranno a me. Il Mattatoio chiude. Mi dispiace. Immagino che avrei potuto fare qualcosa di più, bere più birre, invitare più gente, non lo so. Arrivo sempre troppo tardi, anche con questo pezzo. Quanti bei concerti mi son visto, quanta musica necessaria mi son portato a casa. Quanta fortuna non mi stavo meritando.
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L'ultima metafora

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La proiezione del Castello

La maggior parte di questo decennio l'ho passata in una città minuscola con una piazza immensa. E il bilancio, devo dire, è positivo. I servizi sono abbastanza buoni, la gente non me l'aspettavo migliore né peggiore, e la piazza, cosa vuoi mai. I bambini dicono che è la più grande del mondo. Crescendo si correggono: è la più grande d'Italia. Gli adulti han l'aria di saperla lunga, è la seconda o terza piazza più lunga di una classifica che sta nelle loro teste, allestita da una giuria qualificata di Misuratori Di Piazze (me li immagino in giro per le periferie con chilometri di spago graduato). Ma insomma è il vanto della città, il suo biglietto da visita: ovunque nel mondo noi diremo di venire dalla città con la Piazza più Grande, perché tutti sanno che la nostra è la città con la Piazza Più Grande, no? Alle Maldive di sicuro lo sanno tutti (cameriere bagnini e personale di servizio), e il resto del mondo, beh, il resto del mondo s'arrangerà. Non sanno che si perdono.

È così grande che un giorno volle affacciarvisi anche Sua Santità, no, non il tizio di adesso, Sua Santità quello vero, Wojtyla: e pare che ai fedeli dicesse una cosa del tipo: “Ehi, certo che avete proprio una gran piazza”. Non so se mi sono spiegato, Karol Wojtyla: mica un pastore itinerante, stiamo parlando del più grande affacciatore di piazze della Storia – anche se ogni tanto il dubbio il dubbio viene che lo dicesse in tutte le piazze, come le rockstar che imparano a memoria Ciao Milano State Bene? Siete Caldi? Anchio.

Come si sta nei pressi della Piazza Più Grande del... boh, cosa volete che vi dica, di giorno è molto comoda in bicicletta. Non valgono più le regole stradali, gli angusti limiti imposti dalle piste ciclabili: quando sbuchi lì, sei come una vela nel mare aperto. Fiuti una direzione, tracci una rotta, e via. Se hai buona vista puoi scansare agevolmente le persone che vuoi evitare, il che mi sarebbe molto utile, se in questo decennio avessi già conosciuto qualcuno abbastanza bene da volerlo evitare. Ma sono così timido.

Questa piazza enorme ha i suoi lati oscuri, che nessuno ha il coraggio di mostrare, e allora sarò io, proprio io, a rompere l'omertà. La semplice verità è che non è nata piazza, ma fossato: lo spazio tra il castello dei signori e le case dei borghesi. Ci furono poi vicende alterne, signori nella polvere e borghesi sugli altari, e poi a colmare il vuoto guerre e monumenti e lapidi ai caduti... eppure lo spettro del Fossato è lì, e per sentirlo basta distrarsi un momento dalle luci e dal benessere – il che non è poi così difficile, quando scende la sera e la Piazza Più Grande si rivela Inilluminabile. L'amministrazione fa quel che può, ma lì dentro ci staranno quattro o cinque campi da calcio, e i riflettori costano. La cittadinanza allora s'arrangia e si assiepa lungo i bordi, tanto in mezzo in fin dei conti non c'è niente.

Il vero problema è tra Natale e Capodanno: quando tutto deve brillare, sbirluccicare, glitterare, ma come accidenti fai a illuminare sei campi da calcio con niente di niente in mezzo? No, ma mettetevi nei commercianti: come fai a raccontare di essere un'oasi del benessere, al sicuro dalla crisi, dal terrorismo, dalle polveri sottili, in questa prateria? che se poi magari nevica diventa la banchisa polare? Ci voleva un'idea, un'idea geniale.

Non è venuta a nessuno.
(Non è un paese di geni, bisogna dirlo).

