Chi è la Samaritana?
21-03-2019, 02:36cristianesimo, Cristo, santiPermalink20 marzo – Santa Fotina (I secolo), samaritana del Vangelo di Giovanni
C’è questo ministro leghista che va a una conferenza sulla famiglia e dice che “ama il prossimo tuo come te stesso” vuol dire “ama quello in tua prossimità”, insomma per questo ministro Gesù col comandamento dell’amore voleva invitarci a voler bene ai vicini di casa. Ora. I vangeli sono senz’altro testi suscettibili di molteplici e divergenti interpretazioni: non avrebbero avuto tanto successo se non fossero, come tanti altri testi sacri e no, abbastanza spugnosi da imbeversi di tutti i significati che vogliamo trovarci. Però, accidenti, come si fa a ricordare il comandamento dell’amore senza pensare che nel Vangelo di Luca (10,25-37) il “prossimo” viene immediatamente identificato con il buon samaritano?
Dei quattro evangelisti, Luca è il più vicino alla nostra moderna sensibilità progressista: quello che più offre la ribalta a donne, poveri e altri emarginati. È il vangelo di Maria di Nazareth, quello della natività coi pastori (Matteo ci mette i re Magi, tutt’un’altra idea di presepe): il vangelo che corregge la parabola dei talenti dividendo il budget in parti uguali tra i servi. Luca collaborava con Saul/Paolo, e ne condivideva evidentemente le idee ecumeniche, il progetto di evangelizzare anche i non circoncisi. Bisogna ammettere però che persino lui, per definire il concetto di “prossimo” non andò a pescare un personaggio così straniero per lingua, cultura e religione. Avrebbe potuto farlo, senza forzare più di tanto la verosimiglianza. La Palestina del primo secolo era già un crogiuolo, dove Gesù incontra senza andarseli a cercare centurioni romani, donne siro-fenicie e re idumei. Ma il prossimo della parabola è un samaritano, e i samaritani sono ebrei, a modo loro. Non riconoscono il tempio di Gerusalemme, ma offrono sacrifici sul monte Garizim. Sono ebrei scismatici? Dal loro punto di vista, ovviamente, gli scismatici sono tutti gli altri. L’ipotesi tradizionale è che discendano dagli abitanti del regno di Israele che non furono deportati dagli Assiri nel 722 aC, mescolati con altre popolazioni pagane che gli Assiri avevano deportato lì. Anche ai tempi però le sostituzioni etniche funzionavano fino a un certo punto: dai documenti assiri sappiamo che gli emigrati coatti furono poco più di ventimila. Gran parte della popolazione era rimasta lì, conservando leggi e tradizioni di matrice mosaica, anche se sensibilmente diverse da quelle rielaborate dai giudei che vivevano un po’ più a sud, deportati a Babilonia intorno al 600. Eppure quando settant’anni dopo i discendenti di questi ultimi ritornano nella Terra Promessa, lo scontro di culture in principio non sembra inevitabile. La Torah samaritana non differisce moltissimo da quella ebraica (anche se è scritta in un alfabeto più simile al fenicio), il che oggi fa pensare agli storici che in un primo momento la situazione tra le due comunità e le due narrative fosse più fluida. A un certo punto però avviene un irrigidimento, ed è forse l’evento raccontato nel Libro di Esdra: i matrimoni misti vengono annullati, le mura di Gerusalemme ricostruite imponendo una gerarchia precisa tra capitale e contado, che gli autoctoni samaritani rifiutano.
Cinque secoli più tardi, samaritani ed ebrei sono sudditi della stessa provincia romana, ma danno ancora l’impressione di non parlarsi volentieri. Il samaritano di Luca, più che uno straniero in terra straniera, è davvero il vicino di casa che suscita diffidenza: perché lo conosciamo poco o perché temiamo che ci conosca fin troppo bene? In un altro versetto di Luca, però (17,18), è Gesù stesso a chiamare “straniero” un samaritano, l’unico di dieci lebbrosi da lui miracolosamente guariti che si fermi a ringraziarlo:
Un samaritano sotto una sukkah (un tipo di capanna che ricorda il transito degli ebrei nel deserto del Sinai durante l’esodo) fatta di frutta, vicino alla città di Nablus
Lo stesso Marco però registra la risposta straordinaria della straniera, che riesce addirittura a modificare l’atteggiamento di Gesù. “Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. In entrambi i vangeli l’episodio arriva dopo un duro confronto coi farisei sul tema delle impurità rituali. Ma è soprattutto in Matteo che esso suona come la riproposizione di un leitmotiv: Gesù era venuto per il suo popolo, il suo popolo non l’ha riconosciuto, non resta che rivolgersi agli stranieri. È il senso della Parabola del banchetto di nozze (22,1-14): visto che gli invitati rifiutano di venire, anzi uccidono i servi che portano le partecipazioni, il padrone ne manda altri ai crocicchi di strada, affinché invitino chiunque passa, “buono o cattivo”. (Luca, con quel gusto un po’ radical chic per gli emarginati, si diverte ad aggiungere “poveri, storpi, ciechi e zoppi”).
