C'è un romanzo attualissimo che dovremmo studiare in tutte le scuole, l'ha scritto Alessandro Manzoni

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Due ragazzi vorrebbero diventare grandi, mettere su famiglia, cominciare un'attività. Ma un boss che già da settimane stalkerava la ragazza è di un altro parere, e manda i suoi picciotti a intimidire le autorità. Costretti a dividersi, i due protagonisti perdono le proprie tracce in un contesto apocalittico: crisi economica, guerra, epidemia. Le autorità sono completamente incompetenti, la popolazione crede a qualsiasi fake news. La ragazza trova rifugio in una comunità chiusa femminile dove però scopre che l'autoreclusione non abolisce i rigidi rapporti di forza della società, anzi li esalta. La sua protettrice, ricattata a causa di un torbido passato, la consegna a un altro boss. Il ragazzo, frustrato, si radicalizza: coinvolto nei moti di piazza viene criminalizzato come un terrorista dal potere costituito, in caccia di capri espiatori. E così via.

Partendo da un piccolo caso di provincia – un banale caso di molestie, un'intimidazione di stampo mafioso  – l'autore allarga il quadro fino a dipingere un'intera società in stato disfunzionale. Le leggi descrivono i reati invece di reprimerli; il governo, ignorando i più elementari concetti di economia conduce la popolazione alla fame e al caos; i ricchi vivono in una bolla, cosplayer di una fiction in costume medievale; la cultura è custodita da eruditi ottusi che disprezzano la scienza; le guerre sono il risultato di farraginosi meccanismi diplomatici che scattano quasi automaticamente, decidendo il destino di milioni di persone. E proprio quando le cose sembrano volgersi al meglio, un'apocalittica epidemia travolge la vita di tutti i personaggi. Il romanzo italiano più attuale che possiate aprire oggi forse è stato scritto nel 1827, quando ancora non era chiaro se in Italia si potessero scrivere libri – e in che lingua andassero scritti.

Quante volte, anche in questi giorni, di fronte ai tweet di qualche sovranista esagitato che cercava di cavalcare la paura del coronavirus per chiedere la chiusura dei porti, ci siamo detti: dagli all'untore. Quante volte di fronte a quel meccanismo giornalistico conosciuto come macchina del fango, non abbiamo pensato alla colonna infame. Un cosiddetto intellettuale si lamenta della crisi del liceo classico, senza nemmeno disporre degli strumenti statistici per stabilire se il classico sia in crisi o no: l'ennesimo Don Ferrante. C'è crisi, qualcuno propone di stampare moneta all'infinito, che problema c'è? come Ferrer coi forni e la farina – salvo che sappiamo già come andrà a finire, appunto: ce l'ha spiegato Alessandro Manzoni. Viene emanata una legge per risolvere un problema che ha già ispirato tante altre leggi rimaste inapplicate: come non pensare allo scrittoio ingombro di carte dell'Azzeccagarbugli, mentre cerca la grida più recente perché quelle fresche di stampa fanno "più para". C'è una manifestazione, qualcuno fa dei danni, qualcun altro rimane impalato davanti alla telecamera del giornalista: domani sarà su tutte le homepage come il leader dei facinorosi, la stessa storia sin dai tempi di Renzo Tramaglino. E a proposito di Renzo, il suo rancore per chiunque abbia avuto il tempo e la facoltà di studiare, non lo vediamo all'opera tutti i giorni sui profili di milioni di laureati all'università della vita? La dinamica con cui le folle deformano ogni informazione, qualcuno l'aveva già descritta così bene prima della notte delle beffe? Per farla breve: se cercate un romanzo italiano che ci descriva meglio di quello scritto da Manzoni duecento anni fa, e ambientato duecento anni prima, non è detto che lo troviate.

Andrebbe letto in tutte le scuole – il problema è che lo facciamo già. E tante volte ci siamo detti che forse proprio questo era il problema coi Promessi sposi: l'obbligo scolastico. Un libro che ci racconta con abbondanza di dettagli un'avventurosa vicenda di soprusi, duelli, malintesi, drammi interiori e quant'altro, in un periodo storico così apparentemente lontano dal nostro, evoca in tutti noi per prima cosa la fornica sciupata dei banchi di scuola. Ogni tanto qualcuno butta lì la provocazione: e se smettessimo di imporlo agli studenti? Magari a quel punto sì, comincerebbero davvero ad apprezzarlo. Qualcuno senz'altro lo leggerebbe di nascosto, mentre il prof spiega Tolstoj o la Ferrante.



Purtroppo niente lascia pensare che le cose andrebbero così... (continua su TheVision)
Le classifiche dei libri ci dicono l'esatto contrario: gli unici classici della letteratura italiana a salire ciclicamente le classifiche sono i testi che vengono assegnati dagli insegnanti come letture estive in giugno, o imposti nel pacchetto dei libri di testo a settembre. Il Fu Mattia Pascal, La Storia di Elsa Morante, i Malavoglia di Verga e così via. Tutti testi interessanti e ancora attuali, ma se la scuola non li riproponesse, nel medio termine rimarrebbero materia per gli specialisti. La stessa cosa succederebbe per i Promessi sposi, che tra questi è anche uno dei meno facili da leggere. La prosa di Manzoni è quanto di più diverso si possa immaginare da quella svelta e spesso cinematografica che siamo abituati a trovare nei best seller di oggi, anche quelli con pretese letterarie: è tornita, abbondante, si dipana come la lezione di un professore di Storia a cui nessuno abbia imposto limiti di tempo. È uno stile quasi miracoloso per gli anni in cui Manzoni lo produsse, e che per molto tempo fu uno standard ineguagliato, ma oggi ha bisogno del filtro scolastico per essere apprezzato: molti testi postmoderni che fondano il proprio successo di nicchia sul fatto di essere quasi impossibili da leggere (penso a Infinite Jest, o L'arcobaleno della gravità) sono per certi versi più facili da leggere con comodo in poltrona o persino sotto l'ombrellone. Un altro aspetto che ci aliena ineluttabilmente da Manzoni è proprio quello che più contribuì a renderlo una lettura obbligatoria per così tanto tempo: il cattolicesimo. Perché per quanto sia tragico e decadente il mondo descritto da Manzoni, non può che urtare la nostra sensibilità postmoderna il fatto che ci abbia messo la soluzione davanti al naso: la Provvidenza. Ovviamente le cose sono molto più complesse di così, e anche il cattolicesimo di Manzoni, a conoscerlo, è un sentimento religioso molto sui generis: in un Paese dove tutti nascono cattolici e smettono di crederci dopo aver preso i sacramenti, Manzoni fece il percorso contrario, convertendosi in età adulta, e rimanendo molto vicino a una corrente abbastanza esotica per la sensibilità italiana, il giansenismo. La fede di Manzoni non gli impedisce di muovere critiche severe al clero, anzi: due dei personaggi meglio definiti dall'autore, con precisione spietata, sono com'è noto due figure di religiosi: Don Abbondio e Gertrude. Per quanto si avvicini a loro, per quanto li descriva nei moti più reconditi, Manzoni non sospende mai un fermo giudizio morale nei loro confronti: per quanto non smetta di riconoscere e di descrivere come il loro carattere e le loro mancanze siano il risultato delle pressioni sociali subite sino dalla nascita, Manzoni non smette di affermare che a queste pressioni, in qualsiasi momento, il timido prete e la monaca reclusa avrebbero potuto e dovuto dire di no. Non esattamente il cattolicesimo bonario delle nostre sacrestie, come si vede: da integralista del libero arbitrio Manzoni non può perdonare Gertrude: è "sventurata", è vero, ma nessuno la obbligava a rispondere. Mentre in Italia è passato molto spesso per cattolicesimo un dispositivo morale che ci allontana dalle nostre responsabilità individuali, Manzoni non ha pudore a rimettercele costantemente davanti agli occhi, con quell'insistenza che passa per paternalismo (e in un certo senso lo è davvero): siamo noi che scriviamo troppe leggi invece di preoccuparci e farle rispettare, siamo noi che di fronte a una minaccia più o meno vaga ci inchiniamo come davanti don Abbondio davanti ai bravi "troppo giusti, troppo ragionevoli". Siamo noi che malgrado ogni tentativo di contenerci, di fronte alle provocazioni di un interlocutore nemmeno troppo astuto cominciamo a vedere rosso e ci facciamo possedere dall'ira, come fra Cristoforo davanti a don Rodrigo. Siamo noi che di fronte a una difficoltà, invece di lottare per ciò che abbiamo di più caro, decidiamo di rinunciarci come se Dio ce lo chiedesse, come Lucia nella sua notte più terribile. Siamo noi i personaggi dei Promessi Sposi, e questo ci fa arrabbiare: tutti gli altri popoli europei vivono in romanzi più recenti. Noi forse no: uno scrittore pietoso e spietato insieme come Manzoni forse non lo abbiamo trovato e a questo punto magari è troppo tardi.
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Dieci cento mille trattative

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La Trattativa (Sabina Guzzanti, 2014).

Di cosa parliamo, quando parliamo di trattativa Stato-mafia? Di quale trattativa, quale Stato, quale mafia? Fino a che punto Riina o Provenzano furono parti in causa, da quale in poi diventarono merci di scambio? L'argomento, già oscuro e intricato di suo, negli ultimi anni è stato deformato a piacere da cronisti e impresari di talkshow più interessati a restare in prima pagina (allevando mostri, se necessario) che a fornirci un quadro d'insieme. A colmare la lacuna è arrivata Sabina Guzzanti e il suo "gruppo di lavoratori dello spettacolo", con una ricostruzione ovviamente parziale, ma efficace e soprattutto non noiosa. Anche chi non condivide né le premesse né le conclusioni della regista, in capo a un'ora e mezza almeno questo glielo deve riconoscere: la Trattativa è un film originale, che si prende tanti rischi e in un qualche modo riesce a scansarli tutti, sbandando allegramente tra cinema teatro e tv.


Nella Trattativa c'è un po' tutto quello che avevamo paura di trovarci - filmati di repertorio con cortei di prefiche al ralenti, invettive alla ka$ta coi violini di Piovani in sottofondo, verbali di interrogatorio sbobinati e affidati alle cure di teatranti ispirati, infografiche tagliate con l'accetta, insomma tutti gli ingredienti di uno speciale di Servizio Pubblico che non guarderemmo più nemmeno sotto tortura. Questo passa il convento, ma la regista riesce ugualmente in qualche miracoloso modo a cucinare una pietanza interessante, raffinata perfino. Come ha fatto? Il segreto è forse la misura, la consapevolezza dei propri limiti. La Guzzanti sa che recitare i verbali conduce inevitabilmente a risultati grotteschi, e volge la cosa a suo favore dichiarando dopo pochi minuti l'artificiosità della messa in scena. Sa che il tema che si è scelto ha un peso specifico che mette alla prova il più motivato degli spettatori, e non ha remore ad alleggerire il dramma con siparietti tragicomici che ci fanno arrivare alla fine del film senza aver guardato una volta sola l'orologio. Riesce a piazzare qua e là persino la sua imitazione di Berlusconi - ormai più che satira è un talismano, una mascotte grottesca, il gemello cattivo che si porta con sé su qualsiasi set - e che in un qualche perverso modo anche qui funziona. Sa che come presentatrice non rende al massimo, e cede volentieri la voce narrante agli attori che si truccano e travestono in scena, entrando e uscendo giocosamente dai loro personaggi.

Lo straniamento brechtiano che ne deriva è ovviamente agli antipodi del culto dell’innocenza fondato da Pif in La mafia uccide solo d’estate. Pif vuole farci tornare bambini, cerca di farci immedesimare in una Palermo assediata dagli uomini cattivi. La Guzzanti ci parla come si parla agli adulti: ci tiene a distanza, ha un ragionamento da fare ma è abbastanza onesta da ammettere che certi dettagli non tornano. Il risultato è così notevole che fornisce abbastanza strumenti anche a chi vuole criticare la sua impostazione.  In sostanza la Guzzanti crede che ci sia stata una sola grande Trattativa, tra un solo Stato colluso e una sola Mafia. Nel momento in cui quest’ultima sembrava a un passo da essere sconfitta per sempre, lo Stato colluso ha lasciato che fossero eliminati i suoi servitori troppo intransigenti e attivato i suoi emissari che dopo una serie di equivoci sarebbero riusciti a stabilire un contatto solido e a normalizzare la situazione: il risultato di questa normalizzazione sarebbe la nascita di Forza Italia, l’ascesa al potere di Berlusconi, e il conseguente sfacelo della Repubblica. Nel finale del film, la Trattativa diventa in sostanza la causa di tutta una ventennale degenerazione della società italiana; tra le ultime immagini di repertorio compare a mo’ di esempio l’Ilva di Taranto. Se lo Stato non avesse ceduto alla Mafia, il malaffare non avrebbe trionfato e le fonderie non avrebbero avvelenato le persone. È una generalizzazione talmente grossa che a mio modesto parere si sgonfia da sola.
Quel che credo di aver capito io – guardando il film: questa è la sua forza – è che le cose sono davvero parecchio più complesse: e se ci fu a un certo punto una trattativa tra uno stato (che non è lo stato di adesso) e una mafia (che non è l’organizzazione malavitosa di adesso), probabilmente non fu l’unica e non fu così decisiva. Quella che nel ’91 stava cadendo sotto i colpi del maxiprocesso, e cominciò a dar furiosi colpi di coda a Capaci e in via d’Amelio non era “la Mafia”: era una mafia, la cui crisi rischiava di cedere spazio ad altre organizzazioni malavitose, ‘ndrangheta camorra o stidda – che nei fatti occuparono progressivamente il vuoto che Cosa Nostra lasciava. In una situazione del genere, un apparato dello Stato (il Ros di Mori?) potrebbe effettivamente aver cercato di sostenere una fazione moderata e normalizzatrice all’interno di Cosa Nostra, rappresentata da Bernardo Provenzano. È un’ipotesi ragionevole, anche se fin qui smentita dai processi. La Trattativa è al cinema Fiamma di Cuneo alle 21.
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La mafia è una pastarella al piombo

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La mafia uccide solo d'estate (Pierfrancesco "Pif" Diliberto, 2013)

Arturo è un bambino normale in una famiglia normale in una città con un problema che non è il traffico. Ogni tanto qualcuno muore ammazzato. Nel garage sottocasa, nella pasticceria sulla strada per la scuola, ogni tanto qualcuno cade in un lago di sangue e il motivo pare sempre lo stesso: le femmine. Soprattutto in estate i delitti passionali non guardano in faccia a nessuno: poliziotti, magistrati, giornalisti, persino i politici. Persino Arturo: anche per lui è venuto il momento di innamorarsi, anche se è solo un bambino e ha paura.


