Rolando Rivi, una storia sbagliata

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 13 aprile – Beato Rolando Maria Rivi, martire ragazzo  (1931-1945)

Di foto direi c'è solo questa

Pensavo che non avrei mai scritto nulla su Rolando Rivi. Le storie dovrebbero avere una morale, un senso, e in quella del povero Rolando fin qui non l'ho trovata – se non che in guerra succedono cose tragiche e stupide. Rolando forse morì perché in quanto seminarista si ostinava a vestire da pretino, anche se i genitori glielo avevano sconsigliato – con tutti i partigiani che c'erano in giro, e che già stavano facendo impazzire il prete vero. Rolando avrebbe obiettato almeno una volta che lui preferiva vestirsi così perché apparteneva a Dio, ("la tonaca è il segno che io sono di Gesù"), che è una cosa che può dire un ragazzino a quattordici anni inconsapevole dei pericoli, ma nel suo caso è anche la ragione per cui per il Dicastero delle Cause dei Santi poteva considerare la sua esecuzione un martirio in odium fidei: Rolando in effetti fu ucciso da una formazione partigiana per spaventare il vero prete, o perché il vero prete non si poteva ammazzare, o semplicemente perché vestiva come un prete (da cui la leggenda che poi gli assassini abbiano appallottolato i suoi abiti per giocare a pallone: poco verosimile, se avete mai provato a calciare un pallone di tela). Abbiamo tutti disobbedito ai nostri genitori vestendo in un modo che loro non approvavano, e per questa cosa Rolando è stato ucciso – stupidamente – da partigiani che poi cercarono di convincere i genitori, e una giuria, e sé stessi, che Rolando vestito da prete andava in giro per l'appennino facendo la spia: e non ci riuscirono. Dieci giorni dopo la guerra era finita; alla voce "Triangolo della morte (Emilia)" di Wikipedia, Rivi è il primo della lista delle vittime. 

Le storie dovrebbero avere una morale, un senso, ma quello che riesco a dedurre è che nemmeno in guerra la stupidità ci dà tregua, trasformando in goffi assassini quelli che erano saliti in montagna per fare gli eroi, e in martiri dei ragazzini che magari si sentivano a disagio a vestire in borghese. Ovvio che raccontandola in questo modo riuscirei a ferire sia chi venera il martire, sia chi difende la lotta partigiana: ed entrambi hanno le loro ragioni che capisco e dovrei rispettare, per cui pensavo che non avrei mai scritto nulla su Rolando Rivi. Poi ho letto che a Monchio la sua lapide era sparita. Non è la tomba, ma è la pietra che ricorda il luogo dove Rolando fu ucciso, davanti alla buca già scavata, secondo alcuni dopo aver chiesto di pregare per i genitori; secondo altri mentre piangeva e implorava pietà appeso alla gamba di chi impugnava la pistola. Lì i cattolici avevano messo una lastra di marmo e qualcuno l'ha tolta: a ottant'anni dalla morte di Rolando, la stupidità non ci ha affatto abbandonato, il che non è una sorpresa ma nemmeno una buona notizia. Così scriverò un pezzo su Rolando Rivi, che prima o poi verrà anch'esso cancellato; ma a questo punto se non scrivessi niente mi sentirei reticente. Non sono reticente. 