Gli stranieri dei vangeli di Matteo e di Luca rispecchiano un dibattito che deve avere animato i cristiani della prima generazione. Matteo non condivide l’entusiasmo ecumenico di Luca. Il suo Gesù, almeno in un primo momento, aveva chiesto ai suoi discepoli di “non andare fra i pagani e non entrare nelle città dei Samaritani”, ma di “rivolgersi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele” (10,5-6). Più che l’apertura agli outsider, cagnolini avidi di briciole, imbucati a una festa, lo anima la vergogna per i correligionari che non hanno riconosciuto il Messia.
Il vangelo di Giovanni arriva un po’ più tardi (verso il 100) e rispecchia una situazione già molto cambiata. Il rapporto con gli altri tre testi è abbastanza complesso: Giovanni sembra volerli quasi ignorare, e allo stesso tempo se ne nutre. Matteo e Luca avevano attinto a Marco come a una fonte (o viceversa): Giovanni, negli altri vangeli, cerca qualcosa di meno definito, una specie di sfondo, di background. Ad esempio riutilizza i nomi: Marta di Betania in Luca serviva a un rapido scambio di battute: in Giovanni diventa un vero e proprio personaggio. Suo fratello, Lazzaro, in Luca era un poveraccio protagonista di una parabola: in Giovanni diventa amico fraterno di Gesù. Qualcosa di simile accade anche alla figura del Samaritano: quello che in Luca era l’evanescente protagonista di una parabola, Giovanni lo trasforma in un personaggio a tutto tondo, che dialoga con Gesù. Non solo, ma Giovanni lo contamina con la Cananea di Matteo, così che le due figure evangeliche dello straniero diventano una sola: la Samaritana.
Gesù la incontra presso il pozzo di Giacobbe a “Sicar” (oggi Nablus), e già da questo dettaglio si comprende che l’episodio è completamente simbolico: il pozzo deve alludere alla vecchia alleanza, che Gesù è venuto a soppiantare; il dialogo con la Samaritana si sviluppa intorno all’equivoco tra la banale acqua del pozzo e Gesù, vera acqua di vita eterna.
I samaritani invece esistono ancora: vivono in due comunità, una proprio a Nablus nei pressi del loro monte sacro, un’altra a Holon, ormai periferia di Tel Aviv. Secondo i censimenti israeliani sono poco più di 700 persone, discendenti di un popolo talmente sventurato che persino gli ebrei, almeno ai tempi di Gesù, li guardavano con sufficienza. Tra rivolte e persecuzioni avrebbero avuto almeno 2000 anni di tempo per disperdersi o essere assorbiti da qualche altra religione o popolazione più grande. In un qualche modo, non è ancora successo.
C’è questo ministro leghista che va a una conferenza sulla famiglia e dice che “ama il prossimo tuo come te stesso” vuol dire “ama quello in tua prossimità”, insomma per questo ministro Gesù col comandamento dell’amore voleva invitarci a voler bene ai vicini di casa. Ora. I vangeli sono senz’altro testi suscettibili di molteplici e divergenti interpretazioni: non avrebbero avuto tanto successo se non fossero, come tanti altri testi sacri e no, abbastanza spugnosi da imbeversi di tutti i significati che vogliamo trovarci. Però, accidenti, come si fa a ricordare il comandamento dell’amore senza pensare che nel Vangelo di Luca (10,25-37) il “prossimo” viene immediatamente identificato con il buon samaritano?
