Invadiamo la Finlandia?

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L'ennesimo articolo su quanto sia figace la scuola finlandese in cui invece di scaldare la stessa sedia il bambino finlandese ne scalda tre diverse al giorno e in mezzo è libero di esprimersi, correre, arrampicarsi sugli spigoli degli schedari, suicidarsi, l'ennesimo articolo, dicevo, è stata la goccia che ha travasato la mia pazienza e ora mi dichiaro vinto: è chiaro che la scuola finlandese è talmente superiore che non ha neanche senso pensare di ricopiarla. E allora?


Una modesta proposta: invadiamo la Finlandia, subito. Ovviamente in modo pacifico: tutti in gita scolastica immediatamente (tanto è spazio Schengen, ci metteranno un po' ad accorgersene). Entriamo con un primo contingente diciamo di cinque milioni di studenti italiani (nel senso che provengono dall'Italia, ma ovviamente anche arabofoni, pakistanofoni, sinofoni, xilofoni): ci iscriviamo tutti alle loro scuole immerse nel verde e pretendiamo di essere subito trattati come studenti finlandesi, nel puro spirito di Maastricht. Nel giro di un paio di settimane avremmo raddoppiato la popolazione di quel fortunato Paese, e forse saremo diventati tutti studenti e professori migliori. Oppure la Meravigliosa Scuola Finlandese sarà tornata quell'edificio banale in cui se parli senza alzare la mano può alzarsi un frustino. Oppure... potremmo trovare una media ragionevole tra i due sistemi, perché no?

(Qualche anno fa un giornale intervistò il sindaco di Helsinki, credo che fosse a Roma in vacanza. Gli chiesero un consiglio su come rendere Roma una città più vivibile, almeno per quanto riguarda il traffico. Lui magari dovette improvvisare, insomma scrissero che aveva proposto di allargare i marciapiedi. Helsinki fa seicentomila abitanti. Roma un po' di più. Questo non significa che non possa avere senso, in generale, allargare qualche marciapiede. Ma è ridicolo farselo dire dal sindaco di Helsinki). 

La scuola italiana ha tanti problemi, e non c'è niente di male a volerne parlare. In questa grande discussione, il genitore finlandese deluso dalla proposta educativa siracusana non dovrebbe avere più voce in capitolo di te, di me, di chiunque altro. Se la sua storia fa notizia, se diventa la discussione del giorno, è per il modo in cui riesce a intercettare pubblici diversi. Alla stampa neoliberale – ma a loro non piace essere chiamati così, e allora in attesa di trovare una definizione che a loro piaccia possiamo chiamarli servi dei padroni, che ne dite? Non fosse che come padroni lasciano un po' a desiderare, diciamo padroncini, ecco: ai giornalisti che servono i padroncini, qualsiasi notizia che screditi la scuola pubblica italiana è una buona notizia. Se poi si riesce a evocare le scuole in mezzo alla taiga, tanto meglio: non perché si intenda finanziare la scuola pubblica italiana allo stesso modo in cui i contribuenti finlandesi finanziano la loro, capiamoci bene: quel che importa è far passare l'idea che esista uno standard europeo a cui la scuola pubblica italiana non potrà mai uniformarsi: e ben venga qualsiasi rilevazione internazionale o nazionale che sembri dire una cosa del genere (anche quando l'Invalsi non lo dice davvero, non importa: i padroncini vogliono leggerlo, i maggiordomi l'hanno già pronto nel cassetto). Più si insiste sul concetto che la scuola pubblica è roba da poveri, più si crea mercato per qualche scuola in qualche bosco privato: un business promettente che per qualche disgraziato motivo in Italia non è ancora decollato. Ma la direzione è quella, e tutti i modelli alternativi che vengono proposti (scuole steineriane, montessoriane, magari tra un po' anche scuole finlandesi) alla fine puntano in quella direzione: l'importante è che siano private. E se i genitori non le vogliono pagare tanto? Beh, chiederemo allo Stato i buoni scuola. Questo è il motivo per cui il genitore finlandese che si lamenta piace a Stampa, Repubblica, eccetera. Certo, se fossero soltanto loro a parlarne, non ce ne saremmo nemmeno più accorti.

Il lamento del genitore finlandese invece piace anche a una specie di sinistra – ho un po' di pudore a usare la parola – insomma un'area sedicente progressista che nell'ideale iperboreo di una scuola in mezzo al bosco vede un Altro Mondo Possibile. In fondo che male c'è a pensare a una scuola dove invece di ruotare gli insegnanti, ruotino gli studenti da una classe all'altra? Nessun male, è un'idea interessante, ma significa aumentare sensibilmente il numero di insegnanti per studente, insomma servono soldi e in certe scuole, non chiedetemi come lo so, non ce n'è più per pagare la carta. Non dico i supplenti brevi (abbiamo avuto molte assenze per malattia quest'anno, chissà perché): la carta. Chi continua a fantasticare di modelli finlandesi e scandinavi come di qualcosa di replicabile in Italia sobbolle in quel brodo culturale che rifiuta ogni attrito con gli aspetti quantitativi della realtà, per cui poi quando c'è un'epidemia ci si domanda cosa aspetta lo Stato o il Comune a raddoppiare gli autobus – ma perché non triplicarli, o fornire un taxi a ogni cittadino? Quando poi si va al governo, questo approccio si smorza completamente di fronte alla rude evidenza della ragioneria di Stato (quella davanti alla quale aa Meloni ha calato le penne e rialzato le accise): oppure, se sopravvive, produce mostruosità come i banchi a rotelle. Esatto: il massimo di Finlandia che poteva darvi un governo italiano è stato un acquisto massiccio di banchi a rotelle, che un loro senso innovativo ce l'avrebbero (peccato che calarono nelle scuole italiane proprio nel momento in cui ogni innovazione era resa impossibile dalla pandemia). Certo, bisognava anche cambiare la mentalità degli insegnanti: come? Corsi d'aggiornamento intensivi? Prepensionarli tutti e assumerne di giovani, magari direttamente dalla Fennoscandia? Chiedo, non so. Nel frattempo il governo der merito ci ha informato che siccome ci sarà un calo demografico, ci taglieranno un po' di risorse. Siamo sempre la stessa scuola pubblica che non si è mai rimessa dai tagli drastici della gestione Tremonti-Moratti, ormai vent'anni fa. Sinceramente non riesco a capire cosa si possa tagliare ancora senza che interi settori smettano di funzionare. Probabilmente, mentre lo dico, qualche settore sta smettendo di funzionare: una segreteria qua e là impazzisce, una scuola dell'infanzia perde l'unica professionalità rimasta, una classe non riesce più a permettersi l'intervento di un esperto o di uno psicologo, e così via. Stiamo morendo dissanguati e dobbiamo pure ascoltare le favole sulle scuole modello finlandesi.

