Perché poi sempre battutisti al governo

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Sapete qual è il problema con questo governo?
Che ci abbia alzato le tasse? No, noi non siamo così banali.
Che sia l'espressione dell'Unione Europea anche se l'Unione Europea non ha nessun piano? No, non è mica colpa di Monti, lui fa quel che può.
Che tra le sue priorità non ci sia la pace sociale? No. Forconi e tassisti sembrano rientrati.
Che parli sempre di sistemi per licenziare e mai di sistemi per assumere? Eh, ma non è mica il solo.
E insomma, allora, qual è il problema?



Sono le battute. Le gaffes. Non ci piacciono. Quasi quasi era meglio... no, non lo dirò mai. Però qualcuno forse comincia a... Ma le gaffes di Monti & co. sono così interessanti? è sull'Unita.it, e si commenta laggiù (H1t#112).

E insomma, la luna di miele dell’elettore di sinistra con il governo Monti è finita. Più che dai giornali lo si capisce su facebook, persino su twitter se non fosse ancora un po’ di nicchia. Era inevitabile, Monti è sensibilmente migliore del suo predecessore, ma non è un leader di centrosinistra e nemmeno ci tiene a sembrarlo: ha altre idee, altre priorità. La delusione era prevedibile, ma è interessante notare le forme in cui si esprime. Cos’è di Monti e dei suoi ministri che non ci piace più? Qualche proposta di legge, qualche scelta in materia economica? Non esattamente. Quel che non ci piace davvero sono le frasette.
Quelle piccole battute che magari non vogliono nemmeno strappare un sorriso, ma soltanto vivacizzare una conferenza stampa. Monti ha detto che il posto a vita è monotono, beh, non sempre ma a volte sì. Probabilmente non si aspettava questa ondata di indignazione.  Né pensava di scatenarla la Fornero, irridendo i figli che non vogliono allontanarsi da mamma e papà. Sono stati ingenui, bisogna dirlo. Ma lasciamo stare un attimo loro. Cosa ci sta succedendo? Perché invece di concentrarci sulle politiche di Monti & co. ci attacchiamo alle frasette? Io ho una teoria.
C’era una volta, pochissimo tempo fa, l’Antiberlusconismo. Era un movimento di massa, oddio, movimento, diciamo che era una massa che ogni tanto ondeggiava. Qualche frangia più o meno importante ogni tanto mostrava più definiti segni di vita, organizzando anche girotondi, cortei, raccolte di firme, boicottaggi: ma lo zoccolo molle dell’Antiberlusconismo seguiva a distanza, con prudenza. Ogni tanto, a intervalli quasi regolari, lo si osservava ribollire e fremere: erano le avvisaglie dell’unica vera ritualità degli antiberlusconiani, l’Indignazione Condivisa. Di solito funzionava così: Berlusconi andava in tv, o in una conferenza stampa, o al parlamento, e sparava una cazzata. No, chiedo scusa, Berlusconi adesso è a riposo e non posso più nascondermi dietro di lui per indulgere al turpiloquio. Insomma ogni tanto Berlusconi diceva una sesquipedale corbelleria, raccontava una barzelletta spinta, commetteva una gaffe monumentale… e la grande balena berlusconiana fremeva di sdegno, schizzava getti d’acqua dai pori, e correva a fotografare l’immagine di sé stessa indignata per la gallery di Repubblica. Tra tanti esempi, mi viene in mente quando prima di una tornata elettorale Berlusconi a un comizio disse che avrebbe vinto, perché gli italiani non erano così coglioni da votare contro i loro interessi – ecco, in quell’occasione molti si fecero fotografare col cartello IO SONO UN COGLIONE, che in alcuni casi risultava pleonastico. Eravamo così, noi antiberlusconiani. Avevamo bisogno di questi sussulti di indignazione per riconoscerci, svegliarci, ricordarci che quell’uomo ci stava rovinando l’esistenza – e poi tornare alle nostre occupazioni un po’ più leggeri.
C’era una volta l’Antiberlusconismo e c’è ancora, da qualche parte sotto le ceneri. Ma è confuso. In fondo ce l’abbiamo fatta, siamo sopravvissuti a Berlusconi. E però non vorremmo abbassare la guardia, vorremmo riuscire a opporci alle cose che non ci piacciono del governo Monti. Il problema è che non sappiamo come fare, perché Monti e i suoi ministri tecnici fanno una cosa alla quale non siamo più abituati. Politica. Niente a che vedere coi teatrini messi su da Berlusconi e Bossi negli ultimi anni. Ma la politica è complicata, e l’Antiberlusconismo è una creatura semplice, assuefatta alla semplicità. Sa solo fremere e sbuffare. Non gli resta che trovare qualcosa di Monti & co. che lo faccia fremere e sbuffare. Possibile che non dica mai una battuta scema? Possibile che i suoi colleghi non facciano mai qualche gaffe?
Dai e dai qualcosa si trova. Un sottosegretario che dica “sfigati” agli studenti fuoricorso. Cosa che in realtà è capitato a tutti di dire, pensando ad almeno uno dei fuoricorso che abbiamo conosciuto: però il sottosegretario non si doveva permettere. Un ministro che dice che il lavoro a vita è un’illusione. Un’altra che biasima quelli che vogliono lavorare “nella città di mamma e di papà”. E l’indignazione è esplosa, finalmente! Ne sentivamo un po’ la mancanza. Adesso però l’effetto è finito e magari c’è tempo per chiedersi: ma perché quelle frasette ci hanno fatto arrabbiare tanto?
Non è una domanda retorica. È davvero così importante sapere cosa pensa il sottosegretario Martone dei fuoricorso? Chi conosceva Martone fino alla scorsa settimana? Monti è stato indelicato a parlare di monotonia del posto fisso, ma è davvero questo il problema che abbiamo col governo Monti, le sue gaffes? O le scelte non sempre tecniche sul lavoro, sull’economia, sulla scuola? Perché ci concentriamo su frasette infelici, spesso estrapolate da un contesto? È come se fossimo in crisi d’astinenza dalle figuracce di Berlusconi: forse possiamo sopportare le manovre di Monti, ma non che B. si sia ritirato lasciandoci senza un gaffeur par suo.
Forse stiamo semplicemente guarendo, forse tra qualche mese le battute infelici di un governante che non ci rappresenta non ci faranno più sobbalzare e nemmeno discutere. Avremo cose più importanti a cui pensare. Saremo finalmente fuori dal berlusconismo, e dall’anti-medesimo. http://leonardo.blogspot.com
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26 croci

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A un certo punto della loro Storia i giapponesi - fin lì poco propensi a eseguire sentenze capitali - si sono messi a crocifiggere criminali e traditori. E uno si chiede: ma dove avranno preso l'idea?

Oggi era la festa del gesuita giapponese Paolo Miki, e dei suoi 25 compagni crocifissi a Nagasaki nel 1597. A me anche solo l'immagine fa un po' effetto, ma forse nella loro cultura è normale.