Sugli ultimi giorni di Rolando esistono, a volerle semplificare, tre versioni. La prima, quella raccontata dai partigiani al processo, descrive i movimenti di un ragazzo intraprendente, che si aggira per l'Appennino dal 10 aprile, imbattendosi in varie bande partigiane, fornendo informazioni false che fanno cadere una formazione in un agguato che costa la vita a sei partigiani; chiedendo a ogni distaccamento la posizione di un altro distaccamento che intendeva raggiungere, finché tutti si fanno l'idea che il ragazzo stia cercando di fare la spia; lui nel frattempo ha sottratto una pistola e quando i partigiani della Garibaldi, allertati da due contadini, decidono di fermarlo, la punta contro uno di loro, ma fa cilecca. Viene quindi fermato da un plotone della Garibaldi, che lo perquisisce e scopre che ha con sé cinquecento lire; inoltre sotto l'abito nero da seminarista veste una canottiera su cui è cucito un fascio littorio. Durante l'interrogatorio, conferma di aver ricevuto il denaro dal commissario del Comune di Castellarano in cambio di informazioni, e asserisce spavaldamente che, se l'avessero rilasciato, sarebbe andato a far rapporto. Insomma è reo confesso di spionaggio e tradimento, per cui dopo un rapido processo il distaccamento, costituitosi a giuria, lo condanna a morte. A eseguire la condanna fu il commissario politico, Giuseppe Corghi, che all'epoca aveva 28 anni. Non solo Corghi non negò mai l'accaduto, ma questa versione la raccontò direttamente al padre di Rioli, che dopo qualche giorno di affannose ricerche (a piedi, in mezzo alla guerriglia) era riuscito a individuare l'ultima formazione partigiana con cui era stato visto suo figlio. La versione divenne poi la tesi difensiva al processo del 1951: a difendere Corghi e il comandante del distaccamento Narcisio Rioli, il PCI inviò Leonida Casali, che fece del suo meglio recuperando diverse testimonianze; la storia comunque faceva acqua da molte parti. Ad esempio: secondo le disposizioni del Comitato di Liberazione, Corghi non avrebbe avuto l'autorità per eseguire una condanna a morte. Questo forse nel 1945 Corghi non lo sapeva, ma sei anni più tardi lo stimolò a cambiare la versione: a Rivi aveva dovuto sparare perché stava scappando. Oppure invece no, non stava esattamente scappando, ma la situazione era tesa, la formazione si stava spostando e non avrebbe potuto gestire un prigioniero. Inoltre il commissario prefettizio di Castellarano, quello che avrebbe pagato le 500 lire a Rolando, non era affatto caduto in disgrazia dopo il 25 aprile: per cui poté testimoniare che non l'aveva mai incontrato.

La seconda versione è quella del padre di Rolando, che da subito fu adottata dalla stampa di area democristiana. Il 10 aprile il padre si era accorto della sparizione del figlio perché aveva trovato, nel luogo dove si appartava quotidianamente a pregare, il suo breviario (altre fonti dicono un suo quaderno) con un foglietto. Sul foglietto c'era un messaggio che diverse fonti riportano con qualche differenza: ma la versione più accreditata è: "Non cercatelo, viene un attimo con noi partigiani". Il padre, in compagnia di un sacerdote (don Camellini), comincia subito a cercarlo presso le varie formazioni, nella speranza che il figlio abbia semplicemente deciso di unirsi a una brigata: magari di quelle cattoliche di cui aveva sentito parlare e per le quali nutriva una grande ammirazione. Le cinquecento lire che si trovava in tasca erano una ricompensa del parroco di San Valentino per i servizi prestati durante le funzioni religiose. Rolando insomma era stato prelevato dai partigiani, forse come atto di ostilità verso il parroco, che già in precedenza era stato minacciato. Inoltre il ragazzo era stato malmenato: lo confermò al processo del 1951 la padrona della casa dove i partigiani avevano condotto Rolando per l'interrogatorio. La signora, settantenne, non aveva assistito direttamente all'interrogatorio, ma aveva sentito i colpi. 

La terza versione è una sintesi piuttosto recente delle prime due, che ha preso vita in quell'area post-giampaolopansesca che possiamo anche definire revisionista. Con l'avvertenza che Pansa, molto prima di essere uno storico o un revisionista, è un narratore: e anche i suoi discepoli risentono di questa impostazione, dando spesso rilievo a dettagli incongrui o esagerazioni che uno storico professionista liquiderebbe a prima vista come incrostazioni leggendarie (ad esempio la storia della partita a pallone con la tunica di Rolando, che serviva ai cattolici per ribadire l'odio dei partigiani comunisti per l'abito del prete; o la voce, non avvalorata da nessun testimone, che Rolando sia stato torturato per tutto il tempo della detenzione). Ma insomma secondo questa versione Rolando era davvero un ragazzo intraprendente e un po' impiccione, anche se non una spia; avrebbe veramente voluto unirsi alla Brigata Italia dei cattolici, che era il motivo per cui continuava a chiedere a tutti quelli che incontrava dove la Brigata si trovasse: e forse in questa ricerca era stato instradato da qualche falso amico che invece militava nella Garibaldi. Queste, molto in sintesi, le tre versioni, e siete liberi di credere quello che volete. I partigiani hanno combattuto perché voi foste liberi di credere in quello che volete (anche Rolando, paradossalmente, è morto per lo stesso motivo). 

