Muccino e la Pasoliniexploitation

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L'altra sera, proprio quando i detrattori più moderati di Pasolini sembravano aver conquistato il campo, si è svegliato mano-lieve Muccino e ha dato un ceffone all'arbitro.



Quel che è successo poi potrebbe persino far storia: un'intera nazione di appassionati di cinema si è scossa dal torpore ipnotico dei trailer di Star Wars rallentati alla ricerca di qualche dettaglio rivelatore sul destino di Jar Jar Binks, e si è stretta intorno al suo maestro e ispiratore, il geniale cineasta Pietro Paolo Pasolini. A quarant'anni dalla sua scomparsa (e dalla distribuzione di Salò), l'amore del pubblico per il suo beniamino è tale che l'account facebook di Muccino sembra essere stato sospeso per eccesso di insulti. E io ho scoperto di vivere nell'universo dei miei sogni, dove le piattaforme sociali non servono per litigare sugli spintoni tra Valentino Rossi e Marquez, ma per dibattiti sull'estetica, perdio, sulla tecnica cinematografica! Vi rendete conto, possono bannarci mentre litighiamo sull'uso del carrello o del controcampo.

Ok, proviamoci.

Però facciamo finta di saperne qualcosa per favore - cioè davvero, potete avere mille motivi per odiare Muccino, ma per difendere Pasolini dovreste almeno aver visto un film suo. Sennò come potete essere sicuri che non ci abbia azzeccato? Definire Pasolini amatoriale non è cosa campata così in aria. Il suo primo approccio diretto con la macchina da presa fu abbastanza garibaldino. Era già uno scrittore affermato, aveva collaborato con Fellini, quest'ultimo intuisce del potenziale e gli propone di produrre Accattone - ma quando vede i primi tentativi blocca tutto, erano inguardabili. Pasolini comincia così, saltando a piedi pari tutto l'apprendistato del regista (anche se può contare da subito su un collaboratore preparato come Bernardo Bertolucci). E potendo contare sulla sua reputazione extracinematografica - tanto che quando alla fine Accattone arriva a Venezia, viene contestato da gruppi di estrema destra che gettano inchiostro sullo schermo. È appena il 1961: gli anni di piombo molto in là da venire; Pasolini è già in qualche modo un personaggio che attira l'attenzione qualsiasi cosa dica o faccia.

È interessante che nel suo primo comunicato antipasoliniano (poi prontamente cancellato da facebook), Muccino raccontasse di aver cominciato a detestarlo molto presto - è così che funziona, no? Se ti piace Pasolini (o Kubrick, o i Vanzina) te ne accorgi a 16 anni. Il resto della vita ti serve a trovare i motivi, le giustificazioni, le pezze d'appoggio. Muccino - chi sa un po' di cinema non ha nessuna difficoltà ad ammetterlo - è uno dei registi italiani più dotati della sua generazione, che è anche il motivo per cui in questo momento twitta dalla California. È facile risolvere la questione tracciando una retta: da una parte l'approccio amatoriale di Pasolini, che con scarsa o nulla conoscenza del mezzo riesce comunque a mettere in scena un'opera prima apprezzata in tutto il mondo; dall'altra la professionalità di Muccino, il campioncino nazionale dei carrelli circolari. Facile, no? Già, troppo facile.

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Pasolini amatoriale                                               Muccino professionale

Perché è vero anche il contrario: Pasolini arriva in regia sapendone poco o nulla, ma è determinato a fare del cinema la sua dimensione - tanto che si mette molto presto a teorizzare di semiotiche e di cinémi - quanto a Muccino, avrà fatto i suoi compiti, ma il modo in cui liquida Pasolini dimostra una scarsa conoscenza della storia del cinema italiano.

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Muccino praticone                                                     Pasolini accademico


L'eredità di Pasolini.
Cosa direbbe Pasolini dell'accusa di essere "sgrammaticato"? Probabilmente la rivendicherebbe (facendo però sfoggio di un'ottima grammatica), così come rivendicava l'"ingenuità" che gli aveva affibbiato Umberto Eco. "Che io sia ingenuo, non c'è dubbio: e anzi, poiché non sono - con tutta la violenza di un maniaco anche nel non voler esserlo - un piccolo-borghese - non ho paura dell'ingenuità: sono felice di essere ingenuo, e anche magari qualche volta ridicolo" (Il codice dei codici, in Empirismo eretico).

Ricapitolando: da una parte il cinema contemporaneo, professionale ma del tutto inconsapevole della storia che ha alle spalle. Un cinema senza tempo e senza luogo, che potrebbe farsi dovunque e infatti si fa in California. Dall'altra la visceralità di Pasolini, ma anche lo strutturalismo di Pasolini. L'ingenuità, ma anche la Cultura con la C. Il sottoproletariato urbano, ma anche l'intellettuale organico e/o declassato. Tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle nel Novecento, dopo quella famosa frattura antropologica. Ma non è ancora troppo facile, così?