6 febbraio – San Paolo Miki e compagni, martiri in Giappone nel 1597.
Nel 1943, lungo la tristemente famosa “ferrovia della morte” che l’esercito giapponese stava costruendo tra Birmania e Thailandia, tre prigionieri di guerra australiani accusati di furto di bestiame furono condannati a morte e crocifissi.  Legati a tre alberi con del filo spinato, picchiati con una mazza da baseball e lasciati lì ad agonizzare. Due non sopravvissero. Quando il terzo, Ringer Edwards, riuscì a liberare un braccio, gli aguzzini lo riagganciarono all’albero facendo passare il filo attraverso la carne della mano. In un qualche modo i compagni di prigionia riuscirono a passargli acqua e cibo, e dopo 63 ore fu deposto, ancora vivo. È morto nel 2000, in Australia. Oggi i giapponesi oggi non crocifiggono più i prigionieri.
Ma per un certo periodo di tempo lo hanno fatto. Sul web c’è una foto ottocentesca, che non linko, di un servo condannato per aver ucciso il figlio del padrone durante un tentato furto: per chi è assuefatto a vedere crocefissioni dipinte la foto di un cadavere legato a tre assi è piuttosto demistificante. Era il supplizio riservato ai servi, ai prigionieri, ai reietti. Proprio come la crocefissione nell’antico bacino del mediterraneo. Salvo che qui abbiamo smesso di crocifiggere schiavi e prigionieri da Costantino in poi: in seguito il crocefisso è diventato il simbolo religioso che ben sappiamo. In Giappone invece non risultano crocifissioni prima del 1500. Durante il periodo Heian (794-1192), addirittura, non risultano pene capitali per 350 anni. Questo ci porta a formulare un tremendo sospetto. La crocifissione arriva in Giappone nello stesso secolo in cui arrivano i cristiani.
Ognuno è il nasone di qualcun altro, per esempio i gesuiti erano i nasoni dei giapponesi.
I locali ci misero un po’ di tempo a inquadrarli. All’inizio li considerarono indiani venuti a predicare una nuova tendenza del buddismo. In effetti arrivavano da Goa, a bordo di navi il cui equipaggio era quasi interamente costituito da indiani battezzati. Ma venivano da una terra molto più lontana, su cartine che i giapponesi ancora non avevano: il Portogallo. Pochi anni prima a Tordesillas il Papa aveva tracciato una linea dividendo il mondo extraeuropeo in due mega-spicchi: uno di competenza portoghese, l’altro spagnolo. Fu subito chiaro che il Giappone non era uno di quei Paesi in cui i conquistadores sarebbero penetrati come lama nel burro: il re del Portogallo si limitò a inviare i gesuiti, tra cui il pioniere Francesco Saverio, che arrivò nel 1549. Ai membri della Compagnia di Gesù non spettava soltanto la sublime missione di portare il Vangelo, ma anche di inserire l’arcipelago nella rete dei traffici lusitani. Non è che avessero molta scelta: dalle loro attività commerciali dipendeva la sopravvivenza della missione. Per un certo periodo sopravvissero alla grande, esportando seta e importando generi esotici di cui i signori della guerra giapponesi presto non avrebbero potuto far senza, come la polvere da sparo. Non è un caso che, a differenza dei francescani e dei domenicani che sarebbero arrivati più tardi, i gesuiti si rivolgessero soprattutto alla classe dirigente. L’idea era di far piovere il cristianesimo dall’alto: se si battezzavano i daimyo, i feudatari, prima o poi anche i sudditi avrebbero seguito. Fondamentale era dunque non turbare l’ordine costituito. I risultati furono eccezionali, soprattutto dopo l’arrivo negli anni 1580 di un personaggio d’eccezione, l’ispettore generale della Compagnia di Gesù per l’estremo oriente Alessandro Valignano, nato a Chieti e morto a Macao.
Valignano è il teorico dell’”adozionismo”, una strategia di evangelizzazione secondo la quale è il missionario che deve adattarsi all’ambiente, non il contrario. Finito il tempo in cui faceva chic considerarsi gli unici civilizzati tra i selvaggi: finito il tempo in cui si tentava con condiscendenza di far recitare un po’ di latino agli analfabeti. Valignano costrinse i gesuiti a studiare frequentare un corso biennale di lingua giapponese: siccome non esistevano ancora vocabolari e grammatiche, li fece pubblicare. Non riponeva molta fiducia nei missionari portoghesi, che aveva trovato razzisti e privi di curiosità per i costumi della nazione che li ospitava: sperava di poterli ricambiare con dei preti di lingua e nazionalità giapponese nel giro di una generazione. In realtà non era lui stesso un esperto di cose nipponiche, e probabilmente sottostimava l’intensità dello choc culturale: però durante la sua gestione il Kirishitan (dal portoghese cristão), la Chiesa giapponese, superò i 130.000 battezzati, diventando la più grande comunità cattolica in una nazione dove il cattolicesimo non era la religione di Stato (continua…)
La cosa comincia a destare qualche preoccupazione nel signore della guerra che sta unificando il Giappone, Toyotomi Hideyoshi, il quale emette un primo editto antigesuita nel 1587: quando i confratelli della Compagnia cominciano a organizzare la resistenza armata, è lo stesso Valignano a intimarli di rientrare nei ranghi e a mandare messaggi concilianti a Hideyoshi, promettendo che i suoi sottoposti non avrebbero più interferito nelle beghe politiche tra daimyo cristiani e non. Hideyoshi in effetti sta soprattutto cercando di pacificare il Paese: negli stessi anni per ridurre la criminalità organizzata e le lotte tra clan organizza una campagna di requisizione delle spade (con l’acciaio fuso delle lame sarà realizzata la statua di un Buddha). Quando invaderà la Corea, negli anni Novanta, si porterà con sé i daimyo battezzati: non risulta che il cristianesimo li rendesse meno spietati coi nemici. L’unica differenza sensibile è che, in caso di sconfitta, rifiutavano di praticare il seppuku. Ammazzare i nemici va bene, ma suicidarsi, no, un cristiano proprio non può.
Nel 1596 accade un fatto che per metà è Storia e per metà leggenda. Il San Felipe, un galeone spagnolo, si arena sulle spiagge dell’isola di Shikoku. Quando i samurai arrivano e cominciano a organizzare lo smantellamento del relitto requisendo ciò che resta del carico, il comandante non la prende bene. In un qualche modo riescono a spiegargli che loro obbediscono a Hideyoshi e che se vuole far reclamo deve andare da Hideyoshi. Lui effettivamente riesce a ottenere un colloquio con qualche pezzo grosso dell’amministrazione, ma il conciliabolo non va per il verso giusto: da lì in poi la diffidenza di Hideyoshi nei confronti di europei e dei cristiani aumenterà lo porterà a organizzare la prima persecuzione. Fin qui la Storia – abbastanza lacunosa.
Scrivono tutti che questa è un'immagine di Paolo Miki e compagni, ma secondo me ci sono solo i compagni francescani, Paolo dov'è?
La parte leggendaria riguarda il colloquio: il comandante davanti a un mappamondo si sarebbe vantato dei possedimenti del re di Spagna, che dal Perù a Otranto in effetti era l’impero più vasto del mondo: quello famoso sul quale il sole non tramontava. Incuriosito più che intimorito, il rappresentante del governo gli avrebbe chiesto come avevano fatto gli spagnoli a mettere assieme tante terre in così poco tempo. E il comandante, ahilui, glielo aveva spiegato: prima mandiamo avanti i religiosi, che conquistano il cuore dei sudditi, e quando arriviamo coi cannoni sono proprio loro a mostrare i palazzi dei signori pagani. Basti vedere com’è andata nelle Filippine. Bravo comandante, è così che si tutelano gli interessi della madrepatria all’estero. Hideyoshi ci riflette e l’anno dopo comincia ad ammazzar cristiani, con una modalità singolare. Li fa crocifiggere.
Il cinque febbraio del 1597, su un’altura fuori Nagasaki, vengono innalzate ventisei croci. I condannati sono per lo più francescani: sei missionari spagnoli, diciassette terziari francescani (laici) giapponesi, tra cui tre ragazzi. Gli altri tre sono gesuiti giapponesi: un sacrestano, un catechista e un predicatore. Si chiamava Paolo Miki. Non sappiamo molto di lui: era nato nel 1556 in una famiglia benestante che si era convertita negli anni della sua infanzia al cristianesimo; era stato battezzato a cinque anni ed è considerato il primo giapponese entrato nella Compagnia di Gesù. In collegio aveva buoni voti in tutte le materie tranne il latino, il che non gli aveva impedito di diventare un efficace predicatore itinerante, su e giù per l’arcipelago. Non aveva potuto diventare sacerdote a tutti gli effetti, dato che in Giappone non c’era ancora un vescovo che potesse consacrarlo. I confratelli lo consideravano un esperto di religiosità orientale, ma probabilmente bastava poco per essere più esperti di loro. In ogni caso era in grado di tener testa ai monaci buddisti nei dibattiti pubblici: ma più che le sue parole (scrive un confratello portoghese che non necessariamente le capiva bene) a ottenere risultati era l’affetto che sapeva trasmettere alle persone che incontrava. Sulla croce, mentre uno dei ragazzini urlava “paradiso! paradiso!”, Paolo Miki continuò a predicare, a perdonare i carnefici e a invitarli a convertirsi e credere al Vangelo. L’agonia non fu lunghissima: ogni condannato fu trafitto da due lance. I cadaveri restarono però a lungo esposti, e naturalmente c’è chi scrive che invece di puzzare spargevano un profumo di santità gradito anche ai pagani perplessi. Inoltre il cadavere di uno dei missionari spagnoli ogni tanto scendeva dalla croce e andava a dir messa a Nagasaki: poi tornava ad appendersi. Di Paolo Miki non si raccontano storielle analoghe, in effetti queste baracconate da un giapponese non ce le aspettiamo, ancorché cattolico. È anche una questione di stile.
Si dice che nulla fertilizzi più una Chiesa che un martirio, e in effetti dopo quello spettacolare dei 26 le cose sembrarono per un po’ girare per il verso giusto: verso il 1610 a Nagasaki, la “Roma del Giappone” c’erano dieci chiese attive, otto parrocchie, un convento di suore, una stamperia. A Hideyoshi era subentrato Tokugawa Ieyasu, il fondatore dello shogunato che avrebbe assicurato al Giappone una pace di due secoli e mezzo – a prezzo dell’isolamento. In realtà anche Ieyasu stava soppesando i pro e i contro della penetrazione cristiana: da una parte i profittevoli commerci coi gesuiti, dall’altra il rischio di una colonizzazione in stile filippino. D’altro canto anche inglesi e olandesi stavano cominciando a far vedere le vele all’orizzonte: ugualmente desiderosi di commerciare, ma senza la pretesa di fare proseliti e conquistare i cuori di chissà chi. Nel frattempo le campagne erano battute da francescani e domenicani, assai più intransigenti dei Gesuiti nel diffondere un messaggio che avrebbe prima o poi destabilizzato il potere feudale. Ovviamente i vari ordini religiosi non andavano d’accordo: gli spagnoli diffidavano dei portoghesi, i portoghesi ricambiavano, Valignano era italiano e diffidava di tutti. A partire dagli anni Venti gli ordini religiosi furono espulsi e i fedeli giapponesi costretti a calpestare immagini di Gesù e della Madonna. Nel suo romanzo più famoso, Silenzio, Shusaku Endo racconta l’apostasia di un missionario portoghese, Cristóvão Ferreira, che diventò monaco scintoista e confutò tutta la dottrina cattolica in un libro dal titolo affascinante: A Decepção Revelada, “La delusione rivelata”.
Nel 1622 una nave che riportava missionari e cristiani giapponesi nell’arcipelago fu intercettata dagli olandesi, che fecero la soffiata allo Shogun: tutto l’equipaggio fu messo a morte, di nuovo sulle alture sopra Nagasaki, in un martirio di massa che fece impallidire quello di Paolo Miki e compagni. Gli ultimi fuochi furono nel 1637, quando i contadini della penisola di Shimabara (ancora nei pressi di Nagasaki) reagirono all’oppressione fiscale organizzando una rivolta che assunse presto una connotazione religiosa. Il castello diroccato di Hara diventò la loro La Rochelle. Li guidava Amakusa Shirō Tokisada, un quindicenne che sembra uscito da un manga: i ribelli lo chiamavano “messaggero del cielo” e gli attribuivano poteri prodigiosi. Lo Shogun si abbassò a chiedere agli olandesi dei cannoni per rompere l’assedio, ma servirono poco. I samurai persero migliaia di effettivi prima di prendere i superstiti per fame. Di lì a poco nessuno avrebbe più parlato di Kirishitan: per duecento anni gli unici europei autorizzati a commerciare con il Sol Levante furono gli olandesi. Per cosa erano morti Paolo Miki e i suoi compagni, cosa aveva lasciato, di visibile, il cattolicesimo in Giappone? L’unico segno del passaggio dei cristiani sembrava l’abitudine acquisita di crocifiggere assassini e ladri di bestiame.
Il Buddha classico serve a nascondere il crocefisso che c'è dietro.
Quando i giapponesi riaprirono le porte all’occidente (1854), i cristiani non persero tempo. Il proselitismo era ancora proibito, ma nessuno impediva a sacerdoti e suore di stabilirsi di nuovo nei pressi di Nagasaki e costruire una modica quantità di chiese per uso privato. Fu presso una di queste, nel 1864, che un missionario francese, Bernard Petitjean, incrociò un gruppetto di locali. Tra loro, un’anziana signora che gli chiese dove si trovava la statua della Vergine Maria. Petitjean aveva scoperto una comunità di Kakure Kirishitan, cristiani nascosti, che per 250 anni avevano continuato a pregare di nascosto il Dio venuto da occidente. Si scoprì che ce n’erano decine di migliaia, che i loro riti non erano molto ortodossi e che i loro Gesù  erano ormai identici ai Buddha giapponesi: un po’ per mimetizzarsi, un po’ perché di nasoni occidentali non se ne erano più visti da un bel pezzo (e poi anche noi lo dipingiamo spesso biondo, via). E tuttavia a Pio IX bastava e avanzava per gridare al miracolo, e canonizzare Paolo Miki e compagnia.
Ha in braccio un bambino, calpesta un drago, dove l'ho già vista?
Negli anni seguenti ai cristiani Kakure fu concesso di riunirsi con la Chiesa cattolica. Non tutti però riconobbero nei riti occidentali la versione originale di quella che ormai era la fede dei loro antenati. Da kakure (“nascosti”) divennero Harare Kirishitan, “cristiani separati”. Ma hanno continuato a tenere un profilo abbastanza basso, ché non si sa mai. Finché negli anni Ottanta anche in Giappone è arrivato il trend delle minoranze esotiche. A quel punto in qualche isoletta i riti harare rimessi in scena dalle nuove generazioni hanno cominciato ad attirare i turisti, ma gli antropologi arricciano il naso: è più folklore che altro. Forse l’ultima vera comunità di Kakure-Harare è sopravvissuta nelle isole Goto, dove nel 1995 Christal Whelan filmò i riti degli ultimi due anziani sacerdoti (scarsamente interessati a comunicare l’un l’altro). La vigilia di Natale consacravano riso e sakè; in agosto festeggiavano “Nostra signora delle nevi”. Il Padre Nostro, l’Ave Maria, il Salve Regina venivano ripetute come formule magiche senza significato. La Pasqua resisteva come “giorno in cui cessa il lutto”: nessun cenno alla resurrezione. Ma entrambi i preti celebravano il giorno della crocifissione.
(Chiedo scusa a tutti gli esperti di cose nipponiche, so che è tutto molto più complicato – e interessante – di così).
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Il Sant'Oscillococco

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Che poi uno si chiede: ma come abbiamo fatto a fidarci dei taumaturghi per duemila anni, com'è stato possibile cascarci così? Poi passa davanti allo scaffale dei rimedi omeopatici e si dà una risposta.


