Domande che nessuno gli avrebbe fatto comunque

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Come stai? Ti trovo in forma.
Come vanno gli affari?
Ultimamente ti sei messo a fare spettacoli gratis - sì, vabbe', comizi politici. Credi che sia una strategia commerciale destinata a pagare sul lungo periodo?
Ma tu dove ti vedi nel lungo periodo?
Tra un mese siederanno nel parlamento persone scelte da te. In teoria dovrebbero prendere ordini dal MoVimento. E restituire tutti i soldi. Quanto ci metteranno a mandarti affanculo? Pensi di batterli sul tempo?
Senti, io ogni tanto vado sul tuo sito, leggo delle cose. Ma tu ci credi davvero a tutte le cose che stanno scritte sul tuo sito? Le leggi almeno?
Ci vai spesso su internet?
È da un sacco di tempo che non leggo più niente sul signoraggio. Ma tu ci hai mai creduto a quella roba lì? E se ti sei accorto che era una puttanata, quando è successo?
Ci credi ancora che in Italia si potrebbero fare le previsioni dei terremoti, come le previsioni del tempo? Perché una volta lo hai scritto sul tuo blog - cioè qualcuno sul tuo blog lo ha scritto. Tu ci credevi? Perché poi non se ne è più parlato.
E dell'Euro? Perché una volta sul tuo blog si parlava di uscirne. Poi non se ne è parlato più - gli argomenti compaiono e scompaiono come funghi - e adesso la linea ufficiale è che il MoVimento vuole fare un referendum. Lasciamo perdere il MoVimento, per una volta, ti va? Parlami di te. Tu ci usciresti davvero dall'Euro?
Tu li terresti, i tuoi soldi, nelle banche italiane, mentre l'Italia esce dall'Euro?
Casaleggio come sta? Ma tu ci credi alle sue visioni, alle clip sull'apocalisse? Le hai mai viste? Secondo te lui ci crede o sta solo facendo pubblicità a un prodotto?
Ma quando sei lì sul palco che dici "siamo in guerra", ma non ti scappa mai da ridere? - Sì, ogni tanto ti scappa, si vede.
Ma tu delle scie chimiche cosa pensi? Dai, seriamente.
Non hai mai avuto la sensazione che la cosa che stava montando - che tu stavi montando - stesse diventando fuori controllo? E come l'hai superata?
Pensi che potrà mai esistere un MoVimento senza di te?
Ma i tuoi vestiti, li lavi ancora con la Biowashball?
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Chi Elio, chi Ingroia

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Oggi mi sarei quasi rimesso a scrivere del masochismo un certo tipo di elettore di sinistra che voterà Ingroia anche se sa di ottenere il risultato contrario, ma stavo per annoiarmi da solo. Allora ho pensato che è la stessa cosa se parlo di Sanremo e della giuria di qualità, che si è intestardita a votare Elio col risultato – prevedibile – di far vincere Mengoni. Magari c’erano canzoni più valide, magari si poteva far caso al talento di Annalisa Scarrone, però… però era roba da reality e la giuria di qualità non li guarda, i reality, roba da ragazzini. Si sono impuntati su Elio, che prima dell’arrivo della giuria era ottavo.

Ora lo possiamo dire: Elio, l’incommensurabile Elio, e i suoi meravigliosi compari, non avevano nessuna possibilità di vincere Sanremo. Non avevano i numeri e forse non ne avevano neanche voglia, un Sanremo dopotutto l’hanno vinto già – anche se lo hanno consegnato a Ron. Volevano intrattenere un pubblico più vasto del loro solito da professionisti e artisti di varietà quali sono diventati da parecchi anni; lo hanno fatto alla grande, con quel sovrappiù di perfezionismo che rasenta il grottesco e che non è esattamente per tutti. Su quel palcoscenico dove qualche anno fa si presentò mummificato, cantò un’aria del Barbiere che Bocelli se la sogna, e approfittò monellescamente per urlare “f**a” in mondovisione, Elio è riuscito a stupirci ancora una volta, anzi tre o quattro volte, quasi sempre su una nota sola. Ha fatto il nano, l’obeso, si è divertito con Rocco Siffredi, mentre i musicisti tiravano fuori assoli furiosi da strumenti giocattolo. È stato bravissimo, sono stati bravissimi; ma non avevano nessuna possibilità di vincere il primo premio, e infatti non l’hanno vinto.

