My Own Private Obama

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Obama è uno specchio

Noi, in realtà, di Obama
sappiamo poco.

Ne sappiamo poco perché finora ha fatto poco; e anche quel poco che ha fatto ci interessava meno del mito che gli abbiamo costruito intorno.
A questo punto non ha nemmeno senso chiedersi chi Obama sia: ancora un po' di tempo e lo vedremo. Forse è più interessante domandarsi cosa abbiamo voluto che fosse fin qui.

Ora è facile osservare che in Obama ciascuno di noi ha visto più o meno quel che voleva vedere, con l'entusiasmo acritico del tifoso che cerca riscatto dopo anni di sconfitte della sua squadra. Come se Obama dovesse per forza giocare per noi. Ma sì: dava l'impressione di essere sempre dalla nostra. Qualunque cosa dicesse (ma poi cosa diceva in realtà? Boh).

Non c'è neanche bisogno di fare esempi, ma facciamoli: i trentenni di belle speranze esclusi dalla stanza dei bottoni lo hanno seguito come il Mosè della loro generazione attraverso il Mar Rosso del vecchiume; i baby-boomers già rincoglioniti ci hanno rivisto Kennedy pari-pari (esattamente come col giovane Clinton, 16 anni fa); i nerd hanno visto in lui il trionfo dell'aggregazione via internet; gli afroamericani lo hanno visto afroamericano; i liberal hanno voluto vederlo liberal; gli evangelici lo hanno visto evangelico; persino qualche musulmano sarà riuscito a vederlo musulmano; e così via.

Non spetta a me stabilire quale di queste proiezioni sia più o meno sballata dalle altre, né pronosticare chi taglierà per primo il traguardo della gara tra i delusi-da-Obama; mi limito a notare che finora ognuno di noi ha usato Obama più o meno come uno specchio – ma gli specchi presto o tardi deludono, per costituzione.

Voglio dire che Obama ci deluderà, perché non può corrispondere a ciascun nostro ideale – e se anche lo facesse, ogni nostro segreto ideale ha un lato oscuro, di cui ci accorgiamo soltanto le rare volte che lo vediamo realizzato.

Anch'io naturalmente mi sono fatto il mio Obama su misura. Non l'ho voluto troppo di sinistra, perché so che non reggerebbe la prova della realtà; non l'ho preteso filopalestinese, era troppo chiedere: se per una volta rifiutasse di usare il veto all'Onu sarebbe già un miracolo al di sopra delle mie aspettative. Si vede che invecchio, da quanto poco sono disposto a farmi illudere.
Non è un trentenne brillante, il mio Obama; non è un MLK più sexy, non giocherella con l'iphone, ma ha anche lui un suo dettaglio personalizzato. Il mio Obama è fondamentalmente un figlio d'immigrato.

Non è nemmeno il colore in questione, qui: è lo stesso colore di milioni di statunitensi da generazioni. Ma il padre di Obama era un keniota – e, pare, neanche il massimo dei padri.
L'Obama che mi porto a scuola oggi è un figlio di extracomunitari che viene accolto da una società multietnica senza una piega, e nel giro di una generazione porta un cognome buffissimo sulla targhetta dell'ufficio più famoso del mondo. Questo è quanto basta per creare una leggenda, e quel che conta ancor di più della leggenda: un precedente.

Potrà gasarvi un Presidente cool, vi elettrizzerà un presidente telematico, ma quello che cambia veramente per me sta semplicemente in quel cognome assurdo. Diversissimo e simile a tutti i cognomi assurdi che mi trovo intorno a scuola: cinesi, magrebini, rumeni. Nessuno di loro, per quanto sgobbone, diventerà Presidente. Ma oggi sanno che non è giusto. Questo è quello che Obama ha già insegnato a loro e a me. Ed è parecchio.
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