Comunque oggi era San Biagio (sul Post), copritevi la gola che fa freddo e ho sentito dire che da qualche parte nevica.

3 febbraio – San Biagio martire (316?), patrono della gola.
Alcuni Santi sono l’equivalente medievale dei rimedi omeopatici: emicrania? Invoca Sant’Acacio. Problemi intestinali? Sant’Erasmo da Formia. Infezioni cutanee? Un mio amico ha provato San Giorgio e si è trovato bene. Probabilmente non funzionavano, ma se è per questo nemmeno l’oscillococco, che – per inciso – è la versione costosa e postmoderna della cara vecchia acqua benedetta. Per dire, a me sta bene che arrestino i medici che curano con l’acqua di Lourdes: un po’ meno che restino in libertà tutti quelli che curano con l’acqua e basta. E sono tanti. Magari ci prova anche il vostro medico di base, mentre siete distratti.
Parliamo dei taumaturghi. In molti casi – specie quando si parla di personaggi storici, diciamo dal Quattrocento in poi – è facile riconoscere la traiettoria dei ciarlatani a cui scappa di mano la situazione. Non sono necessariamente cattive persone: magari si sono trovati davanti a un caso disperato e hanno scoperto la potenza dell’effetto placebo. Poi la gente esagera e dopo un po’ ti ritrovi la fila davanti alla porta, tutti pronti a cadere in estasi e a simulare prodigiose guarigioni appena li sfiori, finché non arriva l’Inquisizione e ti ritrovi nei guai, ma tu alla fine volevi soltanto aiutare. Comunque con l’Inquisizione di solito ci si può mettere d’accordo, basta intestare al Papa il lazzaretto o l’ospedale che stavi mettendo in piedi con le donazioni, e magari nel giro di trent’anni ti mettono anche sul calendario con l’aureola e tutto quanto – mica male per un signor placebo.
In altri casi viene il sospetto che il taumaturgo sia semplicemente una persona che ha capito due o tre cose in anticipo di due o tre secoli: prima di sgravare una partoriente è meglio lavarsi le mani, le ferite è meglio pulirle prima di fasciarle, i bubboni si incidono, eccetera. La storia della medicina è uno degli aspetti più imbarazzanti del genere umano: duemila anni fa avevamo già una filosofia sofisticata, una matematica raffinata, un’ingegneria sublime – e ci curavamo coi talismani. Alla fine bastava davvero saperne un po’ di più di nulla per diventare guaritori. Prendi San Martino de Porres: al netto di tutti i miracoli, le bilocazioni ecc., nulla vieta di pensare che fosse davvero un buon infermiere, in un contesto dove la gente che faceva entrare in ospedale – gli indios, i mulatti – posavano per la prima volta la schiena su un letto vero. Non c’è da stupirsi che si sentissero subito un po’ meglio.
Per dire, San Biagio di Sebaste è diventato famoso per aver estratto una lisca di pesce da un bambino. Tutto lì, gli altri miracoli sono tutti postumi. Un banale caso da Pronto Soccorso, ma non li avrebbero inventati per altri milleseicento anni, e così insomma se il tuo bambino si ritrovavi una lisca conficcata nell’epiglottide l’unico a cui veniva in mente di portarlo era il vescovo. Magari era l’unico ad avere la mano abbastanza ferma; magari aveva quel po’ di carisma sufficiente a calmare il bambino e tenerlo fermo mentre il prelato gli ficcava due dita in gola. Magari Biagio passava il tempo a risolvere problemi del genere e ormai aveva acquisito la prontezza di riflessi e la fermezza di nervi necessarie. Sia come sia: è l’unica cosa che sappiamo di lui. Persino la sua data di martirio non ci torna, tre anni dopo l’editto di Milano che sanciva la libertà di culto. Per quanto potessero arrivare in ritardo le notizie nella lontana Armenia, non ha molto senso. Ma i cronisti erano forse gli unici studiosi meno seri dei medici, in quel tempo.
(Detto questo, avendo una gola fragile io eviterei per San Biagio martire di entrare in una chiesa piena di malati alla gola e mettermi in fila per ricevere la benedizione alla gola, mediante l’applicazione alla gola di due candele messe in croce – due candele che hanno già toccato altre centinaia di potenziali malati alla gola. Ecco, da questo punto di vista sì, l’oscillococco ha meno controindicazioni).

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Fuori le pale!

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La neve divide gli uomini in due categorie: chi tira fuori la digitale e chi tira fuori le pale.


Ed è questo il vero problema con la mia generazione, altro che Renzi. Il pezzo in cui si compie la mia mutazione definitiva in accigliato umarell si legge sull'Unita.it (H1t#111). Buon disgelo.

A questo punto probabilmente ne avete abbastanza della neve sui giornali, delle foto di neve degli amici su facebook, della neve in generale, e vi capisco. Racconto solo la mia storia, sperando che abbia un senso anche per voi.
Mercoledì avevo messo la sveglia presto, perché volevo spalarne il più possibile finché era leggera. Non è che temessi di restare bloccato nella banchisa, ma volevo evitare che il più del lavoro lo facesse il signore del piano terra, che si sveglia presto, ma non dovrebbe fare sforzi alla sua età. Poi purtroppo la Creatura aveva altri progetti, e insomma mi è rimasta soltanto una mezz’ora per farmi strada verso il cancello e spazzare il mio pezzo di marciapiede. A un certo punto, mentre spalavo, è arrivata la signora del piano terra a scusarsi del fatto che non fosse uscito suo marito, che purtroppo era febbricitante. Le ho risposto che non c’era problema, che io avrei fatto quel che potevo prima di andare a scuola, e che si riguardasse, ché anche mio padre era a letto con la febbre. Però la signora era uscita con la pala del marito (grossa il doppio della mia), e ci teneva a darmi una mano. Abbiamo pulito il nostro marciapiede, e anche quello della vicina anziana, che ha una badante simpatica che spazza sempre le foglie anche per noi. La mia è una città minuscola dove le foglie cadono tutto l’anno, tranne quando nevica.
Tutto intorno strade e marciapiedi erano in uno stato disastroso, ma d’altro canto aveva fioccato tutta la notte, non si poteva pretendere. In un qualche modo ho raggiunto la scuola: verso la fine delle lezioni il bidello è venuto ad avvisarci che la scuola avrebbe chiuso per due giorni. Nel giubilo generale, ho raddoppiato i compiti e ho ricordato a tutti di aiutare i genitori con le faccende, anche spalando il cortile se necessario. Poi sono tornato a casa anch’io. La strada era ancora una lastra di ghiaccio, ma non mi stupiva. Il Comune fa quel che può. A sorprendermi sono stati i marciapiedi: quasi tutti avevano ancora le orme che ci avevo lasciato al mattino. Ho dovuto camminare sulla rotta incerta delle automobili, finché non ho trovato l’unico marciapiede un po’ decente, che era quello che avevo spazzato io (ho scoperto poi che la badante della mia vicina aveva dato una ripassata). Ho pensato che in fondo erano passate poche ore, e la maggior parte dei bravi cittadini non aveva semplicemente avuto il tempo di spalare: erano al lavoro, o bloccati nel traffico da qualche parte. Sono salito, ho dato un’occhiata a internet. Foto di neve un po’ dappertutto.
Internet è l’unico vero contatto che conservo con la gente della mia età. Al lavoro ho a che fare con preadolescenti e con colleghi un po’ più avanti con gli anni (tranne i precari che di solito hanno fretta). Su internet invece sapete come va, uno anche se non vuole finisce per trovarsi le compagnie che merita. Le persone che trovo sui social network fanno parte della mia generazione. La generazione che mercoledì avrebbe dovuto prendere la pala e pulire almeno il marciapiede, un lavoretto di mezz’ora: invece stavano pubblicando le foto su Instagram. Non è che voglio fare del moralismo, anche se mi viene spontaneo. Però dopo due giorni di bufera, stasera, guardando i marciapiedi intorno al mio ancora coperti da quella che ormai è una lastra di ghiaccio dura, pericolosa per i bambini e per gli anziani… mi è venuta rabbia, certo, per aver sudato inutilmente: a cosa serve un marciapiede pulito in un angolo, se prima e dopo il ghiaccio invade tutto? Ma sotto la rabbia c’è il panico. Fino a qualche anno fa sapevo che ai marciapiedi ci avrebbe sempre pensato qualche pensionato che non chiedeva meglio che mostrarsi utile. Quella generazione ormai si vede che non ce la fa più, è a letto con la febbre e ne ha il diritto: e noi?
La mia generazione, quella che chiede a gran voce di ereditare il mondo e per carità, giustamente, di fronte alle banali difficoltà di una bufera di neve, reagisce come se fosse di nuovo l’Ottantasei: andiamo a giocare e a farci le foto. Io a dire il vero l’Ottantasei me lo ricordo proprio perché per la prima volta i miei mi diedero una pala in mano: niente di speciale, forse una mezz’ora, e poi facemmo anche noi il pupazzo di neve: però ricordo meglio la pala, era il segno tangibile (e pesante) che stavo crescendo, e che ci si aspettava che facessi anch’io qualcosa.
Poi magari mi sto rincoglionendo: magari è un problema della mia città minuscola, o del mio quartiere, magari a due isolati da qui c’è una strada coi marciapiedi perfetti, puliti da trentenni responsabili. Magari avrei dovuto scrivere un pezzo su Monti, o su Renzi. Volevo però spiegare che la mia sfiducia nei confronti dei miei coetanei non ha a che vedere con Renzi. È una cosa che mi viene da più lontano, e si nutre di tante delusioni quotidiane, come uscire di casa e trovare il ghiaccio sui marciapiedi. Qualcuno si farà male. Daranno la colpa al Comune. http://leonardo.blogspot.com
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I Got You Babe

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A scuola ho appena chiuso il quadrimestre - registri e schede in ordine, più o meno. Ieri sera ho spalato anche per il vicino, così stamattina il vicino ha spalato per me. Oggi sono a casa, la Creatura gorgheggia sul tappeto, da mezzanotte si è svegliata appena tre, quattro volte, dai. In frigo tutto quel che serve, comunque il mercato è sotto casa. Niente lavoro fino a lunedì. Potrei persino mettermi a correggere temi freschi di tre giorni, ma ho paura di viziare i miei pupilli. No, tutto questo per dire -mollami i capelli - stavo dicendo - lascia stare la tastiera di papà - tutto questo perrkòl sdòfbndfskòlbnklgbn  gbfdgh fhd nkl k gkhlnjm  cvlkjnglhj toyiu96i79juorb lkhglfj- hai la tua di tastiera, un acer del 2006 che fa un rumore bellissimo, pensa ai poveri bambini africani con i tasti a membrana di Negroponte, dvxmbkh glnhòcgkhlcòghnlvmlvmxòckgffdno, tutto questo per dire che se domani dovessi svegliarmi ancora nel 2 febbraio, a me starebbe benissimo, capito Dio? Sì, lo so che non funziona così, però peccato.
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Pedoprete è chi il pedoprete fa

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Dai che ancora per due ore è gennaio, faccio in tempo a postare il mio fondamentale contributo sull'annosa questione: ma Don Giovanni Bosco non era per caso uno di quei preti pedofili?