Portare una canzone mononota al teatro Ariston era già, in sé, una performance d’arte d’avanguardia. È un po’ la differenza tra guardare un Burri in un museo e appenderselo in camera: abbiamo tutti applaudito l’esperimento, ma alla mattina, mentre aspettiamo l’autobus, difficilmente vorremmo ascoltare la mononota nelle cuffiette. E Sanremo è il festival delle cuffiette, oggi, come era delle radio vent’anni fa. Un conto è dimostrare che anche all’Ariston si può sperimentare e stupire sul serio, un conto è pretendere di imporre la sperimentazione a una nazione di portatori di cuffiette, come ha provato a fare la giuria (continua sull'Unita.it)

Sarebbe bastato far convergere i voti su qualche altra proposta meno estrema e un po’ più cantabile, per intercettare i gusti di qualche bacino di televotanti disposto a mandare un altro sms a mezzanotte. Spazio per compromessi onorevoli ce n’era, ma i giurati di qualità non se ne sono accorti. Avevano deciso di sostenere la nota sola, tutta le cuffiette d’Italia avrebbe dovuto riecheggiare una nota sola? Si fa fatica a crederci.
Più probabilmente, i giurati avevano deciso di perdere. Di limitarsi a rimarcare la loro diversità, la loro alterità di non-guardatori di reality – magari senza sapere che anche Elio ci sta lavorando, nei reality, che è poi uno dei pochi modi rimasti ai cantanti di campare. E così abbiamo anche rischiato che vincessero i Modà, che sotto le acconciature da ragazzini cantano roba che Gianni Togni o Ricchi e Poveri nel 1980 avrebbero inciso solo sui lati B, testimoni di un cattivo gusto sommerso persistente che è appena sfiorato dall’evoluzione della moda e persino dal ricambio generazionale. Non è che il popolo delle cuffiette non avrebbe bisogno di un po’ di educazione musicale, ma tra l’oltranza sperimentale di Elio e la palude primordiale dei Modà si dovrebbe riuscire a trovare una mediana. I giurati non ci sono riusciti; secondo me hanno fallito la loro missione di intellettuali, ma era esattamente quello che mi aspettavo da loro.
C’è chi lo chiama snobismo. Ma se fosse semplicemente un disagio logico-matematico? Può darsi semplicemente che non abbiano capito che insistere su un pezzo condannato dal televoto non sarebbe servito a niente. È un po’ lo stesso problema dell’elettore di Ingroia al senato. Gli descrivi la situazione, gli spieghi che per esempio in Lombardia la possibilità esigua di eleggere due senatori rivoluzionari è controbilanciata dal rischio di regalare 16 seggi al centrodestra; che il rischio concreto è quello di un nuovo governissimo con Berlusconi e Monti insieme a Bersani, e loro niente. C’è un orgoglio identitario che se ne frega di chi governerà davvero, e che vince su tutto. Persino sull’aritmetica. http://leonardo.blogspot.com
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Il Toto in me

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Non parla di Sanremo.

Sanremo alla fine è semplicemente una cosa che succede tutti gli anni, e come le ferie e le feste comandate ti rimbalza ricordi e fototessere più o meno sgraditi. Non c'è niente di meglio di queste scadenze per misurare quanto stai crescendo e/o invecchiando e/o morendo.

