24-03-2004, 01:52fascismo, Fassino, guerra, il cattivo supplente, scuolaPermalink
Il Cattivo Supplente
(sì, è sempre Lui)
E io ti dico, Spoon River,
e dico a te, Repubblica:
guardatevi dell’uomo che sale al potere
e una volta portava una sola bretella.
Edgard Lee Masters, John Hancock Otis
A proposito di Mussolini, ho scoperto un’altra analogia con Saddam Hussein. La prima, famosa, era il pallino per le bonifiche: pare che quando lo abbiano tirato fuori dalla buca, una delle prime cose che abbia detto sia “come vi permettete di trattarmi così, io ho fatto le bonifiche, ecc.” (questo è Saddam, non Mussolini).
L’altra, notevole, è il bullismo. Un anno fa scoprivamo come Saddam Hussein fosse il terrore della scuola elementare di Tikrit; non da meno il giovane Benito. Quando dopo la Marcia su Roma i giornalisti cominciarono a salire a Predappio in cerca di materiale per i loro instant book, raccolsero testimonianze abbastanza eloquenti: “Un dscuréva; e pciéva!”, dicevano di lui i suoi coetanei (Per chi non fosse pratico: “Non discuteva: picchiava”).
Il fascismo, poi, nella versione littoria che meglio conosciamo, è una sorta di bullismo elevato a sistema politico: se la scuola tradizionalmente tenta di correggere il bullo (o almeno di allontanarlo…), la Milizia lo incoraggia, lo seleziona: così negli anni neri si potevano leggere biografie sull’infanzia del duce di questo tenore:
(Y. De Begnac, Vita di Mussolini, Milano 1936; citato in De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1965):
“provocatore, sempre desioso di fare a pugni, di gareggiare nella corsa e nella scalata degli alberi da frutto… che cerca la lotta per puro spirito agonistico e sempre vuol dominare, e quando vince vuol più del pattuito, e quando perde non vuol pagare la posta in gioco […]
La sua violenza e la sua volontà di dominio lo spingevano a battersi. Il pugno, il calcio erano le sue armi preferite. Si abituò presto al sangue altrui e al proprio. Provocato quasi mai, provocatore sempre…”
Un esempio per tutti i balilla d’Italia. (Non dovevano avere vita facile, i maestri, a quel tempo).
Il bello è che lo stesso Mussolini, dieci anni dopo i suoi exploit da bullo, cercò lavoro nelle scuole del Regno come maestro: con esiti disastrosi. Disastrosi per lui e per noi, perché a quel punto decise di darsi al giornalismo e alla politica…
La prima esperienza è come supplente in una scuola di Gualtieri, nel 1902: non andò malaccio, considerati i suoi 19 anni. In effetti fu scacciato per aver intrecciato una relazione con una donna sposata (con un marito sotto le armi). Ma la professione non doveva essergli piaciuta particolarmente, se preferì emigrare in Svizzera con la prospettiva di fare il manovale.
In Svizzera poi fece molto altro: il giornalista, l’oratore, l’organizzatore politico… avrebbe riprovato l’avventura dell’insegnamento soltanto nel 1906, a Tolmezzo (Udine). Per rendersi conto una volta per tutte che il mestiere non faceva per lui.
Sin dai primi giorni m’avvidi che la professione del maestro non era la più indicata per me. Avevo la seconda elementare, che contava quaranta ragazzetti vivaci, taluni dei quali incorreggibili e pericolosi monelli. Inutile dire che lo stipendio era modestissimo. Appena 75 lire mensili. Feci tutti gli sforzi possibili per tirare innanzi la scuola, ma con scarso risultato, poiché non ero stato capace di risolvere sin dal principio il problema disciplinare.
(Mussolini, citato sempre da De Felice).
Questo episodio vuole senz’altro dirmi qualcosa, ma non sono sicuro di cosa.
Da una parte, i “quaranta ragazzetti vivaci” sono il contrappasso perfetto per quel bullo che “voleva sempre dominare”… Certo, che se i ragazzetti fossero stati un po’ più buoni (e lo stipendio anche) magari avremmo avuto un dittatore in meno.
D’altro canto, il fatto che il futuro duce di trenta milioni d’italiani non fosse in grado di domare 40 ragazzini di seconda elementare, la dice lunga sulla difficoltà del mio mestiere. Un supplente fallito può sempre riciclarsi giornalista, politico, tiranno efferato: è un pensiero consolante. No. Inquietante. Volevo dire inquietante.
Dovevano passare ancora vent’anni prima che l’ex-bullo, ex-maestro, ex-socialista, cominciasse a riformare l’ordinamento dello Stato – e in particolare dell’educazione – su basi bullistiche. Ma perché lo fece? Lo fece perché anche lui da bambino era stato un bullo, o perché da maestro aveva capito che coi bulli bisogna venire a patti?