A quarantun anni (no, non li dimostra) Pif si carica in spalla una macchina da presa un po' più grande del solito, e il risultato è abbastanza sorprendente. Di solito chi passa al cinema dalla tv cerca di riprodurre sul grande schermo quello che gli spettatori conoscono già sul piccolo: peraltro di reporter prestati al cinema negli ultimi dieci anni ne abbiamo già visti parecchi; è una formula che può funzionare. Pif invece per l'occasione si ricorda di aver lavorato con Zeffirelli e Giordana, e prova a fare qualcosa di meno televisivo confinando sé stesso e la guest star Cristiana Capotondi nell'ultima mezz'ora, concentrando l'obiettivo sul vero eroe del film, il piccolo Arturo (Alex Bisconti, bravo). Una scelta insolitamente matura, e anche un po' temeraria - lavorare coi bambini è più difficile - che coincide con una precisa scelta narrativa: il forrestgumpismo. Un giorno bisognerà trovare una parola più bella per definirlo, ma nel frattempo ecco una definizione approssimativa:

Dicesi Forrest-Gumpismo la tendenza a rivisitare il passato recente in una collana di momenti topici, infilando a forza i personaggi in tutti gli avvenimenti storici rilevanti. In Italia ci sguazzano un po’ gli autori di noir, ma l’oggetto forrest-gumpista in assoluto è La meglio gioventù di Giordana, dove se due ex coniugi si danno un appuntamento durante gli anni Ottanta, dev'essere per forza la sera di Italia-Germania al Santiago Bernabeu con le comparse che ascoltano la telecronaca di Martellini alla radio, cioè, hai capito spettatore scemo? Siamo negli anni Ottanta! Rossi! Tardelli! Altobelli!

I forrestgumpisti italiani di solito vivono in centro: tutto deve succedere nello spazio di pochi isolati. Assistono a tutti gli episodi più importanti che stanno già sui libri di Storia (in questo caso tutti i delitti illustri da Boris Giuliano a Borsellino), senza capirci mai molto: spesso sono bambini o handicappati. L’importante è che abbia già capito tutto lo spettatore. Il forrestgumpismo ci porta a spasso per la Storia contemporanea come se fossimo in gita scolastica: le cose dobbiamo averle studiate già, ora si tratta di riviverle, di provare emozioni, per cui rieccoci a Capaci da spettatori: non si capisce niente, c’è solo fumo, sembra un terremoto, ecco: abbiamo avuto un po’ di paura, abbiamo “sentito” Capaci. Il forrestgumpismo al cinema funziona molto bene. Siamo tutti contenti quando qualcuno ci racconta una storia che conosciamo già, magari da un’angolazione diversa; quanta soddisfazione nel sapere già cosa succederà a un dato personaggio, ad es. Salvo Lima; nel saper riconoscere la strage di Capaci da una gag su un telecomando. Se poi il punto di vista è quello ingenuo e fiabesco di un bambino, chi oserà mai parlare male del tuo film, rimproverandoti qualche superficialità nel descrivere un fenomeno mafioso assai più ramificato e complesso, nel trasformare capoclan e stragisti in pagliacci (sempre meglio di glorificarli come eroi maudit, come si è fatto in tv) – ok, mi arrendo Pif, hai vinto tutto. Mettiamola così: non è un film sulla mafia, è un film sull’omertà, sul crescere in una città che finge di essere sana, e scoprire uno spavento alla volta che gli adulti hanno più paura di te.

Nell’ultima mezz’ora però accade qualcosa di diverso. Improvvisamente il piccolo Arturo si sveglia trasformato in Pif: il Pif che conosciamo, che 41 magari non li dimostra, ma neanche i venti che dovrebbe avere nel film. La trasformazione è improvvisa, pinocchiesca: Arturo non è davvero cresciuto. È solo diventato più grande, come Tom Hanks in un altro film; ma dorme ancora nello stesso lettino, ed è ancora bloccato nel suo amore elementare per Flora. Qui c’era un’idea meno rassicurante: crescere nella città della mafia significa compromettersi, e Arturo non ce la fa. Ci prova. Flora, lei, è cresciuta e lavora per i grandi vecchi, perché non provarci? C’è bisogno di giovani che portino idee fresche, che inquadrino i vecchi da angolature inedite, che scrivano i discorsi. Pif per un po’ ci prova. È quel momento tipico dei vent’anni, in cui “si fanno tante caz… sciocchezze”, per amore ma anche perché è sparito qualsiasi altro riferimento all’orizzonte, e non c’è più un prete o un giornalista a spiegarti cosa fare; il momento in cui giri la tua città con un curriculum in mano e ti senti soffocare. Una situazione molto più difficile da raccontare delle epifanie dell’infanzia, e che Pif racconta molto più in fretta, forse meno sicuro di sé come attore che come regista. Mi piacerebbe dirgli che ha torto, ma il film piacerà a tutti così. E davvero per un’opera prima non ci si può lamentare.

Un ultimo perfido appunto: un bambino trascinato dai genitori davanti a tutte le lapidi di tutti i martiri della mafia, secondo me, appena compie undici anni corre ad affiliarsi alla prima cosca che trova nel quartiere. Perlomeno, quel poco che ho capito di psicologia dei preadolescenti mi suggerisce ciò – poi magari mi sbaglio, eh. La mafia uccide solo d’estate è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:20; 22:35), al Vittoria di Bra (16:15, 18:15, 20:15, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30) – ma da voi li fanno i bomboloni alla ricotta con le scaglie di cioccolato? M’è venuta la curiosità.
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Gomorra e non Gomorra

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Guarda avanti, Lot
Oggi vorrei parlarvi di due opere audiovisive prodotte in Italia negli ultimi anni: Gomorra di Matteo Garrone e Il Capo dei Capi di Enzo Monteleone e Alexis Sweet. Si vedrà che non hanno poi molte cose in comune.

Gomorra (2008) è un lungometraggio tratto dall'omonimo libro-inchiesta di Roberto Saviano. Il Capo dei Capi (2007) è una miniserie tv di sei puntate, tratta da un libro-inchiesta di Giuseppe D'Avanzo e Attilio Bolzoni.

Gomorra dura due ore abbondanti; Il Capo dei Capi nove.

Il Capo dei Capi racconta la formidabile ascesa di Totò Riina, da umile contadinello a capo della più grande organizzazione malavitosa italiana. Gomorra racconta le vite “normali” di alcune persone in un territorio governato dalla camorra. Nessuno di loro ascende in nessun posto; alcuni si ammalano, un paio scappa, molti muoiono.

Gomorra è un film discusso, tratto da un libro altrettanto discusso. Fu il fim più visto in Italia nel week end in cui uscì (maggio 2008). Nel marzo del 2009 aveva già incassato 10.175.071 euro. Divisi per sette fanno più o meno un milione e mezzo di spettatori paganti. È una cifra impressionante, complimenti.

Però Il capo dei capi è stato visto, nell'autunno del 2007 da un numero di telespettatori praticamente mai inferiore ai sette milioni. Il trenta per cento dello share – più o meno un telespettatore su tre, in prima serata. Più o meno una famiglia su tre ha visto il capo dei capi. Molta di questa gente di Gomorra ha sentito solo vagamente parlare (da quanto mi risulta non è mai stato programmato sulla tv in chiaro).

Questo può in parte sorprendervi. Perché state leggendo un blog su internet. Non c'è niente di male, ma dovete sapere che fate parte di una certa nicchia statistica. Chi vive in questa nicchia può essere portato a pensare che Gomorra sia un prodotto più famoso del Capo dei Capi. Probabilmente ha visto il film, magari ha pure letto il libro. Difficilmente però avrà seguito una fiction su Canale5: le fiction italiane, si sa... Ripeto, niente di male: e non sentitevi soli, parliamo di più di un milione di persone.

Ma fuori c'è tutto un mondo. Ci sono sette milioni di persone che hanno visto Claudio Gioè interpretare l'indomito Riina, e di Gomorra hanno solo vagamente sentito parlare. Giusto per ristabilire le proporzioni. Gomorra ha vinto il Gran premio della Giuria a Cannes (ma la palma d'oro è andata a un filmetto scolastico su un prof demotivato) e ben sette David di Donatello, sì, vabbè. Il Capo dei Capi ha macinato milionate di euro di inserzioni: e quanto rimpiango di non averlo videoregistrato, di non potervi dire che prodotti ci fossero in televendita (una linea di coppole trendy?)

Nella prima puntata del Capo dei Capi, Totò è un tredicenne che perde il padre zappatore su una bomba rimasta nel sottosuolo dalla Seconda Guerra Mondiale. Divenuto così capofamiglia, con tante bocche da sfamare, Riina si mette a lavorare per i corleonesi, brillando subito per ferocia e capacità organizzativa.

Nella prima seqenza di Gomorra c'è un camorrista che si abbronza in un centro estetico. Un suo collega, dopo aver scherzato con lui, estrae una pistola e lo uccide a sangue freddo. Di lui non sapremo più niente. È come se l'eroe del film morisse subito, e il resto dei personaggi brancolasse per due ore senza trovare un senso. Una cosa molto spiazzante.

Il Capo dei Capi è una success story, una specie di versione sicula del sogno americano: tutti possono diventare Presidente, se studiano sodo... ehm, no: tutti possono diventare capiclan, se si liberano dagli scrupoli e imparano ad ammazzare i traditori prima che ammazzino loro. Anche Gomorra ci mostra un capoclan, ma per pochi minuti. È un poveretto cocainomane che vive nascosto in una brutta casa, ossessionato dalla necessità di ammazzare gli altri prima che ammazzino lui, Bum! Bum! Bum! (Dice proprio così: “Bum! Bum! Bum!” Non è carismatico proprio per niente).

Pare che a Totò Riina, che dal carcere di Opera non si perdeva una puntata, l'interpretazione di Claudio Gioè non sia dispiaciuta. Invece i camorristi ritratti da Saviano, si sa, hanno un po' brontolato, tanto che l'autore è sotto scorta.

Il Capo dei Capi è un figlio di contadino che diventa capoclan, ma cosa significhi essere capoclan da un punto di vista economico non è affatto chiaro. La mafia sembra semplicemente adeguarsi alla società in progresso: quando tutti si mettono a comprare le automobili, anche i mafiosi cominciano a usarle per ammazzarsi. Gomorra mostra cosa succede all'economia nei luoghi dell'indotto della malavita: il sarto Pasquale, artista di livello internazionale, non riesce a vivere del suo lavoro. Alla fine tradisce i segreti del suo mestiere ai cinesi e si mette a fare il camionista.

Dicevamo che all'inizio del Capo dei Capi Totò Riina è un tredicenne. Molti appassionati telespettatori del Capo dei Capi avevano più o meno quell'età. Nel novembre del 2007 il pm Antonio Ingroia andò a parlare di mafia in una scuola di Palermo. La maggioranza degli studenti di quella scuola, in un sondaggio, aveva scritto di non voler far parte della mafia. Alla domanda di Ingroia “qual è il personaggio più simpatico della fiction?” risposero tutti Totò Riina. È impossibile non notare che i modi del giovane Totò sono quelli del classico bulletto da corridoio.

Anche in Gomorra ci sono alcuni ragazzini. Uno di mestiere resta nascosto tutto il giorno, pronto a dare un segnale appena passa una macchina della polizia. È lavoro, come dice lui, è fatica. Sua madre verrà uccisa alle spalle dai camorristi del clan avverso. A tradirla sarà il suo migliore amico, un bambino pure lui. E poi ci sono Marco e Ciro, proprio due bulletti di quartiere: rubano droga di qua, armi di là, sparano all'aria, toccano le donne, sono convinti di poter fare quello che vogliono. Vengono ammazzati da una squadra di vecchi camorristi spazientiti. Anche loro in un agguato. Anche loro senza gloria.

Potrei andare avanti molto a lungo, ma direi che il senso è chiaro: il Capo dei Capi è una cosa, Gomorra è un'altra.

E dunque sabato il produttore del Capo dei Capi si è lamentato per la pubblicità che Gomorra ha fatto alla mafia.
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Cugghiuni+Business

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La redazione di Leonardo, che non ha paura di niente e di nessuno, è venuta in possesso di ampi stralci dei verbali dell'ultimo vertice internazionale della mafia, risalente a qualche settimana fa, e non si fa nessuno scrupolo a pubblicarli:

Per il prestigio dell'Italia nel mondo

DON PIPPO: Bacio le mani a voi tutti.
Illustrissimi, se siete venuti oggi qui, chi da Mazara, chi da Sidney, chi da Nuovaiorche... è per discutere di qualcosa che sta veramente a cuore a tutti noi, ed è il prestigio dell'Organizzazione.

Ora, illustrissimi, guardiamoci in faccia. Io vado ormai per i cinquanta, almost fifty year old, e sono tra i più vecchi qui. Eppure anch'io, credetemi, non sono mai stato un compare con la coppola e la lupara, che va in giro per i vichi a chiedere “rispetto”...(risate). Quello è cinema, ormai, ed è giusto lasciarlo al cinema... noi non siamo tagliagole, siamo uomini d'affari, e quando parliamo di prestigio, di rispetto, ne parliamo come uomini d'affari, che sanno quanto sia importante, nel mondo degli affari, questo concetto.

Illustrissimi, la nostra Organizzazione ha avuto negli anni degli alti e dei bassi, che non vi riassumo... ma anche nei momenti più difficili, ha potuto contare su qualcosa di inestimabile, qualcosa che non è mai venuto meno... come chiamarlo? “Made in Italy”, se vi va... insomma, nel nostro ambiente essere italiano ha sempre fatto la differenza. Un po' come con le femmine, sì, italians do it better (risatine). Qui c'è gente che viene da tutto il mondo, per esempio don Giggi se non sbaglio adesso sta a... Shenzen, ho detto bene? Che non molti sanno dove sta sul mappamondo, ebbene è una città di sette milioni di abitanti, una Nuovaiorche in mezzo alla Cina, che manco i pechinesi sanno dov'è a momenti... noi invece lo sappiamo, e ci abbiamo don Giggi che fa affari lì. Per dire i cugghiuni che abbiamo – cioè, sicuramente ce li ha don Giggi. Bravo don Giggi (applausi).

Ma anche don Giggi mi deve fare la cortesia di riconoscere che tutti i suoi cugghiuni non sarebbero serviti a niente senza il prestigio che gli derivava dall'essere italiano, dal fatto che quando sei italiano nel mondo degli affari tutti, tutti ti stanno a sentire: le triadi, la Yakuza, i pirati somali, Al Qaeda, tutti quando tocca a noi parlare si stanno zitti e ci fanno parlare, perché siamo l'Organizzazione più famosa del mondo e questa fama, questo prestigio, i filme a Hollivud, ce li siamo conquistati sul campo, col sudore e col sangue nostro e degli infamoni che abbiamo mandato al Creatore (ovazione).