Le scuole finlandesi non sono necessariamente un modello. Diversi anni fa si trovarono in cima a una graduatoria statistica, ma nel frattempo avevano deciso di sperimentare modelli diversi e da allora la loro posizione nelle stesse graduatorie è sempre scesa. Questo non significa che non si possa imparare qualcosa anche da loro, del resto appena possibile ci proviamo. Ma si tratta di un piccolo popolo (meno di cinque milioni di abitanti), in un grande territorio fuori dalle grandi rotte migratorie. Paragonare la loro scuola alla nostra implica paragonare la loro società alla nostra: paragonare la loro società alla nostra non ha molto senso, è un'operazione che denuncia da sola la propria artificiosità, come quando Pietro Ichino voleva portare in Italia la flexsecurity danese, e nessuno riusciva a chiedergli: ma perché di tanti posti proprio la Danimarca? È davvero un modello di successo? Nessuno lo sa davvero; ma il bello dell'Europa è che ci sono tanti Paesi, piccoli, grandi, è una specie di campionario di dati statistici dove puoi selezionare quelli che ti piacciono di più e ignorare tutti gli altri. Ad esempio, se vuoi convincere i lavoratori italiani che essere più licenziabili è un vantaggio, tu scarichi il foglio elettronico più grosso che c'è e incroci i dati finché non trovi l'economia più sviluppata con la licenziabilità più alta: vicino all'incrocio sta la Danimarca, ed ecco che la Danimarca diventa improvvisamente un modello di welfare state, perlomeno nei tre mesi che servono ad abolire l'articolo 18: poi improvvisamente a nessuno frega più nulla della Danimarca, dei suoi ammortizzatori sociali e della sua rigidità fiscale; credo nemmeno a Ichino. Il sistema educativo finlandese è rimasto coinvolto in un equivoco del genere. Chi c'è stato ne parla come di una cosa interessante, con luci e ombre. 

Non si tratta comunque di qualcosa che si possa replicare nel settore pubblico italiano. Neanche se lo finanziassimo a dovere – e al contrario, lo stiamo dismettendo – neanche se la piantassimo di buttar via soldi per salvare squadre di calcio che continuano a perderne, piattaforme digitali per la promozione di contenuti artistici che basterebbe mettere su Raiplay o Youtube, presidi di militari che fingono di fare la guardia alle piazze imbracciando armi che non potrebbero usare – anche se usassimo quelle risorse per costruire scuole nuove e metterci dentro insegnanti migliori, non otterremmo la scuola finlandese. Neanche quella francese. Questo perché banalmente siamo una nazione meno ricca della Francia. I neolib – scusate, i maggiordomi dei padroni lo sanno benissimo: se insistono sulla Finlandia è solo per reclamizzare un modello privato che stenta a prendere piede. Tutti gli altri, per favore, dovrebbero smettere di credere alle favole e cominciare a dare un'occhiata ai numeri. 

Alla fine è la solita storia del Ponte sullo Stretto – questa cosa banale per cui lo stretto di Messina è lungo tre km, e una tecnologia per fare una campata lunga 3 km ancora non esiste. Se lo dici, non sei un nemico dei siciliani o del progresso: sei semplicemente uno che conosce questa informazione. Non è che il ponte non lo costruiscono a causa del tuo scetticismo, il ponte non hanno la minima intenzione di farlo. Ne parlano un po', aspettano le reazioni degli scettici e poi si nascondono dicendo ecco, lo vedete? In Italia è impossibile cambiare le cose, per via di questa mentalità. No bimbi, in Italia è possibilissimo cambiare le cose. Serve però il contributo di tutti – a partire dai padroncini. Bisogna scegliere di investire risorse serie nel settore educativo, ovvero il contrario di quello che avete scelto di fare, perché avete scelto di farlo, negli ultimi trent'anni. Non servono discorsi – cioè alla fine possono servire anche i discorsi, e anche i modelli, e anche un po' di banale senso di inferiorità nei confronti dei popoli nordici. Tutto può servire, però la cosa che serve di più sono i soldi. Se davvero accettate di metterci i soldi, la scuola può cambiare, la società può cambiare. Persino lo Stretto, che pure per molti millenni continuerà a essere lungo 3 km, prima o poi potrà essere scavalcato da un ponte: se finanzi la ricerca. (Per favore non cominciate a dire che tra Copenaghen e la Svezia un ponte c'è già. Il Baltico è un mare molto meno profondo, queste cose si imparano a scuola). 

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