Di storie in forme di fiore

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Dunque io, che ho cominciato a leggere quasi prima di cominciare a pensare, sui cartelli stradali, i titoli dei giornali, io che ho imparato a leggere in officina sulle latte di OLIO FIAT con le lettere bene in evidenza, a un certo punto ho trovato i fumetti e per molto tempo non ho cercato di meglio. In seguito ho letto anche altre cose, il Codice della Strada e Svetonio in originale, ma probabilmente la cosa che riesco a leggere meglio, che mi viene più naturale leggere, sono i fumetti: una vignetta dopo l'altra, la nuvoletta in alto prima della nuvoletta in basso, certe linee sottendono il movimento e la didascalia è una voce fuori campo. Migliaia di Topolini e poi Giornalini, e Dylandog e tutto il resto, ma so che non è stato così per tutti. C'è gente che i fumetti non li legge.

Non sto dicendo che non le piacciono. Sto dicendo che proprio non li legge: le mostri una tavola e non sa da che parte prenderla, che valore dare alle didascalia, che senso dare ai cambi d'inquadratura tra una vignetta e l'altra. Queste persone sono l'equivalente di quelle altre persone, più spesso femmine che maschie, che si domandano che senso abbia mettersi in calzoncini e correre in venti intorno a un pallone (per inciso io che una partita ogni tanto riuscivo anche a guardarmela, non so cosa sia successo ma sto diventando anch'io una di quelle persone; non so esattamente ma ho il forte sospetto che sia twitter e il modo in cui lo usano certi professionisti della comunicazione trenta-quaranta-cinquantenni interisti e juventini e romanisti ma datevi un contegno, che siete in società, mica sul divano. Fine dell'inciso).

Stavamo parlando di quelli che non sanno leggere i fumetti. Non sanno perché non hanno mai cominciato, il prodotto non li interessava quando erano piccoli e difficilmente questo tipo di cose comincia a interessarti quando sei grande. Non sono nemmeno sicuro che sia una cosa ambientale, conoscevo una ragazza che da piccola aveva sempre avuto dei Topolino e dei Tex a disposizione sulla lavatrice, ma non li apriva, non le interessavano; probabilmente non c'è test migliore, provate a lasciare un fumetto sulla lavatrice per un mese e guardate se il bambino lo apre una volta sola o lo impara a memoria. Io i fumetti li imparavo a memoria. Non vuol mica dire che li capivo.

C'erano queste fasi, che mi ricordo benissimo, e spesso coincidevano vagamente con alcuni cicli commerciali. Ad esempio: l'editoriale Del Corno comincia a stampare l'Uomo Ragno e tu passi da Topolino all'Uomo Ragno; dopo tre mesi il tuo edicolante smette di esporlo e tu torni a Topolino. Oppure una marca di merendine si mette a regalare Kamandi con un pacco da sei briosc', e tu cominci a leggere Kamandi, una roba kirbiana da incubo, ma la promozione smette subito e per fortuna (poi un pomeriggio d'estate a tradimento ti fanno il Pianeta delle Scimmie e gli incubi riprendono da capo).

Questi cicli hanno poco a che vedere col modello del consumatore di fumetti-un-minimo-critico, un-minimo-selettivo (e molto danaroso) arrivato più o meno intorno agli anni Novanta. Tutto questo succedeva dieci, quindici anni prima, ed esponeva lettori appena alfabetizzati a saghe superomistiche assolutamente incomprensibili. Cioè noi leggevamo, leggevamo avidamente, leggevamo come non ci fosse un domani, ed effettivamente nel nostro domani non c'erano Xbox, non c'era youtube né facebook, non c'erano che Topolini e qualche Geppo per le crisi di astinenza, ma cosa accidenti potevamo capire del Multiverso DC pre-Crisis? Dei Nuovi Dei, dei tormenti di Peter Parker che tira il collo per sbaglio alla sua ragazza, ma santiddio avevamo dieci anni e gli adulti permettevano che leggessimo quella roba, probabilmente erano così spaventati dall'eroina che pur di tenerci lontani dal parchetto ci avrebbero somministrato anche il Tromba. Insomma, noi leggevamo, e capivamo una parola ogni tre. In un qualche modo tuttavia ci divertivamo. Forse ci aiutava Supergulp! (I fumetti in tv), che dell'Uomo Ragno e dei F4 ci mostrava versioni più semplici da comprendere, dopodiché quando tornavi alle vignette te ne fregavi dei dialoghi e ti godevi le vignette con la Cosa arancione che spacca tutto, o Hulk verde che spacca tutto, o l'Uomo Gomma che prende tutte le forme (lo chiamavamo così Reed Richards, ho ricordi precisi sullo sfondo di una scuola materna, signori: si parla degli anni Settanta). Ma insomma l'esperienza di leggere lunghe storie senza capir nulla, godendosi le immagini statiche di uomini volanti, esercitandosi a farle volare con la fantasia, può sembrare qualcosa di per sempre precluso alla nostra esperienza di adulti. Dev'essere più o meno come guardare uno Star Trek, o un Transformers, e capire solo le esplosioni. Se sei cresciuto, se ormai sai leggere, non puoi più sentire.