Illustrissimi, io non so quanti di voi facciano affari con la moda... io ci ho lavorato un po', lo sapete... e mi viene spontaneo il paragone. Cioè, anche nel mondo della moda, fino a dieci anni fa, essere italiani faceva veramente la differenza. C'era Armani, c'era Valentino, ma c'erano anche certi inculati qualunque che comunque potevano contare sul rispetto e sul prestigio che gli derivava da un cacchio di cognome italiano. E poi cos'è successo. Ma lo sapete anche voi cos'è successo. Che i grandi vecchi sono invecchiati un po' di più, e i giovani inculati invece di darsi da fare si sono addormentati sugli allori. Non hanno fatto ricerca, non hanno fatto innovazione, hanno stampato il loro bel cognome italiano sul profumo e sulla mutanda, e hanno pensato che tutti in America o in Cina o in India avrebbero fatto sempre la fila per comprarsi il parfum o la mutanda italiana. Un po' di soldi li hanno anche fatti (ne abbiamo fatto più noi taroccandogli profumi e mutande, ma questo è un altro discorso), però nel medesimo hanno perso il loro prestigio. E ora nessuno li rispetta più come stilisti, al massimo come venditori di mutande. Ecco, illustrissimi, io mi sono posto questo problema: non è che corriamo il rischio di finire così? (brusio) Lo so, non è piacevole essere paragonati a degli inculati (risatine), però sul serio, io ho la sensazione che il problema c'è. Ed è una sensazione che è diventata più forte qualche mese fa, quando ne ho parlato con don Christopher, di Wellington, Nuova Zelanda. È qui alla mia destra.

DON CHRISTOPHER: Bacio le mani a voi tutti illustrissimi.

DON PIPPO: Ebbasta con queste formalità, andiamo. Allora, Don Chris è una persona formidabile, che ho avuto il piacere di conoscere in tenera età, anche perché, se non sbaglio, ti ho tenuto a battesimo, no?

DON CHRISTOPHER: Era la prima Comunione.

DON PIPPO: Vabbè, vabbè. Don Christopher ha trent'anni ed è il delegato dell'Organizzazione per la macroreggione Oceania – Sudest asiatico. Segno evidente che i cugghiuni ce li ha anche lui, mmm? Ecco, due mesi fa è stato a un summit internazionale a Wellington a... Koala Lumpur, dico bene? Eh, Malesia, quei posti lì. Ma spiegalo tu, che te ne intendi meglio.


DON CHRISTOPHER: Era un meeting internazionale di dealer, promosso dall'organizzazione leader del mercato indonesiano-malesiano.

DON PIPPO: Un mercato che vale...

DON CHRISTOPHER: Mah, approssimativamente... qualche centinaia di miliardi di euro.

DON PIPPO: Ecco, no, perché secondo me c'è ancora chi è rimasto ai tigrotti di Sandokan con l'anello al naso... qualcuno crede che vivono sulle giunche in quei posti lì, altro che giunche, non so se sapete che il grattacielo più alto del mondo ce l'hanno i malesiani, e i malesiani che vivono nel grattacielo più alto del mondo secondo voi non pippano? Pippano, pippano, hanno bisogno di colombiana anche loro. Quindi è evidente che è un mercato che c'interessa.

DON CHRISTOPHER: Noi abbiamo il know-how, però non siamo i più convenienti.

DON PIPPO: Perché ci piace fare le cose per bene. Però adesso io non è che vogliamo annoiarvi coi tigrotti della Malesia. Vorrei solo che don Cristopher ci raccontasse com'è andata a Kuala Lumpur.

DON CRISTOPHER: E' stata un'esperienza allucinante. Allora, io premetto che sono nato a Wellington, NZ e di cose italiane ho davvero poca esperienza... sarà anche un limite mio, però... i giornali italiani li leggo poco e... li capisco poco. Quindi arrivo nell'albergo senza sapere niente, è un albergo in mano all'organizzazione locale e quindi mi devo fidare, do il nome, entro in camera e mi trovo accucciate sul letto due bambine cambogiane che non arrivavano a vent'anni. In due, voglio dire. (Espressioni di disapprovazione e genuino disgusto).

DON PIPPO: E cos'hai fatto a quel punto.

DON CRISTOPHER: Mah, quello che avrebbe fatto chiunque di voi illustrissimi. Sono immediatamente uscito dalla stanza, e dal lounge ho telefonato che così non andava, non andava assolutamente, che non avevano capito con chi stavano trattando, e che venissero a riprendersi le tipe immediatamente (Bravo! Così!) Si sono scusati, hanno detto che non sarebbe più successo, e che era una questione di cinque minuti. Io ho aspettato dieci, e poi sono risalito nella stanza

DON PIPPO: E cos'hai trovato.

DON CRISTOPHER: Un transessuale tailandese (risate).

DON PIPPO: No, no, signori... illustrissimi volevo dire illustrissimi, no, qui non c'è niente da ridere. Un meeting per discutere di business importanti, e ti trattano così... come un maniaco sessuale... adesso, ma lo vedete don Cristopher? A me sembra un ragazzo a modo, elegante, colto, parla anche un bellissimo italiano anche se in Italia non c'è mai stato... ma cos'è questa cosa che improvvisamente se un italiano va a un meeting lo trattano da maniaco sessuale? Quand'è cominciata questa cosa (mormorii)? Signori, guardate che il problema sta qui. È un problema di prestigio.

DON CHRISTOPHER: Sì, e se posso dire la mia...

DON PIPPO: Ma certo, dilla, dilla

DON CHRISTOPHER: E' anche un problema di business.

DON PIPPO: Ma soprattutto è un problema di business. E infatti, poi, il meeting com'è andato?

DON CHRISTOPHER: Non mi hanno praticamente fatto parlare (mormorii di disapprovazione). C'erano dealer filippini e colombiani. C'era pure un rappresentante peruviano e lo hanno fatto parlare. C'erano un paio di triadi della zona di Canton, che fra parentesi, don Giggi, le porto gli omaggi del signor Xu Chang.

DON PIPPO: Ora faccio l'avvocato del diavolo: magari tu sei un ragazzo, dovevamo mandare uno più anziano, affidabile...

DON CHRISTOPHER: Don Pippo, io sono a disposizione dell'Organizzazione, però vi devo dire che lì ero il più vecchio. Tutti sotto i trenta. È un mercato molto dinamico.

DON PIPPO: Forse che non sai bene le lingue...

DON CHRISTOPHER: Please, don Pippo. Ho una laurea a Princeton in lingue orientali, e mi mandate a dei meeting con gente che non ha la licenza elementare. I colombiani si esprimevano in spagnolo e a gesti, e la commessa l'hanno vinta loro.

DON PIPPO: E allora, Don Chris, spiegaci 'sto fatto a tutti quanti. Com'è che non ti hanno fatto parlare.

DON CHRIS: Mi hanno tenuto per ultimo prima del coffee-break e mi hanno chiesto... io non so se dirlo, don Pippo.

DON PIPPO: Dillo, Chris. È importante.

DON CHRIS: ...se sapevo qualche funny joke.

DON PIPPO: Qualche barzelletta.

DON CHRIS: Di quelle sporche.

DON PIPPO: The nasty ones.

DON CHRIS: Mi facevano ammicchi, risatine... l'ospite mi ha chiesto se mi era piaciuta la “sorpresa in camera”... eccetera.

DON PIPPO: Illustrissimi, io non so... qui abbiamo un caso che secondo me è molto più grave di un affare perso. Abbiamo dei fetentoni, venuti su dal niente, in Paesi che fino a trent'anni fa le cartine geografiche avevano schifo a rappresentare... uomini di nulla che il mestiere lo imparano dai film che hanno fatto su di noi... e di colpo ci trattano da pagliacci. Da maniaci. Ora io mi chiedo: magari la colpa è nostra. Magari sono i nostri uomini che non si meritano più il rispetto dei loro genitori. Vedo Don Christopher, a cui l'organizzazione ha pagato gli studi migliori, un ragazzo elegante, di cultura, capace, e mi dico: magari non ho capito niente, magari è un povero cugghiune che non sa farsi rispettare. Ma me lo dovete dire anche voi: pensate che il problema sia don Chris? Pensate che non meriti il rispetto del mondo del business?

(Silenzio)

E allora, visto che siamo tutti uomini d'onore, qui, me lo dovete dire con franchezza: quello che è capitato a don Chris in Malesia è un caso isolato? O non sono successe cose del genere anche a voi, in giro per il mondo, negli ultimi mesi?

(Brusii)

E insomma, signori, secondo voi qual è il problema? In pochi mesi gli uomini dell'Organizzazione più rispettata in assoluto del mondo diventano dei pagliacci. E perdono gli affari, perché è sempre di questo che stiamo parlando, di affari. Allora vi chiedo: secondo voi cos'è successo negli ultimi mesi? Rimango in ascolto.

DON CALOGERO: Don Pippo, posso parlare?

DON PIPPO: Ci mancherebbe, ne hai facoltà.

DON CALOGERO: Don Pippo, noi siamo giovani, ma comunque maggiorenni e vaccinati, e quindi si è capito dov'è che si vuole andare a parare. Però, don Pippo, io vengo dalla Sicilia, non so se si ricorda, quell'isola triangolare...

DON PIPPO: Don Calò, questa ironia...

DON CALOGERO: Mi lasci finire, don Pippo, perché io vi ho ascoltato e vi ho anche capito, don Pippo, e lo so che c'è un problema. Insomma, è su tutti i giornali.

DON PIPPO: Di tutto il mondo.

DON CALOGERO: Insomma, il vecchio è fatto pazzo di viagra, sragiona, va alle feste di minorenni, ammicca alla regina Elisabetta, fa il cugghiune con Michelle... le abbiamo viste tutti queste cose. Siamo venuti per parlare di questo?

DON PIPPO: E per trovare una soluzione. Perché questo vecchio fatto pazzo di viagra, come dite voi don Calò, è diventato il rappresentante del made in Italy nel mondo, e questo fatto ci danneggia, ci danneggia molto, ci fa perdere qualche milione di euro al giorno, don Calò, e noi come organizzazione, abbiamo sciolto creaturine nell'acido per molto meno.

DON CALOGERO: E con questo cosa mi volete dire, don Pippo, che dobbiamo sciogliere pure a lui?

DON PIPPO: Naturalmente no...

DON CALOGERO: Perché non si può fare! E ci sono accordi precisi!

DON PIPPO: Gli accordi, don Calò, gli accordi... se poi li andiamo a vedere... li avrebbe dovuti rispettare lui per primo... mentre se mi ricordo bene, per esempio, il 41bis...

DON CALOGERO: Don Pippo, con tutto il permesso... ma che minchia ci frega del 41bis a noi... di quei mammasantissima in isolamento, coi loro pizzini medievali... ma che se ne stiano a farsi i loro criptogrammi colla bibbia, cosa minchia ce ne dovrebbe fregare a noi... io sto parlando business, come voi. Ospedali. Cantieri. Sto parlando di cose tangibili, come... il ponte sopra il cacchio di stretto (risate). Sì! Perché qui c'è gente che non crede nell'innovazione, nel coraggio per i progetti che sfidano il... voi volete tornare ai pastori coi pizzini, è questo...

DON PIPPO: Don Calò, io non dubito... in Sicilia siete tutti avvedutissimi uomini d'onore, e se avete voluto sostenere il... papiminchia (risatine) senz'altro ci avevate il vostro interesse. Però qui proprio perché non siamo medievali, bisogna cominciare a vedere la cosa globalmente, e globalmente il papiminchia è, per lo stato attuale dei nostri affari, un rugosissimo e puntuto pruno su per il pertugio del culo. (Risate e applausi) Ragione per cui la quale... ragione per cui la quale... è tempo di discutere un'exit strategy.

DON CALOGERO: La fate facile, voi.

DON PIPPO: E insomma, don Calò, siamo nel duemilaenove, non ci sono mica più i comunisti, andiamo. Un po' di alternanza fa bene a tutti. Pensate che ho votato Obama anch'io, sì, quella melanzana, mi piaceva e me lo sono votato, embè? Non lo riuscite a trovare un altro partito da votare?

DON CALOGERO: Ma non è una questione... voi forse siete assenti dall'Italia da un po' di tempo, don Pippo, e non avete presente... cioè noi i distretti elettorali in Sicilia li controlliamo abbastanza bene e ci possiamo inventare un partito anche domani, ma lui vince in Lombardia, in Veneto, perché le elezioni qui si vincono con le televisioni, e le ha tutte lui.

DON PIPPO: Un altro buon motivo per ridimensionarlo un po'... ma non c'è anche Murdoch? Possiamo fare pressione...

DON CALOGERO: Murdoch in Italia non ha lo spessore...

DON PIPPO: Ho capito. Insomma, è diventato più potente di noi.

DON CALOGERO: Don Pippo, purtroppo sì.

DON PIPPO: Però noi non è che possiamo starcene qui a ridacchiare mentre lui ci sputtana tutto il prestigio degli italiani all'estero. Qui dobbiamo cominciare, se non altro con gli avvertimenti. Chissà, può anche darsi che da quell'orecchio ci senta.

DON CALOGERO: E' molto rintronato.

DON PIPPO: Questo lo vediamo. Cominciamo a fargli pressione. Qualche infamone che lo tira dentro a un'inchiesta... non riusciamo a trovarne uno?

DON CALOGERO: Don Pippo, io di infamoni ne trovo a centinaia, voi dite e io ve li preparo. Ma dovete capire che il papiminchia, come lo chiamate voi, sul piano processuale ha due cugghiuni degni dei meglio nostri.

DON PIPPO: E vabbè, di cosa lo avranno mai accusato? Corruzione, falso in bilancio, briciole... tiratelo dentro in una strage terroristica. Non avete delle stragi a mano?

DON CALOGERO: Qualcuna... ma roba vecchia... primi anni Novanta.

DON PIPPO: Perfetto. Tiratelo dentro. Vediamo come reagisce.

DON CALOGERO: Ma don Pippo, sono cose vecchie, di quando ancora comandavano i pastori, coi loro pizzini incomprensibili, e quindi nessuno sa veramente come sono andate le cose... voglio dire che a sparare una cosa del genere...

DON PIPPO: Sì?

DON CALOGERO: Noi per assurdo potremmo anche azzeccare una verità.

DON PIPPO: Una verità? Noi?