Qui bisognerebbe spiegare un carattere poco noto della mia generazione, ovvero che noi - anche grazie a Sanremo - siamo cresciuti non nella Contemplazione della Morte, come i monaci che fissavano i teschi cercando di interiorizzare il concetto di putrefazione, ma nella Contemplazione dell'Imborghesimento. Ogni volta che vedevamo un 40enne sul palcoscenico - e ne vedevamo già troppi - lo trovavamo insopportabilmente bolso, "commerciale" che a quel tempo era un'offesa orribile; ad esempio prendi i Pooh, erano già circonfusi da un disprezzo che oggi neanche Maria Nazionale. Però poi saltava sempre fuori qualcuno che la sapeva più lunga e ti diceva che da giovani erano bravi i Pooh, avevano fatto dei dischi progressive. Era sempre così, con tutti (tranne Toto Cotugno). Erano stati tutti prog, o punk, o fighi in qualche altra maniera, finché non eravamo arrivati noi ed erano diventati bolsi, assimilati, ogni resistenza era inutile. Dylan, Bowie, McCartney, Neil Young, Sting, erano tutti in circolazione, stavano tutti facendo dischi nel migliore dei casi noiosi, ma i fratelli maggiori ci giuravano che erano stati grandi e risalire ai dischi vecchi non era semplice come adesso. Ci sembrava di vivere in qualcosa di strano e deprimente, come quando nella pièce di Ionesco tutti diventano rinoceronti, finché i Litfiba - i già splendidi, assurdi Litfiba di 17 Re - uscirono con Pirata e per la prima volta assistemmo al fenomeno in diretta, vedemmo la new wave fiorentina tramutarsi in pochi mesi in un trucido pachiderma da mostrare al circo mentre caga puzzolenti pezzi di canzoni altrui mescolate a crusca e feci. Eravamo troppo giovani per capire il concetto di "tengo famiglia", la cosa ci sembrava semplicemente disumana, come se a 24 anni uno gnomo salisse a scavarti il cervello col cucchiaio - perché va bene la tossicodipendenza, va bene tutto, ma come si fa a passare in cinque anni da Eroi nel vento ad ariba ariba el diablo? Come funziona, com'è fisicamente possibile che un giorno sei un comunista e il giorno dopo Giuliano Ferrara? E sul serio succede a tutti?

Sarebbe successo anche a noi?

Avevamo la grossa paura che potesse succedere anche a noi, che saremmo stati assimilati anche noi. Ancora oggi non sono sicuro che si trattasse di un peccato d'ingenuità (sul serio pensavamo che il carrozzone avesse posti anche per noi?) o se tutto sommato non avessimo ragione - siamo stati assimilati. Forse ci siamo imborghesiti, nei limiti in cui ci si possa imborghesire ultimamente, ma comunque potrebbe essere successo. È difficile rendersene conto, perché ora siamo dall'altra parte e ci sembra tutto naturale, l'unico modo è leggere vecchie pagine di diario, o di blog, o pensare a come ci sentivamo fino a qualche anno fa alle feste comandate, o a Sanremo.

Io per esempio ho un blog, il che mi consente a volte di imbattermi in versioni antiche, spesso imbarazzanti, talvolta incomprensibili di me stesso. Per esempio ho trovato un pezzo in cui me la prendo con Sanremo, chiedo a tutti di non parlarne, di spezzare il circolo vizioso dell'autoreferenzialità di un festival che festeggiava sé stesso in quanto festival delle canzoni da festival. Guardatelo pure, dicevo, ma per amordiddio non scrivete niente. Ecco. In seguito poi ci dev'essere stata una mutazione antropologica, oppure il famoso gnomo col cucchiaio, perché a farci caso sono sempre riuscito a parlare un po' di Sanremo, anche quando non lo guardavo, persino nel 2025, sempre. Un anno ho pubblicato persino un pezzo sulle vallette sull'Unita.it, e non posso nemmeno dire che quella domenica non avessi nient'altro di interessante da scrivere, ricordo benissimo anzi che avevo già due pezzi abbozzati ma sentivo l'inderogabile esigenza di scrivere un pezzo su Belen e la Canalis. Cosa mi è successo. Due teorie.