Invece, da qualche anno a questa parte, qualcuno ha escogitato questa cosa che vado a spiegarvi. Non so chi sia stato, se un commerciante o un amministratore, e neanche voglio saperlo, a dir la verità. Questa... questa creatura, sì, anche lui è una creatura del buon Dio, ha pensato: ok, abbiamo una piazza enorme, vuota e oscura. Da una parte i negozi, dall'altra un Castello con il museo dei deportati della Shoah e altre amenità. È chiaro che più di tanto non lo puoi glitterare, il Castello. Nemmeno puoi appenderci quei Babbi Natale che vanno di moda, perché comunque la facciata è bella grande, ce ne vorrebbero centinaia, e sembrerebbero i Marines che espugnano Alcatraz. Però questo enorme spazio vuoto e piatto, questo... questo schermo, sì... potremmo usarlo per proiettarci qualcosa. Cosa? Beh, è Natale, no? La festa del... commercio, no? E quindi qual è l'anima del Natale? E dai, è facile, su, qual è? La pub-bli-ci-tà! Dei negozi del Centro! Proiettata sul mastio del Castello in formato gigante! Adesso sì che è Natale! (nel caso i razzetti cinesi dei tamarri, i razzetti tamarri dei cinesi, e la filodiffusione di Jingle Bells sotto i portici vi avesse lasciato margini di dubbio).

Però non bisogna essere ingiusti coi miei compaesani. Loro lo sanno che il Natale non è solo comprare Articoli Sportivi da Bargigli e Figli Srl. Lo sanno che la loro è anche una città di arte e di cultura. Così, ogni cinque o sei slide, ne proiettano una che mostra le bellezze della nostra città. Che di bellezze, ahem, non è che ne abbia molte. In verità ne ha una sola: la piazza, col Castello. E quindi proiettano quella: sulla facciata del Castello. Pensateci bene: il Castello è bello, ma dobbiamo usarlo per proiettarci un po' di pubblicità natalizia; però tra uno spot e l'altro, per ricordarci che il Castello è bello, proiettiamo la facciata del Castello... sulla facciata del Castello. Prevengo l'obiezione: non basterebbe spegnere il proiettore e guardare il Castello? No, perché se spegniamo non è più il bel Castello della pubblicità: è solo una quinta, un fondale, un muro che serve a proiettarci sopra belle cose. E questa è una metafora potente, secondo me è la metafora del Decennio – almeno, è l'ultima metafora che ho fatto in tempo a trovare.

Ora, non vi sembra un motivo necessario e sufficiente per venire a trascorrere almeno un pomeriggio qui da noi? Fa un freddo cane, e non si scia (è tutto piatto per chilometri e chilometri), però volete mettere l'emozione di recarvi in Piazza e vedere proiettato sul Castello l'immagine della Piazza col Castello, e diventare così le comparse di un'enorme installazione escheriana, perché probabilmente anche nella foto del castello proiettata sul castello c'è un immagine del castello proiettato; così come probabilmente noi stessi siamo le comparse di una foto tridimensionale del Castello proiettata intorno a noi, su di noi. Siamo oggetto e siamo fondale, siamo messaggio e siamo medium, siamo le parole per dire quanto siamo noi stessi, siamo i Più Grandi Del... perlomeno siamo in una lista delle persone Più Grandi Del... siamo noi stessi pensanti noi stessi, l'unica luce che glittera nel buio che incombe, nel profondo, nel Fossato che sempre pronto a spalancarsi (fai che non salti la luce).
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Beware de negher