Ma no. E comunque, che razza di domanda è? Sul Post, ovviamente.


31 gennaio – San Giovanni Bosco (1815-1888), fondatore dei Salesiani.
Una sagoma, effettivamente
Anche nella santità la tempistica conta tantissimo. Prendi Don Bosco. Fosse nato a inizio Novecento, sarebbe stato il Don Milani delle Langhe, o più probabilmente il Don Zeno Saltini di Porta Palazzo: osteggiato dai vescovi, sgomberato dai carabinieri, prima o poi se ne sarebbe partito col suo esercito di orfani di guerra a fondare un kolchoz da qualche parte nella bruma: oggi sarebbe una figurina dell’Album Novecento di Walter Veltroni e nessuno oserebbe parlarne male. Fosse nato a metà del secolo scorso, Don Bosco sarebbe nostro contemporaneo, un misto di don Mazzi e don Ciotti, sempre in tv a parlare di sfruttamento minorile e narcotraffico. Ma don Bosco è un uomo dell’Ottocento, e i santi di quel secolo in particolare sono duri da mandar giù. C’è da fare la tara alla retorica dei tempi, bisogna far finta di non vedere i maneggi del suo amato Pio IX; ci vuole un po’ di pelo per apprezzare la sua pedagogia, i suoi apologhi terrorizzanti a base di bambini cattivi che finivano male. Eppure aveva capito che la delinquenza e il bullismo sono determinati dall’ambiente, e che se i piccoli spazzacamini la domenica non sanno cosa fare, nulla impedirà loro di usare i loro skills professionali per svaligiare le case dei signori; che insomma se si vuole una società più onesta tutto sta nella prevenzione: davvero non male, per un contemporaneo e conterraneo del professor Lombroso. Poi, naturalmente, i parametri con cui si giudicava un santo nell’Ottocento non sono gli stessi che adoperiamo oggi. Magari se fosse un contemporaneo sarebbe nei guai, Don Giovanni Bosco. Un secolo può anche fare la differenza tra un processo per canonizzazione e un processo per pedofilia.
Di tante fiabe sorte intorno a Don Bosco, quella della pedofilia è relativamente recente: è un classico esempio di proiezione del presente nel passato, come certe docufiction in cui si cerca di risolvere un giallo del passato (chi ha ucciso Tutankhamon?) con gli strumenti del presente (facciamo una TAC alla mummia, dai). In mancanza di preti pedofili da processare, prendiamo un prete famoso dell’Ottocento che ha passato tutta la sua vita a contatto coi fanciulli, e vedrai che qualcosa si trova… In ogni caso, sottolineamolo bene, è una fiaba come tante, basata su indizi evanescenti come la prosa di Ceronetti. Quando negli anni Ottanta si attentò a pubblicare un paio di pettegolezzi su Don Bosco, i tipografi della Stampa  (“più salesiani che comunisti”, chiosa Cazzullo) minacciarono lo sciopero: Ceronetti comunque non butta mai via niente e adesso i suoi Elementi per una Antiagiografia stanno da qualche parte in Albergo Italia, Einaudi, 1985. Anche con gli scrittori la tempistica è tutto: se nell’Ottocento il preziosismo lessicale di Ceronetti sarebbe comunque apparso finto come l’ottone, nel Cinque-Seicento il tizio non avrebbe sfigurato come Inquisitore: vedi come si arrabatta a cercare infamie su Don Bosco e non ne trova, così è letteralmente costretto a fabbricarsele con… l’oroscopo e la grafologia. Ce ne vuole a misurarsi con Don Bosco e apparire più superstiziosi di lui, ma Ceronetti si applica:
Credo simulasse l’allegria, in profondo senza mai esserlo, come un autentico clown anche in età matura, avendo Saturno il Malinconico nel tema astrale leonino, e la Luna Nera (Ceronetti consultando gli astri è in grado di dirvi se siete allegri o fate finta: poi uno se la prende con Melissa P).
Riguardo alla grafologia, potete avere qualsiasi opinione (continua…)
Riguardo alla grafologia, potete avere qualsiasi opinione - specie adesso che i CV si stampano e non capita più di perdere un’occasione di lavoro perché le vostre zeta ostentano un trattino sospetto. Ma per dedurre anche un solo sospetto di pedofilia dalla perizia grafologica di Girolamo Moretti bisogna lavorare di fantasia (ed è la nostra fantasia al lavoro, attenzione: chi vede pedofili da tutte le parti trecento anni fa avrebbe visto gli untori). Padre Moretti, autorità nel campo, si limitava a constatare nelle pieghe della grafìa di Bosco “una insincerità così bene architettata da rovinare un’intera generazione”. Non gli avevano detto che si trattava di una lettera di Don Bosco, chissà l’imbarazzo poi. Mi domando comunque cosa avrebbe detto Padre Moretti delle noticine che scribacchio io sui temi dei miei ragazzi, con una calligrafia del tutto diversa da quella che uso per i miei appunti: sicuramente constaterebbe l’ipocrisia e un affettato tentativo di scimmiottare l’ingenuità infantile, quando semplicemente sto lavorando e faccio il possibile per farmi leggere dai miei teneri agnellini, le mie future giovani capre. Che don Bosco fosse insincero non c’è dubbio: era un simulatore, un affabulatore, un manipolatore. Studiò retorica e teologia, ma furono i giochi di prestigio a farlo avvicinare ai giovani spazzacamini di Porta Palazzo. Probabilmente non smise mai veramente coi suoi trucchi, li congegnò sempre più arditi: sogni, miracoli, visioni, lotte coi demoni, non si è mai fatto mancar niente. Minacciava morti a destra e a manca, bastava che ne morisse uno ogni quattro o cinque per incassare il credito di profeta. Quando i liberali piemontesi sciolsero gli ordini religiosi e incamerarono i beni, vaticinò qualche funerale in casa Savoia e ci beccò, da allora in certi ambienti non si scherza più tanto su don Bosco. Ne ha sparate di grossissime. Andava in giro a dire di aver convertito Victor Hugo, durante due colloqui ovviamente segreti. Di vero c’era che Hugo lo conosceva e lo stimava sinceramente, forse riconoscendo in lui un personaggio grande come la vita e come il secolo, che non avrebbe sfigurato tra i suoi Miserabili: Ceronetti invece no, Ceronetti è stizzito perché i salesiani fanno le chiese moderne di cemento con gli altoparlanti, e si vendica raccontando in giro che il loro fondatore è un pedofilo. Testimonianze che lo inchiodano:
C’è un documento iconografico notevole di questa “affettività del languore”: la confessione, davanti al Fotografo, in bella posa, del chierichetto Paolo Albera, tra altri preti e ragazzi. Don Bosco aveva voluto che gli poggiasse la fronte sull’orecchio.
"Ha la fronte sull'orecchio, Tana-Gay!"
In realtà Albera ha semplicemente ammesso che la foto era una messa in scena (ti pare che un prete confessi un ragazzino in mezzo a una folla), il che dimostra l’abilità del giovane prete anche nel porsi di fronte a questa nuova invenzione, l’apparecchio fotografico… però Ceronetti capisce quel che vuol capire, quel che ha già in mente. Ora, non voglio mica negare che ci siano preti disonesti. In generale i pedofili tendono a scegliere professioni che consentono loro di rimanere soli coi bambini: non solo sacerdoti, ma in generale istruttori ed educatori. Identificarli non è semplice, ma in generale credo di poter dire che non sono quelli che si accontentano di un petting fronte-orecchio davanti a un fotografo: però Ceronetti non ha saputo trovar di meglio e allora ha scritto questa cosa qui:
Questo intenerimento non andava che ai “giovanetti”; aveva un vero orrore del contatto femminile. Vedendosi una volta insaponare la faccia dalla moglie del barbiere, scappò via insaponato dalla bottega. (Noli me tangere in versione torinese).
Il che potrebbe anche voler dire il contrario: che le donne lo attiravano, e che non poteva permettersi di abbassare le difese, per di più col ruolo pubblico che rivestiva, la Curia che diffidava di lui, i liberali che lo malsopportavano, i Savoia coi morti freschi, e tu ti metti in vetrina con una donna che ti vellica le gote? siamo nell’Ottocento, non ci sarebbe neanche bisogno di scomodare l’inconscio: un prete di strada non si fa toccare da una donna davanti a tutti. C’entra qualcosa con la pedofilia? Dipende: se siamo alla ricerca di pedofilia, ogni indizio ci griderà pedofilia. L’inquisizione funzionava più o meno così, e Ceronetti ha davvero sbagliato il secolo:
Nessun santo ci ha lasciato, come ultime parole scritte di suo pugno, un pensiero così strano come Don Bosco: “I giovanetti sono la delizia di Gesù e Maria”. Soltanto loro.
A parte la garbata ammissione di conoscere tutte le ultime parole di tutti i santi di tutta la Chiesa, sì vabbe’, persino Santa Teresina mi risulta autrice di affermazioni più torbide, ma ci perdoni: si è dimenticato che in italiano il maschile si usa anche per il plurale di genere misto? Cioè, è il suo ultimo biglietto. Magari cercava di essere breve ed epigrafico, e invece no, avrebbe dovuto scrivere “i giovanetti e le fanciulle sono la delizia di Gesù e Maria”, perché altrimenti Ceronetti lo prende come un indizio di pedo-omosessualità, ha scritto solo “giovanetti”, tana-gay! oppure si potrebbero  mettere gli asterischi come indymedia: “i giovanett* sono la delizia…” suona meno omosessuale così? E poi cosa vuol dire “soltanto loro”? È una chiosa ceronettiana, “soltanto loro”, don Bosco ha solo detto che i giovanetti sono la delizia di Gesù e di Maria; magari anche le fanciulle e gli snack alla crema di nocciola, non si sa, don Bosco non si pronuncia in proposito, è tutta farina dell’inquisitore. Sa di crusca.
In tutte le sue firme è costante il Sac. ["Sacerdote"] che le precede. Era l’uso, ma in uno così premuto dall’Insolito e in contatto diretto con altre bucce di realtà significa anche: sono io ma all’interno di un Sacro ordine agisco in nome di, vengo in nome di…
…e prosegue per un’altra mezza pagina con questa storia del Sac. che gli avrebbe riso in faccia anche Lacan, no ma ditemi se valeva la pena di fermare le rotative della Stampa per questa roba. Ecco. La leggenda pedofila di Don Bosco è tutta qui, il tizio era ambiguo perché amava firmarsi con la sigla del suo titolo professionale, e altri spiluccamenti pettegoli di un elzevirista a corto di argomenti. A rimetterla in circolo sul Grande Selvaggio Web è stato Giovanni Dall’Orto, sul suo bel sito che è una miniera di informazioni preziose, da cui ho già copiosamente attinto per scrivere di San Sebastiano. Orbene, qualche anno fa Dall’Orto, che è un gay militante, scrive una “Storia gay di Giovanni Bosco“, che poi è stata ripresa da Gay.tv e discussa e ridiscussa su chissà quanti forum – anche grazie a salesiani che protestano incazzati, e dagli torto – e per ultimo arrivo io. Mi dispiace litigare con Dall’Orto, però lui non ha davvero altri fonti a parte Ceronetti, e Ceronetti, lo si è visto, come avvocato del diavolo ha reso un pessimo servizio (al diavolo). Dall’Orto peraltro lo ammette: non c’è uno straccio di prova.
Il bello è che nessuno di coloro che ne hanno scritto s’è mai sognato di mettere in dubbio l’effettiva stretta osservanza del voto di castità, da parte del santo: la discussione si è sempre svolta attorno alle sue tendenze, non alle sue pratiche sessuali.
Invecchiando gli era venuta questa faccia un po' da Wojtyla
Ma se Don Bosco è un pedofilo in potenza, che ci resta da fare? Un processo alle intenzioni? Qui forse rischiamo di non capirci. Ammettiamo che don Bosco abbia avuto davvero pulsioni omosessuali o pederastiche, che però non si sono mai tradotte nella pratica. Tutto questo per un cristiano si traduce con una parola sola: “santità”. Giovanni Bosco diventa l’Antonio del secondo millennio, in lotta costante coi suoi demoni, un esempio per tutti i seminaristi alle prese con pulsioni ambigue. Freud, lo sappiamo, avrebbe piuttosto parlato di “sublimazione”: Bosco trasforma la sua energia in impegno socio-assistenziale, mette i suoi demoni interiori a pedalare sotto il carrozzone della sua multinazionale salesiana. Per un laico contemporaneo, postfreudiano, non necessariamente gay (ma aiuta), tutto questo è “repressione”: tutto ciò che limita l’esercizio pratico della sessualità. Il problema è che la supposta pulsione di don Bosco rimane socialmente impresentabile, uno dei pochi tabù che ci sono rimasti. O ce la dobbiamo prendere con un pedofilo in potenza perché invece di toccare i ragazzi li ha tolti dalla strada e li ha fatti studiare? Preferite i preti toccaccioni, li trovate più sinceri, più umani, più “sé stessi”, come gli inquilini della casa del Grande Fratello?
Nel 1847, quando già centinaia di ragazzi frequentano l’Orato­rio, alcuni tra loro, che non sanno dove andare perché non hanno ca­sa, cominciano a vivere stabilmente con don Bosco e mamma Mar­gherita.
I primi ospiti sono alloggiati in cucina. Saranno sei alla fine dell’anno; trentacinque nel 1852; centoquindici nel 1854; quattrocen­tosessanta nel 1860; seicento nel 1862, fino ad un tetto di ottocento.
Nel 1845 don Bosco fonda la scuola serale, con una media di trecento alunni ogni sera.
Nel 1847 un secondo oratorio.
Nel 1850 fonda una società di mutuo soccorso per operai.
Nel 1853 un laboratorio per calzolai e sarti.
Nel 1854 un laboratorio di legatoria di libri.
Nel 1856 un laboratorio di falegnameria.
Nel 1861 una tipografia.
Nel 1862 una officina di fabbro ferraio.
Intanto nel 1850 è nato anche un convitto per studenti, con dodici studenti che diventano centoventuno nel 1857.
Nel 1862 dunque l’oratorio conta seicento ragazzi interni e altrettanti esterni.
Oltre i sei laboratori ci sono scuole domenicali, scuole serali, due scuole di musica vocale e strumentale, e trentanove salesiani che con don Bosco hanno dato inizio a una congregazione religiosa.
Ma a noi interessa soprattutto sapere se gli piacevano i ragazzini. Perché? Sul serio, una sessualità che non si esprime in nessun modo è ancora interessante? Di don Bosco abbiamo opere e libri in quantità: perché vogliamo conoscere le sue pulsioni? Da dove ci viene questa volontà di sapere, siamo sicuri che non ci sia dell’imperialismo culturale in questa pretesa di aprire il libro di Storia a un’epoca qualsiasi e definire gli uomini di quel secolo in base alle loro “tendenze”? Per quanto possa apparirvi intrusivo il Dio dei cattolici, con la sua pretesa di giudicare gli uomini in base alle loro opere, pensieri e omissioni, lo trovo sempre meno impiccione di un tribunale laico (laico?) che pretenda di sviscerare le azioni non commesse, i pensieri repressi, le “tendenze”. Se poi come testimone chiamano il Sig. Ceronetti, beh, ciao.
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Nec minimo puella naso

