Gerusalemme, sopra ogni gioia

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Il cessate-il-fuoco distende parzialmente i nervi e allenta i riflessi che fin qui vi hanno risparmiato diverse riflessioni oziose, ad esempio: avete presente quelli che hanno preso le distanze dalla manifestazione di Non Una Di Meno perché Non Una Di Meno non prendeva le distanze da Hamas, ecco, molto probabilmente stavano usando un argomento pretestuoso (Non Una Di Meno ha preso le distanze da Hamas), ma secondo voi qual era il vero pretesto: la violenza sulle donne o la causa israelopalestinese?

Ovvero: hanno usato la Palestina come scusa per boicottare una manifestazione contro la violenza di genere, o hanno approfittato della grande esposizione che ha avuto in questi giorni il dibattito sulla violenza di genere per aprire un altro fronte contro i nemici di Israele e chi li appoggia? Gerusalemme è semplicemente una scusa per far notare la propria distanza insormontabile con un certo tipo di sinistra, o è l'unica vera cosa che interessa, il motivo stesso per cui la distanza con quel tipo di sinistra è diventato insormontabile?

Vi avevo avvertito che era una riflessione oziosa – è nato prima l'uovo o la gallina? Può essere l'occasione per mettere a verbale una questione che mi intriga da decenni, ovvero: perché in qualsiasi situazione che preveda una presa di posizione politica, a un certo punto ci si mette a litigare su Gerusalemme, come se fosse una questione di fondamentale importanza, mentre a mente fredda bisognerebbe invece concludere che non lo è? Nemmeno dopo giorni come questi, in cui un piccolo conflitto asimmetrico in una piccola regione del mondo ha fatto più vittime che la grande guerra russo-ucraina su un fronte di centinaia di chilometri: nemmeno oggi, se volessimo restare razionali, potremmo concludere che il destino del mondo dipende dalla risoluzione del conflitto israelopalestinese. È una situazione terribilmente intricata, forse la più intricata di tutte, ma è anche una guerra come tante: perché ci appassiona così? Perché (ma questa forse è una sensazione mia) sembra diventare sempre più cruciale, man mano che il tempo passa? Se è una guerra di civiltà, ne abbiamo altre; se è un conflitto postcoloniale, non sarà l'ultimo; se è una delle caselle del Grande Gioco del Medio Oriente, non è quella più popolata né contiene la maggior parte delle risorse. 

Calenda vigila.

Dopodiché, è chiaro che mi dispiace per israeliani e palestinesi. Ma se dal generico dispiacere passo all'ansia per il futuro, se dovessi mettere per iscritto le prime dieci cose che mi preoccupano, ho la sensazione che Gerusalemme non ci entrerebbe. C'è l'emergenza climatica, è l'anno più caldo di sempre; non sappiamo esattamente cosa mangeranno i nostri figli quando avranno la mia età; dalla Cina sta arrivando un'altra ondata di polmoniti sospette, eccetera eccetera. Abbiamo così tanti motivi di preoccuparci, ma per qualche motivo Gerusalemme ciclicamente torna a catalizzare non solo la nostra attenzione, ma la nostra aggressività. Non saprei dire il perché. Quel che posso dire è che da quando mi ricordo di essere al mondo e partecipo a iniziative politiche, ho avuto modo di notare che procedendo il tempo in senso lineare sulla retta t, prima o poi si arriva sempre a un punto che definirò Y, in cui qualcuno ti chiede di prendere una posizione su Israele e Palestina. 