La prima è che, crescendo, l'Italia mi è diventata sempre meno antipatica. Continuo a vederne molti difetti ma, come succede tra figli e genitori, capisco che sono gli stessi miei, e questo mi forza all'indulgenza. Toto Cotugno non è più un corpo estraneo da combattere, ormai so che Toto è in me, tutte le volte durante un giorno in cui potrei sforzarmi di trovare soluzioni eleganti ma preferisco tagliar corto col solito giro-di-Do che funziona sempre. C'entra molto anche la crisi, le crisi, questa costellazione di crisi una dentro l'altra, la crisi dei consumi più la crisi mondiale del mercato musicale e la forse conseguente crisi della creatività, per cui mi succede nel 2013 di non aver ancora ascoltato una canzone che mi piaccia, non solo del 2013; una sola canzone in assoluto - al che mi scopro ad aspettare persino Sanremo, c'è Elio, magari qualcosa tireranno fuori - e loro suonano una nota sola per tre minuti, perfetta sineddoche di come mi sento. In mezzo a tutte queste crisi persino i Moloch della mia adolescenza, il teatro Ariston, i Ricchi e Poveri, mi sembrano poveri diavoli da abbracciare, ormai siamo tutti sulla stessa zattera alla deriva. Negli ultimi anni mi sono messo a stimare gente che da giovane avrei odiato con un'intensità talebana; dopo aver ingiustamente disprezzato Jovanotti qualunque cosa provasse a fare ora appena un Fabri Fibra azzecca una rima gli voglio bene. Anche gli amici di Maria mi fanno tenerezza, loro almeno credono ancora in qualcosa. In loro stessi, sì, non è un granché, ma è meglio di tutta la depressione che ci circonda, per cui stringiamoci forte, cantiamo, televotiamo, coraggio, ha da passà 'a nuttata, Sanremo è il nostro ultimo Piave. Questa è la prima teoria.

La seconda è che mi sono rincoglionito.
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Кѷриллъ и Меѳодїи!

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14 febbraio - Santi Cirillo (827-869) e Metodio (815-885), linguisti, missionari, disegnatori di alfabeti

Scusate il ritardo, ero in giro a bullarmi perché sono l'autore del blog che aveva previsto le dimissioni del Papa con 14 mesi d'anticipo. In realtà non ci voleva molto, secondo me lo sapevano un po' tutti, ma nel giornalismo moderno se non fai la faccia stupita non ti si fila nessuno, un Papa stanco, wow! ma com'è possibile! ha solo millanta anni e bypass dappertutto! Comunque come sapete ieri era San Valentino, e mentre tutto il mondo cattolico e no pensava a scambiarsi sciocchi e futili pegni d'amore, i linguisti ricordavano i loro Santi, i loro eroi. Cirillo e Metodio non inventarono, come dicono in tanti (e l'ho detto tante volte anch'io) l'alfabeto cirillico, il più usato da Belgrado a Vladivostok, il primo a lasciare la Terra con gli Sputnik. Più probabilmente l'alfabeto da loro disegnato è il Glagolitico, che nelle steli più antiche che ci sono rimaste è un bizzarro mosaico di aste e cerchiolini che avrebbe potuto inventarsi un Tolkien ubriaco di sidro. In ogni caso è stato il primo alfabeto slavo (prima forse c'erano delle rune di cui si è persa ogni traccia, scarabocchi da stregoni, niente che valesse veramente la pena). Se l'invenzione della scrittura è il discrimine tra Storia e preistoria, la Storia slava comincia tardissimo, con questi due fratelli linguisti che non erano nemmeno così slavi. Forse da parte di madre (si chiamava Maria). Il padre, Leo, era un graduato dell'esercito bizantino a Tessalonica, oggi Salonicco, Grecia. Non chiedetevi cosa ci facesse una slava a Salonicco. Già da qualche secolo gli slavi erano un po' dappertutto tra steppe e Balcani. Lo stesso nome, "slavi", era già un sinonimo per lavoratore di infimo grado, senza diritti, alla mercé del padrone (oggi si dice "precario"): allo stesso modo in cui chiamiamo "polacche" le badanti anche quando sono bielorusse, a quel tempo se la tua matrona si lamentava di non aver tempo per svuotare la fossa biologica le rispondevi "pigliati una sklava, una slava", poi in italiano è diventata schiava e in inglese slave.  Ora che lo sapete ogni volta che dite "slavo" vi sentirete in imbarazzo, e prima o poi bisognerà porsi il problema di quanto sia poco politically correct chiamarli così, invece di, boh, persone "diversamente europee"? No, ma pensiamoci.