Un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui…Ogni volta che i giornali pubblicano la storia eroica di un immigrato che salva sulla spiaggia un bambino che sta annegando, o sventa una rapina, o soccorre un vecchietto con un malore, e noi progressisti ci commuoviamo… perché ci commuoviamo? Perché troviamo il soccorso dello straniero più commovente dell’autoctono? Forse perché una certo settore del nostro immaginario morale è stato plasmato da una paginetta vergata 2000 anni fa dell’evangelista Luca. Oppure Luca è stato uno dei primi a capire come funziona quel certo settore del nostro immaginario. Fatto sta che il buon samaritano ci conforta: ci fa sentire che una certa legge morale è universale, e che ovunque ci trovassimo nei guai, qualcuno completamente diverso da noi per lingua, cultura e religione, si sentirebbe comunque tenuto a soccorrerci (oltre a farci un po’ vergognare per aver anche soltanto per un istante diffidato di lui: è il retrogusto amarognolo che fa meglio digerire ogni precetto morale).
Dei quattro evangelisti, Luca è il più vicino alla nostra moderna sensibilità progressista: quello che più offre la ribalta a donne, poveri e altri emarginati. È il vangelo di Maria di Nazareth, quello della natività coi pastori (Matteo ci mette i re Magi, tutt’un’altra idea di presepe): il vangelo che corregge la parabola dei talenti dividendo il budget in parti uguali tra i servi. Luca collaborava con Saul/Paolo, e ne condivideva evidentemente le idee ecumeniche, il progetto di evangelizzare anche i non circoncisi. Bisogna ammettere però che persino lui, per definire il concetto di “prossimo” non andò a pescare un personaggio così straniero per lingua, cultura e religione. Avrebbe potuto farlo, senza forzare più di tanto la verosimiglianza. La Palestina del primo secolo era già un crogiuolo, dove Gesù incontra senza andarseli a cercare centurioni romani, donne siro-fenicie e re idumei. Ma il prossimo della parabola è un samaritano, e i samaritani sono ebrei, a modo loro. Non riconoscono il tempio di Gerusalemme, ma offrono sacrifici sul monte Garizim. Sono ebrei scismatici? Dal loro punto di vista, ovviamente, gli scismatici sono tutti gli altri. L’ipotesi tradizionale è che discendano dagli abitanti del regno di Israele che non furono deportati dagli Assiri nel 722 aC, mescolati con altre popolazioni pagane che gli Assiri avevano deportato lì. Anche ai tempi però le sostituzioni etniche funzionavano fino a un certo punto: dai documenti assiri sappiamo che gli emigrati coatti furono poco più di ventimila. Gran parte della popolazione era rimasta lì, conservando leggi e tradizioni di matrice mosaica, anche se sensibilmente diverse da quelle rielaborate dai giudei che vivevano un po’ più a sud, deportati a Babilonia intorno al 600. Eppure quando settant’anni dopo i discendenti di questi ultimi ritornano nella Terra Promessa, lo scontro di culture in principio non sembra inevitabile. La Torah samaritana non differisce moltissimo da quella ebraica (anche se è scritta in un alfabeto più simile al fenicio), il che oggi fa pensare agli storici che in un primo momento la situazione tra le due comunità e le due narrative fosse più fluida. A un certo punto però avviene un irrigidimento, ed è forse l’evento raccontato nel Libro di Esdra: i matrimoni misti vengono annullati, le mura di Gerusalemme ricostruite imponendo una gerarchia precisa tra capitale e contado, che gli autoctoni samaritani rifiutano.
Cinque secoli più tardi, samaritani ed ebrei sono sudditi della stessa provincia romana, ma danno ancora l’impressione di non parlarsi volentieri. Il samaritano di Luca, più che uno straniero in terra straniera, è davvero il vicino di casa che suscita diffidenza: perché lo conosciamo poco o perché temiamo che ci conosca fin troppo bene? In un altro versetto di Luca, però (17,18), è Gesù stesso a chiamare “straniero” un samaritano, l’unico di dieci lebbrosi da lui miracolosamente guariti che si fermi a ringraziarlo:
Ma Gesù osservò: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».La fede salva anche gli stranieri. Quando mette in bocca a Gesù questa battuta, Luca forse ha in mente l’episodio dei vangeli di Marco (7,24-30) e Matteo (15,21-28) in cui Gesù risponde all’insistenza della Cananea che gli supplica di guarirne la figlia: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri”. La Cananea è una straniera, molto più di quanto non lo sia un samaritano. Marco, l’evangelista più stringato e meno a suo agio coi riferimenti geografici, la definisce “greca di origine siro-fenicia”, ovvero un’abitante della regione di Tiro e Sidone (oggi Libano). In un primo momento Gesù nemmeno le risponde: per ottenere una reazione, la donna deve tallonarlo per un buon pezzo, esasperando gli apostoli che alla fine intercedono: “Mandala via, perché ci grida dietro”. Gesù allora obietta di non avere giurisdizione su di lei: “non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele”. Aggiunge poi una metafora dal sapore quasi razzista, che non stona del tutto in bocca al Gesù del vangelo di Marco, regale e un po’ sprezzante, ma che Luca non avrebbe mai messo in bocca al suo: “Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini”.