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L'insicurezza percepita

“Signora, aspetti...”
“Ma che fa? Giù le mani!”
“Signora, volevo solo reggerle il portone...”
“Ah, ma è lei! Scusi, ma prima non l'avevo vista bene, mi ha fatto venire una paura...”
“Paura? Signora, paura di che? Sono le dieci del mattino”
“Ma lo sa anche lei, con tutti quei... con tutti quei negri che si vedono adesso nel quartiere...”
“Neri?”
“Ma sì... negri, neri... uguale... io non sono mica razzista, eh, però... cosa ci vuol fare, quando mi fissano mi mettono una paura...”
“Signora, ma non ci sono dei neri, qui”.
“Massì... negri, o marocchini... l'è uguale... sempre in giro dalla mattina alla sera... e mi guardano... cos'avranno da guardare una povera vecchia...”
“Di marocchini ce n'è uno al civico 12, e basta. Creda a me che faccio il postino”.
“Massì, se non sono marocchini saranno extra... albanesi, zingari... tutti uguali...”
“Rumeni. Rumeni ce ne sono tre famiglie all'angolo. Sembra gente tranquilla, eh. Però è vero che i ragazzini son sempre in giro”.
“E fanno una paura...”
“Specie adesso che la scuola è chiusa”.
“Con quelle bici, ti spuntano alle spalle, ti puntano la borsa... ne hanno preso uno un mese fa, c'era sul giornale, ma è possibile che non si possa star tranquilli a uscire per strada?”
“Signora, c'è una cosa che dovrei chiederle...”
“Speriamo adesso, col nuovo governo... mah... che poi tanto sono tutti uguali... parlano, parlano, e poi... ma sa cos'è! Che son tutti vecchi! Si truccano per sembrar dei giovanotti, ma son tutti dei vecchi cancheri come me! Mo quand'è che cominciano a dare un po' di potere ai giovani, eh...”
“Eh, signora, ci vuol pazienza”.
“Lei, per esempio, ma è possibile che un bravo ragazzo come lei stia ancora lì a fare il postino? Che si vede che è uno che ci sa fare, e poi è simpatico, aiuta anche la gente, ma almeno glielo rinnovano il contratto?”
“Vediamo, signora, è un trimestrale”.
“Ma a proposito, lei che è il postino, non è mica che ha una busta per me? Dalla banca? Sarà un mese che sto aspettando questa busta dalla banca...”
“Ecco, signora, volevo proprio parlarle di questo. È arrivata una comunicazione dall'ufficio, vede? Lo sa, che le devono spedire il bancomat”.
“Ecco, appunto, io stavo proprio aspettando il bancomat”.
“Però non le hanno fatto firmare per la praivasi”.
“Ma è una cosa grave?”
“Ma no, signora, non è niente, dovrebbe riempire questo formulario che mi hanno dato, vede? E farmi una firma qui”.
“Oddio, ma non ci ho mica gli occhiali!”
“Se vuole l'aiuto io. Serve nome, cognome, luogo di nascita...”
“Malavasi Neive, sei gennaio quaranta”.
“Codice fiscale...”
“Ma non me lo ricordo mica, povera me. Devo andare su a prenderlo?”
“Eh, signora, forse è meglio di sì. E già che c'è...”
“Sì?”
“L'è arrivato per caso il PIN del bancomat nuovo?”
“Certo, m'è arrivato la settimana scorsa, è per quello che cominciavo a stare un po' in ansia...”
“Ecco, dovrebbe darmi anche quello lì”.
“Come, le devo dare anche il pin? Ma non è una cosa segreta?”
“Signora, cosa vuole che le dica, è per la praivasi. Se vuole lo faccio scrivere a lei, e io non guardo neanche... vede? C'è scritto qui...”
“Va bene, va bene, adesso vado su e prendo il codice fiscale e il pin”.
“Vuole che l'accompagno?”
“Ma no, ma no, non si stia a disturbare... un bravo ragazzo come lei... chissà quante scale gli fanno fare in una mattina...”
“Non mi lamento, signora...”
“E invece dovrebbe! Dovrebbe! Che è una cosa che non riesco a capire, dei bravi ragazzi come voi a fare questi mestieracci, mentre in giro ci sono tutti questi negri che ti guardano, ti guardano, e a me fan tanta paura...”
“Ehm, signora...”
“Sì, sì, va bene, lo so che ha fretta, adesso salgo...”