DON CALOGERO: Potrebbe anche darsi.

DON PIPPO: E vabbè, don Calogero, una verità, in mezzo a tante bugie, che differenza farà mai?

DON CALOGERO: Voi disponete, don Pippo.

DON PIPPO: Dunque, se siamo d'accordo, io passerei al secondo punto all'ordine del giorno, che è: riscaldamento globale. Allora, io non so se sapete la cifra che ogni anno stanziavamo globalmente agli istituti di ricerca perché minimizzassero il problema, bene, soldi buttati via, ormai è chiaro che i ghiacci si sciolgono, ci crede anche quell'omminicchio di George W. Bush. Dunque io proporrei di risparmiare quella cifra e investirla in energie rinnovabili... è inutile che facciate quella faccia, è business, bisogna pensare anche ai nipoti, e qui se la California va sott'acqua ci perdiamo triliardi di fatturato, insomma il mondo è una cosa troppo complessa per lasciarla salvare ai governi, bisogna che ci si metta la mafia e che ci si metta seriamente...
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Alemanno ha rrrrrrr

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Cattivi maestri

Mi secca molto, specie dopo aver fatto il leghista lunedì, ma devo anche dare qualche ragione ad Alemanno. Non tutta, ma qualche.
Per chi se lo fosse perso: la settimana scorsa il sindaco di Roma è andato a visitare una scuola media romana dove un ragazzo aveva accoltellato un compagno; e intanto che c'era si è lasciato sfuggire che “alcune operazioni culturali come la serie tv “Romanzo criminale” o altre simili non aiutano, perché lanciano mode e atteggiamenti sbagliati”.

Da qui un polverone, non molto intenso in verità (era la settimana di Noemi) ma concentrato in alcuni ambienti, come i blog. Più di un blog ha preso le difese di una delle poche serie di qualità che si fa in Italia, che non aggiunge nulla alla realtà già violenta che ritrae. Tutto molto ragionevole, ma io pensandoci bene sto con Alemanno: alcune operazioni culturali lanciano mode e atteggiamenti sbagliati.

Ed è una questione di coerenza. Uno non può sostenere che Maria De Filippi sia la responsabile di un involgarimento dei rapporti umani (al punto che non si dà più tra ragazzini una discussione che non sia urlata) e poi fare spallucce quando un altro programma provoca fenomeni di emulazione. Se sono convinto che la tv sia un potentissimo strumento formativo (e ne sono convinto) devo crederci sempre, anche quando c'è il rischio di confermare Alemanno.

Dice il produttore: “la tv riflette quello che c’è in giro”. In realtà non è proprio così: Romanzo criminale rimette in scena un passato prossimo che è tornato di moda per motivi non troppo limpidi. Un vecchio west de noantri, quando tutti i delinquenti erano bianchi (e neri nel cuore), la cui nostalgia è fortemente sospetta. Ma fingiamo che sia veramente uno specchio imparziale di “quello che c'è in giro”: bisognerà pur ammettere che troppi specchi possono far male. Non a noi, che abbiamo l'età per relativizzare e apprezzare la profondità storica eccetera. No: ai ragazzini.

A volte sui blog ci si dimentica un po' di loro. È che qui non vengono: stanno su msn o facebook; appaiono in frotta solo qualora si parli male di un loro idolo o di un loro stile, e di solito si difendono male. Perché non sono equipaggiati, i ragazzini, e questo è il punto. Non possiedono tutti i diaframmi culturali necessari a capire che le vicende del Freddo e di Dandi vanno calate in un preciso contesto storico eccetera. Le cose si pongono in termini molto più chiari: Freddo e Dandi sono dei modelli di comportamento. S'impongono e si fanno rispettare. Non saranno certo loro a portare nelle classi una morale tribale che sta guadagnando sempre più spazio nella società: la violenza di certi ambienti è qualcosa che pre-esiste la tv e che ha ragioni sociali più profonde, siamo d'accordo. Ma dobbiamo anche ammettere che la tv, come minimo, è una straordinaria cassa di risonanza. Che mantiene ancora (meno che in passato, quando non c'erano i decoder) una vocazione interclassista: e infatti ora i coltelli in classe li portano anche i ragazzi delle famiglie perbene. È un progresso?

E allora cosa proponi. Niente di concreto, per ora. Auspico soltanto un lieve cambiamento di mentalità. Non dico di non smettere di apprezzare, in modo adulto, le serie fatte bene. Chiedo però di metterci più spesso da un punto di vista di genitori: e visto che scrivo a trentenni, non mi sembra di chiedere di molto. Chiedo di fare ogni tanto un salto fuori dalla nostra cultura, che per inciso non è più la cultura giovanile, e dare un'occhiata a quello che vedono e credono i giovani veri: per scoprire che non sanno cosa sia Star Trek, che i supereroi in costume li fanno un po' sbadigliare, e che tra i pochi prodotti audiovisivi in grado negli ultimi anni di forare un'attenzione capitalizzata dalle consolle video, c'è il Capo dei Capi; tra Fast and Furious e High School Musical (e a proposito: quest'anno nella mia scuola hanno aperto le elezioni per la ragazza e il ragazzo “più popolare”: possibile che la tv non c'entri per niente?)

Chiedo di rilevare che dietro a profili facebook che inneggiano a Riina o soci c'è più di una mentalità goliardica; c'è la stessa volontà di disgustare il mondo dei grandi che trent'anni fa faceva appuntare le svastiche sulle giacche dei punk. I punk non erano nazisti, i ragazzini oggi non sono mafiosi, ma quando certi simboli riaffiorano nell'immaginario giovanile, non te ne liberi più.

Chiedo di accettare la banalità un po' passée per cui esistono sostanze che noi possiamo degustare senza soffrire di effetti collaterali, e che per loro sono ancora tossiche: l'alcol è uno, la mafia in tv è un'altra. Pazienza se tutto questo ci porta dalle parti di Alemanno (ma non di Andreotti quando denunciava i danni all'immagine del nostro Paese inferti dalla Piovra: perché la Piovra dei tempi di Placido non conteneva nemmeno in dosi omeopatiche quella fascinazione del male che trasuda da Romanzo Criminale o dal Capo dei Capi).

E chiedo soprattutto di rizzare le orecchie. C'è gente in giro pronta a raccontare qualsiasi cosa, pur di difendere il diritto di trasformare la camorra nel nuovo pittoresco far west dei vostri ragazzini. Anche se alla fine gli argomenti sono sempre gli stessi.

- La gente non è mica stupida, capisce la differenza tra fiction e realtà (la gente, mediamente, dopo otto ore di lavoro è un po' stupida. Ha persino diritto di esserlo. La gente piccola, poi, è stupida di default. Ci si mette più di quindici anni a capire certe spigolose differenza tra fiction e realtà. Pensate ogni tanto a quanto eravate stupidi a 15 anni, per favore).

- Non facciamo che mostrare la realtà (quello lo fanno anche i film porno: non per questo li faresti vedere a tuo figlio minorenne, o no?)

- La tv non dovrebbe educare (la tv è un formidabile mezzo educativo, è stata usata sin dall'inizio a scopi propagandistici, e provoca emulazione in tutti gli utenti: pensa alla mascherina di zorro che ti mettevi da bambino).

- Sono la scuola e la famiglia che dovrebbero educare. (Scuola: 5 ore faticose al giorno. Tempo con la famiglia: 2 ore al giorno. Tempo di irradiazione televisiva quotidiana: 3-6 ore in media di ipnosi. Non prendiamoci in giro).
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Non vedi Napoli

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In Italy for thirty years under the Borgias they had warfare, terror, murder and bloodshed but they produced Michelangelo, Leonardo da Vinci and the Renaissance. In Switzerland, they had brotherly love; they had five hundred years of democracy and peace and what did that produce? The cuckoo clock. Orson Wells, 1949.

Gomorra, di Matteo Garrone, 2008.

* Due ore d'inferno e manco si vede Napoli. Si vede Venezia.

* Non si vedono i camorristi. Quelli della tv, del cinema, i boss incravattati. Una scelta forte, perché nel libro c'erano. Qui sono scomparsi, lasciando giusto qualche mobile da lucidare mentre il loro impero cade a pezzi. Il re è nudo e si abbronza per l'inferno.

* Non si vedono conflitti a fuoco – nel senso che non li vedi, ti ci trovi dentro e basta. Si sente un gran baccano, fuori sparano, anzi no, sparano qui davanti a me, sparano a me. Tutti i colpi sono alle spalle. È la descrizione della battaglia quando ti ci trovi dentro: niente coraggio, niente eroismo, quello lo troverai al bar tra vent'anni se ne esci vivo.

* Non si vede Saviano, non si parla di Saviano. È una buona notizia per un popolo che non ha bisogno di eroi, ma di cento mille sceneggiature come queste. Per quelli che sotto le impalcature del monumento giornalistico a Saviano cominciavano a sentirsi un po' a disagio – anche perché non te li scoprono da vivo, i monumenti.

* Non si vede il reportage. Tutto è diventato fiction, senza smettere di essere fottuta verità. Io li odiavo, quelli che in una colonnina o una recensione si lasciavano sfuggire “tratto dal romanzo di Saviano”. Romanzo? Che romanzo? Ma l'hai aperto almeno? Basta averne lette trenta righe per sapere che non lo è. Bene, dopo due ore di film lo è diventato. Avevo letto un romanzo, anzi quattro romanzi, e non me ne ero accorto. Stupido io, o molto bravo Garrone.

* Palma o non palma, quanto è stato bravo Garrone? Lasciamo perdere l'attenzione maniacale per l'accompagnamento sonoro, le migliaia di quadri viventi, paesaggi e primi piani; l'occhio fermo sulle piaghe del mondo senza mai cadere (mai!) nel grottesco o nel didascalico, lasciamo pure stare tutto. Ma quanto sono bravi i suoi attori non professionisti? Quanto sono bravi i due guappi, quanto è bravo Simò che saluta Totò perché passa con gli scissionisti, e quant'è bravo Totò? Ce li aveva Rossellini dei ragazzi bravi così?

* E se il cinema italiano stesse entrando, così, di botto, in un'età dell'oro? Già un paio di film veramente buoni, quest'anno, e non è che gli americani ne abbiano fatti molti di più. Un taglio spietato che sta diventando la nostra specifica, un realismo ad oltranza mentre tutt'intorno continuano a rimasticare le stesse favolette. Io di mio avrei preferito nascere e morire in una di quelle svizzere ordinate che al massimo inventano l'orologio a cucù, ma se mi tocca un Nuovo Rinascimento pieno di ammazzamenti e opere d'arte, cercherò di farmelo piacere. Anche perché me lo sento dentro, in fondo. Non siamo milionari che cercano di sensibilizzare il pubblico medioborghese ai drammi del Terzo Mondo: noi siamo il Terzo Mondo che arriva, la punta dell'iceberg della munnezza che credevate si potesse smaltire premendo un bottone. Siamo sporchi e cattivi, ma non ci toglierete di mezzo così facilmente, po po po po po, po. Noi siamo dentro la Macchina, siamo il nano deforme che comincia a pedalare quando voi premete il bottone, e se non sappiamo leggere e scrivere in compenso appena nati già portiamo gli autocarri. Non ci potete capire. Solo i cinesi possono capirci. I cinesi ci dedicheranno dei musei, dopo averci mangiato fritti tutti quanti.

* Dico “noi”, ma senza sottotitoli era dura, quella lingua masticata in secoli di avvistamenti e ambasciate. Poi all'improvviso succede qualcosa: comincio a capire tutto. Miracolo? no. La scena si è spostata su una gang senegalese, y a d'gosses qui arrivent. I senegalesi li capisco meglio dei casertani.

* Cari amici che siete sicuri che sarà un capolavoro, come il libro, ma che di due ore di lucida disperazione questa settimana fareste volentieri a meno: provateci. Fate finta che sia un inno alla speranza, in fondo lo è. È un film sulla camorra, ma è anche un film sulla fine della camorra, che perde colpi, perde pezzi, perde tutto; che non riesce a pagare la pensione ai carcerati perché i boss devono giocare ai gangster, “fare punti, bum bum bum!”; la camorra che uccide i suoi figli perché si fa prima ad ammazzare che a insegnare il rispetto; che perde le maestranze perché persino i cinesi pagano meglio, che crollerà alla fine in un turbine di polvere grigia e bianca senza lasciare niente, neanche un ritornello neomelodico, niente: solo un cratere, che potrebbe venire buono per certi liquami radioattivi, oppure per costruire un mondo migliore. Migliore di com'è questo, non ha manco da esser difficile.

- Un ineluttabile romanzo di morte ambientato su un altro pianeta, il nostro (Giovane Cinefilo)
- Al posto del cuore c’è giusto un livido nero. (UnoDiPassaggio).
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Il re dei can per l'aia

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Lo Stato di Travaglio

Mettiamo che io fossi il Presidente del Senato di uno Stato... non come l'Italia, uno Stato democratico; mettiamo che accendendo la tv trovassi un giornalista male informato che mi dà del mafioso. Beh, senz'altro mi arrabbierei. E poi convocherei una conferenza stampa per smentire le affermazioni del giornalista. Ah, non mi tratterrei dal querelare il giornalista: la legge me ne dà il diritto, e lo stesso rispetto che nutro per la carica che rivesto me lo imporrebbe. E siccome sono stato diffamato in diretta tv, chiederei (e otterrei facilmente) uno spazio televisivo analogo per argomentare meglio la mia smentita. Questo, se fossi il Presidente del Senato di uno Stato democratico; non dell'Italia, che pare sia una dittatura. L'avreste detto mai?

In questa Italia dispotica, c'è un solo canale (Rai3), un solo presentatore, (Fazio) e un solo giornalista che ha il diritto di parlare (Travaglio), infangando ogni carica dello Stato che gli capiti a tiro... senza possibilità di contraddittorio! Cioè, vi rendete conto? Se il povero Schifani vuole difendersi, non può! Ne è prova che non ha ancora ufficialmente smentito le dichiarazioni di Travaglio, né lo ha denunciato. Probabilmente vorrebbe farlo, ma in tv nessuno è disposto a inquadrarlo: tutti temono Travaglio e il suo diabolico potere, evidentemente. Giusto su qualche giornale clandestino, o tra i marosi del World Wide Web trovi qualche temerario disposto a difenderlo, ma con esiti abbastanza scarsi. Stamattina, per esempio, Filippo Facci ha fatto quel che ha potuto su Macchianera. Onestamente pensavo che la seconda carica dello Stato si meritasse qualcosa di meglio… ma giudicate un po’ voi.

