Persone autorevoli, credibili

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Senza avere la pretesa di rappresentare nessuno, sono anch'io uno delle migliaia di elettori del PD che l'altro giorno hanno letto le dichiarazioni di Fioroni e si sono fatti andare di traverso la colazione. A un insieme di persone unite in questi mesi da un terribile mal di pancia di fronte alla prospettiva sempre più credibile di dover votare una coalizione con Casini e forse Fini, Fioroni ha ritenuto giusto aumentare la dose, ventilando la possibilità di allearsi anche con "persone autorevoli e credibili" del fu Pdl.

Oltre a essere poco rappresentativo, sono anche in ferie; leggo poco i giornali e me ne scuso, ma non sono in grado di ricostruire la situazione politico-mediatica in cui Fioroni ha ritenuto di fare un'uscita del genere. Voglio dire che se Fioroni stava parlando alla cognata perché intendesse la suocera, io in questo momento non sono in grado di identificare né suocera né cognata né cugini di primo grado. Tutto quel che ho letto è la sua dichiarazione, e centinaia di commenti inviperiti qui sull'Unità, nei social network, più o meno ovunque se n'è parlato. Tutte reazioni perfettamente prevedibili... (continua sull'Unita.it, H1t#140).

Tutte reazioni perfettamente prevedibili, perlomeno da me che non sono certo guru: quindi do per scontato che un politico consumato come Fioroni sapesse benissimo che avrebbe innervosito migliaia, forse milioni di suoi potenziali elettori, perdendone anche parecchi; e che la cosa non lo impensierisca più di tanto. Era più importante rilasciare dichiarazioni a Klaus Davi, o alla suocera, o alla cognata, non lo so. Mi chiedo se negli altri partiti italiani, ma anche negli altri partiti tout court, succedano queste cose: rappresentanti di primo piano che fanno dichiarazioni palesemente indigeste alla loro stessa base, incuranti dei danni che arrecano. Non lo so, m’informerò, a me sembra fuori del mondo, ma magari sono io.
Mi resta la curiosità di sapere di chi stesse parlando Fioroni: chi siano insomma quelle “persone autorevoli e credibili” che adesso sono nel PdL e che tra qualche mese dovrei votare io, basta che riconoscano che il “berlusconismo è finito”. Nel 2012. Io già faccio fatica a digerire la faccia di Casini quando mi dice che lui è stato il primo ad accorgersi che Berlusconi non era liberista, lui, tipo nel 2008; dopo 14 anni di alleanza elettorale. Dove i casi sono due: o io sono veramente un guru, e guru come me tutti quelli lo sapevano benissimo sin dal 1994, che il liberismo di Berlusconi consisteva nel difendere le sue aziende e allungarsi i processi; oppure anche Casini sottovaluta di molto la nostra tenuta gastroenterica, la nostra capacità di sopravvivere ai mal di pancia che ci procurate. È senz’altro è vero che abbiamo sopravvissuto fin qui a prove notevoli: persino Rutelli abbiamo votato, persino Dini o la Binetti. Questo però non vi autorizza a passeggiare tranquillamente sui nostri stomaci a ferragosto: o sì? http://leonardo.blogspot.com
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Diceria del taumaturgo

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16 agosto - San Rocco (XIV secolo) taumaturgo.

Intorno al 1370, nel carcere di Voghera viene tradotto un ambiguo personaggio sulla trentina, vestito alla foggia dei pellegrini, che ha rifiutato di rivelare le sue generalità, ma che l'accento denuncia come straniero. Accusato di spionaggio, non fa nessuno sforzo per difendersi, anzi afferma di essere "peggio di una spia". Trascorre le notti in cella flagellandosi, finché non muore, tre o anche cinque anni dopo. Accanto al suo corpo, le guardie trovano una tavoletta su cui è inciso il suo nome: Rocco; e una dedica, "Chiunque mi invocherà contro la peste sarà liberato". Quando sul petto del cadavere viene trovato un angioma rosso a forma di croce, il giudice che lo ha condannato riconosce finalmente un suo lontano parente di Montpellier - sì, nel XIV secolo a Voghera c'era un giudice imparentato con una famiglia nobile di Montpellier, c'è chi ha provato a sostenerlo.

È un modo per tenere insieme almeno qualche pezzo di due leggende diverse: quella che vuole il più celebre protettore contro la peste nato e morto a Montpellier, e quella che lo pretende ingiustamente recluso a Voghera. Ma ce ne sono tante altre, così come probabilmente c'era più di un Rocco in giro per le terre funestate dalle epidemie, tentando di soccorrere, di dare una mano, con qualche trucco da taumaturgo che a volte funzionava a volte no. Può darsi che il più famoso o fortunato si chiamasse Rocco, e che da un certo punto in poi tutti i sedicenti guaritori che arrivavano in città pretendessero di chiamarsi così, come tutti i circhi si chiamano Orfei. E dire che siamo nel Trecento, ormai dovremmo avere a che fare con personaggi storici, non leggende. Ma Rocco è un fantasma trascinato dalla peste, un flagello che surclassa ogni apocalisse scritta o immaginata, arrivando in certe città a dimezzare la popolazione. Muoiono anche i cronisti - a Firenze Giovanni Villani cade con la penna in mano - e la civiltà comunale risprofonda nel medioevo dei miti. C'è un Rocco ad Acquapendente, Viterbo, che guarisce gli appestati con un segno di croce e l'imposizione della mano. Ce n'è uno a Roma che guarisce un vescovo e si fa presentare al Papa, così con l'ortodossia siamo a posto. Ce n'è uno francescano, perché a un certo punto del culto s'impossessano i francescani. C'è quello di Piacenza, che contrae la peste e si ritira in una grotta a Sarmato, dove un cane ogni giorno viene a portargli un pezzo di pane. Ma tanti altri Rocchi ci sono in Francia, e in Germania, e forse nessuno è il Rocco vero. Secondo Pierre Bolle sono tutte rivisitazioni di un San Racho di Autun vissuto nell'alto Medioevo: anche lui imprigionato ingiustamente, ma in una isoletta; perciò a lui ci si raccomandava contro le tempeste. Col passar dei secoli Racho sarebbe diventato Rocco, e le "tempeste" - magari per la disattenzione di un copista - sarebbero divenute la "peste". Bella storia (continua sul Post...)
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Sentimmo il taglio finale