Quanto a me, io sono un pessimo investigatore: di solito mi affeziono a un indizio e non riesco più a levarmelo dalla testa. In questo caso, il bigliettino. Soprattutto la frase "viene un attimo con noi partigiani", che mi sembra troppo strana per essere inventata: quindi più plausibile (lectio difficilior) di altre frasi riportate da altre fonti. Quell'"un attimo" contiene un sarcasmo troppo crudele perché un padre possa essersela scritta da solo. Se davvero qualcuno ha scritto "un attimo" (e non riesco più a immaginare che non l'abbia scritto), quella persona stava giocando con il ragazzo come il gatto col topo. Altre cose che fatico a immaginare: un prefetto che offre denaro a un quattordicenne in cambio di confidenze; un ragazzino che gira liberamente tra le bande partigiane vestito da prete per dare ancor più nell'occhio. Insomma ho più di un motivo per credere alla seconda versione, anche se alla fine l'unico indizio decisivo per me è quel biglietto.

Mi piacerebbe raccontare storie con una morale chiara, un senso; ma non sempre è possibile. È lo stesso motivo, in fondo, per cui la Chiesa inventa i santi: dare un senso a vite che se lo sarebbero meritato; tutte le vite se lo meriterebbero. Rivi sarebbe diventato un buon sacerdote, o forse pessimo. Non lo sapremo mai; in compenso è stato proclamato Beato da papa Francesco e ha già guarito almeno un malato terminale nelle Filippine. Inoltre nel 2018 la Pieve di Castellarano è diventata il Santuario del Beato Rolando Rivi, e per l'occasione i fratelli di Rolando hanno abbracciato la figlia di Giuseppe Corghi, che aveva scoperto la storia soltanto da adulta (e sì che il padre qualche anno di prigione lo aveva fatto, prima dell'amnistia Togliatti). Nel 2013 invece a Rio Saliceto (RE) alcuni genitori protestarono per la visita organizzata a una mostra sul Beato Rolando Rivi, che avrebbe offeso la memoria della guerra partigiana. E io sinceramente capisco tutti. Capisco i preti, che celebrano un loro martire; capisco la figlia di un assassino, che non sapeva di esserlo e sente il bisogno di essere perdonata pubblicamente per un reato che non si è nemmeno sognata di commettere; capisco i genitori che non vorrebbero che la prima lezione sulla Resistenza impartita ai figli fosse quella in cui dei partigiani ammazzano un ragazzo innocente. Se voi state leggendo qui siete adulti, partecipate a quell'esiguo percentile di adulti che ancora legge lunghi testi scritti evidentemente per passione. Sapete benissimo, lo avete studiato, che in ogni guerra vengono commessi crimini insensati, e che questo non è un motivo per stabilire che la tale guerra non andava combattuta. 

Se avete figli, o se li avrete, e vi chiederanno cos'è stata la Resistenza, probabilmente cercherete di imbastire un breve discorso su quanto fosse necessario resistere a nazisti e fascisti. Da lì poi si può partire per un discorso un po' più lungo, un po' più complesso; finché questa complessità potrà anche farsi carico dell'enorme stupidità che ovunque ci soverchia, di modo che verso la fine del secondo ciclo di istruzione non sarebbe affatto sbagliato cominciare a introdurre il tema dei crimini commessi anche dai partigiani. Sono sinceramente convinto che la Storia s'impari così, tornando e ritornando sugli stessi argomenti, aggiungendo sempre più complessità man mano che il nostro giudizio critico ci consente di gestirla: e di solito, quando m'imbatto in qualcuno che ha problemi con la Storia, noto che non ce l'ha fatta, che è stato investito troppo presto da un concetto troppo complesso per lui. È un tratto tipico dei complottisti, fateci caso, la fissa maniacale per uno o due episodi storici memorizzati con troppa attenzione senza conoscere il contesto. È il problema di Pansa, che pur avendo studiato la Resistenza alla fine l'aveva riscoperta da giornalista e la trattava come una materia opaca da cui disseppellire dei casi da offrire a un pubblico che voleva esattamente sentirsi dire che i partigiani non erano dei santi: no, non lo erano. Ma ai bambini prima devi raccontare chi erano i nazisti e i fascisti, e soprattutto cosa fecero. Monchio la misero a ferro e fuoco, uccidendo donne e bambini, risparmiando solo un violinista forse perché sapeva suonare Beethoven. Poi gli spieghi chi erano i partigiani: persone normali che a rischio della vita cercavano di contrastare i nazisti e difendere la popolazione. Non erano addestrati e in molti casi fecero disastri: se l'argomento vi interessa avrete tutto il tempo della vita per tornarci, ma no, in coscienza non credo che sia il caso di cominciare dai disastri. Non è reticenza. È senso delle proporzioni forse. Non è paura di parlarne: vedete, ne ho parlato. 

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