Dei due il primo a far parlare di sé è il secondogenito, Cirillo. Pensate a lui come quel classico compagno di scuola che senza fatica prende tutti i dieci nelle lingue straniere, ogni volta che apre la bocca sembra che qualcuno abbia cambiato la lingua del film col telecomando, è un dono di natura. Cirillo parlava greco e slavo ma questo era il minimo, Cirillo parlava anche correntemente l'arabo e il samaritano. L'ebraico no perché ai suoi tempi era una lingua morta come oggi il latino, usata soltanto nei riti religiosi (nell'uso comune è risuscitata molto più tardi): sapeva comunque leggerlo. Il talento per le lingue gli consentì di viaggiare per una buona parte del mondo conosciuto. In un secolo in cui solo i militari mettevano il naso fuori dai confini del proprio feudo, Cirillo fu inviato dai bizantini presso il califfo al-Mutawakkil: scopo della missione, spiegare la trinità ai teologi islamici (e poi forse c'erano altre questioni diplomatiche che non sappiamo). Possiamo dedurre che fu un buco dell'acqua, da un punto di vista teologico perlomeno: l'Islam continuò a contrapporre il suo monoteismo radicale alle strane derive triangolari degli infedeli. Forse prima di spiegare la trinità ai musulmani avrebbero fatto meglio i teologi del tempo a spiegarsela tra loro, visto che stavano ancora litigando sulla posizione del Figlio rispetto allo Spirito Santo (lite che dura tuttora). In ogni caso Cirillo si difese bene, e qualche tempo dopo fu inviato presso i Khazari, quel popolo di cui nessuno vi ha mai parlato a scuola perché scappa da ridere anche agli insegnanti quando sarebbe ora di parlare dei Khazari; e dire che ci si potrebbe scrivere un post bellissimo solo sui Khazari, il cui khanato si estendeva dalla Crimea al Lago d'Aral: una potenza militare che i bizantini corteggiavano da più di un secolo. Poco tempo prima i clan della classe dirigente khazara avevano preso una decisione singolare: volendo abbandonare la vecchia religione del loro passato nomadico e passare a uno di quei monoteismi moderni che andavano così di moda, avevano optato per... l'ebraismo, il più sfigat diversamente fortunato dei tre. Cirillo era stato inviato forse per invitarli a desistere, a preferire il bel credo niceno-costantinopolitano: anche in questo caso niente da fare, tutti probabilmente lodarono il suo bell'accento khazaro, ma nessuno fece caso ai contenuti.

La conversione dell'ebraismo dei khazari è a tutt'oggi una questione molto controversa, perché anche se oggi sono una curiosità di eruditi, tra il settimo e il decimo secolo i khazari erano una nazione popolosa, o come si diceva nella zona, un'orda. Erano già il risultato di infinite mescolanze euroasiatiche, e tra loro vivevano ebrei sin dai tempi della diaspora e forse anche da prima. Ma è corretto affermare che a un certo punto l'ebraismo divenne la loro religione di Stato? Magari fu solo la mania passeggera di qualche ricca famiglia, come quando Madonna portava i braccialetti della kabbalah, chi lo sa (continua sul Post...)
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Bruce si fa la Russia (+ un pezzetto di Ucraina)

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Die Hard - un buon giorno per morire (John Moore, 2013)