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Anche questa cosa di Blob merita una spiegazione, perché può risultare incomprensibile, nel momento in cui tutto è diventato Blob, nel momento in cui Rai1 mette una cosa rétro-blob in prima serata tutti i giorni per tre mesi l'anno e sbaraglia gli ascolti. Eppure c'è stato un periodo in cui Blob stava a tutto il resto del flusso televisivo come l'antimateria alla materia, sembrava un artista di avanguardia caricato sulla corriera della gita aziendale, un alieno come ci sono in certi libri di fantascienza, che non avendo una bocca o una lingua come l'abbiamo noi per tentare di comunicare coi terrestri deve copia-incollare lacerti audio o video captati dalle nostre trasmissioni e ricombinarli in stringhe che abbiano un senso diverso, ma compiuto, anche se il più delle volte non comprensibile. Forse perché siamo troppo scemi noi, o è troppo alieno lui, non lo sapremo mai. Blob non era semplicemente l'antologia delle papere dei presentatori e dei cosiddetti momenti trash che ci eravamo persi durante la giornata, anche se al più basso livello di lettura poteva presentarsi così: Blob era un collage, un patchwork, un enigma che essendo senza chiave sembrava straordinariamente intelligente, almeno quanto ci credevamo straordinariamente intelligenti noi che non riuscivamo a resistere ai suoi choc deliberati, ai suoi cozzi di senso improvvisi.

Di lì a poco saremmo andati all'università e avremmo studiato la Theorie der Avandgarde, il montaggio e l'allegoria, la traumatofilia del Baudelaire di Benjamin, e avremmo salutato nei manifesti sbrindellati di Mimmo Rotella le uniche opere d'arte ancora sensate nei '90, ma in realtà stavamo soltanto intellettualizzando la nostra fascinazione per Blob, per il modo in cui ci teneva davanti al video mostrandoci semplicemente il pattume già decomposto del giorno, in anni in cui la differenziata era ancora un'utopia. Se fossimo cresciuti al tempo in cui il Museo era ancora una cosa importante non in senso ironico, quando era il punto di arrivo di un'educazione, e una gita al Museo della capitale poteva essere il sudato traguardo di arrivo di tutto un percorso di studi... ma a noi i Musei li propinavano sin dalle elementari, persino dall'asilo, erano posti in cui perdevamo gli zainetti e trescavamo, non c'era verso che il nostro senso estetico interiore prendesse la forma di un museo, in cui tutto è sacro e conservato sottovuoto... i nostri fratelli maggiori, forse, coi loro impianti Alta Fedeltà, la collezione di crepitanti LP che da qualche anno in qua si è rimessa a crescere, loro sì hanno subito il Museo come modello. Noi invece abbiamo letto alcune frasette di Adorno in cui il Museo è denunciato come una mistificazione borghese, e questo spiegava il mal di testa che ci assaliva al Louvre molto meglio della sindrome di Stendhal o del fumo passivo subito in albergo durante la gita scolastica. Alla fine anche il Louvre per noi prendeva la forma di un blob postmoderno dove pale di altare concepite per la preghiera e la meditazione venivano strappate al loro contesto religioso e rimontate in un'opera nuova con un significato diverso, un'enorme cattedrale postmoderna con tanto di piramidi e shop e

"Cartellino giallo".
"Maccome non ho fatto niente!"
"Hai usato la parola postmoderno".
"Ha ragione mi scusi non lo faccio più".

Era insomma fatale che l'unica cosa che ci interessasse davvero, la Musica, prendesse questa forma nella nostra testa: non una collezione ordinata di LP e CD in ordine alfabetico per cognome di autore, ma un enorme flusso di lacerti fuori contesto, canzoni acefale di cui talvolta ignoravamo l'autore, sicché spesso all'amico che prendevamo a bordo e che ci chiedeva "Forte questo, ma chi è?" dovevamo rispondere "Non ho la minima idea, guarda" (ma non potevamo controllare su google? No testina google l'hanno inventato 15 anni dopo. L'unica cosa da fare era recarsi da certi amici con fama di onniscienza e anche un po' di autismo, e canticchiare la canzone che avevamo strappato a un'oscura nastroteca alle tre del mattino). La Musica si configurava come un palinsesto di manifesti sbrindellati, e più del singolo manifesto contava ormai lo sbrindello in sé. A un certo punto io mandai a quel paese ogni residuo di decenza e smisi di girare con la sicura, il tasto Pause con il quale si proteggeva la testina del registratore: quando sentivo cose interessanti premevo Rec e via. Il risultato all'ascolto erano vere e proprie esplosioni di rumore che deflagravano improvvise nell'abitacolo, da una cassa all'altra a seconda del senso di marcia, pardon, del Lato della cassetta che stavo ascoltando. Erano gli choc definitivi, come i tagli di Fontana, che hanno un senso solo se da secoli ti insegnano che la tela va montata in un certo modo, dipinta in un certo modo, guardata in un certo modo. Registrare senza Pause era l'affronto ultimo all'educazione musicale che avevano cercato di impartirti, al Museo dei Dischi importanti, alla collezione Ricca e Scelta dello zio o del fratello maggiore. Nel bel mezzo di una suite dei Pink Floyd sentivi riiiIIIIPSTTROMPRSBARANG e partiva Tarzanboy di Baltimora. Senza più gerarchie, perché Ghezzi diceva che le sue scale di valori erano tutte escheriane, e il così finalmente il nostro bambino interiore che faceva LaLaLa poteva ascoltare Tarzanboy senza vergognarsi, perlomeno un lacerto di Tarzanboy inserito in un contesto post diverso, stratificato, come uno che guarda i collage di Rotella perché ogni tanto si vedono pezzi di belle ragazze.
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Booo! Ti stavi addormentando?

