Riposa in prrrrr

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Quel figlio mai nato

Oriana lavora da anni a un' opera molto importante e attesa in tutto il mondo, fra pile di documenti, in un disordine solo apparente, con fervore guerresco. Le avevo chiesto di scrivere quello che aveva visto, provato, sentito dopo quel martedì e Oriana ha raccolto su alcuni fogli emozioni, pensieri. (Ferruccio de Bortoli, corruttore di vecchiette, Corsera, 29/9/2001)

Sul romanzo postumo di Oriana Fallaci, Un cappello pieno di ciliege (ciliege senza la “i”, tarate il vostro correttore automatico), io ho un forte pregiudizio, che nemmeno ho intenzione di verificare.

Perché parliamoci chiaro: se alla mia età non ho ancora letto le Upanishad e i Miserabili, non credo che troverò il tempo per il cappello pieno di ciliege. No, quello che farò qui è incartarvi il pregiudizio fatto e finito. Una cosa discutibile e persino un po’ vigliacca, la pisciatina sull’inedito illustre; ma su un blog si può fare.

Dicevamo, il cappello pieno di ciliege. Una gran palla, secondo me. Per i lettori non lo so, ma per lei di certo. Perché scusate, mica stiamo parlando di uno di quegli stitici letterati del Novecento, perennemente in preda a crampi e blocchi, quelli da cento paginette a decade; questa è Oriana Fallaci, una che quando trovava la storia giusta (e la trovava spesso), ti buttava giù un paginone centrale prima di colazione, una che la sua Olivetti Lettera 32 la pestava con undici dita alla volta, la faceva cantare come un Kalashnikov, tatatatatà ding! Tatatatà ding! Ding! Ding! Ding!

Almeno fino al 1991.
Era appena uscito Insciallah, un poema epico lungimirante (NIE quando ancora Genna guardava i cartoni), che mentre tutti fissavano con aria attonita le rovine del Muro, indicava nel Medio Oriente il nuovo sanguinoso fronte tra mondo libero e barbarie. Passa qualche mese e un certo Saddam Hussein le dà clamorosamente ragione invadendo il Kuwait, in quello che agli osservatori internazionali appariva ancora un inspiegabile capriccio. La guerra è imminente e la prima reporter d’Italia (e del mondo) non si fa aspettare… ma poi nelle retrovie succede qualcosa.
Questa guerra non si vede. La Fallaci ha passato una vita a guardare e a raccontare, ma stavolta no. Stavolta non si vede e non si capisce niente. Luci verdi su sfondo scuro, ed è tutto. La prima guerra del Golfo fu uno choc per molti vecchi reporter, ma per la decana Oriana dev’essere stata la percezione della fine. Analogica in un mondo digitale. Improvvisamente sei un vecchio disco polveroso e comunque il giradischi lo abbiamo lasciato in casa dei nonni.

Ma credete che abbia strepitato, sputato fuoco contro i nuovi media e i giornalisti embedded? No, quella volta reagì in un modo curiosamente freddo. Si ritirò a New York a scrivere un romanzone storico. Lo chiamava "il-mio-bambino", sì, vabbè – un bambino, per quanto piantagrane, massimo in nove mesi si scodella. Questo in dieci anni non ha voluto venir fuori. Oh, ma stiamo parlando di Oriana Fallaci, settanta battute al minuto! Voi come ve lo spiegate? Per me, semplicemente, si annoiava. Il Settecento, l’Ottocento, le guerre in costume, le ciliegie… una palla. Il suo bambino. Quante volte avrà voluto raschiarlo via, quel bambino mai nato e già promesso agli editori. “Oriana, come va?” Eh, come va, mica posso dirti che non sto combinando un cazzo. “Sto lavorando a quel romanzo, sai… ma è una cosa lunga”. “Ah, sarà sicuramente un capolavoro”. Certo, certo, come no.

In mezzo a tutto questo, ti diagnosticano pure il cancro… l’“alieno”, come amavi chiamarlo. Sicché tra un bambino che non vuole saperne di nascere, e un alieno che ti vuole morta, non devi aver passato degli anni molto belli, a New York. Fino a quel mattino di settembre in cui, come tutti sanno, il Medio Oriente si rifece vivo alla finestra.
E tu c’eri. Di nuovo in mezzo alla notizia. In mezzo alla realtà. Altro che Sette e Ottocento. 11 settembre 2001, e la prima reporter del mondo c’è. Come devi esserti sentita? Piena di rabbia e di orgoglio, lo sappiamo; ma in mezzo a tutta questa rabbia e orgoglio, come ti devi essere sentita, Ms Fallaci?
Secondo me ti sentivi bene. Come dopo un’operazione alle cataratte, ti sbendano e rivedi il mondo con occhi nuovi, con gli occhi vecchi, con gli occhi tuoi. Che emozione, rinascere a settant’anni. Fissi la finestra per un’ora, telefoni a qualcuno, qualcuno ti telefona, e fumi come una ciminiera; ma prima o poi ti volti verso l’olivetti lettera 32. E lo vedi. Il tuo bambino mai nato, deforme e rompipalle. Ma che se ne vada a fottere nel cestino! Foglio nuovo, vita nuova.

“Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l' altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini”.
Decisamente i palestinesi di Gaza non avevano molti motivi per gridar vittoria, col senno del poi lo sappiamo. Ma tu, invece. Che gran momento è stato per te. Da eremita volontaria, scrittrice quasi fuori catalogo, a salvatrice dell’Occidente. Hai venduto odio cartonato ai cinque continenti, ma più che per soldi credo che tu l’abbia fatto per dimostrare che eri viva, come l’occidente quando non sa che problema risolvere e bombarda a casaccio. L’hai fatto perché non volevi finire come una vecchia scrittrice coi crampi, e soprattutto non volevi morire di cancro, come una fumatrice qualsiasi: tu volevi la fatwa, l’hai chiesta in tutti i modi, hai fatto in modo di meritartela... e se quei barbogi dei mullah non te l’hanno concessa è solo perché sono veramente stronzi. Ma nessuno la meritava più di te, insomma, chi è questo Rushdie al tuo confronto?

Poi un giorno sei morta, e adesso eccolo qui, il tuo bambino mai nato. Bello, brutto, chi lo sa. Io credo che non ti piacesse, e che piuttosto di finirlo avresti fatto scoppiare la Terza Guerra Mondiale. Riposa in pace. Un giorno voglio andare a sussurrarlo sulla tua tomba. Solo per tendere l’orecchio e sentire che dallo sdegno ti rivolti. Vecchia stronza, beh, sì – un po’ mi manchi.
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