Un samaritano sotto una sukkah (un tipo di capanna che ricorda il transito degli ebrei nel deserto del Sinai durante l’esodo) fatta di frutta, vicino alla città di Nablus
Lo stesso Marco però registra la risposta straordinaria della straniera, che riesce addirittura a modificare l’atteggiamento di Gesù. “Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. In entrambi i vangeli l’episodio arriva dopo un duro confronto coi farisei sul tema delle impurità rituali. Ma è soprattutto in Matteo che esso suona come la riproposizione di un leitmotiv: Gesù era venuto per il suo popolo, il suo popolo non l’ha riconosciuto, non resta che rivolgersi agli stranieri. È il senso della Parabola del banchetto di nozze (22,1-14): visto che gli invitati rifiutano di venire, anzi uccidono i servi che portano le partecipazioni, il padrone ne manda altri ai crocicchi di strada, affinché invitino chiunque passa, “buono o cattivo”. (Luca, con quel gusto un po’ radical chic per gli emarginati, si diverte ad aggiungere “poveri, storpi, ciechi e zoppi”).
Gli stranieri dei vangeli di Matteo e di Luca rispecchiano un dibattito che deve avere animato i cristiani della prima generazione. Matteo non condivide l’entusiasmo ecumenico di Luca. Il suo Gesù, almeno in un primo momento, aveva chiesto ai suoi discepoli di “non andare fra i pagani e non entrare nelle città dei Samaritani”, ma di “rivolgersi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele” (10,5-6). Più che l’apertura agli outsider, cagnolini avidi di briciole, imbucati a una festa, lo anima la vergogna per i correligionari che non hanno riconosciuto il Messia.
Il vangelo di Giovanni arriva un po’ più tardi (verso il 100) e rispecchia una situazione già molto cambiata. Il rapporto con gli altri tre testi è abbastanza complesso: Giovanni sembra volerli quasi ignorare, e allo stesso tempo se ne nutre. Matteo e Luca avevano attinto a Marco come a una fonte (o viceversa): Giovanni, negli altri vangeli, cerca qualcosa di meno definito, una specie di sfondo, di background. Ad esempio riutilizza i nomi: Marta di Betania in Luca serviva a un rapido scambio di battute: in Giovanni diventa un vero e proprio personaggio. Suo fratello, Lazzaro, in Luca era un poveraccio protagonista di una parabola: in Giovanni diventa amico fraterno di Gesù. Qualcosa di simile accade anche alla figura del Samaritano: quello che in Luca era l’evanescente protagonista di una parabola, Giovanni lo trasforma in un personaggio a tutto tondo, che dialoga con Gesù. Non solo, ma Giovanni lo contamina con la Cananea di Matteo, così che le due figure evangeliche dello straniero diventano una sola: la Samaritana.
Gesù la incontra presso il pozzo di Giacobbe a “Sicar” (oggi Nablus), e già da questo dettaglio si comprende che l’episodio è completamente simbolico: il pozzo deve alludere alla vecchia alleanza, che Gesù è venuto a soppiantare; il dialogo con la Samaritana si sviluppa intorno all’equivoco tra la banale acqua del pozzo e Gesù, vera acqua di vita eterna.