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La strada è l'ambiente più pericoloso che la mia generazione abbia frequentato. Ad altri è toccata l'eroina, l'AIDS ad altri ancora, ma se mi guardo intorno tutti quelli della mia classe che mancano all'appello si sono persi per strada: curve, frontali, attraversamenti, il mio cimitero privato è una carta stradale. Mio padre e mio zio gestivano il prontointervento, una volta al mese in media portavano nel cortile carrozze accartocciate in modi osceni, che un tempo erano state belle automobili e ora accatastate sembravano moniti di lamiera che avrebbero tolto al viandante per sempre ogni velleità di mettersi alla guida - e invece ho guidato anch'io, tantissimo: e quanti incidenti, quante crisi di sonno, quanta imbecillità, quanta fortuna ad essere ancora qua a raccontare. Pensare che a volte si tirava tardi solo per finire di ascoltare una cassetta.

Ma man mano che il decennio proseguiva, e i nodi si approssimavano al pettine, tutto diventava più rapido e necessario, e le cassette cominciarono a rivelare il loro aspetto funzionale: servivano a tenermi sveglio. Come agli aviatori le anfetamine, sì. E quindi che tipo di cassette erano, che tipo di musica serviva. Il puro e semplice chiasso, scoprii abbastanza presto, non funzionava. I Deep Purple a buco in rotazione addormentano esattamente come Bach, non per via dell'educazione classica del povero Jon Lord, ma perché dopo un po' il tuo cervellino si assuefa a qualsiasi rumore, purché costante, mia cugina a un concerto si addormentò sulle casse (dei Nomadi). Invece, se in mezzo a una fuga di Bach ci infili un pezzo dei Deep Purple, boom! Ti svegli. Devi addormentarti un po' per poterti svegliare di botto, c'entra qualcosa l'adrenalina, o i cicli del sonno, o che ne so. In sostanza si tratta di sottoporsi deliberatamente a una serie di choc. È una cosa molto più complicata di quanto sembri: si tratta di farsi le sorprese da soli, nascondere da qualche parte un bambino interiore che ti faccia Booo! Ma come fai a cascarci tutte le volte?

Oggi sapete benissimo come si fa: si preme il tasto della funzione random, o shuffle, o come si chiama sul vostro arnese. Vent'anni fa la cosa era più complessa, ma indiscutibilmente più divertente: si riempivano nastri di musica casuale. All'inizio si cominciava saccheggiando la propria stessa collezione di LP e cassette originali - ma questi nastri stuccavano subito, anche nella loro casualità assomigliavano ancora troppo a chi li metteva assieme, diventavano subito imbarazzanti come il suono della propria voce registrata. Erano ancora troppo simili alle cassette che facevi per la fidanzatina, salvo che ora la tua fidanzatina eri tu, era morboso.

Invece la musica rubata alle radio funzionava benissimo. Negli anni degli studi, quando la radio poteva restare accesa anche cinque o sei ore al giorno, tu lasciavi una cassetta nel deck, e quando sentivi roba interessante premevi pause, poi rec, poi di nuovo pause. Se pensate che la qualità sonora dovesse essere non ottimale, non sbagliate, ma ricordate a quanta musica compressa avete ascoltato negli ultimi dieci anni: credete che un radiorip su un nastro decente fosse di qualità inferiore? Vero è che spesso il nastro non era affatto decente, era un palinsesto sbrindellato inciso e reinciso decine di volte, perché dopo un po' la tal canzone non sorprendeva più e andava sovraincisa. Quindi sì, la qualità faceva schifo ma non era un problema. Ripensandoci, faceva schifo anche l'autoradio, e poi bisogna essere tamarri dentro per esigere alta fedeltà mentre sei al volante di un diesel, ma stattene piuttosto a casa ad ascoltarti la Royal Philarmonic in DDD. Non era la qualità il problema. Il problema era salvarsi la vita, restando svegli mentre la doppia linea di mezzeria cominciava ad accavallarsi, e a tal scopo l'irrompere di My generation nel bel mezzo di un Lied di Battiato, benché discutibile da ogni punto di vista minimamente estetico, funzionava. Era inoltre un furto, sia a Battiato che agli Who, ma di questo si è già parlato. Eravamo ladri gentiluomini, che rubavamo soltanto per tenerci svegli nelle lunghe notti di guardia al nostro destino, e ci contentavamo di copie scadenti, anzi.

Anzi dopo un po' si verificò un fenomeno interessantissimo (mi piace scriverlo a questo punto, quando anche gli ultimi superstiti del mio ideale pubblico stanno sonnecchiando), stavo dicendo, un fenomeno interessantissimo: cominciammo a preferire le copie proprio perché scadenti. Le canzoni acefale, senza attacco e prima strofa, perché hai cominciato a riconoscerle e registrarle dal ritornello. I fruscii, che aggiungevano alla canzone un qualcosa di caldo, di condiviso: era il suono dell'etere, la comunione ideale con gli altri cinque gatti che alle tre del mattino stavano ancora ascoltando la nastroteca di MondoRadio, quello che oggi sono i like o i commenti ai vecchi video su Youtube. L'irruzione del dj con qualche inutile parola, sempre sgradita, ma che al ventiseiesimo ascolto assumeva un senso arcano. Il crepitare di LP non tuoi e quindi automaticamente più fighi dei tuoi, i fruscii, i frastuoni accidentali, le improvvise irruzioni di liscio o di radio Maria o del pezzo sottoinciso che rifiutava l'oblio... Tutto questo a un certo punto sovrastò la semplice forma cassetta, divenne un flusso di incoscienza che ti teneva sveglio, sì, ma in un limbo informe e stratificatissimo. Era diventata arte, forse l'unica forma d'arte possibile. Era l'unica cosa intelligente che ascoltavi, o che vedevi. Era lo Zeitgeist, era tutto.

