Cosa portare a casa

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Dai dai dai

- Comincio con una cosa che non c'entra niente con Boris. Ma niente davvero.
Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un antico film italiano – ci sono film degli anni Cinquanta che sono ancora attualissimi, questo invece è a colori del 1970 ma davvero sembra un reperto di un'era geologicamente lontana, si chiama Lettera aperta a un giornale della sera e racconta le vicissitudini di un élite di intellettuali romani di sinistra, oggi li chiameremmo radical chic ma sbaglieremmo, in realtà sarebbero l'intelligentsia organica del PCI, hanno fatto pure la Resistenza, ma adesso stanno cominciando a fare qualche soldo nell'industria culturale e non sanno se vergognarsene; per il resto il PCI di Longo non sa bene cosa fare di loro, così tirano tardi sui terrazzini, seducono le studentesse (senza comprendere bene tutta la frenesia sessantottarda), restaurano automobili d'epoca, firmano i comunicati. Ecco, una sera mentre sono lì su un terrazzino che discutono di Lacan, telefona il Paese Sera che vuole un intervento sui recenti fatti del Vietnam (c'era stata una strage nel Vietnam), e questi un po' per scherzo un po' per dar senso alla serata scrivono un comunicato durissimo in cui in sostanza dicono basta coi comunicati e coi terrazzini, è ora di agire, chiediamo pubblicamente di formare un battaglione volontario di intellettuali e andare a sparare agli americani sul Mekong. Il Paese Sera ovviamente non glielo pubblica, però dopo un po' la lettera esce sull'Espresso, e a quel punto a tutti questi signori ben sistemati crolla il mondo in testa. Dopo un po' di riunioni e convulsioni e autocritiche che si seguono con una certa fatica (è un film molto parlato ma la traccia audio si è sbiadita, come conviene ai reperti archeologici), alla fine il gruppetto decide di dire addio alla dolce vita e partire sul serio. Si radunano, ovviamente, in un casolare in Toscana, aspettando che passi a prenderli un compagno che ha i permessi. Il compagno arriva, li abbraccia, ma i permessi non li ha: all'ultimo momento l'esercito di liberazione Vietkong ha deciso di rifiutare la generosa offerta. E i nostri eroi restano lì, in mezzo allo stradone, senza più arte ne parte, per terra c'è una lattina e uno di loro senza pensarci la calcia via. Qualcun altro gliela ribatte. Nel giro di pochi secondi l'intelligentsia di sinistra comincia a tirare colpi furiosi a una lattina in mezzo alla strada, e questa scena finale, che vale tutto il film, al tempo pare che fu molto criticata: Maselli fu accusato di strizzare l'occhio alla commedia all'Italiana (oggi questo sarebbe un complimento, ma appunto, stiamo parlando di un'era arcaica).

Io vado più in là: il calcetto rabbioso, disperato, che chiude questo film, è la profezia di vent'anni di cinema italiano bruttino: ci si leggono in nuce tutte le partitelle dei film degli anni Zero, degli anni Novanta, forse anche degli anni Ottanta, la poetica dell'infanzia protratta oltre qualsiasi plausibilità, anche ai bordi dei teatri di guerra. Quanto siamo immaturi, ma quanto siamo simpatici, ma quanto siamo immaturi. Però simpatici. Però immaturi. Sempre così. E all'estero forse piacciamo così, per dire col calcetto di guerra Salvatores ci ha anche vinto un Oscar.

Mi chiedo invece se sia un film comprensibile all'estero, Boris; se il malessere che disseziona senza pietà sia commerciabile al di fuori della nostra nicchia angusta, magari anche dopo che ce ne saremo andati e la traccia audio comincerà a sbiadire. Non so neanche se augurarmelo, forse l'oblio sarebbe più pietoso nei nostri confronti, e allo stesso tempo mi piacerebbe che i nostri nipoti capissero come ci sentivamo, ai nostri tempi, quei tempi in ci siamo messi tutti messi a dire: Dai, dai, dai. Cosa significava dunque essere italiani nel 2011, lavorare in Italia nel crepuscolo di Berlusconi? Questa sensazione di galleggiare sul marcio, senza pretese di essere migliori, anzi, accettando i compromessi, finché non te li trovi praticamente infilati nel retto a forza, i compromessi, e allora ti ribelli: non è per politica, politica hai smesso di farla, a un certo livello è semplicemente un riflesso condizionato, potrebbe essere qualsiasi cosa, una luce troppo smarmellata, un ralenty ridicolo, a un certo punto abbiamo detto di no. Però non ce ne siamo andati, andare dove? Alla nostra età? E poi ormai c'è la crisi dappertutto, così siamo rimasti lì, aspettando che un altro riflesso condizionato ci rimettesse in carreggiata, che un'altra voce nella nostra testa ricominciasse a dire Dai. Dai. Dai che stavolta ce la possiamo fare. Dai che stavolta la portiamo a casa. Perché sarà diverso, stavolta. Non ci faremo andare bene tutto. Sapremo dire di no, anche agli amici se necessario. Stavolta faremo un buon lavoro.

Infatti non è che abbiamo tutte queste ambizioni. Forse sta lì il problema? Noi non siamo i roberto saviano di niente, noi nella vita vorremmo soltanto fare un buon lavoro, un lavoro serio. Qualunque cosa, anche un ristorantino, perché no, diteci soltanto cosa si può fare di serio in Italia e noi ci proveremo. Poi, quando tutto ricomincia ad andare a rotoli, non abbiamo neanche la forza per mandare tutto a fanculo; ci resta il sospetto di essere noi stessi il problema, noi che tolleriamo tutto quello che ci scorre intorno finché non ci sovrasta, noi che siamo sempre disposti al compromesso, anche col demonio, anche col proctologo del demonio, ma sappiamo veramente cosa vogliamo? Se a un certo punto, a furia di restringere le nostre ambizioni, a circoscriverle, le ridurremo a un punto - cosa ci sarà in quel punto? Dai dai dai, ma dai dai cosa? Cos'è che vogliamo veramente portare a casa?

Non lo so se Boris sia un buon film. So che Pannofino è un grande attore; dal momento in cui mi sono seduto mi sono ritrovato dentro al suo René Ferretti, e tutto quello che volevo era uscirne con dignità, finire un film decente, fare qualcosa di serio. E alla fine, dai dai dai [spoiler] mi sono ritrovato infilato a forza un cinepanettone. Così è l'Italia e purtroppo così sono anche io.

Mi è piaciuto, mi sono sentito male esattamente come volevo sentirmi, grazie. Temo solo che pochi al di fuori di noi possano capirlo; che il nostro malessere sia oltre un certo limite incomunicabile; e forse un po' ci spero anche. Forse alla fine avrei osato di più, avrei smarmellato più grottesco, è una spezia che non mi stanca mai. La scena in cui sono tutti al cinema a rimirare il loro stesso orrore, ecco, lì avrei calcato più la mano. Prima li avrei mostrati impassibili, tristi, mentre visionano scoregge. Poi lentamente avrei cominciato a farli ridere; risate nervose all'inizio, poi sempre più sforzate, sempre più tignose, col risucchio a scoreggia. Grandi risate tragiche, mentre la sala diventa buia. Li avrei fatti ridere fino a morirne, con la stessa energia disperata con cui gli intellettuali di Maselli infuriavano su una povera lattina, in un antico film di quaranta anni fa. Quanto siamo simpatici; però, riflettendoci bene, quanto schifo facciamo.
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