Modena, 20 giugno 2008 - Un portalettere è stato arrestato dalla polizia postale di Modena poiché apriva le lettere contenenti la tessera bancomat che l'Unicredit aveva inviato ad alcuni clienti di Carpi.
L'uomo, un 35enne residente a Carpi, teneva per sé le tessere e modificava il contenuto del messaggio dell'istituto di credito prima di consegnare la missiva ai clienti, ai quali chiedeva di comunicargli il codice segreto 'pin' gia' in loro possesso prima che la carta magnetica venisse effettivamente recapitata.
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Lasciate che i morti

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Una via

Se dovessi dirvi che la cosa non mi preoccupa, mentirei. Si parla pur sempre di una strada, e io alle strade ci tengo.
Per esempio, non vorrei mai che fosse una di quelle contrade oscure, dove la notte a due passi dal centro il gufo echeggia che pare già jungla; e i pipistrelli sfrecciano sotto lampioni troppo alti o troppo fiochi o troppo pochi; e ogni portiera d'auto che sbatte, ogni tintinnio di chiavi ha un suono di minaccia. Strade dove ti trovi sempre per sbaglio, e non sai quale destra tenere, quale marciapiede seguire che comunque è tutto sconnesso, e a nessuno chiederesti la direzione, perché in quelle strade è una vergogna il solo perdersi, e ti è scuro in faccia anche l'ariano.

- Ma purché sia una strada verde, di rampicanti su tutti i cancelli; che gli inquilini di comune accordo abbiano smesso di chiuderli, perché l'edera ne soffriva troppo;
- e non silenziosa, ma come larvata di mille rumori sempre diversi, e mai molesti; all'alba l'allodola, il grillo al tramonto, qualche auto ma rara, col ronzio del metano e come a punta di ruota;
- allora il rumore più sgradevole sarebbe il tintinnio compunto dei ciclisti sulla ciclabile, che si sa, appena gli dai una striscia di terra per quanto sottile credono di poterci stare soltanto loro e no, no, no, nessuna metafora politica stavolta;
- e grida di bambini, quelle sì! Moleste alle orecchie dei vegliardi, che se ne migrino in centro o in provincia o altrove, vecchi di merda! Che possiate in questa sola strada d'Italia, in barba ai dati Istat, esser ridotti a minoranza;
- e purché vi sia un bar, all'angolo, pulito e caciarone, dove tutti sono benaccetti tranne i coglioni coi tatuaggi sui polpacci; ché qualsiasi fede politica e calcistica, una volta iniettata sottopelle, rimane coglionaggine e basta; ma dovevano spiegarvelo da piccoli. E purché vi sia una scuola poco distante, dove lo spieghino ai piccoli, che a voialtri grandi ormai è tempo perso; e ci vadano tutti quanti, chi a piedi chi in bici e chi in triciclo, senza tema di essere vestiti diversi o di essere diversi sotto i vestiti;
- e un forno davanti a scuola, sana alternativa alle merendine. E un negozio di frutta e verdura, ma fresche e a prezzi onesti. E un'edicola, meglio se dirimpetto al bar, piccola ma ben fornita; e anche un bel wireless non guasterebbe: e panchine lungo tutto il marciapiede, meglio se all'ombra di siepi comprensive.

Purché sia una strada così, potrei anche sopportare di vederla chiamata Via Almirante. Anche se quel nome non mi piace, devo dir la verità.
Dacché m'immagino i bambini, che imparano l'indirizzo di casa quattro o cinque anni prima di saper leggere, prigionieri di infiniti qui-pro-quo: “Tu dove abiti?” “In via al Mirante!” “Ti aspettavo al parchetto del Mirante per provare il nuovo scivolo comunale e non ti sei fatta viva!” “La mia mamma ha cercato questo Mirante sul Tuttocittà, e non l'ha trovato!” “Tua madre minaccia la nostra amicizia! Tutto il mondo sa dov'è Il Mirante, c'è il forno che fa le sfogliatine più buone del mondo”. Ecc. ecc. Insomma, non la potreste semplicemente chiamare Via Mussolini, che è meno ambiguo e più riconoscibile? Nonché più onesto, dal momento che l'arzillo vecchietto in tutta la sua vita non ha fatto di notevole se non mantenere accesa la famosa fiaccola di cui nessuno sentiva l'esigenza tranne voi, ma lasciam stare: via Mussolini, un bel lastrone di marmo e non se ne parli più. E non credo vi nasceranno più fascisti per questo, credo. Anzi lo so per certo, vivendo e lavorando tra borghesi frustrati tutti più o meno battezzati tra una via Lenin e una via Marx. Come se i nomi contassero qualcosa più dei tatuaggi. Ma sono parole vuote, i nomi. Provate a ripetere il nome che t'è più caro venti volte, se vi serve l'esperienza empirica.