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E l'antisemitometro s'impenna
Un altro esempio, preso dal sito di un giornalista che a queste cose ci tiene moltissimo. Michele Dau è il vicesegretario generale del Consiglio Nazionale dell´Economia e del Lavoro. Qualche mese fa, leggendo la Guida del Touring su Israele, incoccia in questa definizione: nello Yad Vashem di Gerusalemme sarebbe «narrata la storia della Shoah dal punto di vista degli ebrei».
«Visitando la straordinaria, e unica al mondo, ricostruzione storica, mi sono domandato il significato di quell'affermazione – denuncia nella missiva inviata a Renzo Gattegna, presidente dell´Ucei – e la mia indignazione è cresciuta, senza poter trovare una giustificazione accettabile di quella sottolineatura. Cosa si intenderebbe evidenziare? Forse che vi sarebbero altri punti di vista sulla Shoah?»
In effetti, se uno scrive "dal punto di vista", sembra voler lasciare intendere che ne siano consentiti altri. Peccato che ciò sia, a quanto pare, antisemita:
«E quali sarebbero gli altri punti di vista in qualche modo accettabili? Forse quelli dei movimenti dei neonazisti che si sono affacciati in Europa? O forse si intende lasciare aperta la strada alle interpretazioni negazioniste che vorrebbero se non cancellare del tutto i fatti, quanto meno limitarli a quantità minima senza una vera decisione dei nazisti [...] Comunque si voglia leggere quella frase è davvero lesiva della dignità della sofferenza atroce di milioni di persone».
Non so se è chiaro: l'espressione "punto di vista degli ebrei" è qui dichiarata lesiva della dignità della sofferenza atroce. Come se sulla Shoah fosse consentito avere più punti di vista. No. È lesivo il solo affermarlo. Se io scrivo "il punto di vista", ammetto che possano essercene più di uno; se ammetto che ce ne sia più di uno, lascio implicitamente intendere che anche i negazionisti ne abbiano uno accettabile: se io consento ai negazionisti di averne uno accettabile, evidentemente sono i miei amici, e quindi io sono un antisemita. Non fa una grinza. Non resta che rassegnarsi: la Shoah non è un fenomeno come gli altri, suscettibile di osservazioni differenti da differenti punti di vista. Non si può avere differenti punti di vista sulla Shoah. Non si può nemmeno avere "il" punto di vista degli ebrei, perché anche l'uso dell'articolo determinativo non può escludere che ce ne possano essere altri, e il solo pensiero è psicoreato. La Shoah, per farla breve, non si può più osservare: va messa in un'Arca e nascosta con le tendine, e chi le solleva probabilmente resterà fulminato, ma se lo meritava, brutto antisemita.

Antisemiti moderni: l'odiosa caricatura di W. Allen, by Stuart Hample
Siamo nel 2012, Bin Laden è morto e la guerra in Iraq è finita. Prima che riparta lì nei pressi, ce la facciamo a metterci d'accordo su una definizione ragionevole di antisemitismo? Secondo me non è così difficile. È antisemita chi odia gli ebrei. Chi ritiene che siano coinvolti in un complotto mondiale per qualsivoglia fine. Il mondo ne è pieno (di antisemiti) e a dire il vero non è che facciano molto per dissimulare il loro antisemitismo. Chi nega la Shoah di solito è un antisemita. Chi la rivendica è sicuramente un antisemita. Fascisti e nazisti sono quasi sempre antisemiti. Non c'è bisogno di processare le loro intenzioni per accorgersene, di solito non te lo mandano a dire. Non c'è bisogno di sottolineare certe ambiguità nelle loro guide turistiche, né di misurare l'ampiezza e l'inclinazione del naso nelle loro vignette.

Antisemiti moderni: il ributtante abuso di luoghi comuni nel Fagin di Will Eisner,
la AntiDefamation League è stata informata?
Sostenere che Vauro sia antisemita, ribadire che lo sia perché ha disegnato il naso di Fiamma Nirenstein in un certo modo, è al di là dei confini seppure sfumati del ridicolo. Cioè, io posso anche capire che un fatto eccezionale come la Shoah vada preso con le molle, e che persino l'espressione "punto di vista" possa destare l'allarme di chi si allarma un po' per professione. Ma il volto (tutt'altro che sgradevole) di Fiamma Nirenstein non è un fatto altrettanto eccezionale. Non più del volto di Maometto, che come il suo pretendiamo raffigurabile: e se il disegno è una caricatura, il naso potrebbe anche risultare un po' più grosso del normale, senza scomodare il nazismo per questo. Sì, è vero, anche i nazisti facevano le caricature. E i cartoni animati. E Hitler era vegetariano. E non tutti i vegetariani sono nazisti; Biancaneve e i Sette Nani non è un film nazista anche se faceva piangere il fuehrer; e il problema che abbiamo col nazismo non è la passione per le caricature, comune a dire il vero con tantissime culture; bensì la assai più censurabile tendenza a sterminare interi popoli e minoranze in nome di concetti in cui non crediamo come la purezza etnica eccetera. Se poi la Nirenstein ritiene di poterci dire che le vignette di Vauro fanno parte di un progetto più vasto, che parte dal disegno di un naso e arriva di nuovo ai forni e ai camini, si merita semplicemente che le si rida in faccia, quella faccia dal naso non piccolo.

E che dire di questo, cioè, ebrei=ratti, una vergogna,
roba da degenerati, ciò si dovrebbe bruciare nelle piazze.
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Quanto son difettivi i sillogismi

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A Tommaso d'Aquino è successo l'opposto che a San Paolo: anche lui a un certo punto ha visto qualcosa che lo ha turbato e sconvolto, ma da quel momento in poi non ha più scritto niente.


O forse era solo stanco, scrivere a quei tempi era faticoso, mica come adesso che basta pestar cazzate su una tastiera wireless. Il filosofo di paglia si legge e si glossa sul Post, astenersi averroisti e neoplatonici, brutte merdacce.

