Io gli israeliani però li capisco

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Lo voglio dire a un punto qualsiasi di questo massacro: io capisco gli israeliani. Vorrei dire: li compatisco, se la parola italiana non si portasse con sé una sfumatura negativa, là dove vorrei semplicemente intendere: soffro con loro. Ho la sensazione di soffrire più con loro che coi palestinesi, per tutta una serie di motivi. E non li giudico, per lo stesso motivo per cui non giudico i palestinesi: perché giudicare non spetta a me. Per quanto i social, e in generale la mediasfera, possano avervi convinto di trovarvi in una corte internazionale permanente dove con la pressione di un tasto potete condannare Hamas, i coloni, Netanyahu, la Jihad, il Likud, ebbene no: questa cosa è un'illusione. Nessuno ci ha veramente convocato, nessuno saprà veramente che farsene del nostro giudizio – al massimo qualche profilazione per cercare di venderci un libro, o un costume da bagno, e soprattutto per metterci in contatto con gente che non la pensa come noi, così possiamo litigare a lungo e nella foga cliccare per sbaglio su altre inserzioni. Non siamo giudici internazionali, non siamo proprio giudici in generale; siamo banali osservatori e la cosa migliore che possiamo fare è cercare di capire cosa sta succedendo: una missione a cui la maggior parte dei giornalisti italiani mi pare abbia rinunciato. 

Qui accade qualcosa di non dissimile a quanto è successo con l'Ucraina, ovvero che dopo un'iniziale sorpresa ci tocca constatare che gli avvenimenti tanto imprevisti erano in realtà inevitabili, la conseguenza di decisioni prese anni fa, con troppa leggerezza; tanto che chi li ha prese spesso è già fuori dai giochi. Allo stesso modo, quel famoso 7 ottobre in cui "comincia tutto", secondo una retorica che trasuda di malafede, è un giorno che effettivamente ci ha preso alla sprovvista, ma che ora ci sembra inevitabile. Se la scommessa di Netanyahu – e in generale della classe dirigente israeliana – era mantenere la Striscia in uno stato di ebollizione permanente, evitando con ciclici interventi mirati che saltasse il coperchio, ebbene, il piano richiedeva il mantenimento di un'attenzione costante e capillare che nemmeno con tutti i droni del mondo Israele poteva permettersi; tanto più che prima o poi i droni avrebbe cominciato a usarli anche Hamas. Il 7 ottobre avrebbe potuto succedere qualche anno fa o tra qualche anno, ma prima o poi sarebbe successo, e questo è un motivo per cui capisco gli israeliani: da anni dormono, come noi, di fianco a una o più bombe a orologeria. 

In arancione i caduti palestinesi, in viola gli israeliani. CNN.

Israele è una nazione giovane (28 anni l'età media) che si trova in una situazione senza uscita a causa di scelte fatte ormai due generazioni fa. Le colpe dei bisnonni non dovrebbero ricadere sui figli, ma nei fatti è così. A chi è tanto lesto a condannare questo e quello, continuo a chiedere: ma se tu fossi nato in un quartiere di Gaza devastato dalle granate, credi che oggi non approveresti Hamas, che non ne faresti parte? E se invece io fossi nato in una colonia nel Negev o in un quartiere di Haifa, non chiederei anch'io di asfaltare la Striscia? Probabilmente sì – o magari affetterei un vago senso di colpa, come quando leggo che i miei ministri stanno allestendo altri campi di concentramento per i migranti all'estero. Vent'anni fa, Israele ha tentato di fermare la demografia recintando Gaza: fu una scelta scellerata, ma al tempo era difficile rendersene conto. Persino io per un attimo credo di aver pensato che potesse trattarsi di un passo avanti: finalmente la Palestina avrebbe avuto un pezzo di territorio senza coloni. Ma avrei già avuto tutti gli elementi per capire che quel pezzo di territorio sarebbe caduto in balia di Hamas. Anche il ruolo dell'Iran in tutta la vicenda si è chiarito abbastanza presto e adesso bisognerebbe dirlo: è inutile pretendere che israeliani facciano la pace coi palestinesi, finché gli USA mantengono un embargo con l'Iran. Israele e Palestina sono solo due o tre caselle della scacchiera – le caselle che da sempre ci attraggono di più, per motivi storici e culturali – ma il gioco è molto più vasto ed è ipocrita, è sempre stato ipocrita pensare che israeliani e palestinesi possano risolvere i loro problemi da soli. Alla fine sono solo due piccoli popoli schiacciati in due striscioline di terra, e questo è un altro motivo per cui li capisco: per quanto mi possa percepire al centro del mondo, anch'io alla fine abito in provincia. 

Israele fa quello che può – e quel che può fare è terribile – ma a questo punto non potrebbe fare diversamente. È uno Stato che si è dato per scopo la sicurezza del suo popolo, e che si è trovato incastrato in un territorio aspro tra popoli nemici. Per sopravvivere ha dovuto combattere molte guerre e concludere molte paci, e ancora non basta. Qualcuno da fuori potrebbe astrattamente concludere che si è trattato di un errore: forse non bisognava andare là, forse bisognava fare le cose in un modo diverso, forse, forse, forse. Può darsi che essere israeliani significhi ogni giorno svegliarsi e dire di no a tutti questi forse: perché a questo che qualcuno chiama errore, la tua famiglia ha dedicato vite intere, dissodando il deserto, morendo in guerra. Non posso dire di capire veramente gli israeliani in questo: per me, e credo per la maggior parte degli italiani, la nazionalità è qualcosa che si dà ormai per scontata, e dalla quale anzi amiamo chiamarci fuori appena possiamo. Però la fatica di credere ogni giorno in un ideale anche quando l'ideale assomiglia sempre più a una trappola, ecco: quella la conosco, l'ho sentita sulle mie spalle, anche solo per una giovinezze: non posso che compatire chi ci convive da sempre e sa di doverla passare ai propri figli.  

Ecco, ho scritto i motivi per cui credo di capire gli israeliani. Ora mi resta da spiegare perché non posso capire allo stesso modo chi in Italia, o altrove, tifa per loro: proprio come se fosse una squadra di calcio, e non un popolo intrappolato in una tragedia. La prossima volta.

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