Chi Elio, chi Ingroia

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Oggi mi sarei quasi rimesso a scrivere del masochismo un certo tipo di elettore di sinistra che voterà Ingroia anche se sa di ottenere il risultato contrario, ma stavo per annoiarmi da solo. Allora ho pensato che è la stessa cosa se parlo di Sanremo e della giuria di qualità, che si è intestardita a votare Elio col risultato – prevedibile – di far vincere Mengoni. Magari c’erano canzoni più valide, magari si poteva far caso al talento di Annalisa Scarrone, però… però era roba da reality e la giuria di qualità non li guarda, i reality, roba da ragazzini. Si sono impuntati su Elio, che prima dell’arrivo della giuria era ottavo.

Ora lo possiamo dire: Elio, l’incommensurabile Elio, e i suoi meravigliosi compari, non avevano nessuna possibilità di vincere Sanremo. Non avevano i numeri e forse non ne avevano neanche voglia, un Sanremo dopotutto l’hanno vinto già – anche se lo hanno consegnato a Ron. Volevano intrattenere un pubblico più vasto del loro solito da professionisti e artisti di varietà quali sono diventati da parecchi anni; lo hanno fatto alla grande, con quel sovrappiù di perfezionismo che rasenta il grottesco e che non è esattamente per tutti. Su quel palcoscenico dove qualche anno fa si presentò mummificato, cantò un’aria del Barbiere che Bocelli se la sogna, e approfittò monellescamente per urlare “f**a” in mondovisione, Elio è riuscito a stupirci ancora una volta, anzi tre o quattro volte, quasi sempre su una nota sola. Ha fatto il nano, l’obeso, si è divertito con Rocco Siffredi, mentre i musicisti tiravano fuori assoli furiosi da strumenti giocattolo. È stato bravissimo, sono stati bravissimi; ma non avevano nessuna possibilità di vincere il primo premio, e infatti non l’hanno vinto.

Portare una canzone mononota al teatro Ariston era già, in sé, una performance d’arte d’avanguardia. È un po’ la differenza tra guardare un Burri in un museo e appenderselo in camera: abbiamo tutti applaudito l’esperimento, ma alla mattina, mentre aspettiamo l’autobus, difficilmente vorremmo ascoltare la mononota nelle cuffiette. E Sanremo è il festival delle cuffiette, oggi, come era delle radio vent’anni fa. Un conto è dimostrare che anche all’Ariston si può sperimentare e stupire sul serio, un conto è pretendere di imporre la sperimentazione a una nazione di portatori di cuffiette, come ha provato a fare la giuria (continua sull'Unita.it)

Sarebbe bastato far convergere i voti su qualche altra proposta meno estrema e un po’ più cantabile, per intercettare i gusti di qualche bacino di televotanti disposto a mandare un altro sms a mezzanotte. Spazio per compromessi onorevoli ce n’era, ma i giurati di qualità non se ne sono accorti. Avevano deciso di sostenere la nota sola, tutta le cuffiette d’Italia avrebbe dovuto riecheggiare una nota sola? Si fa fatica a crederci.
Più probabilmente, i giurati avevano deciso di perdere. Di limitarsi a rimarcare la loro diversità, la loro alterità di non-guardatori di reality – magari senza sapere che anche Elio ci sta lavorando, nei reality, che è poi uno dei pochi modi rimasti ai cantanti di campare. E così abbiamo anche rischiato che vincessero i Modà, che sotto le acconciature da ragazzini cantano roba che Gianni Togni o Ricchi e Poveri nel 1980 avrebbero inciso solo sui lati B, testimoni di un cattivo gusto sommerso persistente che è appena sfiorato dall’evoluzione della moda e persino dal ricambio generazionale. Non è che il popolo delle cuffiette non avrebbe bisogno di un po’ di educazione musicale, ma tra l’oltranza sperimentale di Elio e la palude primordiale dei Modà si dovrebbe riuscire a trovare una mediana. I giurati non ci sono riusciti; secondo me hanno fallito la loro missione di intellettuali, ma era esattamente quello che mi aspettavo da loro.
C’è chi lo chiama snobismo. Ma se fosse semplicemente un disagio logico-matematico? Può darsi semplicemente che non abbiano capito che insistere su un pezzo condannato dal televoto non sarebbe servito a niente. È un po’ lo stesso problema dell’elettore di Ingroia al senato. Gli descrivi la situazione, gli spieghi che per esempio in Lombardia la possibilità esigua di eleggere due senatori rivoluzionari è controbilanciata dal rischio di regalare 16 seggi al centrodestra; che il rischio concreto è quello di un nuovo governissimo con Berlusconi e Monti insieme a Bersani, e loro niente. C’è un orgoglio identitario che se ne frega di chi governerà davvero, e che vince su tutto. Persino sull’aritmetica. http://leonardo.blogspot.com
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