Non è che puoi sempre prendertela coi bigotti

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I suicidi sono morti particolari - non sono necessariamente "vittime", e se non lasciano scritto o detto qualcosa che autorizzi a pensarlo, forse è ingiusto trattarli come tali. Ho detto forse. Il dubbio almeno facciamocelo venire. Appena si è saputo, ieri, che una donna diventata famosa per un video amatoriale aveva deciso di non vivere più, molti per riflesso condizionato si sono messi a cercare i colpevoli. Questo è già indicativo, e non così laico dopotutto. Invece di responsabilità concrete, la "colpa", meglio se collettiva.

Roberto Saviano ci spiega che la donna "non è morta per la sua leggerezza o per qualcosa che ha fatto, ma perché in Italia con il sesso si ha un rapporto incredibilmente morboso. È morta, si è uccisa, perché donna in un Paese in cui le donne di sesso non devono parlare, non ne devono scrivere, devono praticarlo con timidezza, di nascosto. E se lo fanno con disinvoltura e ne godono questo è sconventiente, peccaminoso. È la donna a essere oggetto di strali, risatine, gomitate, invettive... [...] l'ha uccisa non la sua leggerezza, ma la bigotteria italiana."

Insomma l'hanno uccisa i bigotti. Questa ricostruzione - che è condivisa da molti, ho scelto il più illustre - mi lascia perplesso per un paio di motivi: (1) è un discorso moralista. Se la prende coi bigotti prendendone in prestito la retorica, ad esempio quel caratteristico colpire nel vago: la "bigotteria italiana". Tutti colpevoli, nessuno querela. (2) L'Italia bigotta che dipinge Saviano non mi sembra quella in cui vivo io. Ammettiamo pure di avere un rapporto "incredibilmente morboso con il sesso" (come se negli altri Paesi il revenge porn non provocasse vittime, interventi legislativi, politiche di prevenzione). Ammettiamo pure un maschilismo imperante, ecc. Abbiamo prove che la suicida fosse realmente perseguitata dai bigotti, scandalizzati da uno tra mille video amatoriali che si producono tutti i giorni? Se non le abbiamo, magari il dubbio facciamocelo venire; perché un'altra possibilità c'è. 

Soprattutto dato che il video in questione non divenne virale per il suo contenuto - in rete c'è di peggio - ma perché era buffo. Era diventato un meme, un tormentone addirittura ripreso da un'emittente radio nazionale. Qualche aneddoto, qualche dettaglio ci suggeriscono che l'autrice di quel video, più che di una giuria di bigotti medievali, dovesse soffrire lo scherno di un campione molto più contemporaneo di italianità, tutt'altro che sfavorevole all'idea che una donna possa condividere la sua intimità: non a caso la leggenda che fiorì subito intorno ai video (anche grazie ai giornali) suggeriva che fossero di un'"aspirante pornostar". Dove si vede il modo tutt'altro che bigotto con cui facciamo funzionare la nostra coscienza: se ci arriva sul telefono un video zozzo amatoriale, magari ci preoccupiamo che non sia roba estorta (e illegale): ma se ci inventiamo che la tizia vuole fare la pornostar è tutto ok, si può guardare, lei sembra consenziante, e vai.

(Uso il "noi" per evitare un certo andamento moralistico, ma devo ammettere che a me il video non l'ha mandato nessuno. Questo mi costringe a uno sforzo supplementare, visto che siamo tutti molto più severi con i vizi che non condividiamo).

Ora. Ce l'avete coi bigotti, coi preti? Avete mille ragioni. Ma i bigotti, i preti, non hanno un atteggiamento così disinibito nei confronti della pornografia amatoriale e no. In teoria non la dovrebbero nemmeno guardare (e se invece lo fanno è per umana ipocrisia, in deroga alla loro bigotteria e al loro ministero). Un prete non ti riconosce per strada per il tuo video - un prete non li guarda, quei video - o se li guarda, e ci tiene al suo ruolo, non socializza questa abitudine. L'impressione è che a rendere impossibile le giornate della suicida fossero persone che il suo video lo avevano visto e non si vergognavano a comunicarlo: segaioli impenitenti, insomma, tutt'altro che restii a lasciare il cognome su facebook, orgogliosi del loro ruolo e detentori di una sensibilità da intenditori, visto che ci tenevano a far sapere di trovarlo ridicolo. È andata così? Non possiamo saperlo. È un'ipotesi. Ma rispetto a quella di Saviano, mi restituisce un paesaggio che riconosco meglio: un'Italia orgogliosamente segaiola che punta il dito non su chi si spoglia, ma su chi si lascia sfuggire un errore di pronuncia, una frase buffa, un'ingenuità, una scemenza. L'Italia che guardava i reality perché pieni di personaggi buffi - che guarda i talent perché si aspetta la stecca, l'incidente, la ramanzina dello chef - che sui social fa la posta agli errori di grammatica o geografia dei potenti vecchi e nuovi. Una comunità unita dall'insicurezza, dalla necessità di misurarsi costantemente con gente più ridicola, più sfortunata - ecco, quella è l'Italia in cui vivo io - che poi chissà quanto è diversa da Francia o Germania o altrove: sembra una tendenza globale.