«Chiunque beve di quest’acqua avrà sete di nuovo; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una fonte d’acqua che scaturisce in vita eterna». La donna gli disse: «Signore, dammi di quest’acqua, affinché io non abbia più sete e non venga più fin qui ad attingere».La reazione della Samaritana somiglia a quella del Pietro giovanneo, che non capisce perché Gesù gli vuole lavare i piedi, ma quando il Maestro gli risponde che sono funzionali alla vita eterna, chiede che gli si lavino anche viso e mani. La Samaritana, come Pietro, non capisce di cosa si stia parlando: non può capire, la salvezza le è preclusa, finché Gesù non ricorre alla sua arma segreta: il Segno. I miracoli del vangelo di Giovanni si chiamano così, “segni”, e non funzionano come quelli degli altri vangeli. In Matteo, Marco e Luca sono una specie di accessorio della divinità a cui Gesù è quasi costretto a ricorrere, spesso di malavoglia, inseguito da folle adoranti ma anche esigenti. In Giovanni i “segni” sono il principale strumento con cui Gesù manifesta la propria divinità: li usa deliberatamente, talvolta in modo teatrale. Per esempio quando alla Samaritana dice di andare a prendere suo marito, e lei obietta maliziosa “non ho marito”, Gesù risponde:
Hai detto bene: “Non ho marito”; perché hai avuto cinque mariti; e quello che hai ora, non è tuo marito; in questo hai detto la verità».Non è un miracolo così strabiliante, per i suoi standard: ma alla Samaritana tanto basta per riconoscere in Gesù “un profeta”. Molti commentatori traggono dal versetto la conclusione che la Samaritana, oltre a essere straniera, sia anche peccatrice: ma su sei uomini, almeno cinque la Samaritana li avrebbe pure sposati legalmente, magari in ottemperanza alla legge mosaica che costringeva la vedova senza eredi a risposare il cognato più giovane. Nel dettaglio immaginoso dei “cinque mariti” Giovanni infatti rielabora un altro spunto trovato in Luca: l’antiparabola della donna dai sette mariti (20,27-38). Nel vangelo di Luca la storiella era narrata dai Sadducei a Gesù nel deliberato tentativo di mettere in crisi il concetto di resurrezione: se una donna ha (legalmente) sposato sette mariti, di quale marito dovrebbe essere moglie nel Regno dei Cieli? (Nell’occasione la risposta di Gesù non è delle sue più convincenti, bisogna dire). Anche in questo caso, quello che in Luca era il protagonista di un breve racconto-nel-racconto, in Giovanni ottiene la dignità di personaggio reale, che interagisce con Gesù: e questo a prezzo della verosimiglianza, perché anche ai tempi una vedova di cinque o sette mariti doveva essere un caso eccezionale. È come se Giovanni leggendo Luca non voglia o non riesca a percepire la differenza tra i personaggi storici (Gesù, i Sadducei) e quelli fittizi delle parabole e degli apologhi (il povero Lazzaro, la sposa di sette fratelli), e questo è un argomento abbastanza pesante a favore di una datazione più tarda. I primi tre vangeli sono rielaborazioni sommarie di persone che magari non avevano assistito ai fatti, ma avevano conosciuto personalmente i testimoni: il quarto somiglia più a una rielaborazione fantastica. Una volta convintasi che Gesù è il Messia (è stato sufficiente che quest’ultimo le indovinasse lo stato civile), la Samaritana arriva in paese e si mette a fare apostolato, convertendo in breve diversi correligionari. Gesù si ferma per due giorni e poi riparte. Siccome è diretto in Galilea, ma il suo destino lo attende in Giudea, dalla Samaria (che è in mezzo) dovrebbe essere ripassato almeno una volta: ma Giovanni non ne parla più. Tradizioni molto più tarde le assegnano un nome greco, Fotina, e un martirio romano, probabilmente ottenuto quando qualcuno la confuse con una cristiana omonima martirizzata nell’Urbe il 20 marzo di un anno imprecisato, insieme con “Giuseppe e Vittore suoi figli, e così pure Sebastiano capitano, Anatolio, Fozio, Fotide, Parasceva e Ciriaca”.
I samaritani invece esistono ancora: vivono in due comunità, una proprio a Nablus nei pressi del loro monte sacro, un’altra a Holon, ormai periferia di Tel Aviv. Secondo i censimenti israeliani sono poco più di 700 persone, discendenti di un popolo talmente sventurato che persino gli ebrei, almeno ai tempi di Gesù, li guardavano con sufficienza. Tra rivolte e persecuzioni avrebbero avuto almeno 2000 anni di tempo per disperdersi o essere assorbiti da qualche altra religione o popolazione più grande. In un qualche modo, non è ancora successo.
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