Domanda oziosa. La scuola non è la società. Ma la classe di scuola, come metafora della società, funziona sempre. Vedi ad esempio questo pezzo di ieri, su Macchianera, in cui si demolisce Fassino con una sola accusa, sleale quanto micidiale: avere un'aria da primo della classe:
Ciascuno di noi ha avuto in classe un fassino, a un certo punto della vita. Era quello allampanato, con il naso a proboscide, che fiero della sua scoliosi stava seduto al terzo banco, malgrado la statura, perché i randa delle ultime file non lo volevano.
Niente di personale, ma un tipo così non può fare "Il capo della cumpa":
Il capo della cumpa è un’altra storia. È uno che va o non va. Che si allea o non si allea. Che fa la guerra o non la fa. Anche perché di dubbi ne abbiamo già per i fatti nostri...
Uno come Lui, insomma. (Lui?)
***
Rimane questo fatto curioso: spesso i fondatori dei regimi totalitari sono persone di origini relativamente umili: se non proletari, comunque borghesi spiantati, come il pittore-imbianchino Hitler o il maestro Mussolini. L’anno scorso lo avevamo chiamato Paradosso di Otis-Findlay, dai protagonisti di due poesie di Edgard Lee Masters (le trovate ancora qui).
Questo è un grosso problema, che dovrebbe tormentare tutti gli esportatori di democrazia: di solito i regimi totalitari si sviluppano in nazioni che passano un po’ troppo velocemente dal medioevo alla modernità, dal feudalesimo al suffragio universale: Unione Sovietica, Italia, Germania, Spagna nel primo dopoguerra. Sudamerica, Iraq, Iran e altri Paesi in via di Sviluppo nel secondo dopoguerra. Cosa manca in questi Paesi? Forse il famoso ceto medio, a fare da camera di compensazione (in Germania c’era, ma era stato risucchiato dalla crisi).
È come la risposta a uno shock: la democrazia “delle opportunità” arriva prima della democrazia “dei diritti”: ma proprio i più bravi a cogliere questa opportunità (i migliori scalatori sociali) sono i più feroci a negarla agli altri. È quel tipo di dittatore che vince le elezioni e poi le abolisce.
In pratica, è il bullo: “che cerca la lotta per puro spirito agonistico e sempre vuol dominare, e quando vince vuol più del pattuito, e quando perde non vuol pagare la posta in gioco”.
E noi insegnanti, noi buoni e cattivi supplenti, in realtà a cosa serviamo? A crescere buoni cittadini, o a tener buoni i tiranni prossimi venturi? È l’interrogativo delle due meno un quarto.
(sì, è sempre Lui)
E io ti dico, Spoon River,
e dico a te, Repubblica:
guardatevi dell’uomo che sale al potere
e una volta portava una sola bretella.
Edgard Lee Masters, John Hancock Otis
A proposito di Mussolini, ho scoperto un’altra analogia con Saddam Hussein. La prima, famosa, era il pallino per le bonifiche: pare che quando lo abbiano tirato fuori dalla buca, una delle prime cose che abbia detto sia “come vi permettete di trattarmi così, io ho fatto le bonifiche, ecc.” (questo è Saddam, non Mussolini).
L’altra, notevole, è il bullismo. Un anno fa scoprivamo come Saddam Hussein fosse il terrore della scuola elementare di Tikrit; non da meno il giovane Benito. Quando dopo la Marcia su Roma i giornalisti cominciarono a salire a Predappio in cerca di materiale per i loro instant book, raccolsero testimonianze abbastanza eloquenti: “Un dscuréva; e pciéva!”, dicevano di lui i suoi coetanei (Per chi non fosse pratico: “Non discuteva: picchiava”).
Il fascismo, poi, nella versione littoria che meglio conosciamo, è una sorta di bullismo elevato a sistema politico: se la scuola tradizionalmente tenta di correggere il bullo (o almeno di allontanarlo…), la Milizia lo incoraggia, lo seleziona: così negli anni neri si potevano leggere biografie sull’infanzia del duce di questo tenore:
(Y. De Begnac, Vita di Mussolini, Milano 1936; citato in De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1965):
“provocatore, sempre desioso di fare a pugni, di gareggiare nella corsa e nella scalata degli alberi da frutto… che cerca la lotta per puro spirito agonistico e sempre vuol dominare, e quando vince vuol più del pattuito, e quando perde non vuol pagare la posta in gioco […]
La sua violenza e la sua volontà di dominio lo spingevano a battersi. Il pugno, il calcio erano le sue armi preferite. Si abituò presto al sangue altrui e al proprio. Provocato quasi mai, provocatore sempre…”
Un esempio per tutti i balilla d’Italia. (Non dovevano avere vita facile, i maestri, a quel tempo).
