Il Classico è uno status dell'anima
27-02-2018, 10:35chiudere i licei (con i prof dentro), lotta di classe, scuola, TheVisionPermalinkIn questi giorni potreste aver sentito parlare di un boom delle iscrizioni al liceo classico – indovinate un po’: non esiste. A crescere (ma appena dell’1%) sono le iscrizioni al liceo in generale: da settembre lo frequenteranno 54 nuovi iscritti su 100. Tra questi, 24 sceglieranno lo scientifico e nove il linguistico. Soltanto in sei andranno al ginnasio: un dato in linea con quello del 2017. Eppure si insiste sul “boom”, soprattutto sulla stampa locale: il Secolo XIX saluta il “ritorno della classicità” perché a Savona ci sono “quasi una decina di iscritti in più”. Il Tirreno invece parla di un “Rinascimento del liceo classico” perché al Machiavelli di Lucca le iscrizioni sono aumentate di ben tre unità. Nel frattempo il Corriere della Sera scomoda l’ex prof. Roberto Vecchioni per domandargli perché gli studenti “tornano oggi a desiderare una formazione classica”: lui non si fa cogliere impreparato e spiega che si tratta della reazione a un “vuoto di valori”, vecchio asso pigliatutto che la persona colta sa giocare davanti a qualsiasi fenomeno sociologico, esistente o no. Perché aumentano gli scippi / i tossicodipendenti / i bitcoin / gli iscritti al ginnasio? Vuoto di valori. Funziona così bene che Vecchioni la usa sia quando i licei perdono gli iscritti, sia quando ne guadagnano.
Il fatto è che quando si parla del Classico sembra impossibile restare calmi. Il tono dev’essere sempre o tragico o trionfale. Qualcuno fa una critica? “Il liceo classico è sotto assedio”. Qualcuno lo trova tutto sommato un percorso formativo interessante? Non basta: come minimo bisogna scrivere che è “una scuola modello per l’occidente“, oppure “il meglio dell’Italia e della sua memoria, la nostra eccellenza, il modello nazionale per il quale ancora, ogni tanto, ci distinguiamo nel mondo“. Nei periodi in cui le iscrizioni calano (e fino a qualche anno fa il calo era sensibile) si paventa la fine della civiltà come la conosciamo: invasioni barbariche, cavallette e sale sulle rovine; per poi riscuotersi e inneggiare a un nuovo umanesimo appena la tendenza si inverte, come è logico che sia. Gli economisti parlano di dead cat bounce: anche un gatto morto rimbalza se cade da molto in alto. Un liceo che quest’anno dichiara il tutto esaurito può essere lo stesso che qualche anno fa ha chiuso una classe intera e ora non avrebbe più risorse per riaprirla. Non importa: nel frattempo gli articoli entusiasti vengono condivisi sui social, dove la prosecuzione telematica degli sfottò tra maturandi classici e scientifici degenera spesso in una specie di assedio: ex ginnasiali contro il resto del mondo.
Perché in effetti, nella stragrande maggioranza dei casi, chi afferma l’importanza dell’istruzione classica l’ha a sua volta ricevuta. È un’osservazione banale (solo chi ha studiato Tucidide in lingua originale può rendersi conto se l’esperienza gli è stata utile o no): chi difende il Classico sta difendendo il proprio percorso di crescita. Molto spesso si tratta di una persona che nella vita ha avuto successo, il che non lo mette al riparo da quella distorsione cognitiva che in inglese si chiama survivorship bias, la tendenza a leggere la Storia nella versione tramandata dai vincitori. Con gli anni, chi è soddisfatto di sé tende a ricordare con riconoscenza gli insegnanti che lo hanno formato, e le esperienze che ha fatto (comprese le versioncine di Velleio Patercolo: col tempo rivaluti le cose più ridicole). Magari avrebbe ottenuto gli stessi risultati anche in un’altra scuola, con altri insegnanti, e anche se invece di tradurre Velleio si fosse cimentato col calcolo integrale, o con la grammatica tedesca. Ma non può saperlo. Se gli chiedono un parere sul liceo, lui offrirà un parere sulla sua esperienza. Magari ribadirà la vecchia idea del Classico che “apre la mente”, anche se non offre competenze immediatamente spendibili, anzi proprio per questo: un luogo comune contro-intuitivo che però è strenuamente difeso da esperti che molto spesso nei classici per coincidenza ci lavorano. Nessuno sembra voler ricordare che il liceo classico, oltre a essere quella famosa fucina di intelligenze eclettiche che il mondo ci invidierebbe, è stato sempre per anni uno status symbol: ancora adesso ci vanno i rampolli delle buone famiglie, non necessariamente i più dotati o motivati. Gli stessi poi proseguivano attraverso l’università, approdando a un buon posto di lavoro a cui erano destinati, spesso non per i meriti maturati studiando i classici.