Sul serio: che dobbiamo fare con Marco Travaglio?
Perché vedete, quelle di Marco Travaglio non sono «opinione diverse»: sono piccole e grandi falsità mischiate a omissioni, ciò che nell’insieme forma una cosa che si chiama propaganda.
Che sia per se stesso, o per i suoi amici, è propaganda. E che dovremmo fare? Si sbaglia in ogni caso. Se te ne occupi fai il suo gioco vanesio e legittimante, oltretutto perdi un sacco di tempo perché la quantità di cose appunto false e omissive da lui dette è talmente clamorosa da rischiar di consumare, solo per replicargli e smentire, tutto il tuo tempo e tutti i tuoi articoli. Se invece non te ne occupi, viceversa, c’è il rischio che il silenzio passi per assenso e dunque s'insinui come una droga che dia subito assuefazione, talchè lui, per farsi notare e fare sempre più il fenomeno, ogni volta alzi la dose delle cretinate che scrive e che ripete a pappagallo. Che fare, dunque?
Questo è solo un preambolo astioso, ma vedrete che nel prossimo paragrafo Facci confuterà le accuse di Travaglio, una per una, con dati alla mano.
Va considerato peraltro che l’ego pubblico del ragazzo è talmente devastante da farlo esser fuori casa sette giorni su sette: presentazioni di libri suoi, libri di altri, spettacoli teatrali, girotondi, kermesse satiriche, comizi di Grillo, convegni organizzati da circoli culturali o da banche, soprattutto talk-show illiberali sinchè non lo invitano, questo secondo uno schema nondimeno brutale: se l’invitano deve poter dire qualsiasi cosa di questo regime, sennò è la prova che il regime c’è; se non l’invitano, beh, vuol dire che il regime c’è definitivamente. Beh, anche qui non è ancora entrato nel merito, però non ha tutti i torti, dai, ormai Travaglio è onnipresente. Ma... le accuse a Schifani?
A proposito: Biagi è stato cacciato. Non è vero, è documentalmente provato che è falso, niente di serio prova il contrario: ma a lui e altri lo ripetono sperando che la cosa passi in cavalleria. Biagi? E Biagi che c'entra? Dai, Facci, la polemica su Biagi un'altra volta. Oggi bisogna difendere il Presidente del Senato da un'accusa pesantissima!
Propaganda? I signori conduttori, nel dubbio, lo invitano. Travaglio oltretutto alza gli ascolti perché attira sia i descolarizzati & frustrati che lo amano (target Di Pietro) sia quelli che lo detestano e allora lo guardano come si guarda, dicendo «che schifo », un gatto spiaccicato sull’autostrada. Di Pietro comunque è laureato in giurisprudenza con 108/110, eh. Sbaglia spesso i congiuntivi, ma quando parlo anch'io. Comunque si parlava di Schifani.
Nel frattempo il terzo gode: si chiami Santoro, Fazio o chi volete. Che ci vuole: è sufficiente dissociarsi con una formuletta. L’ha fatto l’altro giorno Fabio Fazio, tutto contento e finto preoccupato, anche un po' viscido, perché Travaglio è uno che fa comunque rumore e che fa parlare della tua trasmissione. Sì, effettivamente Fazio è un po' il re della doppiezza... volevo dire della dissimulazione onesta... ma parliamo di Schifani.
Travaglio ha detto cose orrende del neo presidente del Senato, Renato Schifani, estraendo dal cappello alcune remote frequentazioni tra lui e altra gente che è stato indagata per mafia 18 anni dopo. EVVAI! FINALMENTE!!! FALLO NERO!!!
Più in generale, a Travaglio non par vero di potersi auto-associare a giornalisti come Lirio Abbate (persona seria, minacciata dalla mafia, ma essenzialmente cronista come Travaglio non è mai veramente stato) Ma insomma, Abbate conferma? Perché più del valore del giornalista Travaglio, c'interesserebbe sapere se Schifani ha frequentato mafiosi o no.
come Roberto Saviano, l’autore di Gomorra che ad Annozero, qualche settimana fa, in confronto, ha fatto sembrare Travaglio come un figurino patetico e impiccato ai suoi verbalini. Minacce mafiose: conoscendolo, è la medaglia cui Travaglio ambirebbe maggiormente. E una bella scorta, magari. Perché lui è libero e il regime vuole ucciderlo, mentre non siamo prigionieri e non ci fila nessuno: lo schema, involuto, è questo. Sì, sì, va be', viva Saviano, ma Schifani ha frequentato dei mafiosi o no? Cosa dice esattamente Abbate?
Da capo: che fare, dunque? Non se ne uscirà, di questo passo. La logica degli ascolti e la vanità di questo addetto stampa della Magistratura italiana presto ce lo mostrerà anche alla ‘Prova del cuoco’ ad accusare Giuliano Ferrara di essere grasso (la sfottò per difetti fisici è una sua ossessione, da fascistello che è) o a spiegare che la lobby dei tacchini natalizi era chiaramente citata nel Piano di Rinascita nazionale caro a Licio Gelli. Prova del cuoco? Giuliano Ferrara? Licio Gelli? Mi sembra di vedere un cane menato in mezzo all'aia. Facci! C'è un presidente del Senato da difendere da accuse infamanti!
Perché un altro punto, e ve lo dice uno che i verbali giudiziari li ha letti e masticati per vent’anni, è che Travaglio non è uno appunto che ha «opinioni diverse», Travaglio è un cialtrone. Sarà anche un cialtrone, ma... insomma, Schifani ha frequantato dei mafiosi o no?
Marco Travaglio è un grandissimo cialtrone inviso a qualsiasi persona intellettualmente onesta e minimamente informata. E’ la faziosità pura, la riproposizione dei passaggi di alcune sentenze al posto di altri, di certi verbali al posto di altri, di certi avversari al posto di altri. E’ l’enfasi delle sentenze di condanna e in caso di assoluzione è la sottolineatura delle parti che la condanna auspicavano. E’ l’invenzione di status giuridici inesistenti (prescritto al posto di non colpevole, soprattutto) o è la citazione dell’articolo articolo 530 come «insufficienza di prove» anziché «assoluzione perchè il fatto non sussiste». Sì, sì, sì, ma Schifani?
E’ dire «in nessun paese del mondo avviene che» anche se non è vero, sapendo che nessuno o quasi andrà a controllare: vedasi il caso delle intercettazioni telefoniche, o del celebre conflitto di interessi, che negli Usa sarebbe tranquillamente tollerato come ha ripetuto Al Gore di recente. "Sarebbe tollerato?" Ci pigli per il culo?
Più in generale, Marco Travaglio è un fracco di balle di cui nessuno si accorge perché lui è così «documentato» che nessuno si prende la briga di controllare, tantomeno conduttori e direttori e caporedattori. Per anni Travaglio ha attribuito a Paolo Borsellino la citazione di una telefonata tra Mangano e Dell’Utri dove si parlava di droga: appreso che questa telefonata non è mai esistita, lui ha continuato a citarla. Vabbè, la storia è nota: Mangano al telefono parlava di "cavalli"; quando ne parlava con Inzerillo si trattava di carichi di droga, quando ne parlava con Dell'Utri, si trattava di cavalli veri. Dettagli suggestivi, ma... Schifani?
Travaglio ha scritto balle contro Mediaset e Fdeele Confalonieri: condannato, ma non lo sa nessuno. Ha scritto balle contro Cesare Previti: condannato, ma non lo sa nessuno. E pochi sanno degli errori materiali (chiedete a Giuseppe Ayala) e pochi sanno dei casi di omonimia di cui ha dovuto scusarsi (chiedete a Pierferdinando Casini, Giuseppe Fallica e Antonio Socci) e pochi sanno soprattutto delle tantissime sciocchezze e omissioni che nessuno sta neppure a smentire. All’ultimo Annozero Travaglio ha detto che Grillo non può essersi arricchito con l’antipolitica perché i 4 milioni di euro da lui dichiarati, in realtà, sono del 2005, e cioè di quanto i vaffanculo day neppure li faceva. Non è vero, sono i redditi denunciati l’anno scorso: ma a lui basta dirlo. Comincio a capire lo schema: se Travaglio ha scritto tante balle, sarà anche una balla quella dei contatti mafiosi di Schifani. Un po' tortuoso, però: non si faceva prima a dimostrare che Schifani non ha avuto contatti coi mafiosi?
Al V-day di qualche settimana fa Travaglio ha tuonato contro i finanziamenti pubblici all’editoria e ha detto che anche l’Unità percepisce contributi «come tutti i giornali italiani»: e non è vero, perché la sua l’Unità percepisce più contributi di tutti in quanto stampa politica come tantissimi altri giornali non sono. Se vai suo internet e cerchi l’ultimo articolo di Travaglio contro Gianni Alemanno, nei sindaco di Roma, trovi le accuse più incredibili contro di lui ma neppure la citazione del dettaglio che è stato assolto. Sempre assolto. Non è vero che l'Unità prende contributi perché... ne prende di più? Che razza di argomento è? e soprattutto: cosa c'entra con Schifani?
Il fatto è che il nostro precisino sa essere tremendamente impreciso: ogni volta alza la posta dell’invettiva, abbassa l’asticella del target e tutto il resto è regime: magari citando e ricitando Montanelli. Quando un Montanelli redivivo, oggi, a uno come Travaglio, gli rilascerebbe sul sedere un bel verbale a forma di tacco. Usare i morti è sempre facile: non possono smentire, neanche loro. C'è da dire che finché era vivo Montanelli lavorava con Travaglio, non con Facci. Ma ho uno scoop: se Montanelli fosse vivo mi preparerebbe il caffè ogni mattina, perché sono un gran figo, mentre Enzo Biagi mi massaggia la schiena.
Poi ci sono quelli, stupidi o in malafede, che dicono: però le cose che Travaglio ha detto su Schifani sono vere. Ecco, tutto qui: sarò stupido o in malafede, ma voglio sapere se Schifani frequentava dei mafiosi o no. Le tue risse da condominio con Travaglio falle pure su AnnoZero, tanto cambio canale.
E invece sono irrilevanti, pretestuose e nondimeno, per come presentate, false. Oh, ecco. Spiegaci il perché
Sono irrilevanti perché stiamo parlando di persone che Renato Schifani ha frequentato 30 anni fa (nel 1979) e che solo 18 anni dopo sono state riconosciute come mafiosi: basti che gli dei di Travaglio, i magistrati, non hanno mai interrogato né accusato Schifani per questa faccenda. Quindi se 30 anni fa Schifani avesse frequentato davvero dei mafiosi non sarebbe grave? E poi non è chiaro: 18 anni più tarsi cosa è stato scoperto? Che erano appena entrati nella mafia o erano già affiliati nel nel 1978 quando si vedevano con Schifani? Io non lo so, perché non ho il libro, ma tu che ce l'hai, perché non lo scrivi? Perché i magistrati non se ne sono mai accorti? Ma i magistrati sono gli dei di Travaglio, non i tuoi. E se si fossero sbagliati?
Inoltre il libro piuttosto vecchiotto da cui Travaglio ha copiato le sue accuse, diversamente da come indegnamente fatto da Fabio Fazio, riporta la questione in maniera corretta: e cioè? Quindi il libro ce l'hai? Perché non citi almeno due righe?
tanto che Schifani il libro non l’ha mai querelato. Ma se per questo non sta querelando neanche Travaglio! Cosa dobbiamo pensare?
Ecco perché è particolarmente odioso che Travaglio cerchi di ripararsi dietro Lirio Abbate, autore del libro e ottimo cronista già minacciato dalla mafia: «Devono avere il coraggio di dire che Abbate è un mascalzone» ha infatti detto Travaglio da Fazio. Ma Abbate non è un mascalzone, e Travaglio invece sì, perché mente. Non è mica tanto chiaro, sai. Abbate dice il vero, Travaglio lo cita, eppure mente. Ma su cosa?
Travaglio, in trasmissione, ha dolosamente citato le amicizie di Schifani come se corrispondessero a una notizia, a una rivelazione che tutti nascondono tranne lui: «I giornalisti non scrivono che Schifani ha avuto delle amicizie con dei mafiosi perché non lo vuole né la destra né la sinistra, ma io faccio il giornalista, devo raccontarlo» ha detto in tv l’ultimo giornalista sulla Terra. Effettivamente è curioso che ne parli solo lui. Vien da pensare che gli altri non lo sappiano, o preferiscano non parlarne.
I giornalisti normali, in effetti, non hanno tirato fuori una vicenda che è vecchia, penalmente irrilevante e già pubblicata più volte: vicenda che ora Travaglio si è reinventato per trasformarla in una vaga primizia che ha spolverato con lombrichi e muffe prima di coprirsi infine con Lirio Abbate Ah, non ne parlavano perché era roba vecchia e penalmente irrilevante. Lui invece la tira fuori, e in questo modo mente. Mah.
e questo solo perché Schifani è diventato presidente del Senato. Scusa se è poco, eh. Fino all'altro ieri era una faccia in tv, adesso è la seconda carica dello Stato, se tu fossi un giornalista capiresti che in questi casi ti rivoltano anche i cassetti, e se ci trovano muffe di vent'anni fa è comunque uno scoop... aspetta, ma tu sei un giornalista...
In questo quadro c’è ancora chi fa spallucce se si reclama un contraddittorio: inteso come possibilità di spiegare al pubblico le malizie di un disonesto professionale. In questo quadro, secondo Travaglio e secondo un imbarazzatissimo Antonio Padellaro, direttore de l’Unità, dovrebbe essere Schifani a fornire spiegazioni: siamo alla follia. Ma non chiedete tutti la stessa cosa? Un contraddittorio servirà a Schifani per spiegarsi, no? Che problema c'è? Ah, già, dimenticavo, esiste un solo canale tv (Rai3), un solo conduttore (Fazio) e un solo giornalista con diritto di parola (Travaglio)
Travaglio deve ancora fornire spiegazioni, detto tra parentesi, circa l’episodio che lo rese noto: la volta ossia che andò da Luttazzi a sostenere riga per riga tutte le accuse che dipingevano Berlusconi come un mafioso. Quelle accuse sono cadute tutte ...in prescrizione, dai. O perché ha cambiato la legge. Ci prendi per fessi?
ma lui non si è mai scusato. Si capisce. Dovrebbe dire così: "Scusatemi, credevo che avesse corrotto i tali giudici, ma il processo è andato in prescrizione e quindi mi sbagliavo..."
Ha continuato a riportare ogni singola accusa nei suoi libri. Tutte. Dicendo magari che le indagini sono state archiviate, sì, «ma con motivazioni durissime». In natura esiste qualcosa del genere: si chiama scarabeo stercorario. Nel giornalismo italiano si chiama Marco Travaglio. Bella chiusa.
Mi resta solo un dubbio: Schifani aveva frequentazioni mafiose o no? Possibile che in diecimila battute non sei riuscito a dire di no?Adesso è colpa mia se comincio a sospettare che sì?
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è un Mercato Pazzerello

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Di notte, scalciando
Così l'intellettuale declassato, smanioso di una rivincita sulla borghesia che lo disprezza e sul proletariato che rifiuta di adottarlo e ne misconosce le qualità, completa la sua parabola esistenziale riciclandosi come manovale della reazione. (Th. Bruch, Didattica del Materialismo, XIV, 6).
“Non stai dormendo, vero?”
“Mmmno”.
“Che faccia che hai. Possibile che non te ne sia fatta ancora una ragione?”
“Me ne sono fatta una ragione”.
“Per niente. Ma lo sapevi che perdevamo, no?”
“Certo che lo sapevo. Stavo per giocarci dei soldi”.
“Ecco, appunto, perché non te li sei giocati?”
“…”
“Trecento euro e ti passava la tristezza”
“Sì, secondo te io sono uno che si gioca trecento…”
“Giusto la fattura del tizio che ci ha riparato il tetto, caccia via”.
“A proposito, e l’immobiliare?”
“Ci risentiamo domani. Comunque i prezzi sono quelli lì”.
“Ma sono matti. Sono tutti matti. Aspettiamo, vedrai che calano”.
“Come no”.
“Calano, calano”.
“Non dovevano calare l’anno scorso?”
“Tra un po’ va giù tutto, vedrai”.
“E se invece va su?”
“Non può andare ancora su”.
“Certo che uno come te, che capisce tante cose… è un peccato”
“Cos’è peccato?”
“No, dico, peccato che l’unica cosa che tu non riesca a capire siano i soldi”
“Guarda che li capisco benissimo”.
“Come no. Un rockfeller. Ti chiamerò Rockfeller, come il merlo”.
“Il corvo. Era un corvo”.
“Non aveva il becco giallo?”
“Ti confondi con Portobello. Buonanotte”.
“Buonanotteamore”.

