Adolescenti, non li spiamo mai abbastanza
04-04-2025, 01:26cinema, delitti e cronaca, forze dell'ordine, scuola, tvPermalinkHo visto Adolescence, ci ho messo i miei tempi. Non mi sembra dica nulla di troppo profondo sulla violenza di genere, anche se lo dice con espedienti che destano sempre ammirazione (i piani sequenza) e a volte rischiano di mettersi tra noi e il messaggio – ma immagino sia un problema soltanto per chi tiene molto a questa cosa del messaggio. Senz'altro viene incontro a un'esigenza di aggiornamento che ogni tanto assale il mondo degli adulti, la necessità di svecchiare il lessico; come dice il ragazzino, voi parlate sempre di bullismo, ecco, in effetti potremmo considerare il bullismo la punta di un iceberg, e avere la curiosità di cosa c'è sotto. Sotto ci sono i redpillati, i ragazzini che per rompere il ghiaccio prendono le dritte dagli youtuber e li senti dire sciocchezze terrificanti (ma almeno ci provano), i gamer con i loro limiti empatici e attentivi che sono onestamente quelli che mi inquietano di più, forse perché ho la sensazione che abbiano preso il potere, almeno a Washington. Mi inquieta però anche il modo in cui gli autori di Adolescence hanno pensato di impostare il discorso, ma non credo di essere oggettivo, in fondo si parla delle persone con cui lavoro.
La serie si aggira in un mondo in cui tutto è sempre accessibile e visibile: del resto gli inglesi oltre ad avere le migliori scuole di recitazione al mondo sono all'avanguardia anche nella diffusione delle videocamere di sorveglianza – qualcuno prima o poi metterà in correlazione le due cose; forse Adolescence è un tentativo di metterle in correlazione. I primi tre episodi potrebbe averli previsti Foucault, sono come tre piani del Panopticon: la Stazione di Polizia, la Scuola e l'Istituto Psichiatrico. La scelta del piano sequenza potrebbe alludere a questo: siccome tutto è sempre visibile, ci è consentito di aggirarci sulla scena tra i personaggi: ma non è vero, tutto è visibile solo a chi possiede i circuiti chiusi, e inoltre le videocamere non si aggirano così, avrebbe avuto più senso un montaggio di camere fisse. Questa disparità tra chi vede tutto e chi può solo sperare di non disgustare gli spettatori esplode nel terzo episodio, dove il ragazzino crede di essere il protagonista della sua tragedia e invece è sedotto, spiato, svuotato e respinto con un moto di genuino fastidio (quel mezzo conato di vomito della psicologa, quando sta per addentare il tramezzino, per me è il momento più notevole). Il quarto episodio spiazza un po' lo schema che mi stavo facendo, ma anche seguendo la famiglia, gli autori non smettono di dirci che tutto è visibile, tutto è videocamera, tutto è giudicabile e da questo giudizio costante e universale non si può più sfuggire. Va bene. Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di instagram. Ma vorrei tornare ai primi due episodi, perché sono quelli che mi hanno lasciato le sensazioni peggiori.