Prendersela con la bigotteria e con il patriarcato sta diventando un po' scontato. Non solo rappresentano un passato dal quale è giusto emanciparsi, ma anche un sud del mondo irrequieto da cui vorremmo disperatamente tenere le distanze (qualcuno ipotizza che il suicidio sia il risultato di una specie di choc culturale: una napoletana che pretendeva di comportarsi all'europea - salvo che in Europa, appunto, il revenge porn esiste). L'idea che mi faccio di questo Patriarcato, dai discorsi che sento, sembra modellata sul mito: un monolito calato dall'alto che per millenni ci ha impedito di vivere con gioia e libertà la nostra sessualità o almeno metterci vestiti comodi - finché non ce ne siamo liberati, ma siccome la gente continua a porsi dei problemi, a subire pressioni sociali, evidentemente il Patriarcato è ancora tra noi, un'idra a mille teste. È il nemico perfetto, è sempre colpa sua.

La mia idea, per quel che può interessare, è un po' diversa: per me la sessualità è sempre stato uno scambio, è sempre stata un'economia, ha sempre comportato forme più o meno tenui di violenza, coercizione e sottomissione. Liberandoci dal patriarcato ci siamo liberati da una gabbia che i nostri antenati avevano messo assieme per proteggersi - e che senz'altro era scomoda e non funzionava più, ma rimane il problema: ora che siamo "liberi", chi ci protegge da noi stessi? Dal fatto che vorremmo giudicare ma non essere giudicati, essere guardati ma non da tutti? Scambiare contenuti espliciti con un partner è un offire un dono spericolato, socialmente molto più impegnativo di un anellino. Gli anelli, s'è visto, si possono restituire, ma il video esplicito può restare nella memoria fissa di quel partner per sempre, per una serie quasi infinita di momenti in cui quel partner può decidere di condividerlo con terze persone. È insomma un'enorme manifestazione di fiducia e probabilmente è eccitante anche per questo. C'è chi ci vede l'amore ma io non posso vederci anche l'economia, come in tutto il resto. Ogni relazione è un contratto non scritto, e le civiltà che hanno deciso di mettere qualcosa di nero su bianco non sono probabilmente le più ingenue. Chi difende il diritto di scambiare immagini intime senza essere deriso, senza essere giudicato, sembra pensare che il nostro corpo non sia sottoposto a giudizi da quando nasce, dalla prima volta che si specchia: se non ci fosse il patriarcato potremmo tutti andare in giro nudi e nessuno ci prenderebbe in giro.

La vedo diversamente: il patriarcato ha preso forma perché la nudità era considerata una vulnerabilità, perché la sessualità chiede periodicamente di essere normata, codificata, anche socializzata ma con criterio. È un insieme di norme che ci trasciniamo da millenni (la stessa morale cristiana è una postilla giustapposta al corpus quasi all'ultimo momento, neanche venti secoli fa), che stava scomodo a tutti. Non ho motivi per rimpiangerlo, ma non posso nemmeno incolparlo di quel che succede oggi. Oggi abbiamo problemi diversi - la spinta sociale alla condivisione indiscriminata, all'esibizionismo - e credo non si risolvano con discorsi sulla "colpa". Se una persona decide di ammazzarsi, non vorrei sentir parlare di colpa. Vorrei che si ragionasse su quali comportamenti sono da considerare a rischio, sulle politiche di prevenzione e anche di repressione (nei confronti di chi i video li condivide e tormenta le vittime). Sarebbe anche un modo migliore di ricordare la persona che se n'è andata - ammesso che volesse essere ricordata. Non sappiamo nemmeno questo.
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