Questo potrebbe spiegare l’unico vero dato eccezionale delle nuove iscrizioni (non proprio un “boom”, ma quasi): in tre anni a Milano sono passate dal 3% all’8%; trenta studenti sono ancora in attesa di assegnazione perché nei classici milanesi non c’è posto. Come se il “vuoto di valori” denunciato dal prof. Vecchioni fosse localizzato nella Lombardia occidentale. Più probabilmente Milano si sta allineando con Roma, dove i ginnasiali sono sempre stati più numerosi. È una città sempre meno industriale e sempre più proiettata nel terziario avanzato – la seconda città lombarda, Brescia, ancora molto ancorata alla realtà industriale, ha il record inverso: più iscritti agli istituti che ai licei. C’è chi sostiene che gli studi umanistici possano addirittura avvantaggiare chi cerca un impiego in un mondo del lavoro in costante evoluzione. Chi difende il Classico in questi casi spesso non si accorge di averlo tradito, nel tentativo di trovare applicazioni pratiche a quell’otium studiorum che orgogliosamente le rifiutava. Cosa c’entrano gli studi umanisti con l’alternanza scuola-lavoro che avrebbe umiliato qualsiasi discepolo di Quintiliano? Del resto il Classico-classico era una scuola che prevedeva due sole ore di lingua straniera alla settimana, e solo nel biennio del ginnasio: se uno dà un’occhiata alle offerte formative del Parini o del Berchet si rende subito conto che un liceo così classico, oggi, almeno a Milano non esiste più.
È chiaro che in una città dove le professioni sono in costante evoluzione gli studenti (e le famiglie) siano portati più spesso a optare per un corso di studi che non offre nessuna specializzazione ma promette di mantenere un’offerta educativa di qualità. Il paradosso del Classico è che in realtà sarebbe una scuola ad alto livello di specializzazione, se davvero sfornasse latinisti e grecisti – ma siamo tutti abbastanza d’accordo sul fatto che non serva a questo: le ore passate sul latino e sul greco non servono davvero a imparare il latino e il greco – due lingue che la maggior parte degli ex liceali non riesce più a decifrare pochi anni dopo il conseguimento del diploma. Quel che importa, quel che è sempre importato, è che siano due materie difficili. Più difficili del calcolo integrale o del coding? Non si sa, ma tutti pensano di sì, e questo è l’importante: le materie difficili e prive di sbocchi occupazionali immediati ti consentono di fare selezione all’ingresso.
Il Classico è ancora uno status symbol, o almeno è percepito come tale (ma c’è differenza?) Non è una cosa che i presidi possano scrivere nel Piano dell’Offerta Formativa; in compenso vi sarà capitato di leggere qualche Rapporto di Autovalutazione stilato da un insegnante o un funzionario un po’ troppo sincero (magari non sapeva che il Rapporto sarebbe stato pubblicato sul sito del ministero, e scambiato dalla stampa per “pubblicità classista”). Nel tal liceo ci sono pochi stranieri e neanche un disabile; in quell’altro si lamenta la presenza dei “figli dei portinai”. Il liceo classico è anche questo. Lo è sempre stato: la scuola per i rampolli di buona famiglia. Magari la famiglia non è così buona, ma mandando il ragazzo/a al classico spera che possa salire quel gradino sociale che evidentemente ancora esiste. Chi ricorda con affetto gli anni del liceo tende sempre a non far caso a quella cosa: i pesci non fanno caso all’acqua. Questo non significa che il Classico non possa davvero essere una formidabile palestra di vita. Seneca e Orazio possono davvero aprirti la mente; Tacito può davvero allenarti alla complessità. Ma forse è più facile che succeda in una classe piccola, senza compagni “problematici”.
Il fatto è che quando si parla del Classico sembra impossibile restare calmi. Il tono dev’essere sempre o tragico o trionfale. Qualcuno fa una critica? “Il liceo classico è sotto assedio”. Qualcuno lo trova tutto sommato un percorso formativo interessante? Non basta: come minimo bisogna scrivere che è “una scuola modello per l’occidente“, oppure “il meglio dell’Italia e della sua memoria, la nostra eccellenza, il modello nazionale per il quale ancora, ogni tanto, ci distinguiamo nel mondo“. Nei periodi in cui le iscrizioni calano (e fino a qualche anno fa il calo era sensibile) si paventa la fine della civiltà come la conosciamo: invasioni barbariche, cavallette e sale sulle rovine; per poi riscuotersi e inneggiare a un nuovo umanesimo appena la tendenza si inverte, come è logico che sia. Gli economisti parlano di dead cat bounce: anche un gatto morto rimbalza se cade da molto in alto. Un liceo che quest’anno dichiara il tutto esaurito può essere lo stesso che qualche anno fa ha chiuso una classe intera e ora non avrebbe più risorse per riaprirla. Non importa: nel frattempo gli articoli entusiasti vengono condivisi sui social, dove la prosecuzione telematica degli sfottò tra maturandi classici e scientifici degenera spesso in una specie di assedio: ex ginnasiali contro il resto del mondo.
