Altri autoritratti
12-05-2017, 19:43Bob Dylan, musicaPermalink
Another Self Portrait (1969–1971) (The Bootleg Series Vol. 10, 2013).
Ho cominciato a dedicare un pezzo a ogni disco di Dylan nel dicembre dell'anno scorso. Ne ho scritto uno alla settimana; siamo in maggio e stiamo finalmente uscendo dagli anni '60 (il 1970 tecnicamente fa parte degli anni '60, lo so, non ha senso). Se non mi ammalo, se non mi promuovono a un ruolo di più grandi e onerose responsabilità, se non mi stanco, se al Post non mi chiudono l'account (nel caso, come biasimarli), se continuo a scrivere un pezzo alla settimana, a Natale dovrebbe uscire la recensione di Christmas in the Heart. Non è un bell'obiettivo? Sarà bellissimo, un quell'ovattata atmosfera scampanellante, scrivere due cazzate su Christmas in the Heart. Invece adesso è maggio e bisogna scrivere un pezzo su Another Self Portrait. Conoscete qualcuno che abbia ascoltato tutto Another Self Portrait?
Che fretta hai? Guarda un po' qui,questo è il numero che non ti devi perdere.Annie canterà la sua canzone, si chiama Take Me Back Again.
(L'ha scritta Tom Paxton, il primo folksinger del Village che cominciò a scriversi le canzoni da solo, qualche mese prima che ci arrivasse Bob Dylan. È ancora in attività).
Del Dylan pittore non m'intendo molto, ma la sua copertina per Another Self Portrait è molto significativa (forse è la cosa migliore di tutto il cofanetto). L'autoritratto su sfondo nero assomiglia a Dylan ma non assomiglia a nessun altra foto o ritratto di Dylan. Richiama irresistibilmente quello che un Dylan molto più giovane e goffo sbozzò sulla copertina di Self Portrait nel 1970. È come se il Dylan più anziano ed esperto abbia rimesso mano alla stessa tela, miracolosamente ancora fresca di pittura, e l'abbia rimaneggiata fino a trasformarla in quell'autoritratto che 40 anni prima era venuto un po' troppo naif e pasticciato. Col nuovo ritratto insomma Dylan ci dice che (1) ha finalmente imparato a dipingere; (2) nel 1970, più che provocatorio, era incapace, e 40 anni dopo sente ancora il desiderio di correggersi; (3) i ricordi non si congelano in canzoni o fotografie; i ricordi sono pittura sempre fresca, che in qualsiasi momento si può rimescolare, per errore o per nostra volontà. Quello che Dylan fa al suo ritratto, è quello che facciamo tutti noi ogni giorno ai nostri ricordi. Cambiamo ogni cosa che ricordiamo: rendiamo i noi stessi di venti, di trent'anni fa, più simili a noi di quanto non fossero davvero. Di loro vediamo soltanto quello che preferiamo vedere, quello che ci aiuta a capire o spiegare chi siamo noi adesso. Chi conserva diari o foto conosce il fenomeno: la persona che ricordiamo è molto diversa da quella che risulta dai suoi scritti e sulla pellicola. Dylan ha i suoi ricordi - e li modifica continuamente - ma ha anche una quarantina di dischi che non credo riascolti spesso. Gli devono dare la stessa nausea che una volta ci dava la nostra voce registrata. Molto spesso quando ne parla li confonde, si capisce che li conosce meno dei suoi intervistatori.