Era Blob.
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19 secoli precaria

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15 agosto - Assunzione della Beata Vergine Maria, dogma di fede

Ferragosto è la festa più snobbata del calendario. Alcuni ignorano persino che sia un giorno rosso sul calendario: è gente che la pagina di agosto non la degna di uno sguardo, beati loro. Persino tra chi la osserva non c'è accordo su cosa si stia festeggiando: ancora le feriae Augusti, istituite dal primo imperatore romano il 18 avanti Cristo? Sarebbe l'ultima traccia dell'antico impero nel nostro calendario (nel Ventennio si festeggiava anche la fondazione di Roma, il 21 aprile). Molti però sono convinti che Augusto non c'entri nulla, e che si festeggi l'Assunta. Si tratterebbe quindi di una festività nazionale a carattere religioso: una delle due dedicate alla Madonna (l'altra è l'Immacolata, 8 dicembre); ci sarebbe anche il 1° gennaio, Maria Madre di Dio, ma in quel caso il carattere laico ha decisamente preso il sopravvento. Ferragosto è in bilico: a partire dal dopoguerra la transumanza turistica ha svuotato le città dell'entroterra e reso semivuote e malinconiche le processioni con in testa la Madonna in trono. L'Assunta è un po' in crisi, paradossalmente, proprio da quando è diventata un dogma di fede, l'ultimo, nel 1950. Sì, perché prima non c'era molta chiarezza sul fatto che la Madonna fosse stata assunta o no. Ma forse vale la pena spiegare cosa significa "assunta", in cosa consista l'Assunzione.

In sostanza, Maria di Nazareth in questo momento è una delle poche creature (l'unica?) a essere in Paradiso non soltanto con l'anima, ma anche col corpo, come Gesù - però Gesù è Dio; Maria no, è una donna, ma non come tutte le altre: come ufficializzò Pio IX nel 1854, è nata senza peccato originale (da cui la festa dell'Immacolata, appunto), e per questo motivo, seguendo un filo logico, non si vede perché il suo corpo debba essere morto. Se uno guarda le prime pagine della Genesi, nota che la morte è la punizione che Dio commina a Eva, Adamo e tutta la loro stirpe, per avergli disobbedito (il peccato originale). Ma Maria è nata senza - non avrebbe potuto concepire Gesù altrimenti - e quindi non c'è motivo per cui essa debba essere morta, nemmeno nel corpo. Tutti gli altri esseri umani, perfino i più santi, oggi sono in paradiso soltanto sotto forma di anime; i corpi arriveranno soltanto dopo il giudizio universale. Maria no, Maria è già là in anima e corpo, completa. Così la pensavano molti teologi nell'Alto Medioevo (l'Assunzione in Occidente si festeggiava almeno dal VII secolo); così si pronunciò definitivamente Pio XII nel 1950. C'è solo un piccolo, minuscolo problema, che i più sgamati avranno già individuato, ovvero: la Bibbia non ne parla. Mai. Nessuna traccia dell'Assunzione di Maria.

Ma d'altro canto di Maria la Bibbia parla poco in generale (continua sul Post).
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I nastri morti

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Sulle cassette, che farebbe più figo chiamare mixtape, o tra amici maschi nastroni, i nostri cari lettori del futuro magari hanno già letto qualcosa. Chi non ha scritto in questi anni almeno una paginetta, due, trecento elegie sui bei tempi in cui si premeva PAUSE prima di REC e si montavano assieme tutte queste canzoni in collanine personalizzate, che in un qualche modo dovevano rispecchiare sia la personalità della destinataria che la sensibilità musicale del donatore, nonché la particolare atmosfera del momento dell'anno e anche un po' di Zeitgeist, tutto in un gran mescolone. Può anche darsi che si siano rotti i coglioni, i cari lettori del futuro, di questo sottoceto di scioperati con niente da fare se non selezionare le canzoni giuste nell'ordine esattamente giusto, e soprattutto di queste donzelle dugentesche che si devono supporre sempre distese sul loro lettino, la palpebra a mezz'asta, ma l'attenzione sempre vigile durante l'ascolto di infinite tdk da 90 minuti. Le cose ovviamente andavano in un modo ben diverso, le poche tdk ascoltate fino alla fine probabilmente sfumavano in un sottofondo mentre la tizia sfogliava Moda, o l'Abbagnano, o magari si divertiva con qualcuno che non eri tu - del resto anche nel Duecento mica te la davano per un sonetto, cioè non sta scritto da nessuna parte, proprio non risulta.

Di questo tipo di doni nuziali, o mixtape, ma in realtà le chiamavamo semplicemente cassette, si è detto tutto e non aggiungerò niente, tranne magari che erano l'ultimo rifugio di una mascolinità in ritirata: milioni di anni trascorsi a portare a casa prima il cibo nelle caverne, poi i soldi in casa, e alla fine semplicemente la musica in cameretta, dando scontato in un qualche modo che noi maschietti, solo noi, fossimo in grado di uscire e procacciarci la musica buona, la musica giusta, la musica adatta. Le ragazze no. Perché? Non c'è veramente un perché, era un gioco sociale, con regole ancestrali: il maschio esce, sperimenta, traffica, trova cose, le porta alla femmina che le ascolta attentamente e le medita dentro il suo cuore. Andava così. L'ho fatto anch'io. A volte funzionava. Di solito comunque a un certo punto la ragazza se ne andava - cioè, nemmeno se ne andava: restava dov'era e tu eri pregato di non avvicinarti più - e le tue cassette se davvero erano buone se le ascoltava con qualcun altro. Storia vecchia, già scritta mille volte, non ci torno più.