Ha ragione.
Sto a preoccuparmi dei massimi sistemi e intanto ci piove in casa. Bisogna farsi furbi, monetizzare.
Intanto posso cominciare a dar lezioni. Pare che si arrotondi bene. Tutti i liceali col panico dell’esame a settembre… vedi che Fioroni una cosa giusta l’ha fatta.
Però alla fine è solo una pezza. A scuola quanto potrò andare avanti? Può solo peggiorare, e si fa già fatica adesso. Nelle classi a 29 non si respira, letteralmente, e poi basta che ce ne sia uno un po’ schizzato e tutti lo seguono a ruota.
E tutte queste storie sul bullismo, sugli insegnanti fumati o maniaci sessuali… lo sai dove vogliono arrivare, no? Vogliono convincere i genitori middle-class a staccare i buoni scuola e mandare i figli al SacroCuore. Così ci resteranno solo terroni, tunisini e albanesi. C’è da dire che a volte sono più educati. Soprattutto i cingalesi, che però hanno un odore che non sopporto. È la loro cucina maledetta. Che razza di spezie usano? Mi si fermenta il caffelatte nello stomaco – l’altro giorno stavo per vomitare davanti a una bambina. Tutta una vita così? Ma forse ci farò l’abitudine. Forse.
È chiaro che quando sei giovane, hai tanto entusiasmo, credi di poter risolvere tutto, ma siamo seri: quanto credi di poter durare? Io volevo insegnare la storia e la geografia, se devo mettermi lì a spiegare l’alfabeto ai cingalesi mi annoio. Cioè, dai, non è più il mio mestiere. Però è l’unico mestiere che so. Forse.

“Spengo la luce”.
“Ok, buonanotte”.

E intanto il conto cala. E se mi capita qualcosa? Imprevisti, probabilità – poi un giorno ti segnano la fiancata e finisci in rosso. Succederà. È già successo ad altri. E io non sono più furbo di loro. Diciamo la verità. Capisco tante cose, ma non sono più furbo di loro.
L’università è esclusa, c’è una fila di ex ricercatori questuanti che parte dagli anni Novanta, e sono tutti più giovani e svegli di me. E quindi? Questi son problemi, altro che Berlusconi. Certo, può sempre darsi che crolli il petrolio e il dollaro, si sciolgano i ghiacciai e collassi tutto l’occidente. Questo nel migliore dei casi. Ma metti che non succeda. Cosa faccio?
In politica non mi posso buttare, ho parlato male praticamente di tutti – e poi c’è la fila anche lì. Con Beppe Grillo? Per carità, inaffidabili. Andrà a finire come al g8, qualcuno si farà male e poi tutti a casa. Ma io comincio ad avere un'età. E se mi capita qualcosa? Del tipo, metti che mi debba far operare.

Già solo di denti mi stanno andando via stipendi interi, e fanno male lo stesso. E poi i dottori non me la contano giusta. L’altro giorno sono andato da un privato, cento euro per cinque minuti e un dito in culo! A proposito, cos’è questa nuova tendenza? Il proctologo lo posso capire. Il dermatologo m’insospettisce già un po’. Ma l’otorino? Possibile che non possa sfilarmi due biglietti da cinquanta senza appoggiarmelo lì? Ehi! Se proprio ho un bel culo dovreste pagarmi voi. E non è detto che non vada a finir così. Ma sto davvero pensando a questo?

E ‘sta pioggia maledetta, com’è che fa tanto rumore, stanotte? Di solito non picchia forte così. Del resto è aprile, ogni giorno un barile. Potrei mandare il curriculum in banca. Ma a chi la racconto? Io di soldi non capisco niente.
La verità è che in banca ci dovrei entrare con una pistola giocattolo. Una volta sola. In una banca sola. Funziona, una gran scarica di adrenalina e vai, la prima volta non ti beccano. Quelli che si fanno beccare, è sempre perché ci riprovano. Ma una rapina in banca non si nega a nessuno, è quasi un tuo diritto, del resto se le banche cominciano a fotterti a dodici anni…
Sì, ma un colpo solo mica basta. Nella cassaforte di una filiale, quanto ci sarà? Centomila? Va bene, si tira un po’ il fiato, e poi? Ci vuole un reddito. Potrei fare il corriere. In effetti sarei un buon corriere. Le autostrade le so tutte e mi piace girarle, fermarmi agli autogrill e non pensare a niente. Non mi hanno mai fermato a un blocco, mai, nemmeno con la barba sfatta. Ispiro confidenza. Potrei girare l’Europa in lungo e in largo trasportando chili di qualsiasi cosa. Tra l’altro non consumo, per cui come corriere sarei molto affidabile.

Mi terrei un mestiere di copertura – non so, potrei fare il rappresentante di enciclopedie. La faccia ce l’ho. E nella ruota di scorta potrei portare in giro di tutto. Ma che ruota di scorta, ormai ti fanno ingurgitare – se va bene. Sennò supposta. E torniamo sempre lì. Ma almeno si guadagna. Non posso credere che sto pensando a questo. Io corriere, sì, di cosa? E per chi? Non conosco nessuno. Cioè, nessuno, aspetta. Toni di IIIC.

Lui riga abbastanza dritto, ma suo zio venne qui in soggiorno coatto, due anni prima che cominciassero gli incendi dei capannoni. Quando viene al ricevimento generale gliela butto lì: “devo arrotondare, faccio già dei piccoli trasporti, lei non conosce mica qualcuno che ha bisogno di…”. Si capisce che non si fiderà subito. Magari mi chiederà di accendergli un capannone, prima. E vabbè, dopotutto a me che frega dei capannoni? Tutti di gente che vota lega, se ne vadano affanculo, ve li brucio con soddisfazione. Ha anche smesso di piovere.

Tre o quattro anni così, senza dare nell’occhio. E se mi mandano all’est, c’è anche la possibilità di arrotondare. Se vado via vuoto e imbarco un paio di badanti a viaggio metto insieme una somma discreta senza spesa aggiuntiva. Se guidassi un camioncino, ma in macchina chi vuoi che mi fermi? Ho la faccia da tratta delle bianche? Tutto tranquillo, basso profilo. E se il padre di Toni vuole farmi la cresta? Tra l’altro suo figlio sa benissimo dove parcheggio. Lo vedi che mi serve un garage?
E va bene, avrà la sua percentuale. Però bisogna starci attenti, perché è un mestiere in cui si brucia molta benzina, e la benzina sarà sempre più cara… potrei mettere la bombola a metano… ma c’è il metano in Ucraina? Devo guardare su internet. Anche se poi… con la bombola… nel traforo del Gottardo… ma è già esploso una volta, quel tunnel… quindi le probabilità che esploda ancora…

E poi non devo mica passare la vita così. Quattro-cinque anni e poi mi metto in proprio. Una cosa piccola e pulita, senza dare fastidio a nessuno. Un bar con due camere sopra. Ci metto due bielorusse regolarizzate, e gli chiedo il venti per cento. Mi sembra onesto. O non lo è? Devo guardare su internet, ma sono convinto che c’è gente che prende anche il quaranta. Naturalmente se viene il padre di Toni offre la casa. Ma se viene il resto della famiglia? È numerosa. Gente che non paga volentieri. Hanno buttato giù un ristorante nella bassa, una volta, per via di un conto. Bisognerà abbozzare. Che mi metto a litigare coi camorristi, coi tempi che corrono?
E se le bielorusse si rifiutano di lavorare gratis e amore dei? Che poi i bar mica te li regalano, ci sarà un mutuo da pagare. Va a finire che mi toccherà chiedere soldi. Alla famiglia di Toni, naturalmente. E poi mi strozzeranno, va da sé. Un bel giorno mi alzo e mi trovo il bar bruciato… ma chi me l’ha fatto fare…
“Abbia pazienza, prof, ordini superiori. Dovevamo verificare che non ci fossero perdite dal tetto, ci capisce…”.
“Ma stavo giusto arrivando con la rata…”
“Prof, lei è un bravo guaglione, ma con rispetto parlando, se avesse mai studiato economia. Gli interessi passivi, ha presente gli interessi passivi? Comunque un modo di recuperare c’è. Si ricorda il vecchio mestiere? Ci sarebbe una missione a Bucarest”
“Ma Toni…”
“Una cosa rapida e indolore. Sei capsule. Ai vecchi tempi ne teneva pure otto”.
“Ma sono vecchio, Toni. Va a finire che esplodo”.
“E c’è pure un pappagallo con il becco giallo”.
“Con la bombola. Di metano. Nel traforo. Lungo chilometri sei”.
“Un tantino picchiatello… non sa dire: portobello”.
“Ma stavo così bene da statale”.

***

“Ma stai bene?”
“Eeeeh?”
“Stai scalciando!”
“Macché”.
“Ti dico che scalciavi. Dormivi? Hai fatto un brutto sogno?”
“Ma no, ero qui che pensavo tra me e me”.
“Che pensavi?”
“Pensavo… pensavo che dovrei cominciare a dar lezioni… c’è molta richiesta”.
“Mi sembra una buona idea”.
“Sai, hanno tutti paura dell’esame di settembre, adesso”.
“Ottimo”.
“Ti voglio bene, sai”.
“Lo so, anch’io ti voglio bene. Buonanotte”.
Buonanotte.

E' un racconto, mamma, sta tranquilla, sto bene, non mi manca niente. Ogni riferimento a fatti persone o cose è puramente casuale, la cucina cingalese è saporita e inodore e la camorra non esiste, da noi. Ma neanche altrove, in generale.
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Rispondete in silenzio o tacete per sempre

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Cosa capirà la gente

Se tutto va come deve andare, stasera ad AnnoZero faranno vedere ampi stralci de La mafia è bianca, lungometraggio del 2005 sulla malasanità siciliana. È un documento importante, che dimostra (dimostrerebbe) i rapporti non occasionali tra Cuffaro ed esponenti mafiosi. Cuffaro è un po' sdegnato, perché sostiene che Santoro lo voglia processare senza contraddittorio. Però, attenzione: Cuffaro, alla trasmissione di stasera, era stato invitato. È lui che non vuole andarci, a causa di impegni presi in precedenza. (Impegni? Ti sei appena dimesso da Presidente, possibile che non trovi un buco per andare in diretta tv nazionale per rispondere ad accuse di mafia?) Insomma Santoro ha il gravissimo torto di averlo invitato ripetutamente una sera in cui lui è già affaccendato. E vabbè.

Cuffaro chiede a gran voce di spostare la puntata. O in alternativa, di far vedere stasera anche un documento di qualche anno fa: un contraddittorio tra lui e i due autori del documentario, Stefano Maria Bianchi e Alberto Nerazzini(*), moderato dal mio nuovo blogger di riferimento, Pierluigi Diaco. Quest'ultimo, giustamente lusingato, si unisce alla richiesta di Cuffaro e ripesca parte di quel contraddittorio da YouTube.

Per quel che vale, mi unisco anch'io: Santoro, fallo vedere, quel contraddittorio. Piglialo anche tu da internet, chi se ne frega se è un po' sgranato. È un documento meraviglioso, su Cuffaro e sui giovani giornalisti italiani.



Prendete i primi minuti: Diaco chiede a Bianchi e Nerazzini perché invece di inseguire Cuffaro per tutta la Sicilia con la telecamera in mano non gli hanno semplicemente chiesto un'intervista. Loro rispondono che gliel'hanno chiesta. Lui insiste: perché non gliel'avete chiesta a telecamere spente? Loro rispondono: gliel'abbiamo chiesta, varie volte, anche a telecamere spente. Lui continua a chiedere: sì, ma insomma, perché non gliel'avete chiesta? Loro non sanno più cosa dire, Cuffaro sogghigna, e a questo punto Diaco, infastidito, dà uno storico ultimatum: “O rispondete alle mie domande in silenzio, o la gente non capisce nulla”.

Ecco, secondo me il problema è tutto qui: in Italia ci sono dei giornalisti, anche bravi, che però non riescono a rispondere alle domande in silenzio. Di conseguenza la gente non capisce. Diaco questo lo ha capito, ma gli altri ancora no, ed è per questo che lo mobbizzano e non lo fanno entrare nelle costituenti dei nuovi partiti che contano.