È da ieri che cerco ovunque un'intervista che sono sicuro di aver visto, una mattina, a un "montatore di Pasolini" (Nino Baragli?) Ormai mi sono convinto che sia in questa teca rai che non si riesce ad aprire. Mi ricordo questo signore mentre spiega in romanesco come si montava ai suoi tempi, con lo sputo: cioè prima di incollare i pezzi di pellicola con l'acetone, in un primo momento era sufficiente applicare un po' di saliva. E poi quando spiega che i raccordi di Pasolini li faceva un po' diversi da quelli degli altri film, perché sembrassero strani, perché sembrassero 'artistici': gli spettatori dovevano avere la sensazione di trovarsi di fronte all'opera sofisticata del poeta Pasolini, mica, chessò, la robaccia di Sergio Leone. L'artigiano della cabina di montaggio aveva perfettamente introiettato gli stilemi di quel Cinema di Poesia che secondo Pasolini stava sorgendo "contemporaneamente in tutte le cinematografie mondiali" ("l'alternarsi di obbiettivi diversi, un 25 o un 300 sulla stessa faccia, lo sperpero dello zum, coi suoi obiettivi altissimi, che stanno addosso alle cose dilatandole come pani troppo lievitati, i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di macchina a mano, le carrellate espressive, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili su una stessa immagine ecc. ecc.") (Il cinema di poesia, in Empirismo eretico).

Quando vidi per la prima volta il Decameron in cineteca a Bologna, approfittando del corso monografico del Dams, mi fu preventivamente spiegato che l'approccio di Pasolini era "poetico" - e già la cosa mi innervosiva, provenendo io da un altro corso di studi: perché mettere la poesia nel Decamerone, che è prosa? E l'approccio poetico, poi, consisterebbe nel fatto che i raccordi sembrano tutti sbagliati, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili, ecc. ecc? E aggiungi gli attori non professionisti sempre sul punto di mettersi a ridere. Cioè, insomma, "poetico" significa "fatto male apposta"? Probabilmente avevo la stessa età in cui Muccino cominciò a detestarlo.

I HAVE NO IDEA WHAT I'M
Però a leggere più attentamente il saggio di cui sopra, non è che Pasolini rivendichi il "cinema di poesia" per sé. Lo isola nei film di un gruppo di cineasti della sua generazione (Antonioni, Bertolucci, Godard), e ne propone immediatamente una spiegazione politica: "la formazione di una traduzione di "lingua della poesia del cinema" si pone come spia di una forte e generale ripresa del formalismo, quale produzione media e tipica dello sviluppo culturale del neocapitalismo". Pasolini stava assistendo alla nascita del moderno cinema d'autore - e non ne sembrava poi così entusiasta. Lui forse puntava in altre direzioni. E però i film vanno quasi mai nella direzione del proprio regista: specie se i cabina di montaggio c'è un praticone che ha deciso che il ritmo è lento, perché il tuo è un film d'artista e al tuo pubblico piacerà di più così.

Muccino è convinto che Pasolini abbia inferto un colpo mortale alla cultura cinematografica italiana - dopo di lui qualsiasi inetto avrebbe deciso che bastava munirsi di cinepresa e montare spezzoni a caso per fare cinema poetico ("improvvisati registi che non sapevano come comunicare col pubblico"). È andata così? Da qua non sembra. Sotto l'ombra del monumento che gli è cresciuto addosso in questi anni, sfugge forse quanto Pasolini fosse organico all'industria cinematografica che Muccino rimpiange - ricordiamo: comincia a lavorare con Fellini, esordisce con Bertolucci, all'inizio non ha ben chiaro che lenti montare ma si circonda di maestranze di primissimo livello: realizza film non convenzionali ma nemmeno assimilabili a quelli autoriali di Antonioni o Godard; film che fanno discutere, ottengono premi e - particolare cruciale - a volte riempiono le sale.

A Muccino forse manca un dettaglio: la trilogia della vita fu un successo al botteghino. Successo che imbarazzava Pasolini per primo, e che lo portò nel suo ultimo anno di vita a una tragica abiura. Oggi lo ricordiamo come un grande intellettuale fuori dagli schemi e dalle mode, ma l'effetto immediato del successo del Decameron fu precisamente la nascita di un vero e proprio filone, il cosiddetto decamerotico. Sono fenomeni difficili da indovinare oggi. che andiamo al cinema molto meno: nel giro di pochi mesi c'era già un Decameron II apocrifo in circolazione; quando l'anno successivo uscì I racconti di Canterbury, gli artigiani della pasolini-exploitation avevano già provveduto a confezionare Gli altri racconti di Canterbury, che arrivò nelle sale in contemporanea. Secondo Muccino senza Pasolini non avremmo avuto Nanni Moretti; mi sembra molto discutibile, invece è abbastanza pacifico che senza Pasolini non avremmo mai avuto Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda e tutta calda.  Persino l'abiura totale di Salò, così disperata e senza compromessi... Persino Salò diede vita a una rapida vague di film di serie B a base di nazisti sadici.

Tornando al Decameron: è il film di Pasolini con cui ho più familiarità, per via della mia abitudine a proiettare in classe (con un certo sprezzo del pericolo) la novella di Andreuccio di Perugia. Non è che abbia fatto pace con gli attacchi irritanti e le immobilità interminabili, ma per mostrare uno scorcio di medioevo urbano non saprei trovare di meglio. È anche utile per fissare nella memoria le condizioni igieniche nel tempo - Ninetto Davoli che sprofonda nella merda è il miglior antidoto a qualsiasi visione fiabesca del medioevo. Ma soprattutto c'è qualcosa di arcaico, di irriconciliabile con la modernità, che è poi la sensazione che vorrei suscitare quando insegno storia.

Quando la primavera scorsa è uscito Il racconto dei racconti, sono entrato in sala con molte speranze. Basile è un altro autore che bisognerebbe affrontare alle medie - altrimenti quando? Per qualche minuto ci ho creduto davvero. Più o meno finché gli attori hanno aperto la bocca, dichiarandosi per quel che sono: attori di una fiaba in costume. Molto professionali, per carità.

In quel momento mi è venuta nostalgia di Pasolini, e di quei non-attori sempre sul punto di mettersi a ridere.
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