Se il nome avesse una qualche importanza, vivremmo tra torme di carducciani, e garibaldini, e persino i nino-bixiani sarebbero una minoranza sensibile. C'è un quartiere, sempre dalle mie parti, tutto di poeti latini; no, dico, sarebbe bello vederli affacciarsi in toga dai balconi di via P. Virgilio Marone lanciandosi epigrammi caustici, e distici lascivi. Questo ovviamente non accade: la gente non nasce dalle targhe. E se pure vi nascesse, per crescere dovrà sempre appoggiarsi alle inferriate della propria strada, e respirarne l'aria mentre allunga le radici sotto i suoi marciapiedi; così da una strada buia, chiusa o marcia potrà sempre nascere un fascista, fosse anche via Pertini; ma se mi fate una via come l'ho chiesta io, chiamatela pure Mussolini, o Hitler, o Gengis Khan: tutti i nomi più brutti che troverete sul libro di storia non sono che nomi di gente che è morta, che noia mai potranno dare ai vivi?

Ma se, viceversa, possono dare qualche soddisfazione ai morti, che nel 2008 si sprangano per un dibattito sulle foibe... insomma, lasciate che i morti s'intitolino le strade: se è il prezzo da pagare per un po' di spazio dove vivere in pace. Anche solo una strada.
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dal tuo amichevole superego di quartiere

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Sradicati

A volte mi capita di chiedermi se questa città non sia un po' troppo piccola.
Perché forse mantenere un po' le distanze mi gioverebbe; e anche se qui in realtà conosco poca gente, e ho un paio di amici sì e no, ormai lo spazio libero mi si è ristretto intorno; incrocio i miei alunni al parco e i loro genitori al supermarket, e tutti hanno capito dove abito; e non è lontano il momento in cui mi troverò magari in questo stesso locale con la musica che suona, i ragazzi che ballano e qualcuno mi dirà

“Buon anno prof”

Ecco, ci siamo.

“Si ricorda di me?”

No. Troppo grande per essere stato mai alunno. Troppo giovane per fare il genitore. E in generale troppo scuro per frequentare questo posto con profitto. L'indiepop è roba da ariani, non lo sai?

“Tre anni fa”.

2008-3 = L'anno delle serali. Aaaaah, ecco, adesso ti riconosco, come stai? Bene. I tuoi colleghi? Bene. I miei colleghi? Non c'è male. Ecc.

La conversazione si sta già avviando serenamente al termine, quando mi sorprende la terribile illuminazione.
Avete presente quel brutto momento in cui, dopo aver parlato per cinque minuti con una vostra amica, vi ricordate improvvisamente che suo padre/fratello/marito è stato ricoverato tre mesi fa con una grave malattia, e vi rendete conto che in ogni caso dopo cinque minuti è troppo tardi per entrare nell'argomento, e che ormai lei ha concluso che siete dei maledetti insensibili, e stanno proseguendo la conversazione solo per educazione, dopodiché vi eliminerà dalla rubrica e scorderà ogni storiella divertente su di voi? Ecco, a questo punto mi viene in mente che il ragazzo viene da una nazione che è stata sulle prime pagine dei giornali con notizie tragiche per quindici giorni, e sicuramente laggiù ha amici e mezza famiglia, e che sono veramente un mostro a non essere entrato in argomento, e probabilmente lui sta pensando esattamente la stessa cosa, e...

