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Tiranno Proletario

Ma questo tiranno efferato, Saddam Hussein, la cui ferocia poteva passare inosservata soltanto in un secolo sanguinoso come il XX, come ha cominciato? Dove ha fatto pratica?
Alla scuola elementare, ovvio. Come racconta Magdi Allam (preso dal volume La guerra di Bagdad de la Repubblica, ma è un estratto del suo libro, Saddam):

La sua maestra ha ricordato di essere rimasta impressionata dalla violenza sadica di Saddam: “Accendeva un fuoco con delle schegge di legno di palma, attorno a lui si raccoglievano gli allievi che marinavano la scuola. Saddam riscaldava la verga di ferro nel fuoco e, non appena vedeva passare un animale di soma, glielo infilzava sotto la pancia o nella parte posteriore”. Con quella verga Saddam si sentiva sicuro e potente.
Grazie alla prepotenza e alla forza bruta, Saddam si distinse precocemente come un piccolo boss locale. Era regolarmente attorniato da uno stuolo di bambini che obbedivano ai suoi ordini…


Il bullo della classe. Ma finché è alle elementari possiamo anche cercare di capirlo, il piccolo Saddam: è orfano di padre. Il compagno della madre, un capobanda detto il Bugiardo, lo considera un “figlio di cane”. Ha passato la prima infanzia in un villaggio di case d’argilla, a bruciare letame per scaldarsi e a rubare galline per mangiare. A dieci anni ha commesso il suo primo omicidio (la vittima è un pastore); quindi è fuggito dallo zio materno, un generale nazistoide che lo ha abbandonato dopo pochi mesi. Quella verga, l’attributo del potere, ha imparato a usarla per scacciare i cani randagi sul sentiero della scuola.

È un figlio (degenere) del popolo, Saddam Hussein, e non ha difficoltà a confessarlo: “Ero padre e madre di me stesso, Saddam era la mia sola famiglia”.
In che modo un ladruncolo di campagna è potuto diventare, in meno di quarant’anni, il tiranno assoluto di una nazione popolosa? Possiamo immaginare che abbia continuato ad agitare la verga di ferro davanti e dietro di sé, su tutti quelli che gli impicciavano il cammino.
Eppure, in un certo modo, la sua storia è la proiezione distorta del sogno democratico, quello che in America si bambini si racconta così: “Studia sodo, e forse un giorno diventerai presidente”. Anche un figlio del popolo, a prezzo di sforzi e sacrifici, può diventarlo. Anche Saddam Hussein, che non brillava negli studi, ma che “in quel periodo” ha imparato “la pazienza, la sopportazione e la fermezza per fronteggiare le prove della vita”.

Ora, uno dei problemi che ci lascia il Novecento, è appunto questo: che mai come in questo secolo i proletari e i borghesi piccoli piccoli hanno avuto la possibilità di prendere in mano le leve del comando. Ma proprio alcuni di questi proletari e di questi borghesi piccoli piccoli si sono rivelati i tiranni più efferati: l’artista squattrinato Adolf Hitler, il supplente Benito Mussolini, il seminarista Jozip Stalin. Forse anche Pol Pot e Kim Il Sung, e altri che non rammento. Gente che si è fatta da sé, che ha scalato la società dai piani più bassi fino alla cima. E che durante questa scalata ha maturato un profondo disprezzo per chi restava sotto: il genere umano.

Tutto questo, nelle democrazie consolidate, non accade più. Nelle democrazie di lunga data, per quanto si continui a consigliare ai bambini di studiare sodo, si riconosce ormai che la classe dirigente è una casta a parte: tanto che spesso i ministri e i presidenti sono figli di altri ministri e presidenti, e nessuno ci trova niente da ridire. Se fosse nato negli USA, Saddam Hussein molto difficilmente avrebbe proseguito a lungo la sua carriera di bullo di quartiere. La società lo avrebbe calmato subito, col Ritalin, o un po’ più tardi, con qualche droga più pesante.

Ed ecco allora due paradossi interessanti:
1) un pastore analfabeta aveva più chances di diventare Presidente nell’Iraq degli anni ’40 che negli USA di oggi. Ma...
2) ...un pastore analfabeta, se diventa Presidente, ha molte più chances di diventare un tiranno che non un figlio di papà cocainomane e alcolizzato.