Per esempio: nel capitolo di Chronicles I dedicato a New Morning, mentre racconta dell'ansia e della paranoia indotta dagli hippy che lo venivano a cercare a Woodstock salendogli sul tetto o intrufolandosi in camera da letto, Dylan racconta una serie di espedienti che avrebbe consapevolmente adoperato per disperderli. Il primo che gli viene in mente (e che non risulta, mi pare, in altre biografie) fu "versarmi una bottiglia di whisky sulla testa, entrare in un grande magazzino e guardarmi in giro con gli occhi sbarrati da ubriaco, sapendo che tutti si sarebbero messi a parlare tra loro non appena me ne fossi andato". Fingersi sbronzo era una vecchia tattica che usava già negli anni del Village. Quanto al secondo espediente: "Andai a Gerusalemme e mi feci fotografare al Muro del Pianto con uno zucchetto in testa. La fotografia fu trasmessa istantaneamente in tutto il mondo e i giornali scandalistici mi trasformarono subito in un sionista. Questo mi aiutò un poco". E questo è tutto quello che Dylan avrebbe da dire sul suo primo riavvicinamento all'ebraismo - eppure il biografo Howard Sounes sostiene che in quegli anni stava meditando di aderire al chassidismo, forse di trasferirsi in Israele (in un kibbutz, scrive: magari fu un'altra cosa che lasciò detta in giro per scherzo).
In Chronicles qualsiasi conversione è rinnegata, indossare una kippah è come rovesciarsi whisky addosso, un camuffamento, un ingaglioffimento. Anche incidere certi dischi ha lo stesso senso: "Di ritorno, registrai un disco che aveva l'apparenza di un country-western e feci in modo che avesse un suono ben imbrigliato e addomesticato. I critici musicali non sapevano come giudicarlo. Usai anche una voce diversa. La gente si grattava la testa. [...] Dagli articoli che uscivano su di me risultava che stavo cercando me stesso, che ero entrato in un processo di ricerca spirituale, che soffrivo di tormenti interiori. A me andava tutto bene. Feci uscire un disco (un doppio) dove non feci altro che tirare contro un muro tutto quello che avevo sottomano. Quello che ci restava attaccato lo pubblicai, poi andai a raccogliere anche il resto che non ci era rimasto attaccato e pubblicai anche quello".
Dunque. Il disco doppio è senz'altro Self Portrait, di cui Dylan ribadisce la natura di gesto provocatorio ("tirare contro un muro tutto quello che avevo sottomano") ma anche la consistenza, per così dire, escrementizia: le canzoni che vengono scelte per il disco sono quelle che restano attaccate. Metafora meravigliosa: una delle qualità delle canzoni è appunto il modo in cui si attaccano e non riesci più a dimenticarle. Non ha niente a che vedere con l'estetica, ci sono canzoni belle che non si attaccano e canzoni brutte che non si staccano più. Anzi se c'è correlazione forse è inversa: più sono brutte più sono catchy, appiccicose. Pensate a Wigwam, o a Belle Isle.
Ma se l'originale Self Portrait è la raccolta delle canzoni che sono rimaste attaccate al muro, qual è il disco che raccoglie "il resto che non ci era rimasto attaccato"? L'ipotesi più ovvia è che stia parlando del famigerato Dylan, il disco che raccoglieva, appunto, scarti di lavorazione di Self Portrait e di New Morning. Salvo che uscì soltanto nel 1973, e Dylan sta raccontando dei suoi problemi intorno al 1970. Non solo, ma qui nella foga di ridisegnarsi il passato su misura, Dylan si attribuisce addirittura la responsabilità di aver pubblicato l'orrido disco del 1973, di essere andato lui in persona "a raccogliere anche il resto che non ci era rimasto attaccato". Sappiamo che le cose non possono essere andate così: la Columbia pubblicò Dylan nel breve periodo in cui l'artista era passato alla Asylum. E quando tornò all'ovile, Dylan si oppose in tutti modi alla ristampa del disco. Negli ultimi anni tuttavia si è rassegnato a inserirlo nel catalogo. In compenso quello che scriveva dell'orrido Dylan si può applicare ad Another Self Portrait, uscito solo nel 2013, che raccoglie in un grazioso cofanetto le prove di lavorazione di Self Portrait e di New Morning. Qualcuno, evidentemente, ne sentiva la necessità. O se preferite: nel 1970 aveva inciso le cose rimaste appiccicate al muro; nel 1973 quelle che erano cadute sul pavimento, e nel 2013 ha raschiato parete e pavimento per regalare ai suoi fan Another Self Portrait.
E i fan, indovinate? Ringraziano.
E i critici? (Continua sul Post)
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