“Senti, e... in Pakistan? Tutto... tutto bene?”
“Mah, niente”.
“Ma avrai qualcuno della famiglia?”
“Non so niente, prof”.
“Perché hanno oscurato le parabole, vero?”
“Non so niente, non mi frega niente, cazzi loro”.
“Ah, ok”.

(Musica. Io penso al Vangelo, chi è mia madre, chi è mio fratello, ecc.)

“Io ormai sono qui, e mi vivo la mia vita. Faccio male?”
“Sei qui da parecchio?”
“Dieci anni che sono andato via da là. Prima in Inghilterra, poi qui”.
“Prima in Inghilterra? E poi qui?”
“Sì”.
“Ma scusa, non stavi meglio in Inghilterra?”
“Troppi asiatici”.
“Ah”.

(Musica. Penso all'odore di un miliardo di cinesi che cucinano nello stesso fuso orario).

“Ma senti, no, scusa, sei asiatico anche tu, no? Come fai a dire...”
“Dove ci sono gli asiatici c'è casino, io non ne voglio sapere niente, si sta meglio qui”.

(Musica. Penso alla fuga dei cervelli).

“Gli asiatici stanno sempre tra loro, non mi piace. Io sto bene qui, ho due o tre amici, li vedo e sono a posto. Faccio male?”
“No, no”.

(Musica. Le ragazze ballano, le frangette oscillanti a tempo. I ragazzi guardano le ragazze. Qualcuno beve, qualcun altro intrallazza, nessuno si fa tentare da un dibattito sul Pakistan. Sono cose che possono accadere solo a me. Te l'immagini qualcuno al mio posto? No, appunto. Solo a me. Cosa c'è che non va in me?)

“Non è che posso sempre preoccuparmi degli altri. Qui ho la mia vita, lavoro, esco, sto bene. Così. Faccio male?”
“No, no. Allora ci vediamo”.
“Ci vediamo eh, prof? Ma lei come si chiama?”

Mi chiamo Leonardo, e faccio il supplente. Non è un mestiere, è un destino.
Giro per questa piccola città, e ogni volta che avverto una mancanza di qualcosa o qualcuno, io supplisco. Stasera per esempio supplisco alla tua coscienza.
Mentre vado via posso sentirti, che continui a chiedere al muro: “Faccio male?”
E poi allo specchietto retrovisore, nella nebbia, fino a Medolla (guida piano!): “Faccio male?”
E più tardi ancora, al tuo soffitto: “Faccio male?”
Ma non posso stare tutta notte a dirti: No, No, No. Sono solo un supplente. Nessun dio – né il tuo né il mio – mi pagherà mai abbastanza.
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e manco mi pagano

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Domenica provano a riaprire il Mattatoio (già Mattatoyo, quando andavano di moda le Y), in via Rodolfo Pio 4 a Carpi, antico luogo deputato all'assassinio di suini di cui noi indigeni andiamo ghiotti, in era postmoderna riconvertito in locale Arci fighettoide ma mai abbastanza per decollare. E cos'ha stavolta di diverso, direte voi?
Per esempio c'è Enzo in cartellone (c'è anche Anais). C'è il personale dello juta cafe'.
E c'è anche il concerto degli Ex-Otago.
Io avrei migliaia di cose più interessanti da fare a Carps la domenica, figuratevi. Invece ci vado.
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edizione straordinaria

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Qui da noi è morto un cinese.
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Memoria di Ferro

“Be’, quando girava “La caduta degli dei”, Luchino Visconti raccontava un aneddoto non so quanto significativo, ma certamente inquietante. Per la scena della “notte dei lunghi coltelli”, […], aveva assunto un nutrito gruppo di giovani bavaresi locali. Era già in atto quella specie di unificazione antropologica dei giovani di tutto il mondo, e anche questi erano dei giovani qualsiasi: blue jeans, capelli lunghi, andatura dinoccolata. Visconti temeva di avere il suo da fare per farne delle SS attendibili, ma si sbagliava. Con i capelli tagliati e le divise indosso si comportarono istintivamente come il regista voleva… O forse no, non era istinto, era semplicemente immedesimazione. Ma attenti: la sera, finite le riprese, questi giovani le divise non se le toglievano. Il paese in cui si girava risuonava di stivali in marcia, di sbattere di tacchi, di ordini sbraitati. Insomma, gli piaceva.