Perché in effetti, nella stragrande maggioranza dei casi, chi afferma l’importanza dell’istruzione classica l’ha a sua volta ricevuta. È un’osservazione banale (solo chi ha studiato Tucidide in lingua originale può rendersi conto se l’esperienza gli è stata utile o no): chi difende il Classico sta difendendo il proprio percorso di crescita. Molto spesso si tratta di una persona che nella vita ha avuto successo, il che non lo mette al riparo da quella distorsione cognitiva che in inglese si chiama survivorship bias, la tendenza a leggere la Storia nella versione tramandata dai vincitori. Con gli anni, chi è soddisfatto di sé tende a ricordare con riconoscenza gli insegnanti che lo hanno formato, e le esperienze che ha fatto (comprese le versioncine di Velleio Patercolo: col tempo rivaluti le cose più ridicole). Magari avrebbe ottenuto gli stessi risultati anche in un’altra scuola, con altri insegnanti, e anche se invece di tradurre Velleio si fosse cimentato col calcolo integrale, o con la grammatica tedesca. Ma non può saperlo. Se gli chiedono un parere sul liceo, lui offrirà un parere sulla sua esperienza. Magari ribadirà la vecchia idea del Classico che “apre la mente”, anche se non offre competenze immediatamente spendibili, anzi proprio per questo: un luogo comune contro-intuitivo che però è strenuamente difeso da esperti che molto spesso nei classici per coincidenza ci lavorano. Nessuno sembra voler ricordare che il liceo classico, oltre a essere quella famosa fucina di intelligenze eclettiche che il mondo ci invidierebbe, è stato sempre per anni uno status symbol: ancora adesso ci vanno i rampolli delle buone famiglie, non necessariamente i più dotati o motivati. Gli stessi poi proseguivano attraverso l’università, approdando a un buon posto di lavoro a cui erano destinati, spesso non per i meriti maturati studiando i classici.
È chiaro che in una città dove le professioni sono in costante evoluzione gli studenti (e le famiglie) siano portati più spesso a optare per un corso di studi che non offre nessuna specializzazione ma promette di mantenere un’offerta educativa di qualità. Il paradosso del Classico è che in realtà sarebbe una scuola ad alto livello di specializzazione, se davvero sfornasse latinisti e grecisti – ma siamo tutti abbastanza d’accordo sul fatto che non serva a questo: le ore passate sul latino e sul greco non servono davvero a imparare il latino e il greco – due lingue che la maggior parte degli ex liceali non riesce più a decifrare pochi anni dopo il conseguimento del diploma. Quel che importa, quel che è sempre importato, è che siano due materie difficili. Più difficili del calcolo integrale o del coding? Non si sa, ma tutti pensano di sì, e questo è l’importante: le materie difficili e prive di sbocchi occupazionali immediati ti consentono di fare selezione all’ingresso.
Il Classico è ancora uno status symbol, o almeno è percepito come tale (ma c’è differenza?) Non è una cosa che i presidi possano scrivere nel Piano dell’Offerta Formativa; in compenso vi sarà capitato di leggere qualche Rapporto di Autovalutazione stilato da un insegnante o un funzionario un po’ troppo sincero (magari non sapeva che il Rapporto sarebbe stato pubblicato sul sito del ministero, e scambiato dalla stampa per “pubblicità classista”). Nel tal liceo ci sono pochi stranieri e neanche un disabile; in quell’altro si lamenta la presenza dei “figli dei portinai”. Il liceo classico è anche questo. Lo è sempre stato: la scuola per i rampolli di buona famiglia. Magari la famiglia non è così buona, ma mandando il ragazzo/a al classico spera che possa salire quel gradino sociale che evidentemente ancora esiste. Chi ricorda con affetto gli anni del liceo tende sempre a non far caso a quella cosa: i pesci non fanno caso all’acqua. Questo non significa che il Classico non possa davvero essere una formidabile palestra di vita. Seneca e Orazio possono davvero aprirti la mente; Tacito può davvero allenarti alla complessità. Ma forse è più facile che succeda in una classe piccola, senza compagni “problematici”.
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