Ciò avviene invariabilmente e indifferentemente dal motivo per cui è stata organizzata l'iniziativa, ovvero potrebbe trattarsi di una raccolta fondi per gli ex gattini ciechi o per il buco dell'ozono, non importa; la prima volta che assistei con i miei increduli occhi a un evento Y stavamo cercando di organizzare un circolo Arci, che dalle nostre parti significava un bar e una pista per ballare, e mentre ne discutevamo un tizio prese la parola per spiegarci che Arafat voleva mettere gli ebrei nei forni. Lì per lì ci restammo male: non perché credessimo in quel momento che Arafat volesse mettere gli ebrei nei forni, ma insomma come si fa a discutere di un bar quando ci sono problemi del genere all'ordine del giorno, che figura ci stavamo facendo, altro che bar, parliamo un poco di questo Arafat. Vorrei poter dire che è l'ultima volta che ci sono cascato ma ahimè no, altre discussioni furono fatte, altre posizioni furono prese, il bar rimase aperto due mesi (due mesi incredibili, va detto) e però cinque anni dopo mi ritrovavo a Khan Yunis a fissare le torrette di guardia degli israeliani e i buchi delle granate nel cemento, domandandomi: ma che ci faccio, cos'è successo, io ero lì che volevo aprire un bar.

Ma io non faccio probabilmente testo. Ho questa strana formazione biblica (non particolarmente cattolica) per cui in fondo me lo aspetto che ogni strada dialettica ci conduca prima o poi a Gerusalemme, e che l'Armageddon debba cominciare in una spianata lì nei pressi; mentre non ho mai capito come mai gente in teoria laicissima si lasci coinvolgere con tanta foga in dilemmi così assurdi. Davvero, perché non succede mai in mezzo a un corteo femminista scoppi una diatriba sulla Libia o lo Yemen del Nord, cos'ha di Gerusalemme di così fondamentale per tutti, non si sa. Escludo che siano gli ebrei italiani, i primi a dividersi in squadre e a prendere posizioni molto forti (forse anche perché non sentono, come altri adulti, un impulso ad autocensurarle: capita così che tra tutti gli organi di stampa in Italia, un pezzo che ricollega l'attivismo filopalestinese a George Soros, insomma il complotto ebraico contro gli ebrei, venga pubblicato proprio su Open). Si tratta di una piccola comunità, certo ben rappresentata sui media, ma mi sembra comunque inverosimile che riescano a scatenare una diatriba così diffusa e capillare.

  

Io me la ricordo già così

Poi ci sono gli israeliani, ovviamente, e i palestinesi, e ogni volta che li vediamo all'opera nel tentativo di difendere la propria parte, con toni che tradiscono un'aggressività ancora difficile da accettare alle nostre latitudini, mi trovo a rammentare a osservatori sbigottiti che no, non sono simpatici; cosa vi aspettate da gente che si odia da 80 anni, che può nominare padri nonni e bisnonni che si sono fatti fuori a vicenda? Hanno un pelo sullo stomaco che noi neanche ci immaginiamo. È inevitabile che se c'è una manifestazione nazionale su qualsiasi argomento loro cercheranno di parteciparci con più bandiere possibili o mostrare polemicamente che sono stati esclusi con più bandiere possibili. È la continuazione della guerra con altri mezzi, lo hanno sempre fatto ed entro certi limiti è consentito che lo facciano, c'è libertà di espressione qui da noi. Il che non significa che sia giusto dare loro più visibilità di quanta ne meritano, certo, dipende tutto dai giornalisti.

Non credo di essere stato l'unico a notare che nel paio di giorni precedenti a una manifestazione nazionale contro la violenza di genere, sugli organi di stampa più vicini a Israele si è cominciato a ricordare che il 7 ottobre erano stati commessi stupri etnici. Nulla che non sapessimo già, ma improvvisamente se ne riparlava. Sono operazioni di comunicazione che mi lasciano sempre a metà tra l'ammirato e l'allibito, perché davvero, c'è qualcosa di geniale ma anche di molto cinico nel saper sempre trovare in ogni argomento il punto Y, quello che dividerà gli ascoltatori in due fronti che non hanno mai niente a che vedere con la causa per cui stavano marciando, ma sempre con questa benemaledetta Gerusalemme. 