28 gennaio – San Tommaso d’Aquino, dottore della Chiesa (1225-1274).
Ritratto del 1481, attribuito a Botticelli: ma avete idea di che abilità ci volesse a prendere appunti col calamaio in mano?
Quando morì, presso l’abbazia di Fossanova, Tommaso aveva già smesso di essere il più grande filosofo del medioevo. La filosofia, la stessa scrittura, lo avevano abbandonato all’improvviso qualche mese prima, mentre officiava una messa nella chiesa di San Domenico a Napoli. Caduto in estasi, e forse anche in terra, Tommaso rifiutò di spiegare cosa gli era successo. A fra’ Reginaldo, l’inseparabile scrivano che attendeva di completare il terzo tomo dellaSumma Theologiae, disse che non poteva farci più niente, tutto quello che aveva pensato e dettato fino a quel momento gli sembrava paglia (mihi videtur ut palea). Nel poco tempo che gli restò da vivere, Tommaso si mosse come un involucro vuoto, sospeso per inerzia agli ordini dei superiori: la morte se lo prese sulla strada per Lione, dove si sarebbe tenuto un concilio per ridiscutere lo Scisma d’oriente. L’Aquinate, benché esaurito, non poteva assolutamente mancare: il Papa ci teneva.
Quando si pensa a un intellettuale del medioevo lo si immagina sempre con le grasse chiappe solidamente ancorate al seggio di uno scriptorium, rinchiuso confortevolmente in qualche monastero fuori del tempo: e invece il calendario di impegni di un personaggio come Tommaso avrebbe stroncato molti accademici dei nostri tempi (comodo fare i cosmopoliti coi Boeing 747: Tommaso andava e tornava dalla Francia allo Stato della Chiesa a dorso di mulo). In realtà se si pensa all’entità e alla complessità dei suoi impegni, tra beghe accademiche e politiche, c’è da stupirsi che sia arrivato in un qualche modo a 49 anni. È abbastanza improbabile che sia stato fatto avvelenare dal re di Napoli Carlo d’Angiò, anche se Dante ne era convinto: ad avvelenarlo fu semplicemente lo stress. Quando tutti ormai si aspettano da te l’opera definitiva, la summa che metta a posto Aristotele e il Vangelo, nel mentre che vai a Lione a sistemare gli ortodossi, e tu nel frattempo non ci credi più, ti si è rotto qualcosa dentro, tutto quello che hai scritto è paglia. E hai finito pure quella. Cosa vide Tommaso d’Aquino, che lo fece crollare come un fantoccio?
In questi casi – come nell’incidente di Paolo verso Damasco – gli anatomopatologi della domenica si possono sbizzarrire: crisi epilettica? ictus? Ma anche un calo di zuccheri, perché no. Estasi significa “uscire da sé stessi”: più che dal suo corpo, Tommaso forse riuscì per qualche istante a uscire dalla sua filosofia. Magari ebbe l’opportunità di guardare dall’alto il castello delle sue convinzioni, che andava cementando da anni con pazienza più certosina che domenicana, selezionando con attenzione i materiali di costruzione più solidi dalle rovine dei sistemi precedenti: un architrave ionico qua, una colonna romanica là, perfino qualche guglia mozaraba, tutto apparentemente armonico, tutto apparentemente resistente, e invece basta guardarlo da un qualsiasi altrove per non vedere che un castello di carta.
Arnaldo De Lisio (1869-1949), Tommaso incastrato dalle tentazioni. Nell'angolo c'è anche il paparazzo demoniaco che scatta la foto.
A me la filosofia ha sempre fatto un po’ paura, lo dico qui. Di un artista ci possono restare le opere, di uno scrittore le storie, di uno scienziato le scoperte o le ipotesi. Di tanti grandi filosofi – non studenti scioperati – gente che ha passato la vita a studiare e riflettere, mi sembra che ci resti soltanto la paglia. Chi legge Tommaso d’Aquino oggigiorno? Chi va oltre al bignamino del liceo, agli appunti con le freccine? Le sue tanto bistrattate Cinque Vie, chi le ha percorse veramente? Perché a leggerle sui libri di oggi, o su internet, sono formulate in un modo in cui le confuterebbe anche un blogger; ma Tommaso ci lavorò per anni e non era un imbecille. Non lo dico io, lo dice per esempio Charles Sanders Peirce, la cui opinione più di altre m’interessa, visto che la modificò. In un primo momento Peirce riteneva effettivamente Tommaso un imbecille, il classico scoliasta medievale che metteva “frettolosamente insieme male assortite porzioni di ricchezza altrui in una sconsiderata passione per l’autorità”. Poi cambiò idea. Magari semplicemente gli capitò di leggerlo. Forse la sua fissazione per il numero tre rimase intrigata dalla descrizione tomista della trinità: il Padre esce da sé stesso e pensa il Figlio, lo Spirito è la relazione di amore che il primo prova per il secondo… non ricorda da lontano il trittico peirceano di Oggetto, Segno e Interpretante? Scherzo, in realtà non sono sicuro di averlo mai davvero capito, Peirce. E sono sicuro di non avere mai capito davvero Tommaso.
Eppure almeno un intellettuale vivente che abbia studiato e apprezzato davvero Tommaso ce l’abbiamo. (Continua…)
Come dice a un certo punto il personaggio narrante nelPendolo di Foucault: “uno che fa la tesi sulla sifilide finisce per amare anche la spirocheta pallida”. L’autore vero del Pendolo però non ha scritto una tesi sulla sifilide, bensì sul Problema estetico in Tommaso d’Aquino. E Tommaso è rimasto uno dei punti di riferimento di Umberto Eco, fino a Kant e l’ornitorinco e oltre.
Il fatto che in Italia ci sia almeno uno studioso serio di Tommaso – e sia un laico – dovrebbe creare qualche imbarazzo alla Chiesa, quell’istituzione che in teoria continua a basarsi sulla Summa Theologiae, ma in pratica non manda nessun tecnico preparato a controllare la cantine da secoli. Eco per la verità non ha mai avuto tanta voglia di litigare, però ogni tanto gli capita di mettere il dito sulla piaga, più per giocoso e accademico puntacazzismo che per cattiveria. Io non so francamente se senza di lui qualcuno si sarebbe accorto che la moderna dottrina dell’embrione va contro la posizione tradizionale, tomista, della Chiesa. Ovvero: questa idea che l’essere umano sia già un individuo completo dal concepimento, da dove arriva esattamente? Non si sa, ma è un’esplicita sconfessione di quello che dettava Tommaso. Con le parole dell’alessandrino:
La posizione di Tommaso (che nel corso dei secoli la Chiesa non ha mai espressamente negato, condannando anzi quella opposta di Tertulliano) è la seguente: i vegetali hanno anima vegetativa, che negli animali viene assorbita dall’anima sensitiva, mentre negli esseri umani queste due funzioni vengono assorbite dall’anima razionale, che è quella che rende l’uomo dotato di intelligenza e ne fa una persona come ‘sostanza individua di una natura razionale’. Tommaso ha una visione molto biologica della formazione del feto: Dio introduce l’anima solo quando il feto acquista, gradatamente, prima anima vegetativa e poi anima sensitiva. Solo a quel punto, in un corpo già formato, viene creata l’anima razionale (‘Summa Theologiae’, I, 90). L’embrione ha solo l’anima sensitiva (‘Summa Theologiae’, I, 76, 2 e I, 118, 2). Nella ‘Summa contra gentiles’ (II, 89) si dice che vi è una gradazione nella generazione, “a causa delle forme intermedie di cui viene dotato il feto dall’inizio sino alla sua forma finale”. Ed ecco perché nel Supplemento alla ‘Summa Theologiae’ (80, 4) si legge questa affermazione, che oggi suona rivoluzionaria: dopo il Giudizio Universale, quando i corpi dei morti risorgeranno affinché anche la nostra carne partecipi della gloria celeste (quando già secondo Agostino rivivranno nel pieno di una bellezza e completezza adulta non solo i nati morti ma, in forma umanamente perfetta, anche gli scherzi di natura, i mutilati, i concepiti senza braccia o senza occhi), a quella ‘risurrezione della carne’ non parteciperanno gli embrioni. In loro non era stata ancora infusa l’anima razionale, e pertanto non sono esseri umani.
Si può dire che la Chiesa, spesso in modo lento e sotterraneo, ha cambiato tante posizioni nel corso della sua storia che potrebbe avere cambiato anche questa. Ma è singolare che qui siamo di fronte alla tacita sconfessione non di una autorità qualsiasi, ma dell’Autorità per eccellenza, della colonna portante della teologia cattolica. [...]
Conclusione: le attuali posizioni neofondamentalistiche cattoliche non solo sono di origine protestante (che sarebbe il meno) ma portano a un appiattimento del cristianesimo su posizioni insieme materialistiche e panteistiche, e su quelle forme di panpsichismo orientale per cui certi guru viaggiano con la garza sulla bocca per non uccidere micro-organismi respirando. Non sto pronunciando giudizi di merito su una questione certamente molto delicata. Sto rilevando una curiosità storico-culturale, un curioso ribaltamento di posizioni. Dev’essere l’influenza del New Age. (Bustina di Minerva del 15/3/2005)

 Il fatto che la Chiesa romana sia meno tomista di quel che dice e crede non è necessariamente un male. Ovviamente io sarei il primo a rallegrarmi se alla luce delle Summae un pontefice decidesse di rivedere la posizione sull’aborto; d’altro canto è sempre Eco a notare come la teologia di Tommaso sia assolutamente inconciliabile con un elemento fondamentale della modernità: la teoria dell’evoluzione. Senza la quale è impossibile stare seriamente nella modernità: certo, ci sono Chiese che negano Darwin, ma finiscono per arroccarsi in un antiscientismo settario e a immaginare un universo creato 6000 anni fa con i fossili già al loro posto sottoterra. I cattolici non sono così. I cattolici trovano sempre un modo per girare intorno ai problemi. La Bibbia dice sette giorni? I cattolici inventano l’interpretazione allegorica per cui quei sette giorni possono anche alludere a periodi di milioni di anni, e oplà, Genesi 1,1 diventa il Big Bang. I cattolici sono riusciti in un qualche modo a far convivere Adamo ed Eva con l’evoluzionismo: gli è bastato lasciare Tommaso in cantina, per l’appunto.
Uno dei motivi per cui non riusciamo a capire Tommaso, neanche quando proviamo a leggerlo, è che lo scambiamo per un apologeta militante, uno che deve sforzarsi di dimostrare che Dio esiste, prima che le forze del Dubbio espugnino la cittadella della Ragione. È il motivo per cui puoi trovare le sue Cinque Viesul sito dell’Unione Atei Agnostici Razionalisti, manco fossero cinque teoremi da confutare.
In realtà Tommaso non voleva esattamente dimostrare una tesi (Dio esiste). Lui cercava di spiegare le “vie” per cui un qualsiasi intelletto giungeva a una verità che giudicava autoevidente. Siccome credere in Dio, ai suoi tempi, era una cosa naturale, la cosa interessante per un filosofo era cercare di spiegare il perché della naturalezza con la quale tutti (cristiani e “gentili”) accettavano l’esistenza di Dio. Allo stesso modo in cui un grammatico studia le regole di una lingua che sa già parlare, che tutti sanno parlare sin da bambini, ecco: nei secoli di Tommaso credere in Dio era come dire mamma, papà, cacca: una cosa che succhiavi per così dire col latte materno. Oggi non è più così. A un certo punto qualcosa è cambiato: per la verità è stato un processo lento, con occasionali scossoni, una frattura di paradigma. Il risultato è che oggi il concetto di Dio ha cessato di essere intuitivo, ha smesso di essere accettato come naturale da miliardi di persone. Tra questi ve ne sono tanti che continuano a credere in Dio, ma è una scelta faticosa, che chiede uno sforzo, un investimento intellettuale ed emotivo. Tommaso non poteva saperlo: per lui ciò che l’uomo riteneva ovvio e naturale sarebbe sempre rimasto ovvio e naturale.
Oppure forse a un certo punto se ne rese conto. Era un intellettuale puro, passava il tempo a speculare, magari a un certo punto questa obiezione lo turbò. “Non si può andare all’infinito nella ricerca di un primo movente, o di una prima causa”, scriveva: e se invece si fosse potuto? E se l’universo fosse molto, molto più vasto di quei nove cieli di cristallo, e se ci fossero più cose in cielo e in terra che in tutti i nostri difettivi sillogismi, in tutte le nostre filosofie di cartapesta? Forse quel mattino, nella chiesa di San Domenico, Tommaso ebbe una visione delle cose a venire. Non della gloria dei cieli: ma del chiasso di una piazza moderna. Uscì dal suo corpo e si ritrovò davanti un bar coi tavolini, un’edicola, un altro negozio chiuso, i graffiti sulle saracinesche: furgoni, cassonetti della differenziata, miliardi di dettagli dissonanti sparsi per miliardi di minuscoli atomi nel vuoto di un universo in espansione, e nulla che rimandasse naturalmente a Dio. E pensò: meglio non dire nulla a Reginaldo.
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Dove comincia il tuo naso?