Scriverò altre cose su altri tipi di cassette, meno conosciute ma comunque diffuse, ad esempio i nastroni d'automobile. Tra l'auto e il nastrone c'era un'intesa profonda, che per molto tempo neppure il Cd riuscì a mettere in crisi - finché non inventarono lettori che non saltavano a ogni misera cunetta spartitraffico, e nel frattempo era già l'ora di passare all'arnese leggi-mp3. Ma per molto tempo il nastrone sembrò fatto per la strada, la strada per il nastrone. L'affinità emergeva dovunque, anche dal design (la cui evoluzione negli anni seguì quella dei cruscotti, sempre meno spigolosa, sempre più leggera): la cassetta aveva due ruote, una tirava l'altra. Ma soprattutto il nastrone era una lunga e stretta carreggiata a due corsie. Poteva andare avanti e indietro. E poteva sbandare e uscire di strada, e in quei momenti traumatici accadeva qualcosa di impressionante: sentivi un fischio profondo e poi all'improvviso arcane melodie, raffinati controtempi, qualcuno che ti era familiare si metteva a intonare raga indiani - stavi ascoltando la musica dell'altra corsia, a rovescio.

Una delle cose a cui rinunciammo più a malincuore era il concetto, per voi assolutamente insensato, di Lato A e Lato B. Non c'è nessun motivo per cui la musica debba avere due lati, ma per noi la musica era un viaggio, e il viaggio doveva comporsi di un'andata e di un ritorno. Qui la metafora diventava sempre più raffinata: fermarsi all'improvviso e tornare indietro equivaleva a cambiare il lato: passare in un lampo dal quinto minuto al quintultimo. L'autoreverse, quel miracolo tecnologico che già a fine anni Ottanta ci permetteva di non cambiare più la cassetta a mano, sulle prime ci disorientò, ma anche i nostri viaggi stavano diventando più complicati, e non presupponevano sempre punti fissi di arrivo e di partenza. Smettemmo di riavvolgere i nastri, da segmenti percorribili in due sensi diventarono cerchi chiusi, che prima o poi comunque ci riportavano da qualche parte che era ancora casa nostra. L'importante è che ogni sessanta o novanta o quarantasei minuti tutto ricominciasse daccapo. Questo era importante, rassicurante, familiare, in un periodo in cui stavamo sempre meno in famiglia e sempre di più in auto.

Per inciso, se ripenso ai miei anni Novanta mi sembra di essere stato in auto tutto il tempo, in coda a un semaforo o sueggiù per la statale. Se qualche volta per caso scendevo, spesso sui cigli o nei fossati mi capitava di trovare tra cicche e preservativi un rifiuto tipico che oggi non si trova più: grovigli neri o marroncini simili a paillettes in decomposizione. I nastroni morti, persi, usciti di strada.
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Parassita nei '90

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Manifesto dei finti pezzenti

Io, per tutta l'adolescenza e la giovinezza - quella fase così cruciale in cui il giovane Consumatore veniva scandagliato e monitorato e segmentato e targettizzato e sifonato - sono stato un pezzente. Un pezzente orgoglioso ed estremamente consapevole, anche un po' ipocrita, un fintopovero, un poser? La cosa era più complessa. C'è un personaggio dostoevskijano che a un certo punto attraversa una lunga seria di peripezie che ho dimenticato, ma in sostanza ha una necessità impellente, cogente, di denaro: ne va della sua vita, del suo buon nome, eccetera eccetera, e quindi lui attraversa steppe e taighe alla ricerca di questo denaro; forse a un certo punto commette anche un orribile delitto, eppure per tutto questo tempo conserva appeso al collo un borsellino con un rotolino di rubli che avrebbe risolto ogni suo problema, ma non lo può toccare, per una questione di onore, ecco, io ero un po' così: non è che mi mancassero i soldi, ma non li volevo toccare. Non mi facevano schifo, i soldi non mi hanno mai fatto schifo. Avevo invece per essi un profondo rispetto, in gran parte dovuto al fatto che non li stavo guadagnando io.

C'entrava tantissimo aver scelto un corso di studi che mi condannava quasi certamente a una carriera improduttiva e profitti modesti. Qui cominciavano ad annodarsi tutti i miei fallimenti futuri: invece di preoccuparmi di come fare a guadagnare, io negli anni della mia formazione ero ossessionato dalla questione di come risparmiare. Mi doveva sembrare più logico, più alla mia portata, chi lo sa. Poi studiavo a Bologna, un luogo dove gli studiosi delle scienze umane dividono il portico con gli accattoni e i pancabbestia, e questo deve avermi probabilmente ispirato tutta una serie di riflessioni, di quelle che si fanno mentre si corre a prendere un treno, e poi non ti mollano più fino a casa.