(*) Sì, Alberto è stato mio compagno di banco, è tutta una conventicola, un magnamagna, ecc. ecc.
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Paracoolander

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Sempre su Diacoblog - quest'oasi di professionismo giornalistico nel deserto dilettantistico del web italiano - trovate l'intervista di Pierluigi Diaco a Totò Cuffaro. In tutto, 1356 parole (8774 caratteri). 75 sono di Diaco, che anche in così poco spazio non rinuncia a offendere sintassi e ortografia. Le restanti 1281 sono farina del sacco di Cuffaro, che pure avendo tutto lo spazio per protestare la sua innocenza, non si abbassa a tanto. Si limita a riconoscere, bontà sua, che per non schiodare dalla poltrona dopo una condanna ci vuole molto coraggio, e lui ce l'ha: più o meno lo stesso coraggio di Gandhi. Ma non risponde a nessuna domanda in merito al processo. Anche perché queste domande Diaco non gliele fa. La domanda più cattiva è sui cannoli.

Presidente Cuffaro, se durante il dibattito d’aula dovesse percepire un clima ostile, ci vorrà più coraggio a restare al governo della Sicilia o a dimettersi? E lei cosa farà?
“Ci vorrà senz’altro più coraggio a restare che a lasciare tutto e ritornare a vivere da privato cittadino. Ma io come Gandhi penso che “Nulla si ottiene senza sacrificio e senza coraggio. Se si fa una cosa apertamente, si può anche soffrire di più, ma alla fine l’azione sarà più efficace. Chi ha ragione ed è capace di soffrire alla fine vince”. Ed io che le mie scelte le ho sempre fatte apertamente avrò il coraggio di non fuggire e restare a governare la mia meravigliosa terra così come i siciliani mi hanno chiesto e continuano a chiedermi”.


Questo è Cuffaro. E questo è Diaco. Il piccolo grande padre costituente del PD che ci siamo persi.
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chi fa sempre divertire i grandi ed i piccin?

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Una delle principali differenze tra la realtà e l’animazione è il topo. Il topo di cartone è istintivamente simpatico: canta, balla e si fa beffe dei grandi. Il topo vero è una bestia orrenda, un parassita e un untore. Questa differenza, che abbiamo tutti afferrato in età prescolare, è uno dei grandi misteri dell'umanità. Perché Disney, tra una varietà infinita di animali esotici e da cortile, si fissò sul topo? Perché Mickey il Topo ha fatto il botto e Felix il Gatto no? Nel Trecento i ratti sui bastimenti che venivano da Oriente portarono un’epidemia di peste che dimezzò la popolazione europea: la salvezza fu un nuovo animale domestico importato dall’Africa, il gatto. Eppure i bambini tifano per Jerry e contro Tom.

Cosa c’è nella stanza 101? (Winston del Grande Fratello)

E non i bambini di oggi, disinfettati ai limiti della sterilità, che di topi ne vedono solo sullo schermo piccolo o grande. I bambini degli anni '40 che in mezzo ai topi ci vivevano, in case con buchi nel battiscopa e rumori in cantina. Al cinema ridevano (grandi e piccoli) per il topo di cartone; poi rincasavano e controllavano le trappole. Magari il tifo per il topo era il primo accenno di ribellione del piccolo di casa: una specie di solidarietà tra le piccole creature sempre affamate. Ci saranno stati bambini che di nascosto portavano briciole al roditore. Credo che uno dei passaggi cruciali della pre-adolescenza sia quando ti accorgi che Jerry non è poi così simpatico, anzi, a ben vedere è uno stronzo, e cominci a tifare per il suo avversario frustrato. Fine della solidarietà tra le piccole creature: diventi grande, cominci ad avere paura dei germi e a sviluppare il senso della proprietà: giù le mani dalle nostre provviste, parassita!

E questo cos'è? Non ci sono già stati abbastanza cartoni con il gatto e il topo? (I manager della MGM ad Hanna e Barbera, nel 1940).

Ratatouille è un film piuttosto strano, anche per la media della Pixar. Per quanto la consociata della Disney rifugga le trame scontate, tutti i suoi film mantengono un sano contenuto morale, di quelli che si possono condensare in due righe e che mettono d’accordo grandi e bambini (i grandi devono lasciare lo scetticismo nel vestibolo, s’intende): per esempio Mosters & co. dimostra che la fantasia vince sempre sulla paura, Nemo ricorda ai genitori che i figli devono imparare a nuotare da soli, proprio perché il mondo è vasto e alieno come l’oceano; Cars insegna a grandi e piccini il valore dei rapporti umani, che trionfa sulla grande competitività universale. E così via. Anche Ratatouille ha una morale e un lieto fine, ma zoppicano. Sembrano appicicati per contratto.

Tutto ciò per dire che davanti a Ratatouille si sta a bocca aperta per l’esperienza della visione che dà, quasi travolgente. È su questa sensazione di realismo cartoonesco che poi si muove l’amore per i personaggi (Secondavisione)

Il film (che è bellissimo, se non avete la fobia dei topi, ed è andato meglio in Francia che negli USA) non è americano al 100%. L’idea è di Jan Pinkava, britannico d’origine boema, già premio Oscar per un corto. Gli uomini della Pixar devono averne apprezzato soprattutto il senso della sfida: dopo aver creato con Cars un mondo cromato e arrugginito, in cui l’automobile è Natura, i canyon hanno le sagome di vecchie cadillac e le nuvole sono strisce di pneumatici, stavolta si trattava di stravolgere uno degli archetipi dell’animazione: il Topo. Togliere al Topo il cravattino di Jerry e le braghette di Mickey. De-antropomorfizzarlo, riportarlo alla natura, alla sua condizione di scroccone purulento. E poi rimettersi nel suo punto di vista: il punto di vista di un animale braccato, per il quale anche una vecchia zia borgognona è un orco sterminatore, e la sua vecchia spingarda lancia razzi Terra-Aria.
L’altra scommessa era il cibo. L’ultima frontiera del digitale è rendere l’organico coi pixel: le croste croccanti, il verde delle muffe, il ribollire di una salsa. E dopo avere programmato cibo vero e ratti veri, farli interagire in un film per bambini. Trasformare un’orda di ratti sporchi e scrocconi nel personale di un ristorante francese: una sfida impossibile, salvo che nulla è impossibile per gli uomini della Pixar. La morale del film è la sfida stessa: non tutti hanno talento, ma se ce l’hai puoi fare qualsiasi cosa. Puro calvinismo: la fede è un dono che sposta le montagne. Rémy è il ratto aspirante chef, che per cucinare deve servirsi dello sguattero Linguini: il modo in cui impara a guidare il suo strumento umano, tirandogli i capelli per condizionarne i movimenti, è una stupenda metafora del mestiere dell’animatore (e di qualunque arte o mestiere): migliaia di tentativi e ore di lavoro, anche solo per affettare un tubero. Ma se hai talento puoi solo farcela, e infatti Rémy ce la farà. Titoli, fine.

È ingiusto, ma è normale: ai bambini piacciono gli animali piccoli, vispi e birichini.

Ecco, questa è la crosta croccante del film. Quello che c’è dentro, però, è un po’ meno dolciastro: come se qualche spezia europea fosse riuscita a salvarsi anche dopo che Pinkava ha lasciato la Pixar e il progetto è passato a Brad Bird. Il retrogusto amaro si percepisce soprattutto nelle prime sequenza: più tardi, quando si avventurerà in quel mondo pieno di coltelli, carrelli e altre insidie, sarà impossibile non prendere le parti del Piccolo chef. Ma all’inizio della storia Remy non è necessariamente un personaggio simpatico. È il figlio del Capo di un branco accampato nel solaio di una casa di campagna. Il suo fiuto straordinario lo rende prezioso per la sopravvivenza della “famiglia”, grazie alla sua capacità di riconoscere il cibo avvelenato. Per il resto, il padre e i fratelli non hanno la minima considerazione per le sue capacità. Per il padre il cibo è solo carburante, ai fini dell’unica missione di vita: sopravvivere, malgrado gli umani. Di fronte a questi orchi enormi, che massacrano i ratti senza pietà, la famiglia non ha altra scelta che scappare e mangiare, mangiare e scappare, senza dividersi mai.

REMY: Prima o poi il piccolo deve lasciare il nido
IL PADRE: Noi siamo ratti! Non lasciamo il nido! Lo facciamo più grande!

È una vita che Remy non sopporta. A lui piace il mondo degli uomini: gli odori della dispensa, i programmi di cucina, i libri di ricette. Sarà la sua imprudenza a causare la fuga in città della famiglia. In città del resto la vita dei ratti non è molto diversa: la famiglia è sempre la famiglia, e il cibo è sempre carburante. Ma non per Remy. Lui passerà definitivamente dalla parte dei nemici, degli assassini, degli uomini.

Ecco la polpa europea. Remy è un migrante, come Fievel: ma se Fievel sbarca in America era l’epopea nostalgica degli emigranti europei negli USA, Ratatouille racconta l’emigrazione e l’inurbazione con tutta l’ambiguità dei problemi irrisolti di oggi. Gli emigranti hanno due vie (le hanno sempre avute): o si ghettizzano, cristallizzando i costumi e i valori della società di provenienza e isolandosi in un mondo percepito come ostile, o si integrano. Ma integrarsi significa spezzare le radici, tradire la razza. Non ci riescono tutti, e nemmeno Remy, che pure tratta i suoi simili veramente con la puzza sotto il naso. In Africa i tipi come Remy li chiamano noir blanchi, neri imbiancati: eppure anche lui preferisce non tagliarsi del tutto i ponti alle spalle: nottetempo scivola nella dispensa del ristorante che lo ha accolto, e ruba un po’ di roba buona per il fratello. La cosa gli scappa naturalmente di mano, proprio come succede quando la tua famiglia esce dal medioevo e viene a bussare nel tuo superattico per chiederti un favore: il problema di Remy è lo stesso problema di Michael Corleone, è il problema di tutti gli onorati membri della società che hanno ancora qualche legame con le Famiglie.

Ma non ci sono gatti in America! E ti regalano il formaggio! (Fievel sbarca in America)

Verso i tre quarti il film, per quanto divertente, sembra proiettato verso un finale tragico: Remy ha servito gli umani senza riuscire a integrarsi veramente, e intanto la Famiglia che fa affidamento su di lui è sempre più numerosa, sempre più affamata. Poi c’è il finale, appicicato un po’ così, che non racconto: dico solo che è incredibile la sfacciataggine con cui pretende di salvare capra e cavoli, Famiglia e carriera. Quando le cose al mondo non stanno così, decisamente: uomini e ratti non possono convivere nello stesso ristorante. È una cosa che semplicemente non succede, nella realtà.

Tutti in coro noi cantiamo viva Topolin. Topolin, Topolin, viva Topolin, (Full Metal Jacket)

D’altro canto è un cartone animato, e nei cartoni animati i topi sono simpatici e la fanno franca. Detto questo, qui propongo il mio finale: dopo decenni di clandestinità Remy riesce a imporsi come un cuoco degno del genere umano, apre un ristorante a Duisberg, e una sera tutti i suoi parenti vengono sterminati nel parcheggio da una banda di roditori concorrenti. Perché la vita è dura, se nasci ratto. Remy lo diceva già all’inizio del film. Nei film americani poi ti raccontano che anche il ratto può crescere, scoprire i suoi talenti, tradire i famigliari e poi ritrovarli, diventare famoso e apprezzato. Ma gli europei hanno abbastanza Storia da parte per concludere che non è quasi mai vero. E questo è tutto, gente.
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voglio rifugiarmi sotto il Patto di Varsavia

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Non c’è nessuna foto di Sircana con un trans; e se anche ci fosse, non farebbe così tanto schifo.
Invece, volete vedere una foto che fa veramente schifo? Ecco qui.




O nostalgia, o vergogna

O nostalgia per quel Muro, che quando c’era, tutto era molto più chiaro; c’era un Rosso e c’era un Bianco; e con un po’ di astuzia si poteva essere un po’ rossi di qua e tifare per quelli un po’ bianchi di là, e insomma sentirsi in pace con tutti, in quella vecchia Europa di una volta.
Quell’Europa che a volte ancora mi sorride dalle cartine appese alle aule, quella senza Ucraina e con una Germania in più, ma piccola; l’Europa del BeNeLux e della Coppa Campioni, e della Jugoslavia. O com’era strano e bello confinare con la Jugoslavia.
Quell’Europa campo minato nucleare. O che nostalgia. O che vergogna.

O come ci siamo ridotti, a rimpiangere Bresnev e Gromiko; i Giochi Senza Frontiere e il tempo delle Mele, e la Uno Fiat che ormai non fanno più neanche in Polonia.
Quegli anni che a viverci ti sembravano di fango, coi democristiani sempre uniti e al governo; perché ancora nessuno ti aveva spiegato che peggio di una Grande Balena, ci sono solo due o tre balene piccole, tutte ansiose di far bella figura davanti alla Grande Foca in ermellino. O vergogna tra le vergogne, di provare nostalgia per Aldo Moro, per Fanfani, per Andreot… no, aspetta, per Andreotti no.

O che nostalgia, per i tempi in cui la Russia si chiamava CCCP, si pronunciava urss, e significava Impero del Male; ma un Male talmente Male che più che spavento faceva tenerezza. Perché scusate, qualcuno di voi è mai riuscito veramente a odiare Ivan Drago? Il povero Ivan Drago, in guantoni rossi, concepito in laboratorio per spiazzarti in due?

O nostalgia per quel tenero Impero del Male, di facce stanche e tristi come quella di Darth Fener dietro il casco; un Impero di povera gente con un esercito da far paura; con le spie e i cosmonauti, che guardavano il mondo da un oblò e tornati a casa facevano una brutta fine. O terribile poesia dell’Impero del Male Contadino, che lancia le cagne in orbita. La povera Laika, ma l'hai guardata negli occhi? Gli americani, imperialisti, usavano gli scimpanzé. Il Male lo vedi nei dettagli. Che cattiveria, che disperazione, in un Impero contadino che per farsi bello sacrifica anche l’animale da cortile.

E insomma eran cattivi, ma anche poveri; li si poteva temere ma un po' ammirare e un po' anche compatire; e in ogni caso stavano di là dal muro, e quindi tutto era chiaro. Nessuna compromissione. Al massimo compassione.
O terribile nostalgia, di quando i ricchi eravamo noi.

E adesso che ci resta? Di mendicare il gas, ci resta. E pazienza se il padrone dei gasdotti è un mafioso, agente del KGB, istruttore di arti marziali, uno che sembra il cattivo di un film con Sean Connery, uno che insomma non fa alcuna tenerezza. Non c’è più un muro che ci salvi, da uno come lui. Non c’è più decenza. Ci tocca abbracciarlo, sbaciucchiarlo, perché sarà anche un mafioso, un assassino di giornalisti, un corrotto e un corruttore: ma è il padrone dei gasdotti, e il gas ci serve.