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Non è una domanda retorica, sul serio, dove? Per colpa di Facci, e di Vauro, e di Peppino Caldarola, mi è capitato di passare alcuni preziosi minuti della mia vita a contemplare foto di Fiamma Nirenstein per capire che naso avesse veramente. Senza neanche riuscirci, peraltro.


Vi sembra un bel modo di prepararsi al Giorno della Memoria? A me non sembra un bel modo. Vauro e il naso di Fiamma si legge sulla nuova, fiammante, Unita.it, e si commenta laggiù, possibilmente senza fare troppo gli antisemiti che ci ho famiglia, grazie.

In occasione del dodicesimo Giorno della Memoria è scoppiata una polemica, su quotidiani e blog, a proposito di un naso, per la precisione il naso della deputata Fiamma Nirenstein. La cosa, benché abbastanza delirante, è meno buffa di quanto possa sembrare, anzi per certi versi è mortalmente seria. Ci sono anche 25000 euro in ballo. Cercherò di raccontarla senza offendere nessuno, ma credo sia difficilissimo (qui c’è un buon riassunto di Filippo Facci).
In principio ci fu una vignetta che Vauro Senesi pubblicò sul Manifesto il 13 febbraio 2008: si era in piena campagna elettorale e la filoisraeliana Nirenstein aveva annunciato che si sarebbe candidata con il Popolo della Libertà: lo stesso partito di postfascisti come Alemanno o Giorgia Meloni, o di semplici nostalgici come Ciarrapico. Vauro commenta la notizia disegnando il mostro Fiamma-Frankenstein, che riprende le fattezze della Nirenstein, e sul vestito porta tre simboli: la stella di David, il fascio littorio, e il logo del PdL. Non è senz’altro la vignetta meglio riuscita di Vauro, ma il significato sembra chiaro. Io, perlomeno, ci vedevo un’allegoria del PdL: un mostro composto con pezzi di corpi che non avevano nulla in comune: il fascismo e Israele.
La Nirenstein la comprese in un altro modo, e protestò indignata per  “l’immancabile attacco demonizzante e disumanizzante”, “piuttosto prevedibile nell’uso che fa degli stereotipi, gli stessi che portano a raffigurare i soldati israeliani con la stella di Davide e la svastica”. Insomma, Vauro l’aveva dipinta come un mostro col fascio littorio perché ebrea, fine. Sono polemiche e semplificazioni inevitabili durante una campagna elettorale. Otto mesi dopo, quando sia la Nirenstein che Ciarrapico sedevano già in Parlamento (e avevano già avuto modo di litigare), un giornalista già amico di Vauro, Peppino Caldarola,scrive un trafiletto satirico sul Riformista in cui immagina una riunione di redazione di Annozero. Tra le varie battute, nessuna particolarmente esilarante, scrive questa:
Vauro non accetta di censurare la vignetta, che ha fatto tanto ridere Gino Strada, in cui chiama Fiamma Nirenstein “sporca ebrea”. 
No, non fa ridere. Ma non meritava nemmeno una multa di 25.000 euro. Invece capita che Vauro decida di querelare Caldarola: lui infatti non ha mai chiamato Fiamma Nirenstein Sporca Eccetera. E su questo non ci piove, ma è abbastanza chiaro che Caldarola scherzava: nello stesso pezzo scriveva “Marco Travaglio non vuole tornare dalla Transilvania dove era andato a trovare suo nonno il conte Dracula”. Quattro anni dopo capita che un giudice dia ragione a Vauro e infligga a Caldarola e al suo ex direttore Polito una multa spropositata. Caldarola la prende male: sul suo blog scrive di preferire il carcere; ma soprattutto dimostra dopo quatto anni e un processo di non avere ancora capito il senso della vignetta.
Al punto che comincio a domandarmi se non ho capito male io. Per il giornalista la vignetta contiene due indizi di flagrante antisemitismo: la stella di David e il naso di Fiamma-Frankenstein. Sulla stella Caldarola non ha dubbi: “È il simbolo della malvagità nazista”. Per me era un semplice richiamo all’identità da sempre rivendicata dalla Nirenstein. Ovviamente non si può guardarlo e non pensare ai deportati, ma appunto: si può rivendicare la difesa di Israele e militare nello stesso partito di Ciarrapico e di Alessandra Mussolini?
Ma il vero problema è il naso. Quello disegnato da Vauro, scrive Caldarola, è adunco. Casomai lo ignorassimo, “il naso adunco è la tipica rappresentazione che si dà degli ebrei” nelle vignette antisemite. Ergo, Vauro è antisemita. Ora, basta confrontare una qualsiasi vignetta di accertato antisemitismo per notare una certa differenza: di solito la forma del naso assume dimensioni caricaturali. Viceversa, nella vignetta di Vauro le dimensioni del naso non risultano particolarmente esagerate.  La mia sensazione – ma a questo punto potrei sbagliarmi, per favore non mandatemi gli ispettori – è che Vauro non abbia particolarmente calcato la mano nel disegnare un naso che ha qualche somiglianza con quello della Nirenstein. È un disegnatore satirico, che ha a disposizione pochi tratti e un solo colore per rendere una fisionomia: se deve disegnare un nero lo colora di nero, è razzismo? Il suo Arafat aveva il labbro sporgente e sproporzionato, è islamofobia? Può essere interessante anche confrontare la sua vignetta con quelle che un altro autore satirico ha dedicato alla Nirenstein, Stefano Disegni: se non altro perché Disegni è uno dei disegnatori satirici meno caricaturisti in circolazione: eppure anche la sua Fiamma ha un naso simile, come mai? Forse è antisemita anche Disegni? Oppure quello è semplicemente il suo naso? La stessa idea è venuta a molti commentatori sul blog di Caldarola, che gli hanno scritto in sintesi: guarda che ti sbagli, guarda che Vauro lo ha disegnato così perché lei ha davvero un naso più o meno così. Lui ha reagito dando dell’antisemita a tutti quanti. Pare che sia sufficiente questo, nel 2012, per prendersi un’accusa di antisemitismo: manifestare un’opinione sul naso di Fiamma Nirenstein.
Al punto che – dopo aver visionato una ventina di foto, di tre quarti e di profilo – ho deciso di gettare la spugna. Non ho la minima idea di che forma abbia il naso di Fiamma Nirenstein, anche se mi piace raffigurarmela con un nasino alla francese. Però anche scrivendo così, lascio intendere che se la Nirenstein non avesse un naso alla francese, se avesse un naso un po’ più pronunciato, mi piacerebbe meno… allarme antisemitismo! No, meglio tornare all’affermazione precedente: non ho la minima idea di che naso abbia l’onorevole Nirenstein.  Mi dispiace che Caldarola in quattro anni non sia riuscito a capire una vignetta che a me tutto sommato sembrava semplice; mi dispiace che Vauro lo abbia querelato, proprio lui che dovrebbe saper riconoscere uno scherzo, anche di dubbio gusto. Mi piacerebbe vivere in un mondo migliore, dove fosse possibile scherzare un po’ su tutto, compreso le barbe di alcuni profeti e le forme dei nasi di alcuni gruppi etnici, ma evidentemente non è così, e non sta nemmeno migliorando. http://leonardo.blogspot.com

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Il nostro uomo a Damasco

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Il cristianesimo, in effetti, non comincia il 25 dicembre, ma verso il 25 gennaio, quando un ebreo che forse non era ebreo arriva accecato a Damasco e si mette in contatto con dei cristiani che non sanno ancora bene d'essere cristiani. Insomma, sotto i migliori auspici.


Sul Post si parla della Conversione di San Paolo, un giorno che ha cambiato la vita di tutti noi, in particolare dei prepuzi di tutti noi. Non mi sembra un particolare da nulla.