Insomma io in quegli anni in cui la mia generazione era nel punto di massima esposizione consumistica, nel punto in cui dai nostri consumi dipendeva un giro di affari e di indotto che valeva svariati punti del PIL, composi nella mia testa una specie di Manifesto del Pezzente, in cui in sostanza spiegavo che l'intellettuale (tipo io) è effettivamente un parassita della società, e che è normale che abbia comportamenti parassitari, come appoggiarsi sulle grate della metropolitana per scaldarsi - no, questo veramente lo fanno i barboni, ma secondo me avrebbero potuto farlo anche gli intellettuali, non ci vedevo nulla di male. Non mi lamentavo nemmeno, non è che accusassi il sistema di trattarci da parassiti: no, per me la cosa era abbastanza buona e giusta. Eravamo parassiti, facevamo le cose buone e cattive che di solito i parassiti fanno; segnalare i problemi, tenere pulito l'ambiente metabolizzando i rifiuti, eliminare le carcasse, dare il colpo di grazia a chi se lo merita. Un po' ci credo anche adesso, anche se non reclamo più l'etichetta di "intellettuale". Però per esempio quello che faccio qui, da tanti anni, è ancora una pratica parassitaria: mi nutro di cose che non mi appartengono, punzecchio, irrito, attacco i morti ignari (di essere morti), sono sempre quello lì. E non pretendo di essere pagato per fare queste cose, ci mancherebbe. Mi accontento di quel che riesco a trovare qua e là, un buon parassita deve sapersi accontentare.

D'altro canto essere parassiti negli anni '90 era uno stile di vita che poteva regalare soddisfazioni. Si trattava di comprare il meno possibile, approfittando senza nessuna vergogna - il parassita non si vergogna - della calda brezza che esce dalla grata, dell'enorme offerta culturale che arrivava nelle città, anche piccole. Stavano aprendo biblioteche bellissime; i comuni più illuminati gestivano fonoteche dove noleggiavano CD con sopra scritto "proibito il noleggio". D'estate si riusciva persino a trovare dei concerti notevoli, gratis. E poi ovviamente si duplicava, si masterizzava, si fotocopiava, senza vergogna e anche con un certo orgoglio. Si approfittava delle falle del sistema perché è questo quello che i parassiti fanno. Io sapevo perfettamente che fotocopiando un libro di un mio insegnante gli causavo un danno, e mi andava benissimo. Allo stesso modo non potevo ignorare che copiando un CD di un musicista gli toglievo un guadagno, e la cosa non mi creava nessun problema. Me ne crea adesso, forse perché non sono più un vero parassita, forse perché sono stanco di vivere di espedienti e mi piacerebbe obbligare degli studenti a comprare un mio libro, o essere iscritto a qualche albo che ogni mese mi versasse dei soldi per le opere di ingegno che senza dubbio da qualche parte avrei composto. Me ne crea adesso perché un conto è minare le fondamenta del sistema, un conto è trovarsi a vivere sulle fondamenta dopo che è davvero crollato: si rimane lì un po' perplessi, forse non volevamo davvero che finisse tutto, forse ci bastava soltanto punzecchiare qua, suggere là, per quanto ne dicessimo peste e corna ci eravamo affezionati, alla vecchia carcassa. Forse non ci aspettavamo di essere così tanti.

Ma in effetti non eravamo così tanti. Quel che ha veramente cambiato le cose, da un certo punto in poi, è stata la tecnologia.
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Di libri basta uno per volta

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La mia solidarietà al sindaco di Verona Flavio Tosi, che ieri, nel tentativo di difendere il buon nome di Alessandro Manzoni dalle sparate stagionali del suo ex boss, Umberto Bossi, ha commesso una gaffe tutto sommato comprensibile. Bossi, lo avrete sentito, aveva definito Manzoni "un grande traditore, una canaglia", per via di quel famoso risciacquo dei panni in Arno, grazie al quale gli italiani dell'Ottocento ebbero una lingua letteraria moderna molto prima che una nazione. Per l'ex leader della Lega si trattò di un tradimento, ordito da un "re"; non è ben chiaro quale, visto che nel 1827, mentre Manzoni si stabiliva a Firenze col proposito di migliorare il suo italiano, sul trono sabaudo sedeva ancora l'arcigno Carlo Felice.

A Bossi, comunque, Tosi ha replicato che "Manzoni ha scritto dei romanzi meravigliosi, veramente avvincenti: è un grande della letteratura italiana". Sono parole commoventi, anche se non venissero da un esponente della Lega Nord, anche se le avesse proferite un italiano qualunque: è sempre commovente vedere che malgrado tutti gli sforzi della scuola per farcelo odiare, Manzoni continua ad avere degli ammiratori genuini, anche ingenui, come ad esempio il sindaco Tosi.

L'ingenuità di Tosi è tutta qui... (continua sull'Unita.it, H1t#139).

L’ingenuità di Tosi è tutta quiper quanto Manzoni sia un grande autore, un classico della nostra letteratura, non si può proprio affermare che abbia scritto “dei romanzi meravigliosi”, per il semplice e tristissimo motivo che ne ha scritto uno solo: i Promessi Sposi. Certo, lo ha scritto almeno tre volte. La prima stesura era così diversa che per molti studiosi si tratta di un romanzo a parte; gli hanno anche trovato un nome, il Fermo e Lucia. Però alla fine si tratta di uno scartafaccio che Manzoni non volle mai pubblicare; e la storia è più o meno la stessa che leggiamo nell’unico romanzo pubblicato.
Tosi è stato veramente sfortunato. Con qualsiasi altro romanziere, quel plurale (“romanzi meravigliosi”) sarebbe andato benissimo. Di solito di romanzi uno scrittore ne scrive più di uno, se non muore veramente giovane. Manzoni è l’eccezione. Un’eccezione veramente straordinaria: cominciò a scrivere di Fermo e Lucia nel 1823 (aveva trentasei anni); terminò di pubblicare l’ultima versione nel 1842, quasi vent’anni dopo. Nel frattempo scrisse tantissime altre cose: due tragedie, e tanti saggi, tra i quali uno a proposito “Del romanzo storico, e, in genere de’ componimenti misti di storia e di invenzione“, in cui si conclude che questi romanzi misti di storia e invenzione (reality e fiction, si direbbe oggi) sarebbe meglio non scriverne più. E infatti non ne scrisse più, costringendoci a concentrarci su quel suo unico meraviglioso e tormentato tentativo. Se ne avesse scritto anche solo un altro, magari i Promessi sposi non sarebbero diventati quell’orribile feticcio scolastico che a tutti ricorda almeno un’interrogazione finita male.
Tosi non si è fermato lì, ma è riuscito persino a indicare il nome di un altro romanzo di Manzoni: la Storia della colonna infame, che un romanzo effettivamente non è, anche se è difficile indicare che cosa sia. All’inizio era un blocco di pagine all’interno del Fermo e Lucia, che poi prese un’altra strada. Sicuramente è una cosa “meravigliosa” e “avvincente”: su questo il sindaco di Verona ci ha azzeccato. È anche un’opera straordinariamente moderna, in cui si narra senza concessioni alla fiction un orribile fatto di cronaca del Seicento, un processo-farsa intentato a due untori, e si riflette sulla credulità umana, sulla macchina giudiziaria, sulle dinamiche dell’infamia, eccetera – forse è il libro di Manzoni che è più attuale oggi. Purtroppo no, non è un romanzo, ma è davvero più interessante di tanta roba esposta nelle vetrine quest’estate; forse varrebbe la pena di chiamarlo “romanzo”, giusto per farlo leggere a chi dai saggi si tiene rispettosamente lontano. Non sarebbe certo la prima volta che si fa passare per romanzo una cosa che non lo è, e in fondo che c’è di male? Vuoi vedere che in fin dei conti Tosi non ha tutti i torti?http://leonardo.blogspot.com
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Guarda indietro con imbarazzo

