- una scemenza, scusate
20-03-2006, 10:02blog, drogarsi, giornalistiPermalinkSabato mattina sono stato minacciato di querela per una cosa che avevo scritto (non qui). Direi che il caso è finito ancor prima di iniziare, visto che ho provveduto subito a cancellare il pezzo (di cui a quanto pare non è rimasta traccia neanche nella cache di google). Resta uno strascico di polemiche e qualche curiosità. Qui di seguito do la mia versione: di parte, va da sé.
Esiste in Italia un giornalista, di cui per rispetto e precauzione qui si omette il nome e il cognome, che con i blog ha un rapporto molto particolare e non felice. Non ne ha uno. Scrive in quello di un suo amico, esponendosi a un pubblico che non è esattamente il suo. Il suo amico è di sinistra quasi estrema, lui scrive per una testata di destra. Il che significa (com'è facile immaginare) che ogni volta che pubblica un post dal loggione partono bordate di fischi, ai quali non sempre sa reagire con stile. Va da sé che il loggione lo fischia anche a sproposito, comunque per partito preso: se non si comportasse così stronzamente non sarebbe un loggione, e se non ci fosse il loggione forse il teatro sarebbe meno frequentato. Chiedersi il perché questo giornalista abbia scelto per sé una ribalta così difficile, è cosa che non spetta a me: dovrebbe chiederselo a lui, parlarne con qualcuno. Magari è felice così, anche se non pare (pare invece, sempre, parecchio incazzato).
Su quel blog – che non è il suo – il giornalista pubblica un po' di tutto. Suoi editoriali, pubblicati o rifiutati; articoli di costume, critica musicale, provocazioni; e a volte gli capita di pubblicare cose che sembrano fatti suoi. In che senso, "sembrano"? Nel senso che sono narrati in prima persona da un 40-e-qualcosa che vive a Milano, come lui, che magari s'intende della stessa musica di cui s'intende lui; che ha modi di fare assai simili a quelli che ha lui; e il solo fatto che li scriva su un blog (dove in generale tutti tendiamo a raccontare i fatti nostri) lascia intendere gli sprovveduti che quelli siano proprio fatti suoi.
Ma naturalmente potrebbe anche trattarsi di un mucchio di palle – o di fiction, come si dice nell'ambiente. Lui preferisce mantenere una certa dose di ambiguità. C'è un tipo di storie che funzionano meglio se danno l'impressione di essere state vissute davvero. Per fare un esempio, i 100 colpi di spazzola si ridurrebbero a ben poca cosa, se l'autrice non avesse lasciato un po' sfumato il confine tra la fiction e la propria esperienza di vita. Il giornalista in questione non si abbandona alle gioie delle orge puberali: si limita a mettere in scena un po' di Milano post-aperitivo. Di recente ha scritto un pezzo, piuttosto divertente, (in realtà lo ha riscritto, per la seconda o terza volta: sta diventando una specie di cavallo di battaglia) in cui racconta la sua disavventura con una tipa impossibile, radical-pancabbestia-chic. Dopo una spedizione in un smart-drogheria alla moda, una seduta di bong alla salvia psichedelica e altre piacevolezze, il narratore (che assomiglia tanto al giornalista in questione) ha un virile moto d'orgoglio, e la manda affanculo senza consumare, spiegandole che "La mia autostima non dipendeva dalla media di coiti annuali, e che non avevo degli amici che in serata mi aspettavano attorno a un biliardo perché raccontassi che me n’ero fatta un’altra".
Tutto molto liberatorio, ma io leggendolo (per la terza volta) ho avuto un sospetto: perché quest'uomo continua a raccontare questa storia? Non ha la stessa insistenza di un tale al bar che non si rende conto di tornare sempre sullo stesso aneddoto? E vantarsi in un blog di aver mandato affanculo una tipa è davvero così diverso dal vantarsi in un bar di essersela fatta? È dura essere maschi adulti, oggi: cerchi con tutte le tue forze di uscire da un bar, solo per scoprire che sei entrato in un altro. Ero in fila in posta, venerdì, mentre pensavo a questo.
Poi sono tornato a casa, e in un buco di mezz'ora ho riscritto lo stesso post del giornalista, ma narrato dal punto di vista della tipa radical-pancabbestia-chic. Oltre all'effettivo gusto sadico di prendere per i fondelli un giornalista affermato, si trattava anche di rivoltare come un calzino una certa idea di maschio: mi sono messo nei panni di questa scema, che siccome non ha mezza voglia di portarselo a letto cerca di stordirlo a furia di tisane allucinogene e musica new age, fino a ottenere il risultato desiderato: un bel fanculo e a mai più rivederci. L'ho scritto, l'ho riletto, mi sembrava non male, era da anni che non scrivevo una cosa così piacevolmente stronza, sicché l'ho postato. Sullo stesso blog in cui scrive il giornalista – ho l'accesso anch'io.