Ho deciso di chiamarli Primo e Secondo Paradosso di Otis-Findlay, dal nome di due persone (John Hancock Otis e Anthony Findlay) che non sono mai esistite. Sono i titoli di due poesie di Edgar Lee Masters, due lapidi del cimitero di Spoon River. Siccome però è ormai chiaro a tutti che sono un bieco antiamericano, invece di propinarvi il testo originale, stasera li citerò nella traduzione della giovane Pivano:


John Hancock Otis

Quanto alla democrazia, concittadini,
sarete pronti ad ammettere
che io, erede d’un patrimonio, e nato in alto,
non ero secondo a nessuno in Spoon River
nella mia devozione alla causa della Libertà.
Mentre il mio coetaneo Findlay,
che nacque in una baracca e cominciò
come acquaiolo dei ferrovieri,
poi diventò ferroviere a sua volta
e poi capo-reparto, finché raggiunse
la sovraintendenza della Società,
e visse a Chicago,
fu un vero negriero e maltrattò i lavoratori,
un nemico mortale della democrazia.
E io ti dico, Spoon River,
e dico a te, Repubblica:
guardatevi dell’uomo che sale al potere
e una volta portava una sola bretella.



Anthony Findlay

Per tutti, per il paese e per l’uomo,
e per un paese così come per un uomo,
è meglio essere odiati che amati.
E se questo paese preferirebbe separarsi
Dall’alleanza di qualsiasi nazione
Piuttosto che cedere le sue ricchezze,
dico che per un uomo è peggio perdere
il denaro che gli amici.
E strappo la tendina che nasconde il segreto
di un’antica aspirazione:
quando la gente fa chiasso per la libertà
in realtà cerca di conseguire il dominio sui forti.
Io, Anthony Findlay, che giunsi a una tale grandezza
Da umile acquaiolo,
da poter dire a mille persone “Vieni”
e ad altre mille “Va’”,
sostengo che una nazione non potrà mai andar bene,
o fare del bene,
se il forte e il saggio non hanno una verga
da usare sugli stupidi e sui deboli

Quando la gente fa chiasso per la libertà / in realtà cerca di conseguire il dominio sui forti. Hmm. Forse anche Masters è diventato un antiamericano.
Non sai più di chi ti puoi fidare.
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Febbraio è un mese mite, a Bassora. Verso le sei, quando le ombre si allungano sul deserto, le microspie trasmettono ai satelliti il frinire delle cicale dell’Eufrate, e i sospiri di un uomo coi baffi, su un terrazzo che volge a meridione.
“Saddam, per l’ennesima volta, ti vuoi togliere da lì?”
“Bah…”
“Quante volte te l’ho detto, che c’è un satellite spia in orbita proprio sul patio? Ma tu mi ascolti quando parlo?”
“Lasciami perdere, Tareq. Per il satellite sono solo un uomo coi baffi, capirai. Apposta ho fatto crescere i baffi a tuttti gli iracheni…”
“Ma Capo, si può sapere cos’hai? Sembri distratto e scostante”.
“Ma no, è che certe volte uno si chiede: a che serve tutto questo? Non sarebbe meglio se non avessimo nemmeno cominciato?”
“Questo indubbiamente, tuttavia…”
”Sai, ieri sera ho visto qualcosa che mi ha fatto pensare… stavo guardando la tv italiana…”.
“Capo! Ma non ti vergogni? Non hai letto il Financial Times?”
“Beh, c’era un corteo a Roma, una manifestazione democratica, figurati, contro la guerra”.
“Ah, sì, ne ho sentito parlare. È una loro usanza”.
“Così pare. Beh, ho visto una cosa che mi ha fatto male, sul serio, mi ha colpito nel profondo. C’era una ragazzina – una poco di buono, hai presente il genere, capelli sciolti – con uno striscione: Saddam Vattene!"
“E te la prendi per così poco? Per lo striscione di una scostumata?”
“Lo so, ti sembrerà strano, ma… mi ha fatto pensare. Voglio dire: uno combatte la madre delle battaglie contro gli USA, per poi sentirsi dire da una qualsiasi pacifista: “Vattene”. Non è ingiusto? Io sono molto più antiamericano di tutti loro”.
“Capisco, però…”
“Per loro è comodo fare gli antiamericani. Vanno in corteo, saltano, ballano, tante grazie. Ma io? Altro che canti e balli. È da dieci anni che mando gente a morire contro gli americani. Credo che mi si dovrebbe usare più rispetto”.
“Sai com’è, questi europei…”
“Ok, d’accordo, non sono il Che, sono solo un vecchio coi baffi, ma almeno una maglietta potrebbero farmela. E invece mi fanno gli striscioni contro. Sono profondamente offeso”.
“Ma andiamo, Saddam…”
“Così sto pensando di dimettermi”.
“Eh?”
“Ma sì, sono stanco. Mollo tutto. Anzi, mi fai un favore? Mi chiami Putin è mi chiedi se è ancora valida quell’offerta per la dacia nel Caucaso…”
“Ma non vuoi pensarci su un momento?”
“Ci ho già pensato fin troppo. Quello striscione è stata l’ultima goccia. Basta. Non gioco più. Me ne vado”.