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La mia generazione sarà tenuta prima o poi a render conto di un fatto paradossale e imbarazzante: avevamo una cosa, una cosa sola a cui tenevamo veramente, e l'abbiamo uccisa. Era la musica. Perché lo abbiamo fatto?

Sono cose di cui abbiamo discusso milioni di volte, però stavolta faccio lo sforzo di rivolgermi al futuro, un ipotetico futuro che dia per scontato che in Occidente tra il secondo dopoguerra e i '90 c'è stata un'importante fioritura artistica di questo genere che possiamo chiamare musica leggera - che si è interrotta più o meno nello stesso momento in cui la gente ha definitivamente smesso di comprare le canzoni, grazie al dilagare di tecnologie che consentivano di condividere la musica eludendo il mercato. Potrebbe anche trattarsi di una coincidenza, ma in quel futuro sono quasi sicuri che non lo sia: i soldi sono finiti più o meno quando è finita la creatività. Cosa possiamo dire a nostra discolpa?

Prima scusa: non lo sapevamo. Cioè, potevamo immaginarci che tra il mercato musicale e la creatività ci fosse qualche connessione (io me lo immaginavo almeno nel 2001, quando chiusero Napster), ma non ne eravamo proprio sicuri sicuri. Gli spagnoli non lo sapevano, che portando in Europa l'oro del Nuovo Mondo stavano facendo abbassare la quotazione del medesimo, e causando un generale aumento dei prezzi; pensavano: "ehi, il pane diventa ogni giorno più caro, che si fa? Andiamo a prendere altro oro in America, così risolviamo il problema". Forse ragionavamo così: ci lamentavamo che ogni anno ci fosse sempre meno roba buona, e intanto ne scaricavamo sempre di più. Questa scusa equivale più o meno a invocare l'insanità mentale, e quindi magari per il momento l'accantoniamo.

Seconda scusa: il sistema era tutt'altro che perfetto. Magari voi nel futuro pensate che fosse una cosa semplice: inserisci la monetina, e dall'altra parte c'è un artista che si guadagna l'autonomia per creare qualcosa di nuovo e piacevole. No. Gran parte delle monetine finivano nelle mani di chi produceva mangime industriale. Una piccola percentuale veniva effettivamente reinvestita in ricerca, e in questo modo a un certo punto il mercato riusciva ad accorgersi di artisti interessanti e a metterli a contratto, però tutto questo a noi non sembrava affatto perfetto, ed effettivamente non lo era. Cioè ma vi ricordate quanti soldi facevano i divi negli anni Ottanta? Ne facevano veramente troppi, e spesso sbroccavano. Noi di tutto il sistema vedevamo solo gli eccessi, e non ci piacevano. Non stavamo rubando musica ad artisti disperati sull'orlo del suicidio. All'inizio la stavamo rubando a scapestrati che non sapevano dove sbattere i soldi, e al loro indotto di puttane e pusher, vabbe', pazienza. C'era anche un certo moralismo nel nostro febbrile downloading. Li volevamo punire, perché guadagnavano troppo. C'era anche dell'invidia, certo, noi nel frattempo perdevamo potere d'acquisto - forse esagero, ma a me è capitato di vivere il boom di Napster e di ricevere la mia prima busta paga, orribilmente bassa, nelle stesse settimane, e mi è impossibile non collegare le due cose.

Terza scusa: voi non avete idea (voi del futuro, intendo) di cosa fosse il mondo in cui noi siamo nati e cresciuti, il Consumismo. Vi guardate le vostre clip degli anni Ottanta, tutte restaurate coi colori fluo al posto giusto, e pensate che doveva essere bellissimo consumare tutte quelle cose - ma tutte quelle maledette cose costavano, e noi dovevamo pagare, pagare sempre, sin da piccoli col PacMan, e le centolire non ci bastavano mai, noi forse ci salvammo dall'eroina perché avevamo già iniziato a ragionare da eroinomani a sette anni con le centolire per il PacMan, quando tutto quello che ci interessava veramente era un'altra manciata di centolire. E poi i vestiti, e i dischi, e i libri, e man mano si andava avanti si scoprivano sempre più mondi interessanti, ma non era come oggi: di ogni mondo ti facevano vedere soltanto uno spiraglio, un bagliore ammiccante, e se volevi entrare anche solo a fare un giro dovevi pagare. Per dire: hai notato quel mezzo vecchio video di David Bowie? Interessante, vero? Ti interessa sapere che dischi faceva dieci anni fa? Paga. Sai quanti ne ha fatti? Comincia a mettere da parte i soldi, e prega di trovarne qualcuno a metà prezzo, o uno zio che te ne presti. Magari qualcuno è brutto e non vale la spesa, ma come fare a saperlo? Da qualche parte ci dev'essere anche un libro che ti orienta. Paga. E avresti sempre dovuto pagare, e tutta la cultura che avresti ammucchiato l'avresti conteggiata in multipli di centolire.