Ora, che s'incazzasse era scontato. Lui è l'emblema dell'incazzamento on line.
Ma una minaccia di querela no, non me l'aspettavo.
Avevo – colpevolmente – sottovalutato un problema.
Nel mio post avevo accennato a un'attività che oggi in Italia è illegale: il consumo di cocaina. Il suo pezzo diceva che la tipa "ogni tanto pippava insieme a mezza Milano". Nel mio la tipa scriveva di averlo incontrato mentre pippava "con mezza Milano": ahi, qui effettivamente attribuivo al protagonista del post la complicità in un reato. Certo, mica lo avevo chiamato per nome e per cognome. Certo, in fin dei conti era solo il protagonista fittizio di un racconto. Però nelle sue fattezze era riconoscibile un noto giornalista. Così, può darsi che gli estremi per una querela non ci fossero, ma la mia si configurava come un'effettiva carognata. Perché ero stato così stronzo?
Si è trattato, ripeto, di una colpevole ingenuità da parte mia. Che vuoi che sia, pippare a Milano, ho pensato. In realtà pippare a Milano è un po' come fare sesso a Catania: si fa, ci si vanta anche, ma poi la gente mormora e ti tocca levare le tende. E' giusto? Certo che no. Ma è così. Il giornalista è intervenuto l'indomani per sottolineare che il suo era un racconto, e che era costretto a querelarmi per diffamazione perché nella mia parodia gli si attribuiva un reato. Io non ho avuto difficoltà a cancellare il mio pezzo, anche se tecnicamente è la parodia fittizia di un racconto dichiarato dal suo stesso autore come fittizio. Non importa che su un pezzo da lui pubblicato qualche mese prima sullo stesso blog una voce narrante molto simile a lui si attribuisse il medesimo reato, concedendosi una pista di centimetri venticinque: non importa nemmeno che in altri siti su Internet una persona che si firma col suo nome e il suo cognome alluda a una dipendenza dalla stessa sostanza, per fortuna superata (complimenti). Soffrendo io di rinite allergica, e passando un mese all'anno a punzarmi compulsivamente il naso, sono il primo a rendersi conto che certe voci di corridoio non vanno alimentate. Sono pericolose, possono compromettere una carriera. Per cui ho preferito cancellare il pezzo. Forse lo avrei cancellato anche senza una minaccia di querela. Certo, la minaccia ha aggiunto a tutta la storia un surplus di antipatia. Dal loggione sono immediatamente partiti i fischi – però andiamo, a nessuno piace che siano messe in giro voci false e pericolose sul proprio conto.
Al di là di chi abbia ragione e chi torto, una querela è una seccatura e una grande perdita di tempo e soldi. Non mi va di sostenerla, specie per una scemenza del genere. Tanto più che il giornalista aveva chiamato in causa anche il proprietario del blog, che non aveva altra colpa che quella di avermi consentito l'accesso, anni fa. Non ci tengo a fare il martire della libertà di espressione (specie a spese d'altri); peraltro non sono del tutto sicuro che la mia libertà di espressione mi consenta di fare quel che ho fatto. Così ho chiesto scusa al giornalista e ho cancellato. Mi dispiace sinceramente di aver contribuito, anche solo per alcune ore, ad alimentare voci sul suo conto che sono lesive della sua reputazione.
Che queste voci abbia contribuito lui stesso a metterle in giro, pubblicando pezzi col suo nome e il suo cognome su un blog, in cui un personaggio molto simile a lui assume una sostanza illegale, è cosa che non deve interessare me. Al limite querelerà sé stesso – e sarà la 145esima querela che si vede recapitare (il conto l'ha fatto lui). Oppure imparerà finalmente le regole del gioco e comincerà a usare uno pseudonimo (ma non sarà altrettanto divertente), o a premettere nero su bianco che si tratta di racconti, fiction, palle (ma non lo prenderemo più altrettanto sul serio). Questi però sono problemi esclusivamente suoi. Forse dovrebbe parlarne con qualcuno.
