Un frate sposato e un monaco non venerabile

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10 aprile: Beato Antonio Neyrot da Rivoli, martire (1423-1460)

Su EBay sta a 29,99, dice che è rarissimo

Per tutto il Basso Medioevo, il cristianesimo si è rifranto contro l'Africa come contro un muro. Se abbatterlo era fuori questione, anche solo penetrarlo si rivelava periodicamente impossibile. Falliscono i primi missionari francescani in Marocco, che almeno hanno la consolazione di morire da martiri; fallisce Francesco stesso, che in Egitto riesce a impressionare il Sultano ma non lo converte; fallisce Antonio da Padova, che si ammala appena mette piede nel continente; fallisce Re Luigi il Santo, che ci prova due volte finché non muore di dissenteria. Ci prova anche, due secoli dopo, il domenicano Antonio Neyrot (o Neirotti) da Rivoli, ma il suo caso è abbastanza singolare, e si capisce perché non gli abbia assicurato una maggiore fama; a quanto pare, prima di morire eroicamente da martire a Tunisi, Antonio si era convertito all'Islam, e addirittura sposato!

È una storia di cui sappiamo poco, né chi l'ha tramandata aveva interesse a saperne di più. I resti di Antonio vengono acquisiti da mercanti genovesi e ritornano a Rivoli nel 1469, nove anni dopo il suo martirio. Probabilmente non erano in un buono stato. I mercanti avevano tutto l'interesse a sostenere di avere acquisito i resti di un martire della fede, i cui resti emanavano il caratteristico profumo: e tuttavia non era affatto chiaro cosa ci facesse Antonio a Tunisi. L'Ordine non ce l'aveva mandato, e si sa che uno dei voti dei domenicani è l'obbedienza. Ma Antonio da questo punto di vista forse non era il perfetto tra i frati. I suoi anni di apprendistato li aveva trascorsi nel convento di San Marco a Firenze, il che ha spinto qualche agiografo a collegarlo con Antonino Pierozzi, il famoso priore che divenne arcivescovo al posto del Beato Angelico. Se Antonio fece in tempo a essere allievo di Antonino, doveva davvero essere l'ultimissimo; dopodiché a venticinque anni avrebbe chiesto un trasferimento in Sicilia. Questo rappresenterebbe un indizio delle velleità missionarie di Antonio; ma davvero nella Sicilia del Quattrocento c'era tutta questa esigenza di missionari? E infatti il priore non era affatto convinto; sicché Antonio avrebbe fatto ricorso nientemeno che alla Santa Sede. È una storia strana, che sconfina definitivamente nel romanzesco quando qualche anno dopo la nave in cui viaggiava viene catturata dai pirati berberi che conducono i passeggeri a Tunisi per venderli come schiavi. Non è che queste cose non succedessero davvero, ma non è chiaro come mai il vascello si trovasse sulla tratta Sicilia-Napoli: stava tornando a Firenze? A Tunisi viene riscattato da un mercante genovese: anche queste cose succedevano; ma invece di tornare in Italia con lui, Antonio decide di restare in città, non si sa bene con che budget. In un qualche modo riesce a trovarsi una sistemazione, e nel 1459 si converte all'Islam e si sposa. Non è chiaro di cosa vivesse, ma gli agiografi riportano i suoi tentativi di tradurre il Corano in italiano. Un altro dettaglio bislacco: i  buoni musulmani non apprezzano le traduzioni del libro di Dio, che è tale solo quando è scritto nella lingua in cui fu dettato a Maometto, ovvero l'arabo. Tradurlo sembra un gesto più da studioso che da devoto, per cui non possiamo escludere che Antonio fosse arrivato in Africa per soddisfare una curiosità antropologica più potente della vocazione religiosa. La sua storia per certi versi somiglia all'avventura africana di Vincenzo De Paoli, anche lui rapito dai pirati e rivenduto a Tunisi un secolo e mezzo dopo. E in entrambi i casi si insinua nella nostra mentalità scettica il sospetto: ma davvero se la cavavano così bene, gli schiavi cristiani a Tunisi: davvero riuscivano a riscattarsi così facilmente e trovarsi subito qualche professione interessante? Non è possibile che almeno uno dei due sant'uomini in Africa ci sia andato volontariamente, magari perché il vestito di religioso che indossavano in Europa gli stava stretto e la prospettiva di fare altro, magari anche di farsi una famiglia, li tentava? 