Ci fosse almeno un intermediario, un capro espiatorio, un italiano un po’ più schifoso degli altri che facesse questo sporco mestiere per noi. Che si facesse fotografare lui, a braccetto con lo Zar della Mafia. Ci fosse un nanetto da insultare, mentre entriamo in casa e distrattamente alziamo il riscaldamento. Ci fosse un Berlusconi. Ecco, l’ho detto. Ci fosse la faccia pagliaccia del potere, da insultare e adoperare.

E invece no. O schifo, o vergogna, ad abbracciare e baciare Putin ci deve andare l’uomo che ho votato io. Perché sia chiaro che lo schifo è tutto mio, che la vergogna sono io, che i giornalisti a Mosca ho dato una mano ad ammazzarli anch’io. Quando? Ecco, se almeno mi si potesse dire quando. Ogni volta che accendo il gas? Una volta ogni due? Si può misurare la mia complicità nel genocidio ceceno? Dei quattro bossoli accanto Anna Politkovskaja, quanti ne ho pagati io?

E cosa dovrei fare adesso, a parte provare vergogna e nostalgia? E cosa aspetta insomma il riscaldamento globale a lessarci tutti quanti? E dopo sarà tutto sterile e pulito. Niente più gas, niente più mafia, niente. Neanche più la nostalgia. Niente.
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...and Justice for all

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Storia di uno Scalzacane

Ho fatto un sogno. Ho sognato che la legge era uguale per tutti...

Scalzacane Augusto non era nessuno. Feccia di feccia, gramigna che si rampica dai tombini a non spurgarli. Com’è possibile che premeditasse qualcosa Scalzacane, lui che nemmeno sua madre aveva premeditato? Sedeva su una cassetta di frutta quando gli dissero, ti piace questa moto? Ci porti un pacchetto ad amici nostri a Roma, ed è tua.

Nel pacchetto c’era tanta roba bianca da comprarsi la fabbrica delle moto; ugualmente a Scalzacane parve un affare. Lo pizzicarono in un autogrill nel Casertano, da tanto che sbandava. L’esame delle urine confermò la prima impressione della pattuglia: Scalzacane aveva testato parte del carico per saggiarne la qualità, o per farsi coraggio. A questo punto avrebbero anche potuto sbatterlo a Rebibbia o Poggioreale e gettare via le chiavi, ma la Fortuna a volte è ciecata proprio. O l’avvocato d’ufficio era in giornata. O il giudice s’era distratto. Fatto sta che Scalzacane, ritenuto un galoppino inconsapevole, in quanto consumatore abituale si ritrovò al ricovero coatto riuscì a ottenere un ricovero in Comunità.

Lì non si stava male. Ci incontrò un altro avvocato, un po' ruvido ma bravo. Tu in realtà non hai fatto nulla, gli disse. La moto non era tua, la roba nemmeno. Perché non ricorri in appello?
Scalzacane odiava la parola Appello: la associava a quel momento mattutino scolastico in cui la maestra lo chiamava per cognome e i compagni ridevano. Forse era stata l’ansia dell’Appello a determinare il suo abbandono scolastico, all’età di nove anni e mezzo. "Non hai capito niente", gli disse l’avvocato. "L’Appello è come il secondo turno in Coppa Italia, hai presente? Il primo lo hai giocato in trasferta, adesso ti tocca giocare in casa".
Scalzacane era scettico, ma non aveva nulla da perdere.

In sede di dibattimento tutto sembrava effettivamente contro di lui: colto in flagrante con un chilo di stupefacenti sotto la sella. "Ma", si chiese il nuovo avvocato, "se la moto fosse stata rubata? Non dico che il mio cliente l’abbia rubata, ma putacaso? Com’è che uno Scalzacane qualsiasi va in giro in Honda? Qualcuno ha si è dato la pena di cercare i documenti, il numero di telaio? Cos’è questa novità, che appena rubi un mezzo in Italia diventi penalmente responsabile per quello che trasporta? E se sull’Honda rubata dal mio assistito c’era una barra di uranio cosa facciamo, lo deferiamo alla CIA per traffico di Armi di Distruzione di Massa?"
"Si avvii alla conclusione", disse il Giudice.
"Certo. Dicevo che tanta approssimazione nelle indagini desta qualche sospetto. Qui si è voluto fare dello Scalzacane un capro espiatorio. Il processo di primo grado durò quarantadue minuti: 42? In Italia? In tanta rapidità, in tanta sbrigatività, Vostro Onore, non posso che ravvedere un Fumus Persecutionis".

Il Giudice borbottò qualcosa. Il processo fu spostato a Frosinone.
Nella nuova arringa, l’avvocato si profuse in una lode alle qualità umane di Scalzacane, questo umile ma non domo figlio del sud. Ammesso e non concesso che si fosse impossessato di una moto, lo aveva fatto sotto la pressione di un gruppo di loschi figuri. Spacciatori? Camorristi? E perché non un pool di magistrati camuffati, decisi a punire l’ignaro Scalzacane per educarne cento?
"Dunque", disse il giudice, "se ho capito bene la sua tattica è screditare l’intera magistratura. Ma funziona?"
"Dipende", rispose l’avvocato. "È una lotta di nervi. Io li ho ben saldi, e lei?"
Scalzacane fu assolto dall’accusa di spaccio per mancanza di prove. Restava il furto. "Ma quale furto, disse l’avvocato. Si ruba qualcosa a qualcuno. Qualcuno ha mai reclamato la Honda? Ha denunciato il furto? Il numero di telaio è limato: e allora? Mi dovete dimostrare che la moto era di qualcuno, prima che se ne impadronisse il mio assistito".
"Mi scusi – ebbe a dire il pubblico ministero – ma delle due, l’una: o la moto appartiene a qualcun altro, e quindi Scalzacane l’ha rubata…"
“Questo è un teorema!”
“...oppure appartiene allo Scalzacane, che quindi la usava per trasportare ingenti quantità di stup…”
“Obiezione! Non stiamo discutendo di questo! C’è una sentenza in Appello che dice che il mio assistito non è uno spacciatore”.

La moto intanto arrugginiva nel deposito dei CC: se prendi Otto in matematica ti ci faccio fare un giro, diceva il custode a suo nipote. Il nipote vegliò notti insonni sull’algebra ed alzò effettivamente la media dal tre-e-mezzo al quattro-meno, ma non cavalcò mai il bolide blu. Scalzacane fu assolto nel giro di due settimane.
“E mo’ che faccio”, si chiese. Il ricovero non gli dispiaceva, in fondo. Era entusiasta soprattutto di questa cosa dei tre pasti al giorno. Sono abitudini che se le prendi, poi non te ne liberi.
“Ma la giustizia è più importante”, gli disse l’avvocato. “Oggi hai avuto la tua rivincita, e se vuoi puoi giocarti la bella: terzo grado, assoluzione con formula piena. Ti servirà un nuovo avvocato, però: io lavoro gratis solo con i pazienti della comunità, lo sai”.
“E se ti pagassi come ti pagano quelli fuori?”
“Costo troppo, mi dispiace”.
“Ah vabbuò, peccato però, tu eri bravo. E dire che la prima volta che t’aggio visto non mi fidavo affatto, sai?”
“Lo so. Faccio questa impressione”.
“Non offenderti, eh? Ma è la faccia. Con quei segni che ci tieni, marò…”
“Si dice rughe. Profonde rughe mediterranee”.
“Come vuole lei. Allora arrivederci, avvocato Previti, e buona fortuna”.
“Addio, Scalzacane, buona fortuna a lei”.

Ho fatto un sogno. Ho sognato che la legge era uguale per tutti.
Che incubo.
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- leggete Gomorra

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Gomorra, Italia

Aprendo Gomorra è difficile reprimere il sospetto: quanto c’era di vero, e quanto di marketing, nella campagna per concedere una scorta all’autore? Saviano non l'aveva chiesta, e almeno in un primo tempo non la voleva; il suo libro è un atto di accusa e di sfida, ma non dice nulla di veramente nuovo; nulla che non ci sia capitato di orecchiare qua e là sui giornali e persino in tv. Nomi e cognomi ce n’è, ma perlopiù di condannati o latitanti; il quadro finale risulta frammentario, soprattutto per la mancanza di quella Teoria Unificata del Complotto che il lettore italiano si attende ormai per assuefazione. Nessun grande vecchio qui: solo un’anarchia feudale sfarinata in centinaia di territori e dinastie che Saviano nemmeno tenta di ricostruire. Davvero ha senso metterlo a tacere? Di storie di camorra tutti si riempiono la bocca. Cosa c'è di così pericoloso proprio in questo libro?

Una risposta, parziale, arriva verso la fine, nel capitolo dedicato all'assassinio di Don Diana: un prete, ma soprattutto un testimone, che credeva nella parola. "Una parola capace di inseguire il percorso del denaro seguendone il tanfo. Si crede che il denaro non abbia odore, ma questo è vero solo nella mano dell'imperatore. Prima che giunga nel suo palmo, pecunia olet. Ed è un puzzo di latrina. Don Peppino operava in una terra dove il denaro reca traccia del suo odore, ma per un attimo. L'istante in cui viene estratto, prima che diventi altro, prima che possa trovare legittimazione".

Più in là si racconta di come finiscano i boss. Chi non muore ammazzato a volte si ricicla come cronachista. Sopravvivono rivendendo allo Stato la loro storia, un complicato meccanismo di potere e denaro, un percorso olfattivo che senza di loro resterebbe sconosciuto. La loro parola è davvero preziosa. Avremmo dovuto smettere, da un pezzo, di chiamarli “pentiti”: solo ai cronisti della domenica può interessare il loro pentimento. Quello che davvero interessa è la competenza, il know-how, la storia di un imprenditore di successo. Nel silenzio generale, i camorristi detengono un bene prezioso.

In questo silenzioso mercato della parola, il libro di Saviano è un tuono e un lampo. La Napoli di cui sentivamo parlare ne esce trasfigurata, come sul negativo della pellicola. Non è una teoria unificata, non è (per fortuna) il romanzone criminale pronto a trasformarsi in epica cinematografica. Ma è la fine di cento luoghi comuni.

- Per esempio: Napoli fannullona.
Gomorra racconta una città, una civiltà intera, in rapida espansione economica e commerciale. C’è tutta la fuliggine e il sudore dei sobborghi industriali dickensiani. Il porto di Napoli è il centro del mondo, non il cuore ma il piloro: tutto ciò che è merce transita da lì. Tessile, droga, armi, turismo, cemento, cemento, cemento, per finire con l’industria lucrosa dello stoccaggio rifiuti (Napoli è anche lo sfintere). I campani non stanno con le mani in mano un secondo solo. Ecco una parola che a nord di Caserta risulta ancora scandalosa: ricchezza. Il Meridione non è l’eterno passato dell’Italia, la regione bloccata nel sottosviluppo, imprigionata nelle sue tradizioni. Senza troppo chiasso Saviano capovolge il quadro: il Sud è il futuro dell’Italia, il suo sottosviluppo è funzionale alla produzione, la sua forza lavoro se la batte ad armi pari coi draghi cinesi, le sue cosiddette tradizioni sono quelle modernissime del gangsterismo globale reinventato a Hollywood.

- Un altro esempio: la bella Napoli.
Mentre i telegiornali ci mostrano una Napoli da cartolina che va a piangere la morte del suo re dei guappi, Saviano ci racconta una Napoli che spreme ricchezza dallo sconfinato disprezzo che nutre per sé stessa. I camorristi non amano il loro territorio, né i loro conterranei. Il loro potere è basato sul disprezzo per quello che hanno intorno, la loro ricchezza è basata sull’impoverimento sistematico delle risorse. Non si tratta soltanto di depredare una regione: si tratta di mantenerla, artificialmente, nel Terzo Mondo, quando improvvisamente il Terzo Mondo diventa competitivo. Per reggere la concorrenza con la produzione tessile asiatica, gli opifici casertani devono mantenere paghe da fame. Per garantirsi un bacino di manovalanza disperata, gli impresari del traffico di droga hanno bisogno che Scampia e Secondigliano restino terra di nessuno. Il camorrista inedito che esce dalle ultime pagine del libro di Saviano non è il boss sanguinario, ma lo “stakeholder”, il libero manager dello stoccaggio abusivo che svende la sua stessa terra in proficui lotti di discarica.
(Ti fa schifo questo mestiere? Robbe', ma lo sai che gli stakehoder hanno fatto andare in Europa questo paese di merda? Lo sai o no? Ma lo sai quanti operai hanno avuto il culo salvato dal fatto che io non facevo spendere un cazzo le loro aziende?)

La monnezza ci ha portato in Europa (del resto, avverte Saviano, i padri della nazione sono i palazzinari, altro che Parri ed Einaudi). La città del sole e del mare si è riciclata in pattumiera del mondo, per creare ricchezza che andrà a fruttare altrove: nel nord operoso, o nella Scozia del clan La Torre o sulla costa spagnola, ovunque i boss decideranno di reinvestire e riciclare in imprese, spesso alla luce del sole.

- Infine: l’omertà. Che in Gomorra non è l’antica reazione della piccola comunità che si chiude a riccio, ma un più moderno e neoliberista pensare agli affari propri. Un’omertà che coinvolge tutti noi, anche qui a nord, quando liquidiamo la camorra come sopravvivenza del passato, eterno ritardo del meridione. Una bugia comoda per le nostre velleità di padroncini del mondo, reucci della piccola impresa. Saviano ci grida che è sbagliato: Gomorra non è un mondo a parte, ma è una città del nostro mondo. I suoi traffici sono i nostri traffici, la sua ricchezza è la nostra. Non un passato altrui, ma forse il nostro futuro: un far west tossico, popolato da bulletti senza prospettive, e governato da signori rinchiusi nelle loro ville hollywoodiane nascoste tra i rifiuti.

Di questo ci parla Saviano. Senza i compiacimenti dei professionisti del noir o dei teorici della mitopoiesi, nel suo libro rifonda il suo materialismo sugli odori e le tracce di sangue e denaro. Al centro, finalmente, il vero motore da cui tutto dipende (politica inclusa): la Merce. Per averci raccontato quello che siamo o che diventeremo, per avere spacciato a poco prezzo parola e conoscenza, Saviano è stato minacciato di morte. Ma esiste una minaccia ben peggiore per gente come lui, ed è sempre la stessa: il non esser più letti, il non essere più compresi. Leggete Gomorra.
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Neanche più il senso del ridicolo
Le racconto una curiosità: durante la campagna elettorale io sono andato nell’ex manicomio di Milo, in provincia di Catania, dove c’erano circa 200 ricoverati; bene, lì dentro ho preso 180 voti. Vuol dire che i pazzi votano per Dell’Utri? O che Dell’Utri è un pazzo?
MARCELLO DELL'UTRI, Corriere della sera, domenica 27 gennaio 2002
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