25 gennaio – Conversione di San Paolo (35)
Il cavallo forse nemmeno c'era. Ma Caravaggio ci teneva.
1975 anni fa oggi (un anno più uno meno) un piccolo uomo spaventato entra a Damasco, Siria, Impero Romano. Viene da Gerusalemme con una lettera di referenze del Sommo Sacerdote, ma non sa più che farne. L’idea alla partenza era far arrestare e portare davanti al Sinedrio (l’Inquisizione di allora) tutti gli ebrei damasceni appartenenti a una buffa setta eretica appena nata, che non ha ancora un nome: quelli che credono che il Messia degli Ebrei sia un tale crocefisso di recente. Il problema è che il piccolo uomo – Saul si chiama, come il re epilettico meno simpatico della Bibbia – non ci vede più, letteralmente. Strada facendo ha avuto un mancamento, è caduto (da cavallo? non si sa), ha visto una gran luce e forse ha anche sentito una voce, ed è ancora tutto scombussolato. Resterà in questo stato per tre giorni, senza mangiare. Poi fonderà una religione.
Sì, lo hanno detto in tanti: il cristianesimo, quello che quando eventualmente Gesù tornerà nella gloria farà un po’ fatica a riconoscere, lo ha fondato Saul, in seguito chiamato Paolo. Prima non c’era nemmeno il nome “cristianesimo” – i primi a farsi chiamare “cristiani” saranno i credenti di Antiochia, una delle prime comunità dove predicò. Prima di Saul c’era una cosa che si chiamava “la Via”, predicata perlopiù da ex apostoli di Gesù di Nazareth, a cui aderivano in forme diverse alcuni ebrei sparsi tra Gerusalemme e Damasco. La “Via” era naturalmente imperniata sugli insegnamenti di Gesù, che si tramandavano per forma orale: uno dei primi a buttare giù qualcosa di scritto sarà appunto Saul. Le sue lettere (non tutte davvero sue) fissano diversi punti della teologia cristiana che dai vangeli non sapremmo desumere: del resto anche i vangeli sono stati scritti dopo, e almeno due sono attribuiti a persone che in diversi momenti collaborarono con Saul stesso: Marco e Luca. Col primo, a dire il vero, Saul litigò: non sappiamo il perché. Però sappiamo che Saul tendeva a litigare un po’ con tutti prima o poi: non era un tipo simpatico. Non lo è mai diventato. La simpatia non è come la fede, non basta cader da cavallo.
È difficile affezionarsi a Saul. Gran parte delle critiche che gli si muovono negli ultimi tempi sono abbastanza ingenerose: è vero, era misogino. Perlomeno esortava le donne alla sottomissione nei confronti dei mariti, e dei sudditi nei confronti di Cesare. È vero, considerava l’omosessualità contro natura. In pratica aveva le idee di un giudeo dei suoi tempi: non è che gli altri cristiani del tempo avessero idee o pratiche più spensierate delle sue. In realtà in occasione del primo concilio (Gerusalemme 50) Saul è all’estrema sinistra: nessuno più di lui vuole farla finita coi precetti della vecchia Legge. Gli altri sono più bacchettoni: se non ci fosse stato lui, probabilmente oggi i cristiani non potrebbero mangiare carne di maiale, né giocare col prepuzio fino all’età adulta. Del resto è lecito domandarsi: se non ci fosse stato lui, ci sarebbero ancora dei cristiani? E in cosa crederebbero? Forse la setta degli adoratori di Gesù sarebbe rimasta una curiosità nei libri di storia tardoantica, un’eresia nata in seno all’ebraismo ed estintasi in seguito alla distruzione di Gerusalemme nel 70. (Continua)
Saul è insomma il classico tizio che arriva per ultimo e dopo un po’ la sa più lunga di tutti. Non ha conosciuto Gesù in vita, non ha assistito alla sua passione, eppure nel giro di pochi anni sarà lui a spiegare agli altri cosa hanno visto e in cosa credono di credere. D’altro canto cosa aspettarsi, da un intellettuale in un milieu di pescatori, dove quello che ha studiato di più (Matteo) aveva fatto ragioneria? Saul, che si autonominerà apostolo (=”inviato”), con gli apostoli veri, quelli che avevano mangiato il pane e bevuto il vino con Gesù, non è mai andato veramente d’accordo. Loro d’altro canto almeno in un primo momento dovettero mostrarsi diffidenti: e questo da dove arriva? Già, da dove?
Perché così vecchio? Perché Buonarroti lo paga Paolo III, la faccia è la sua.
Saul ha tante identità. Parla correntemente greco e aramaico. Proviene da Tarso, Cilicia, oggi Turchia meridionale, dove la famiglia (ebrea?) produceva e commerciava tende (fornitori dell’esercito Romano?) Nei primi anni di Gerusalemme mostra di avere un’educazione ebraica: si definisce “fariseo riguardo alla legge”, ha contatti importanti col Sinedrio. Quando poi cambia sponda, e gli ebrei provano ad ammazzarlo, lui tira fuori un asso dalla tunica: è un cittadino romano. Il tribuno che stava per farlo flagellare (senza motivo, così per dare un contentino alla folla), sbianca all’improvviso. Siamo nel primo secolo, essere cittadini romani è un privilegio assoluto, flagellarne uno senza processo è caldamente sconsigliato. “Davvero sei Romano?”, gli chiede, “io la cittadinanza l’ho comprata a caro prezzo”. “Io invece lo sono di nascita”. Il tribuno lo slega immediatamente, e da prigioniero comincia a trattarlo come ospite. Rimane il dubbio: come ha fatto a nascere romano Saul di Tarso (che ai Romani risulta, appunto, col nome di “Paulus”)? Che santi in paradiso aveva questo piccolo uomo non simpatico? Che razza di tende smerciava il papà?
Tante identità, tante lingue, tante generalità – e se fosse una spia? Di sicuro in un primo momento è tra i Farisei, che non sopportano i seguaci di Gesù così come non sopportavano il loro maestro. Appare per la prima volta durante la lapidazione di Stefano, primo martire, e già lì la sua posizione è ambigua. Luca negli Atti ci dice che approvò la lapidazione, ma che non scagliò nessuna pietra perché… era troppo giovane. Stava al guardaroba. Si sa, quando lapidi devi avere una certa libertà di movimenti, e così…
…i testimoni deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. (Atti 7,58)
Qualcosa non torna, perché nel giro di qualche mese lo stesso giovane diventa il promotore di un rastrellamento di tutti i seguaci della “Via”, che lo porta a Damasco, si è visto, con referenze dei sommi sacerdoti. A Damasco però Saul arriva accecato, e invece di perseguitare i cristiani… si infiltra. Per conto dei farisei? Può darsi. Ma non tornerà più indietro. Non sarebbe l’unico caso della Storia: Lionel Jospin entrò nel partito socialista francese come infiltrato trotskista, poi si affezionò a Mitterand e vent’anni più tardi si ritrovò primo ministro di Francia. Un caso un po’ più delicato è quello della talpa che l’esercito tedesco infiltrò in un piccolo partito di estrema destra nel 1919, Adolf Hitler.
Secondo gli Ebioniti (una setta di eretici di cui non sappiamo quasi nulla) Saul non era un neppure un ebreo: si era convertito al giudaismo per poter sposare la figlia del sommo sacerdote. Rifiutato, era passato per ripicca dalla parte dei nemici. Puro gossip, senz’altro. Però è vero che la nuova religione gli consentiva più libertà di azione. Per prima cosa, era ancora quasi tutta da inventare: grazia, resurrezione, Spirito Santo, battesimo, sono ancora concetti piuttosto nebulosi. In compenso, non c’è bisogno di rivolgersi agli ebrei: Saul preferisce rivolgersi a ellenisti e Romani, in generale più ben disposti. Un proconsole che incontra a Cipro, Sergio Paolo, gli regala forse il nome (è dal loro incontro, in Atti 13, che Luca smette di chiamarlo col suo primo nome e comincia a chiamarlo Paolo). Forse il passaggio del nome tra il proconsole e il predicatore allude al dono della cittadinanza (magari attraverso l’adozione). Ma in tal caso Paolo avrebbe mentito al tribuno, dicendo di essere Romano dalla nascita.
Saul è testardo, persuasivo, manipolatore, e fa miracoli, il che non guasta mai: i membri della prima Chiesa di Gerusalemme non si fidano, ed è difficile dar loro torto. Saul riesce a convincerli con le collette, è un mago del fundraising: quando arriva in città porta polemiche, ma anche pezzi d’argento che pesano. A un certo punto ha la faccia tosta di litigare con quello che dovrebbe essere il capo, Pietro, sulla questione più delicata di tutte: i cristiani sono ancora ebrei? A Gerusalemme il problema quasi non si pone: i cristiani (che non si chiamano ancora così) sono quasi tutti giudei, e con gli altri giudei hanno trovato un modus vivendi: rispettano tutte le astruse norme della Torah, non mangiano animali impuri, circoncidono i figli… l’unica notevole differenza è che credono che Gesù sia il Messia, il che per un giudeo ortodosso resta una bestemmia, ma evitano magari di strombazzare la cosa al Tempio o davanti al Sinedrio, come il povero Stefano, testa calda. Ad Antiochia Saul vive in un mondo tutto diverso: al centro dei traffici del Mediterraneo orientale, in un melting pot di lingua greca dove gli stessi ebrei non sanno più bene in cosa credono. A un pubblico composto per lo più da gentili, Saul non chiede più né la circoncisione, né le astensioni rituali della Torah: Gesù resuscitando ci ha liberato da tutto questo. In confronto coi cristiani di Gerusalemme il bacchettone Saul doveva apparire un liberatore dei costumi.
Pietro e Paolo, in un abbraccio non proprio convinto
La cosa interessante è che Pietro tutto sommato è d’accordo, anche se per maturare le stesse convinzioni deve prima fare un sogno (l’ex pescatore evidentemente si fidava meno delle proprie capacità speculative e teologiche, e preferiva aspettare un messaggio esplicito dall’Aldilà). Nel 50, al primo concilio, Pietro e Saul perorano la causa dell’ecumenismo: niente precetti dell’Antico Testamento per i non giudei che si convertono. Pietro e Saul la spuntano. Ma poi litigano, perché? Per un certo periodo vivono entrambi ad Antiochia, la metropoli del tempo. Quando nella stessa città arriva una delegazione di giudei cristiani di Gerusalemme, Pietro si rimette a comportarsi da vecchio ebreo: rifiuta il cibo non kosher, eccetera. Lo fa per quieto vivere, probabilmente: non vuole infastidire gli amici di Gerusalemme, che sono molto vicini a un personaggio fondamentale, Giacomo il Giusto “fratello del Signore” (lo rivedremo). Saul se ne accorge e si adonta: sei un ipocrita, chiedi agli altri di rispettare regole che tu stesso non riesci a osservare, eccetera. Come sia finita non lo sappiamo: conosciamo solo la versione di Saul, che però qualche tempo dopo lascia Antiochia per non tornarvi mai più. Pietro dovrebbe averlo incontrato ancora a Roma, dove finiscono entrambi dopo varie peregrinazioni, come due pesci rossi nello scarico: d’altro canto tutte le strade portano là. Però gli Atti si interrompono proprio con l’arrivo di Saul nell’Urbe: tutti i racconti successivi sono apocrifi.
A Roma Saul-Paulus arriva dopo un viaggio complicato (ha naufragato al largo di Malta, e il resoconto del naufragio negli Atti è così vivido che è difficile pensare che Luca non sia imbarcato con lui). Da anni viveva a Gerusalemme agli arresti domiciliari: in realtà i Romani lo proteggevano dai sacerdoti del Sinedrio che avrebbero voluto fargli fare la fine di quell’altro. Per sbloccare la situazione Saul decide di appellarsi a Cesare. In quanto cittadino ne ha il diritto. Anche a Roma Paulus vivrà per qualche anno in un regime di libertà condizionata piuttosto lasca. Forse a un certo punto verrà scarcerato, forse farà un ultimo viaggio (spagnoli e inglesi lo reclamano entrambi come fondatore delle loro Chiese). Su una cosa la tradizione non transige: dev’essere tornato a Roma, dopo l’incendio che avrebbe radicalmente modificato l’immagine dei cristiani, da mistici bizzarri orientali a integralisti fanatici incendiatori di città. Vanno tutti crocefissi, come il loro Re. Tutti tranne Paolo, lui è diverso: la crocefissione è la pena per gli schiavi ribelli, ma lui è cittadino romano: si può soltanto decapitare, e comunque fuori dal perimetro di Roma. Dai tre rimbalzi della sua testa sgorgheranno le tre fontane dell’omonima abbazia, il che ci fa capire che ormai abbiamo lasciato il campo delle testimonianze oculari e siamo in pieno territorio leggendario.
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