Ma non c'era niente da fare: l'Africa respingerà, ancora per qualche secolo, anche i cristiani pentiti. Vincenzo tornerà in Francia dopo due anni, in seguito a una misteriosa traversata che non vorrà mai raccontare in dettaglio. Nel 1460 invece Antonio viene lapidato, probabilmente per apostasia. Possiamo ipotizzare che fosse rimasto cristiano tutto il tempo, come i musulmani in Spagna e in Sicilia che si facevano battezzare ma continuavano di nascosto a pregare in direzione della Mecca; oppure si era stancato di sua moglie; o la moglie si era stancato di lui e l'aveva denunciato, chi lo sa. Agli agiografi tornava più utile raccontare che il fatale ravvedimento fosse stato ispirato da un'apparizione in sogno del vecchio maestro Antonino Pierozzi. Al martirio avrebbe assistito un frate gerolamino, Costanzo da Carpi, che avrebbe scritto la prima agiografia su di lui; un altro resoconto fu fornito dal domenicano siciliano Pietro Ranzano, che avrebbe avuto accesso a lettere provenienti da Tunisi. Tanta documentazione, come si vede, non ha affatto chiarito l'ambiguità del caso: anzi ogni dettaglio sembra smentire un pezzo di storia. Persino il ritrovamento del corpo, che dopo un tentativo di bruciarlo, le autorità avrebbero abbandonato una discarica; eppure i mercanti genovesi dovettero spendere qualcosa per riscattarlo. Dove si vede la potenza del commercio: quel che a Tunisi era un rifiuto da smaltire, a Genova sarebbe diventata una preziosa reliquia che Amedeo duca di Savoia avrebbe acquisito, non senza un esborso importante.


10 aprile: San Beda il Giovane (IX secolo), non il Venerabile

I genovesi c'entrano qualcosa anche con la storia di Beda il Giovane, l'ennesimo esempio di come un equivoco possa trascinarsi per secoli e trasformarsi in una leggenda. Beda sarebbe un chierico sassone che dopo una pluridecennale esperienza professionale a corte di Carlo Magno avrebbe scelto di ritirarsi a vita contemplativa in uno dei luoghi più umili al mondo, che al tempo era già il Polesine. Nel monastero di Gavello avrebbe passato gli ultimi anni della sua vita sempre studiando, insegnando e rifiutando offerte di promozione ad abate o vescovo. Alla sua morte, sopraggiunta verso l'883 (ma è una data veramente molto avanzata per un ex cortigiano di Carlo), sarebbe stato sepolto dai confratelli nel monastero e fatto oggetto di una venerazione piuttosto tiepida, visto che quattro secoli più tardi un monaco genovese, Giovanni Beacqua, avrebbe scoperto la sua tomba quasi per caso in questo monastero ormai abbandonato tra le paludi, e organizzato in fretta e furia la traslazione dei resti mortali di San Beda presso il monastero di San Benigno di Capofaro (GE). Ora, tutto questo potrebbe anche non essere mai successo, perché l'unica fonte di tutta la storia è una cronaca anonima che confondeva questo Beda sassone trapiantato in Polesine col più illustre Beda il Venerabile, vissuto quei due secoli prima in Inghilterra. O più facilmente preferiva confonderli, e sostenere che Giovanni Beacqua avesse recuperato le ossa di un santo così importante, pensate, in territorio veneziano; e di essersele portate a Genova senza tanti complimenti. Per tutto il resto del Duecento abbiamo la sensazione che i fedeli genovesi credessero di custodire le ossa del Beda importante (quello che tra l'altro aveva proposto di contare gli anni a partire dalla nascita di Cristo), e soprattutto di averlo sottratto ai veneziani. L'errore sarebbe stato scoperto più tardi, forzando gli agiografi a separare i due Beda, il Venerabile e il Giovane: quest'ultimo piuttosto evanescente.
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