(Per favore, non chiedetemi via mail di inoltrarvi il pezzo incriminato. È un rischio che razionalmente non mi va di correre. Finché quel pezzo circola in rete, io che l'ho scritto continuo a essere passibile di querela. Consolatevi: non si trattava di un capolavoro, ma di un'acidola presa in giro scritta mezz'ora. Vi meritate di meglio, e anch'io).
Esiste in Italia un giornalista, di cui per rispetto e precauzione qui si omette il nome e il cognome, che con i blog ha un rapporto molto particolare e non felice. Non ne ha uno. Scrive in quello di un suo amico, esponendosi a un pubblico che non è esattamente il suo. Il suo amico è di sinistra quasi estrema, lui scrive per una testata di destra. Il che significa (com'è facile immaginare) che ogni volta che pubblica un post dal loggione partono bordate di fischi, ai quali non sempre sa reagire con stile. Va da sé che il loggione lo fischia anche a sproposito, comunque per partito preso: se non si comportasse così stronzamente non sarebbe un loggione, e se non ci fosse il loggione forse il teatro sarebbe meno frequentato. Chiedersi il perché questo giornalista abbia scelto per sé una ribalta così difficile, è cosa che non spetta a me: dovrebbe chiederselo a lui, parlarne con qualcuno. Magari è felice così, anche se non pare (pare invece, sempre, parecchio incazzato).
Su quel blog – che non è il suo – il giornalista pubblica un po' di tutto. Suoi editoriali, pubblicati o rifiutati; articoli di costume, critica musicale, provocazioni; e a volte gli capita di pubblicare cose che sembrano fatti suoi. In che senso, "sembrano"? Nel senso che sono narrati in prima persona da un 40-e-qualcosa che vive a Milano, come lui, che magari s'intende della stessa musica di cui s'intende lui; che ha modi di fare assai simili a quelli che ha lui; e il solo fatto che li scriva su un blog (dove in generale tutti tendiamo a raccontare i fatti nostri) lascia intendere gli sprovveduti che quelli siano proprio fatti suoi.
Ma naturalmente potrebbe anche trattarsi di un mucchio di palle – o di fiction, come si dice nell'ambiente. Lui preferisce mantenere una certa dose di ambiguità. C'è un tipo di storie che funzionano meglio se danno l'impressione di essere state vissute davvero. Per fare un esempio, i 100 colpi di spazzola si ridurrebbero a ben poca cosa, se l'autrice non avesse lasciato un po' sfumato il confine tra la fiction e la propria esperienza di vita. Il giornalista in questione non si abbandona alle gioie delle orge puberali: si limita a mettere in scena un po' di Milano post-aperitivo. Di recente ha scritto un pezzo, piuttosto divertente, (in realtà lo ha riscritto, per la seconda o terza volta: sta diventando una specie di cavallo di battaglia) in cui racconta la sua disavventura con una tipa impossibile, radical-pancabbestia-chic. Dopo una spedizione in un smart-drogheria alla moda, una seduta di bong alla salvia psichedelica e altre piacevolezze, il narratore (che assomiglia tanto al giornalista in questione) ha un virile moto d'orgoglio, e la manda affanculo senza consumare, spiegandole che "La mia autostima non dipendeva dalla media di coiti annuali, e che non avevo degli amici che in serata mi aspettavano attorno a un biliardo perché raccontassi che me n’ero fatta un’altra".
Tutto molto liberatorio, ma io leggendolo (per la terza volta) ho avuto un sospetto: perché quest'uomo continua a raccontare questa storia? Non ha la stessa insistenza di un tale al bar che non si rende conto di tornare sempre sullo stesso aneddoto? E vantarsi in un blog di aver mandato affanculo una tipa è davvero così diverso dal vantarsi in un bar di essersela fatta? È dura essere maschi adulti, oggi: cerchi con tutte le tue forze di uscire da un bar, solo per scoprire che sei entrato in un altro. Ero in fila in posta, venerdì, mentre pensavo a questo.
Poi sono tornato a casa, e in un buco di mezz'ora ho riscritto lo stesso post del giornalista, ma narrato dal punto di vista della tipa radical-pancabbestia-chic. Oltre all'effettivo gusto sadico di prendere per i fondelli un giornalista affermato, si trattava anche di rivoltare come un calzino una certa idea di maschio: mi sono messo nei panni di questa scema, che siccome non ha mezza voglia di portarselo a letto cerca di stordirlo a furia di tisane allucinogene e musica new age, fino a ottenere il risultato desiderato: un bel fanculo e a mai più rivederci. L'ho scritto, l'ho riletto, mi sembrava non male, era da anni che non scrivevo una cosa così piacevolmente stronza, sicché l'ho postato. Sullo stesso blog in cui scrive il giornalista – ho l'accesso anch'io.