Ferruccio Alessandri, Introduzione a Ray Bradbury, Molto dopo mezzanotte, Oscar Mondatori 1979

La Giornata della Memoria, secondo me, è un’ottima idea: e credo che molti studenti della scuola dell’obbligo siano d’accordo con me.
Quando la facevo io, la scuola dell’obbligo, la Giornata non esisteva, e spesso in terza media non si arrivava a parlare del fascismo, figurarsi la seconda guerra mondiale. Insomma, c’era una certa ignoranza. C’erano anche diverse svastiche incise sui banchi. La maggior parte dei loro autori – parlo della mia scuola di provincia – non avevano un’idea precisa di cosa quelle svastiche significassero. Erano vagamente associate a gruppi punk e atteggiamenti riprovevoli e proibiti. Ma per esempio, il mio compagno G., che in quarta elementare riempiva fogli su fogli di svastiche con un pennarello nero, non avrebbe ascoltato i Sex Pistols per altri dieci anni. Era già in grado però di apprezzare l’eleganza del simbolo, perfettamente radiale e simmetrico. Non a caso ha affascinato l’uomo da millenni, sin da antiche incisioni rupestri in cui rappresenta il ciclo del sole. Karl Gustav Jung, se fosse venuto a trovarci, avrebbe magari sostenuto che G. disegnava svastiche a ripetizione per esprimere l’insorgenza degli archetipi dell’inconscio collettivo (e Jung infatti curava i suoi pazienti facendo loro dipingere dei mandala, e guardacaso i mandala sono diagrammi circolari, proprio come le prime svastiche). Ma non si è mai presentato, Karl Gustav, e noi abbiamo dovuto arrangiarci da soli, col nostro inconscio collettivo e i nostri archetipi.

(Ancora adesso, quando mi capita di scribacchiare al telefono, sto molto attento a evitare che una serie di figure astratte non possa essere interpretata come una svastica. La svastica è un tabù grafico).

Anni dopo per ragioni di lavoro mi sono rimesso a bazzicare le scuole dell’obbligo, e una delle prime novità che ho scoperto è stata la Giornata della Memoria. Non vogliatemene se vi dico che di solito è sempre una bella giornata. Io ho sempre amato la Storia, e volentieri da bambino avrei sacrificato tutte le ore di scienze e persino di educazione fisica per qualche documentario in bianco e nero. Ma oggi si può fare di più. Quest’anno dove lavoro io, le terze si sono trasferite in un cinema per la proiezione de La Vita è Bella. L’anno scorso abbiamo visto Il Grande Dittatore. (Immagino che scuole un po’ più ambiziose provino con Schindler’s List). Due anni fa stavo in una scuola che, per ragioni topografiche, era praticamente forzata a mandare i propri studenti al Museo del Deportato e al Campo di Concentramento di Fossoli almeno una volta all’anno. Una visita a Fossoli non è quel tipo di esperienza che definirei “piacevole”, ma sono convinto che qualsiasi studente tra gli undici e i quattordici anni la preferisca alle solite cinque ore di educazione tecnica, matematica italiano e religione.

La scuola dell’obbligo non è il paradiso, e molto di quello che ci impari è destinato a scorrere via: ma non c’è dubbio che i ragazzini di oggi escano fuori con una nozione molto più precisa della Shoah, grazie anche e soprattutto alla Giornata della Memoria. E allora la domanda è: hanno smesso di incidere svastiche sui banchi?
Non lo so, bisognerebbe indagare su un campione di scuole in un dato numero di anni. Quello che però che mi sento di affermare è: chi disegna una svastica, o una celtica, su uno zainetto, oggi probabilmente sa che quel segno non è soltanto un piacevole e trasgressivo motivo ornamentale. E questo grazie alla Giornata della Memoria. Però non sono del tutto sicuro che questa sia una buona cosa.

