I due dischi più brutti dei Beatles

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(Continua la pubblicazione delle recensioni di Perceval Reginald Deafon, Esq (qui la prima parte), il prestigioso critico che per i tipi della blasonata Montly British Music Magazine ebbe il privilegio di recensire in anteprima tutti i dischi dei Beatles - stroncandoli uno per uno).

Revolver (Parlophone, 1966)
Ed è giunto il momento di parlare di Beatles. Fosse per me avrei aspettato - avevo anche una scusa perfetta: per un disguido l'etichetta discografica mi ha consegnato una copia del loro nuovo album evidentemente non definitiva, con colpi di tosse, nastri montati al contrario e altri disturbi. Ma il direttore insiste, e d'altro canto è difficile immaginare che la versione definitiva sia molto migliore: magari bastasse togliere due colpi di tosse o un paio di nastri fuori posto per migliorare la situazione. So che qualche lettore non condivide il mio punto di vista, ma è un fatto che i Beatles non siano più rilevanti almeno da un paio d'anni. Ora che finalmente si interrompe il tour infinito che li ha trasformati in un prodotto di esportazione - a spese della genuinità - e si dirada la nebbia caotica della beatlemania, è facile accorgersi che quello che hanno iniziato nel '62, oggi qualcun altro lo sta portando avanti con più coerenza e più ispirazione. Nell'anno in cui i Rolling Stones ci hanno regalato Aftermath, e oltreoceano i Beach Boys di Brian Wilson ci hanno sbalordito con Pet Sounds, che cosa ci offrono i quattro nuovi Membri dell'Eccellentissimo Ordine dell'Impero Britannico? Altre quattordici canzonette in cerca di interpreti più convincenti. La crisi d'ispirazione della premiata ditta Lennon/McCartney è tale che il pezzo d'esordio è del loro sodale, il giovane George Harrison: il quale purtroppo ha difficoltà a inserire più di un accordo nelle sue composizioni, e non sempre gli riesce di trovarne uno non dissonante. Il suo assolo di chitarra - se davvero è quello che ho sentito sulla mia copia del disco - sembra l'esercizio di un bambino con un elastico. A sua discolpa, Harrison sta raccontando l'episodio più traumatico della sua vita: la scoperta che anche i milionari pagano le tasse. Il resto del disco è meno inquietante; ci troviamo un po' tutte le cose che ormai siamo abituati a trovare in un disco dei Beatles: il numero di McCartney coi violini (Eleanor Rigby), il numero di Harrison con il sitar (Love You To), quello di Lennon contro le donne che non lo apprezzano (And Your Bird Can Sing), la canzoncina su due note per il povero Ringo (Yellow Submarine) - sia detto fra noi, un onesto musicista che non meritava questo destino da clown (ma neanche i milioni di sterline che gli auguriamo di mettere da parte). È difficile stabilire se risulti più irritante la svogliatezza di John Lennon, incapace in certi casi persino di mantenere i quattro quarti in un brano di tre minuti, o la pretesa di McCartney di essere un autore poliedrico: ovvero di saper copiare nello stesso disco un po' di Brian Wilson (Here, There and Everywhere), un po' di Vivaldi, un po' la Motown (Got to Get You Into My Life), un po' l'ultimo successo che ha sentito in radio (l'avvocato dei Lovin' Spoonful dovrebbe ascoltare con attenzione almeno Good Day Sunshine). Sospendo il giudizio sull'ultimo brano, che non ho potuto ascoltare: nella versione che mi è stata consegnata c'è solo una sequenza di rumori, alcuni dei quali registrati al contrario, e la voce drogata di John Lennon che mi propone di espandere la mia coscienza. Per quanto ne so la versione definitiva di Tomorrow Never Knows potrebbe anche essere un capolavoro, ma sarebbe l'unico dell'album. L'unico da due anni a questa parte. Non me ne vogliano i lettori se resto scettico.

The Sgt. Pepper's Lonely Heart Club Band (Parlophone, 1967)
Come avrà intuito facilmente il lettore dalla siepe fiorita, i membri del gruppo del club dei cuori solitari del Sergente Pepper altri non sono che i quattro Beatles, reduci dalla loro prima debacle discografica (il singolo Penny Lane - Strawberry Fields Forever non è neanche arrivato primo in classifica), che con questo espediente pubblicano un disco minore, nel quale probabilmente sono i primi a creder poco - certo, l'idea di mascherarsi sarebbe venuta persino al sottoscritto, se avessi dei fans e se li avessi trattati male come hanno fatto i Beatles con le loro ultime uscite. I quattro ne approfittano per improvvisarsi orchestrina di vaudeville, con esiti che oscillano tra il fastidioso (il valzer di Lucy in the Sky), l'irrilevante (With a Little Help of my Friends) e lo stucchevole (When I'm 64). E poi che altro dobbiamo aspettarci? C'è il pezzo coi violini? C'è, più noioso del solito. C'è il numero col sitar? C'è, e non finisce mai. Prosegue nel frattempo la guerra tra John Lennon e i Quattro Quarti - questi ultimi ormai soccombenti in Good Morning. Il pezzo con cui termina l'album è uno strano patchwork di canzoni, cantato per lo più da un Lennon mai così lagnoso, costretto forse per mancanza di tempo a improvvisarsi un testo nonsense su una melodia insolitamente lugubre. Con questo piccolo disco di trovate che qualcuno definirà sperimentali, o come si dice adesso, 'psichedeliche', i Beatles si propongono a un pubblico che quest'anno ha già potuto ascoltare il capolavoro degli Stones (Between the Buttons), l'ottimo lavoro dei Kinks, (Face to Face); un pubblico che se avesse un po' di curiosità potrebbe tuffarsi nell'incredibile Freak Out! dei Mothers of Invention. Un pubblico che invece ha deciso di accontentarsi di qualsiasi cosa gli preparino i Beatles, e che confidiamo riuscirà a mandare giù anche questo polpettone di avanzi. Tanto può il ricordo di quello che sapevano fare fino a qualche anno fa, prima di lasciare le scene e nascondersi dietro a maschere di cartone, o alle proprie statue di cera che Madame Tussaud ha graziosamente concesso per le foto di copertina (continua...)
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