E invece no. Basta riaprire Il Garage Ermetico di Jerry Cornelius, quella storia assurda che Moebius cominciò per riempire due pagine di Métal Hurlant, mandandola avanti per pura forza d'inerzia improvvisando una tavola alla volta; e leggere i dialoghi. "Diamine! La doppia polarizzazione cromatica è andata in risonanza con la sonda di livellamento che ho lasciato sbadatamente in funzione!"; "Ciò che amo del garage ermetico è l'infinita varietà dei mezzi di comunicazione nei tre livelli"; "Ci mancava solo questa! Siamo attaccati dalla banda di Miltroe". E così via: puro nonsense tecnologese, burocratese, narrativese, che alla fine suonava come una specie di musica, da canticchiare mentre guardi le figure: esattamente quello che facevi da bambino mentre guardavi gli eroi di Kirby azzuffarsi sotto nuvolette grondanti significati misteriosi.

In questi giorni avrete sentito citare allo sfinimento quella idea delle "storie a forma d'elefante, di campo di grano o di fiammella di cerino". Io preferirei non esagerare: Moebius è un grande per tanti altri motivi, chiedete a chiunque nell'ambiente. Prima di lui l'immaginario visivo fantascientifico era quello freddo e metallizzato di 2001 o Star Wars: uomini da una parte, maschere di ferro dall'altra (Lucas aggiunge i pupazzi, ma senza molta convinzione). Dopo di lui il metallo diventa organico, urlante, le valvole dell'astronave di Alien si chiamano "sfinteri" e il nome chiarisce tutto. Dal punto di vista della struttura narrativa, questa faccenda delle storie in forma di elefante può sembrare altrettanto rivoluzionaria, ma in realtà non portò più lontano di tanto. Métal Hurlant era il classico prodotto di nicchia di un'industria editoriale che tirava, in cui i disegnatori avevano conquistato quel margine contrattuale necessario (almeno in Europa) per giocare a fare gli artisti concettuali. Forse Moebius era più 'artista', nel senso di artigiano, quando tirava la carretta con Blueberry, oppure negli anni '80 risuolava tutto il florilegio moebusiano al servizio di quel furbacchione di Jodorowsky, che sotto tutti quei chili di misticismo sapeva scrivere storie compatte, vendibili, con Bene da una parte e il Male dall'altra, uno bianco e l'altro nero per evitare che i bambini al gabinetto si confondano. Forse.

Oggi i giornaletti non si vendono quasi più, e chi vuole sopravvivere nell'ambiente lo sa, che margini non ce ne sono: la poca gente che ancora legge vuole storie, storie consequenziali, intricate ma non troppo, vignette ortogonali e magari anche qualche didascalia. Additare Moebius ai giovani aspiranti fumettisti sarebbe da criminali. Altro che storie in forma di fiore. Non c'è mercato per questa roba. Ripensandoci, non c'è mai stato, nemmeno in Francia, Métal Hurlant è durato quel che è durato. E allora?

E allora niente, rimane la nostalgia per quelle trame sbilenche, gratuite, impermeabili a ogni anglosassone criterio di verosimiglianza narrativa. La stessa pulsione che ci porta a preferire le storie dei Simpson senza capo né coda, a considerare Infinite Jest un capolavoro anche se non abbiamo capito come finisce, a pensare che la struttura non è tutto, la verosimiglianza non è tutto, la consequenzialità non è tutto, e che quel bambino che leggeva un vecchio libro tascabile di Spirit trovato a casa della nonna con le vignette minuscole, ovviamente senza capirci nulla, lui sì, in un qualche modo aveva già capito tutto quello che c'era da capire.
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