Ora, che s'incazzasse era scontato. Lui è l'emblema dell'incazzamento on line.
Ma una minaccia di querela no, non me l'aspettavo.
Avevo – colpevolmente – sottovalutato un problema.
Nel mio post avevo accennato a un'attività che oggi in Italia è illegale: il consumo di cocaina. Il suo pezzo diceva che la tipa "ogni tanto pippava insieme a mezza Milano". Nel mio la tipa scriveva di averlo incontrato mentre pippava "con mezza Milano": ahi, qui effettivamente attribuivo al protagonista del post la complicità in un reato. Certo, mica lo avevo chiamato per nome e per cognome. Certo, in fin dei conti era solo il protagonista fittizio di un racconto. Però nelle sue fattezze era riconoscibile un noto giornalista. Così, può darsi che gli estremi per una querela non ci fossero, ma la mia si configurava come un'effettiva carognata. Perché ero stato così stronzo?
Si è trattato, ripeto, di una colpevole ingenuità da parte mia. Che vuoi che sia, pippare a Milano, ho pensato. In realtà pippare a Milano è un po' come fare sesso a Catania: si fa, ci si vanta anche, ma poi la gente mormora e ti tocca levare le tende. E' giusto? Certo che no. Ma è così. Il giornalista è intervenuto l'indomani per sottolineare che il suo era un racconto, e che era costretto a querelarmi per diffamazione perché nella mia parodia gli si attribuiva un reato. Io non ho avuto difficoltà a cancellare il mio pezzo, anche se tecnicamente è la parodia fittizia di un racconto dichiarato dal suo stesso autore come fittizio. Non importa che su un pezzo da lui pubblicato qualche mese prima sullo stesso blog una voce narrante molto simile a lui si attribuisse il medesimo reato, concedendosi una pista di centimetri venticinque: non importa nemmeno che in altri siti su Internet una persona che si firma col suo nome e il suo cognome alluda a una dipendenza dalla stessa sostanza, per fortuna superata (complimenti). Soffrendo io di rinite allergica, e passando un mese all'anno a punzarmi compulsivamente il naso, sono il primo a rendersi conto che certe voci di corridoio non vanno alimentate. Sono pericolose, possono compromettere una carriera. Per cui ho preferito cancellare il pezzo. Forse lo avrei cancellato anche senza una minaccia di querela. Certo, la minaccia ha aggiunto a tutta la storia un surplus di antipatia. Dal loggione sono immediatamente partiti i fischi – però andiamo, a nessuno piace che siano messe in giro voci false e pericolose sul proprio conto.
Al di là di chi abbia ragione e chi torto, una querela è una seccatura e una grande perdita di tempo e soldi. Non mi va di sostenerla, specie per una scemenza del genere. Tanto più che il giornalista aveva chiamato in causa anche il proprietario del blog, che non aveva altra colpa che quella di avermi consentito l'accesso, anni fa. Non ci tengo a fare il martire della libertà di espressione (specie a spese d'altri); peraltro non sono del tutto sicuro che la mia libertà di espressione mi consenta di fare quel che ho fatto. Così ho chiesto scusa al giornalista e ho cancellato. Mi dispiace sinceramente di aver contribuito, anche solo per alcune ore, ad alimentare voci sul suo conto che sono lesive della sua reputazione.
Che queste voci abbia contribuito lui stesso a metterle in giro, pubblicando pezzi col suo nome e il suo cognome su un blog, in cui un personaggio molto simile a lui assume una sostanza illegale, è cosa che non deve interessare me. Al limite querelerà sé stesso – e sarà la 145esima querela che si vede recapitare (il conto l'ha fatto lui). Oppure imparerà finalmente le regole del gioco e comincerà a usare uno pseudonimo (ma non sarà altrettanto divertente), o a premettere nero su bianco che si tratta di racconti, fiction, palle (ma non lo prenderemo più altrettanto sul serio). Questi però sono problemi esclusivamente suoi. Forse dovrebbe parlarne con qualcuno.
(Per favore, non chiedetemi via mail di inoltrarvi il pezzo incriminato. È un rischio che razionalmente non mi va di correre. Finché quel pezzo circola in rete, io che l'ho scritto continuo a essere passibile di querela. Consolatevi: non si trattava di un capolavoro, ma di un'acidola presa in giro scritta mezz'ora. Vi meritate di meglio, e anch'io).
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