***

Perché i pacifisti italiani non scrivono anche Saddam vattene sui loro striscioni? Se lo chiedeva Adriano Sofri sulla Repubblica due domeniche fa. La proposta è rimbalzata qua e là, io qui dico la mia.
Rispetto chi vuole portare in corteo uno slogan del genere: Saddam Hussein è un pericoloso dittatore, e non ho nessuna simpatia per lui. Tuttavia.
Qui bisogna intenderci su cos’è una manifestazione. È un atto politico o è la manifestazione di un’identità?
Noi manifestiamo per cercare di cambiare le cose o soltanto per mostrare agli altri (e a noi stessi) le cose in cui crediamo?
A che serve scrivere su uno striscione “Saddam vattene?” Può uno striscione del genere influire in qualche modo sulle decisioni del dittatore iracheno? Mi sembra quantomeno improbabile.
E allora perché dovrei scrivere “Saddam vattene?” Per una questione di identità. Per annunciare agli altri (e a me stesso), che io sono anche contro di lui.
Ma in che senso sono contro? In che modo posso agire contro di lui pacificamente? Io sono solo un manifestante. La diplomazia della buonuscita – ammesso che sia una cosa seria – non spetta a me. Se Saddam Hussein si ritirerà da solo, ne sarò felice, ma il mio striscione non ha nessun potere di cambiare le cose. È cartone sprecato.
Di più. Potrebbe essere un sottile espediente per sgravarmi la coscienza. Ma io non voglio sgravarmela.

Ora che la Terza Guerra Mondiale è iniziata da un po’, certe ingenuità non sono più concesse.
Si può essere a favore della guerra, con buoni argomenti, purché ci si ricordi che di guerra si tratta: non di un intervento umanitario o chirurgico, non di polizia internazionale, non di libertà duratura: di guerra. Per liberare l’Iraq da Saddam (ottima cosa). E per accaparrarsi tutto il petrolio che c’è la sotto. Con migliaia di vittime civili. Con l’uranio impoverito. Coi valorosi combattenti che tornano a casa, impazziscono o muoiono di qualche sindrome. Chi vuole la guerra deve sapere tutto questo, e assumersene le responsabilità.

Ma anche chi vuole la pace ha responsabilità da assumersi. L’Iraq è un Paese alla fame, straziato dall’embargo che (a differenza della guerra tradizionale) fa le sue vittime tra i più deboli, tormentato da un dittatore che non sembra così ansioso di volersi disarmare. Chi ora sventola la bandiera della Pace deve sapere che difficilmente, in tempi brevi, tutto questo potrà cambiare. Che anche la Pace avrà i suoi morti.

Le opzioni sono queste, e tutti siamo liberi di scegliere.
Oppure – grazie a Dio – siamo liberi di non scegliere, e di rimanere in mezzo, coi nostri dubbi.
Quello che invece, a mio parere, non dovrebbe esserci concesso, è stare nel medesimo momento sulle due sponde del problema: manifestare allo stesso tempo contro la guerra e contro Saddam, chiedere che sia scacciato senza colpo ferire. No, non possiamo. Non è realistico. Non ha nulla a che vedere con la politica. È – ripeto – una pura manifestazione d’identità. E come tale, a me non interessa. Anche perché è banale: siamo tutti contro la guerra, siamo tutti contro i tiranni. Sai la novità. C’è bisogno di metterlo per iscritto?

Questo vale per tanti altri casi:
“Perché manifestate contro Israele e non contro Hamas?”
Perché Hamas non è nemmeno un interlocutore. Credete che a un martire di Al-Aqsa possa fregare qualcosa, se in quel momento in quel bar di Tel Aviv insieme agli israeliani c’è un manifestante italiano? Assolutamente niente. Tira la spoletta e manda tutti quanti all’inferno.
Ma Israele, se è davvero, come sostiene, l’“unica democrazia del Medio Oriente”, deve accettare che si possa manifestare pacificamente contro le sue politiche. La democrazia non è la dittatura della maggioranza: è l’assunzione collettiva della responsabilità.
Un missile su Gaza può fare le stesse vittime di un autobomba a Tel Aviv, ma mentre non ho nessuna speranza di poter fermare l’autobomba, ho ancora qualche remota (sempre più remota) speranza di non far decollare il missile. Perciò mi sento più responsabile del missile che dell’autobomba. È chiaro?
(Più chiaro di così stanotte non ce la faccio, mi dispiace).
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