Voi che adesso giudicate, voi potete giocare a Pacman gratis dal gabinetto di casa vostra per ore, finché non vi si marmorizza il culo - ma probabilmente Pacman smette di essere interessante nel momento in cui dal destino del mangia-fantasmini non dipende nemmeno un centolire. In pochi minuti vi potete scaricare la discografia completa di Bowie, che non ascolterete mai: chi ce l'ha il tempo e l'attenzione per una discografia completa? Poco importa, su Wiki in pochi clic potrete sapere cosa vi conviene ascoltare e cosa no. Non scoprirete mai nulla che non sappia già il più stupido contribuente alla pagina wiki su Bowie, ma probabilmente il concetto di scoperta personale vi è alieno tanto quanto l'arcana iscrizione INSERT COIN.

Ecco, voi non potete capire che importanza avesse in quegli anni condividere, registrare, duplicare, masterizzare, prestare, non restituire, e poi finalmente scaricare. Era la lotta al Consumismo. Era la resistenza umana. Era l'unico modo per imparare qualcosa in più, perché il mondo era già vastissimo e complicatissimo, e le centolire per accumulare conoscenza non sarebbero bastate mai.

Quarta scusa: eravamo tirchi. Io, almeno, tirchissimo: non per inclinazione, ma per ideologia. Questa magari ve la racconto un'altra volta.
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Congiunzione di tre crisi

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I am thinking of your v o i c e

Magari è solo un fenomeno raro come può essere rara una congiunzione astrale: la congiunzione di tre crisi.

(1) La prima è una crisi personale, di cui ho già reso conto: è un periodo che non ascolto musica. Problema mio.

(2) Poi c'è una crisi commerciale, così evidente che non c'è bisogno di parlarne: la musica vende sempre meno, in Italia e nel mondo. I negozi chiudono, le vendite on line non tengono il passo, qualche musicista si suicida, altri ci danno dentro coi concerti ma in generale guadagnano meno dei loro omologhi di dieci anni fa; potremmo dare la colpa alla crisi globale (quella dei debiti sovrani o quella dei mutui subprime o quella post 11 settembre? boh), però la cosa convince fino a un certo punto: nel passato ci sono state fasi di recessione in cui la gente continuava a comprare dischi. È più facile ammettere che siano stati gli mp3, così facili da scambiare (non solo on line) da far crollare le vendite della musica non compressa. Tutto questo era facilmente prevedibile ed è successo. Forse i negozi di CD non avevano speranza sin dal giorno in cui la voce di Suzanne Vega fu compressa per la prima volta in un mp3. Come i manoscritti dopo la prima Bibbia di Gutenberg: nel giro di pochi anni un supporto prima indispensabile diventa un pezzo da museo, magari più prezioso, ma inutile.

(3) E poi, sotto le altre due, c'è una terza crisi, che è quella su cui ci dovremmo interrogare, ma prima devo ammettere che c'è, che non è un bagliore riflesso dalla congiunzione delle altre due. Una crisi creativa, ma anche industriale. A partire dal dopoguerra, e almeno fino a tutti gli anni Novanta, la musica che all'inizio si definiva "leggera" ha conosciuto un'esplosione creativa senza paragoni, per la quantità e la qualità e la varietà. Dieci anni fa è cominciata una contrazione: si compone e si produce e si suona ancora molta musica (moltissima), ma l'innovazione è rimasta al palo. Le ultime tendenze sono di solito la commistione di cose già fatte in periodi precedenti, magari finiti temporaneamente sotto un cono d'ombra e poi ciclicamente riscoperti. L'ultima grande diva pop, anche a causa di una morte veramente troppo prematura, cantava R'n'B. Ma in generale tutto quello che è saltato fuori di interessante negli anni Zero è comunque scomponibile in fattori primi che esistevano già negli anni precedenti.

Se ammettiamo che oltre alle prime due crisi, c'è anche questa terza, la situazione si fa più preoccupante. Forse il vero motivo per cui non riesco più ad affezionarmi alla musica è che non mi sorprende più, non mi presenta più qualcosa di nuovo. E forse non succede soltanto a me, forse è un problema di milioni di persone in tutto il mondo, milioni di potenziali acquirenti di musica nuova che negli ultimi anni nessuno riesce più a trovare. La crisi n.3, se esistesse, potrebbe spiegare la n.1 e la n.2.

Ma potrebbe anche essere l'inverso. Il venir meno della creatività, nell'ultimo decennio; la lenta trasformazione del concetto di "originalità" da "fare qualcosa di nuovo" a "essere i primi della stagione che scoprono il filone di 23 anni fa che tra sei mesi copieranno tutti" - potrebbe essere il risultato della crisi commerciale. Si sperimenta meno perché non ci sono più soldi, e quando non ci sono soldi nessuno si prende più i rischi, le major tirano i remi in barca e danno alla gente "quel che la gente vuole" ossia le vecchie canzoni rimiscelate. Per questo, oltre che creativa, la definisco una crisi industriale. Perché la musica leggera è anche un'industria, un settore industriale dove da dieci anni non si progetta più nulla di nuovo, non si osa niente. E forse la colpa è mia. Nostra, cioè.

Cosa abbiamo da dire a nostra discolpa?
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