Coi ragazzini basta così, veniamo agli adulti. Se come me continuate ad amare i documentari storici, ieri avete avuto l’occasione di farne una scorpacciata. E ora che siete satolli – e forse anche un po’ saturi – ditemi: siete sicuri che questo vostro gusto sia del tutto sano?
Ci si lamenta spesso che i palinsesti televisivi non lascino molto spazio alla storia e alla cultura. Però si tende a sopravvalutare certi cosiddetti ‘fenomeni di costume’ che durano cinque o sei stagioni e si conquistano lo share con un costante bombardamento mediatico. Lo zoccolo duro dei telespettatori, secondo me, è quello che guarda da decenni gli stessi programmi più o meno nelle stesse fasce orarie. Le telenovele. I telefilm. I documentari sugli animali. I documentari sul fascismo. Se ci fate caso, li programmano abbastanza spesso. Ce n’è uno, “Mussolini. Ascesa e caduta di un dittatore”, che mi sembra sia passato e ripassato infinite volte.
È chiaro che si tratta di riempire in modo conveniente un palinsesto. Però ci sono tanti documentari storici: perché alla fine ti mostrano sempre nazisti e fascisti? Ho il sospetto che quel tipo di documentari sia programmato spesso perché ai telespettatori piace di più. Io non credo molto all’auditel, ma di vhs su nazisti e fascisti ne ho trovate molte anche nelle edicole. Evidentemente c’è chi le compra.

Ora, io non mi sogno di sostenere che gli italiani a una certa ora della notte amino guardare le immagini di Mussolini sul balcone più dei film di Franco Franchi e Ciccio e Ingrassia: però di sicuro preferiscono i discorsi del Puzzone ai documentari su Garibaldi, Mazzini, Giolitti, De Gasperi, Togliatti, Aldo Moro. Evidentemente il Puzzone ci interessa di più. Non significa che ci piace. Ma con le sue pause, le sue boccacce assurde, i suoi costumi strampalati… possiamo dire che ci affascina un po’? Lo stesso per il suo amico baffetto. I tedeschi che marciano a passo dell’oca hanno qualcosa di sinistro e seducente. Gli “stivali in marcia, lo sbattere di tacchi, gli ordini sbraitati”: è tutto così… fotogenico. Mussolini diceva che la “Cinematografia è l’arma più forte”. Ci sarà stato un motivo. I nazisti inventarono il televisore. Ci sarà stato un motivo.

Si è fatto tardi ed è ora di spegnere la tv ed andare a letto. Oggi abbiamo fatto il nostro dovere di cittadini, abbiamo ricordato la Shoah, e riguardato una serie d’immagini, molte delle quali conoscevamo già.
Domani sarà un altro giorno – ma cosa sarà restato, in noi, della Giornata della Memoria del 2004? Voglio sperare che domani nessuno ci sorprenda a marciare un po’ più marziali del solito – a trattare un sottoposto con qualche ordine secco in più. Abbiamo accettato che chi dimentica il passato è condannato a riviverlo. Resta da capire cosa succede a chi quel passato lo consuma tutti gli anni, magari seduto in poltrona, davanti all’ennesimo documentario o film di qualità. Io, per quel che vale il mio parere, non ho mai creduto molto in Karl Gustav Jung e nel suo inconscio collettivo. L’aneddoto di Visconti però mi dà i brividi. Può darsi che ci sia un nazista in ognuno di noi, che aspetta il momento buono per vestire una divisa: può darsi che la Giornata della Memoria sia quel che ci vuole per combatterlo; ma può anche darsi che diventi una strategia per solleticarlo ed eccitarlo, con qualche filmato in bianco e nero, qualche bella uniforme d’epoca, qualche racconto di brutalità e sopraffazione… Dipenderà molto da come la celebriamo, questa Giornata. Dipenderà da noi, come al solito.
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