Il bello è che lo stesso Mussolini, dieci anni dopo i suoi exploit da bullo, cercò lavoro nelle scuole del Regno come maestro: con esiti disastrosi. Disastrosi per lui e per noi, perché a quel punto decise di darsi al giornalismo e alla politica…
La prima esperienza è come supplente in una scuola di Gualtieri, nel 1902: non andò malaccio, considerati i suoi 19 anni. In effetti fu scacciato per aver intrecciato una relazione con una donna sposata (con un marito sotto le armi). Ma la professione non doveva essergli piaciuta particolarmente, se preferì emigrare in Svizzera con la prospettiva di fare il manovale.
In Svizzera poi fece molto altro: il giornalista, l’oratore, l’organizzatore politico… avrebbe riprovato l’avventura dell’insegnamento soltanto nel 1906, a Tolmezzo (Udine). Per rendersi conto una volta per tutte che il mestiere non faceva per lui.
Sin dai primi giorni m’avvidi che la professione del maestro non era la più indicata per me. Avevo la seconda elementare, che contava quaranta ragazzetti vivaci, taluni dei quali incorreggibili e pericolosi monelli. Inutile dire che lo stipendio era modestissimo. Appena 75 lire mensili. Feci tutti gli sforzi possibili per tirare innanzi la scuola, ma con scarso risultato, poiché non ero stato capace di risolvere sin dal principio il problema disciplinare.
(Mussolini, citato sempre da De Felice).
Questo episodio vuole senz’altro dirmi qualcosa, ma non sono sicuro di cosa.
Da una parte, i “quaranta ragazzetti vivaci” sono il contrappasso perfetto per quel bullo che “voleva sempre dominare”… Certo, che se i ragazzetti fossero stati un po’ più buoni (e lo stipendio anche) magari avremmo avuto un dittatore in meno.
D’altro canto, il fatto che il futuro duce di trenta milioni d’italiani non fosse in grado di domare 40 ragazzini di seconda elementare, la dice lunga sulla difficoltà del mio mestiere. Un supplente fallito può sempre riciclarsi giornalista, politico, tiranno efferato: è un pensiero consolante. No. Inquietante. Volevo dire inquietante.
Dovevano passare ancora vent’anni prima che l’ex-bullo, ex-maestro, ex-socialista, cominciasse a riformare l’ordinamento dello Stato – e in particolare dell’educazione – su basi bullistiche. Ma perché lo fece? Lo fece perché anche lui da bambino era stato un bullo, o perché da maestro aveva capito che coi bulli bisogna venire a patti?
Domanda oziosa. La scuola non è la società. Ma la classe di scuola, come metafora della società, funziona sempre. Vedi ad esempio questo pezzo di ieri, su Macchianera, in cui si demolisce Fassino con una sola accusa, sleale quanto micidiale: avere un'aria da primo della classe:
Ciascuno di noi ha avuto in classe un fassino, a un certo punto della vita. Era quello allampanato, con il naso a proboscide, che fiero della sua scoliosi stava seduto al terzo banco, malgrado la statura, perché i randa delle ultime file non lo volevano.
Niente di personale, ma un tipo così non può fare "Il capo della cumpa":
Il capo della cumpa è un’altra storia. È uno che va o non va. Che si allea o non si allea. Che fa la guerra o non la fa. Anche perché di dubbi ne abbiamo già per i fatti nostri...
Uno come Lui, insomma. (Lui?)
***
Rimane questo fatto curioso: spesso i fondatori dei regimi totalitari sono persone di origini relativamente umili: se non proletari, comunque borghesi spiantati, come il pittore-imbianchino Hitler o il maestro Mussolini. L’anno scorso lo avevamo chiamato Paradosso di Otis-Findlay, dai protagonisti di due poesie di Edgard Lee Masters (le trovate ancora qui).
Questo è un grosso problema, che dovrebbe tormentare tutti gli esportatori di democrazia: di solito i regimi totalitari si sviluppano in nazioni che passano un po’ troppo velocemente dal medioevo alla modernità, dal feudalesimo al suffragio universale: Unione Sovietica, Italia, Germania, Spagna nel primo dopoguerra. Sudamerica, Iraq, Iran e altri Paesi in via di Sviluppo nel secondo dopoguerra. Cosa manca in questi Paesi? Forse il famoso ceto medio, a fare da camera di compensazione (in Germania c’era, ma era stato risucchiato dalla crisi).
È come la risposta a uno shock: la democrazia “delle opportunità” arriva prima della democrazia “dei diritti”: ma proprio i più bravi a cogliere questa opportunità (i migliori scalatori sociali) sono i più feroci a negarla agli altri. È quel tipo di dittatore che vince le elezioni e poi le abolisce.
In pratica, è il bullo: “che cerca la lotta per puro spirito agonistico e sempre vuol dominare, e quando vince vuol più del pattuito, e quando perde non vuol pagare la posta in gioco”.
E noi insegnanti, noi buoni e cattivi supplenti, in realtà a cosa serviamo? A crescere buoni cittadini, o a tener buoni i tiranni prossimi venturi? È l’interrogativo delle due meno un quarto.
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