Il primo comincia con un'irruzione della polizia che lì per lì ci sembra esagerata, ma tutto il resto della serie vorrà dimostrarci che non è vero, che la polizia ha fatto benissimo a irrompere così. Dopodiché seguiamo i personaggi in una Stazione di Polizia dove tutti sanno quello che stanno facendo, e lo fanno con professionalità e sollecitudine. È un procedurale nel senso letterale del termine, nel senso che per l'80% non fa che mostrare cosa succede passo dopo passo quando la polizia inglese ti arresta per sospetto omicidio. L'unica cosa che mi ha lasciato perplesso è che nessuno, per più di mezz'ora, chiede ai poliziotti chi sia morto: sinceramente sarebbe la prima cosa che domanderei, persino se l'avessi ucciso io. Ma forse gli inglesi hanno un più alto concetto della privacy, che ne so. In compenso il padre dice qualcosa come: ci avete sfasciato la casa, e il poliziotto gli risponde: Non è vero. Comunque ci sono i video e potrà sporgere reclamo. Se non avete un avvocato ve lo diamo noi ed è bravissimo. La polizia possiede i video e gestisce l'oggettività: può affermare in qualsiasi momento cosa è vero e cosa non lo è, e la cosa non ci preoccupa perché vediamo che i poliziotti sono esseri umani con debolezze standard, ma anche un buon livello di professionalità ed empatia. Fantastico.La seconda puntata è ambientata in una scuola media, e forse questo sta offuscando la mia oggettività, ma il confronto tra i due piani concentrazionari è impietoso. A scuola niente funziona. I professionisti non sono professionali, non riescono a controllare i ragazzi che si pestano ferocemente anche sotto i loro occhi, che comunque a volte nemmeno ci sono, perché come nelle scuole del cinema americano assistiamo a sequenze importanti dove gli adulti non si fanno vivi, per quanto sia irrealistico; forse semplicemente sono in ritardo, o in pausa caffè; non insegnano, non consolano, non risolvono, sanno solo dire "fermo lì" e: "guardate il video". Ci sono video dappertutto, dice il poliziotto disgustato (lo stesso poliziotto che senza le videocamere non avrebbe risolto il caso). Invece la poliziotta ci ricorda un paio di volte che la scuola puzza, di cavolo e masturbazione. (La Stazione di Polizia probabilmente sa di caffè e inchiostro per le impronte). La scuola è il luogo del delitto, che in effetti è avvenuto a qualche iarda di distanza, ma è a scuola che i ragazzi si sono conosciuti e si sono predisposti per odiarsi a morte. Ora, io non so se le scuole inglesi siano davvero così – e a tal proposito comincio a capire la saggezza dei nostri antenati, che decise di isolare le Medie Inferiori sia dalle Elementari sia dalle Superiori, perché è davvero una fase critica che è meglio sia guardata a vista, da professionisti abituati alla stupidità così peculiare di quella fascia di età. Quel che mi disturba davvero è vedere un contrasto così netto tra forze dell'ordine e scuola del caos. Un contrasto che il terzo episodio non fa che fortificare: anche stavolta il contrasto è tra una psicologa superprofessionale e un ragazzino cresciuto in una jungla finta che crede che fare "buh" lo renderà più interessante. È difficile assistere alla sequenza senza provare un compiacimento sadico per il modo in cui il Caos viene interpretato e definitivamente represso.
Infine, se proprio vogliamo unire i puntini, nella quarta puntata il padre ricorda che non ha mai picchiato suo figlio, perché? Perché suo padre lo cinghiava troppo. E qui forse c'è il vero gap culturale, perché gli inglesi in effetti sono stati gli ultimi europei a togliere le punizioni corporali a scuola, laddove in Italia la generazione che si era ripromessa di non toccare i figli tutto sommato era quella dei miei genitori (i boomer, sì). È il momento in cui i genitori si stanno lambiccando per capire dove hanno sbagliato, se hanno sbagliato: forse il padre non doveva voltarsi dall'altra parte mentre il figlio portiere prendeva tutti quei goal (nella società delle videocamere, voltare lo sguardo è l'offesa estrema). Oppure, chi lo sa, gli autori non lo dicono, ma unendo i puntini uno potrebbe anche giungere alla conclusione che la cinghia ogni tanto va usata; che la scuola era più seria al tempo dei frustini e dei righelli; che l'unica istituzione che funziona davvero – la Polizia – funziona perché non si fa scrupolo di puntare un fucile su un adolescente nel suo letto durante un'irruzione, o di inseguirne un altro tra i marciapiedi anche se a conti fatti è inutile, dove vuoi che scappi, hai l'indirizzo, hai il telefono, lo riacciuffi tra tre ore al Macdonald, a Carpi i tizi che entrarono con un autobus in una scuola li presero lì. Insomma ci ho messo i miei tempi, ma ho concluso che Adolescence è una serie reazionaria che ti spaventa coi ragazzini omicidi per suggerirti che ci vuole più repressione. L'estremo opposto dei 400 colpi: se li lasci un po' liberi sapranno solo farsi male, l'unica è sequestrargli le lame e spiarli in modo più capillare: mai distogliere lo sguardo, mai. Onestamente mi dispiace pensarla così, non mi sembrava così terribile guardandola, ma rileggendomi purtroppo mi ritrovo d'accordo.