Da decenni la questione israelopalestinese è una cartina al tornasole molto più efficace di teorie economiche o statistiche sul reddito: così come una volta per capire con che ragazzo uscivi dovevi chiedergli che musica ascoltava, da trent'anni per capire se una persona è di sinistra, e di che sinistra è, gli devi semplicemente chiedere cosa ne pensa dei Territori Occupati. E non ci sono sfumature, presentatemi una sola persona che ha cambiato idea sull'argomento almeno dall'assassinio di Rabin in poi. Sono successe tante cose, ma chi stava con gli israeliani sta ancora con loro, e chi stava coi palestinesi, beh, magari la kefiah l'ha messa via, ma a parte questo è ancora dalla stessa parte. Insomma per quanto ne abbiamo parlato in questi trent'anni, non stavamo davvero discutendo. Abbiamo imparato qualcosa? Più che altro abbiamo imparato come ragionano gli avversari, ormai i discorsi sono diventati slogan, gli slogan sono diventati meme, i meme un puro gesticolio. Il vero motivo per cui non litigo più con i sionisti è che mi annoio. Dicono sempre le stesse cose e probabilmente le dovrei dire anch'io. Ogni tanto passo a controllarli e mi sembra il giorno della marmotta, stanno di nuovo parlando di com'è davvero andata nel '48 e del Gran Muftì. Rispetto a loro mi sembra di avere una vita piena e complessa, e allo stesso tempo capisco che per loro dev'essere riposante avere un solo argomento, e su quell'argomento delle idee così chiare e definitive. Hanno un'idea da difendere, che tra le altre cose nel 1948 si è fatta nazione (per quanto a chiamarli nazionalisti si offendano), e per difenderla sono pronti a qualsiasi paradosso, a qualsiasi espediente retorico, il che consentirebbe loro un'esplosione di creatività, se fossero persone creative – salvo che non è quasi mai il caso, non so il perché, forse la creatività rifugge le idee chiare e definitive. Israele deve sopravvivere (dal momento che è minacciata, ogni istante, nella sua stessa esistenza) e questa sopravvivenza è prioritaria su qualsiasi altro problema, anzi, ogni altro problema è conseguente e vale la pena di essere risolto soltanto se contribuisce alla sopravvivenza di Israele e nella modalità in cui contribuisce alla sopravvivenza di Israele. Fiat Israel pereat mundus, è una cosa che leggendoli a volte mi esce dalle labbra. E un po' ci credo, il mondo potrebbe davvero finire. Magari non stavolta, ma intanto c'è già chi suggerisce che Biden si stia giocando la rielezione. Lì c'è un problema a monte: possibile che i Democratici in quattro anni non abbiano trovato meglio del vecchio Biden? Anzi due problemi a monte: possibile che con la loro invidiabile civiltà giuridica Donald Trump sia ancora in lizza? 

Dua Lipa contro il sionismo: chi vincerà?

Quando tutto intorno a me diventa un problema, non posso non sospettare che il problema sia io, il modo in cui mi ostino a vedere le cose. La mia pretesa di individuare problemi che ci minacciano in quanto umanità, problemi che riusciremo a risolvere soltanto tutti assieme: l'ambiente, la pace (intesa anche come riduzione progressiva e sistematica della violenza di genere), eccetera. Non è che alla fine ho sviluppato la mia forma di socialismo utopico? Non è che mi sto illudendo anch'io che il mondo si salverà convincendo i tycoon a convertirsi all'energia pulita e al riciclaggio, mandando qualche esperto a insegnare le emozioni nelle scuole... Gerusalemme sta lì per ricordarmi che no, i problemi non si risolvono mettendosi tutti d'accordo, ma sconfiggendo un avversario che ha una soluzione diversa dalla tua. Con tutte le armi metaforiche e non metaforiche, consentite e non consentite. Filoisraeliani e filopalestinesi mi fanno paura perché capisco che alla fine hanno una priorità che viene prima della pace del mondo, della tutela dell'ambiente e della mia, della loro stessa sopravvivenza, e benché quella priorità da fuori sembri tanto assurda quanto piantare una cazzo di bandierina su una spianata, forse il punto è semplicemente questo: il mondo ha il senso che tu decidi di dargli; non può averne tanti, ne ha uno solo e gli altri dipenderanno da quello. L'avevo pur letta questa cosa, da qualche parte: se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; resti la mia lingua attaccata al palato, se io non mi ricordo di te, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia.

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