Film finisce quando elicottero cade
Non importa quanti elicotteri hai abbattuto a mani nude; quanti terroristi hai preso a pugni sulle ali di un jet in decollo; quanti ostaggi hai salvato nella vita - non importa niente se nel frattempo non hai speso un po' di tempo con tuo figlio e lui ti è cresciuto intorno così, mentre tu salvavi vite e distruggevi carrozzerie. Un bel giorno avete litigato e non l'hai visto più; qualche anno dopo ti dicono che è nei guai, anzi peggio che nei guai, è in una cella nel bel mezzo di tutte le Russie. Per tirarlo fuori sarà d'uopo demolire una discreta percentuale del parco macchine moscovita, ma forse può essere l'occasione buona per fare due chiacchiere, recuperare un rapporto. Non fate quella faccia.

Io non volevo neanche andare a vederlo Die Hard 5, non ricordavo nemmeno che fosse il 5, dopo il 3 avevo perso il conto. Io questa settimana i compiti li avevo fatti, avevo visto questo bel film indipendente americano trionfatore al Sundance, Re della Terra Selvaggia, imperniato su una bambina bravissima con un nome assurdo che potrebbe vincere l'Oscar per una parte recitata quando aveva cinque anni. Un film con le minoranze etniche e sociali, i reietti della terra, gli ubriaconi poetici, l'uragano Cathrina, il pensiero magico, lo scioglimento delle calotte polari, un film che avrebbe confermato il mio spessore intellettuale di recensore di film in provincia di Cuneo - salvo che, maledizione, non è ancora uscito né a Cuneo né a Bra né da qualsiasi altra parte, e a quel punto che potevo fare? Mi sono visto Die Hard. È il primo che vedo al cinema. È anche il più brutto. Non è ovviamente colpa di Bruce, lui fa tutto quello che può fare. È senza dubbio ingiusto che lui debba invecchiare e Homer Simpson no, in fondo sono più o meno coetanei.

C'è stato un momento in cui ci ho davvero sperato, che il film decollasse. Il momento in cui, dopo un preambolo quasi serio dove tutto sembra filare liscio (perché McClane non c'è), Bruce atterra in una Mosca che non capisce, un labirinto di automobili in coda e tribunali assaltabili... e la storia si sbraca completamente (Continua su +eventi!)

C’è stato un momento in cui ci ho davvero sperato, che il film decollasse. Il momento in cui, dopo un preambolo quasi serio dove tutto sembra filare liscio (perché McClane non c’è), Bruce atterra in una Mosca che non capisce, un labirinto di automobili in coda e tribunali assaltabili… e la storia si sbraca completamente. Come se in un qualsiasi film contemporaneo di spie, un Bourne o uno 007 con Craig, arrivasse un umarell, il papà del protagonista, che senza capire nulla della trama, dell’intrigo, niente, si mettesse a sparare all’impazzata contro buoni o cattivi, senza distinguerli, “lasciate stare il mio bambino figli di p” – qualcosa del genere. Ovviamente il risultato è un disastro, il figlio si incazza “papà levati dalle palle sai solo fare casini”, “ma io volevo aiutare”, ecc. ecc. Era uno spunto buono, la riscossa del vecchio action spensierato che mostra fieramente le sue rughe contro i nuovi thriller internazionali più verosimili. Affinché funzionasse però bisognava assegnare qualche etto di carisma in più al figlio, Jack McClane (l’australiano Jai Courtney). Invece il ragazzo, dopo le prime scenate, si rivela sotto i pettorali l’incarnazione archetipica della sua generazione di emo smidollati, un tizio che se gli mandano a monte un piano ci rimane male e non sa più cosa inventarsi, papà, papà, cosa facciamo adesso. Papà, naturalmente, sa sempre cosa fare: si spara nel mucchio e, se c’è un elicottero, si abbatte, facile. A metà film Bruce ha già saldamente in mano la situazione, tratta il figlio come una femminuccia (“non ti metterai mica a piangere se ti estraggo dalla milza un tondino da un centimetro e mezzo, no?”) e insomma, i vecchi imperano. Se Die Hard 5 si prefiggeva di portare genitori e figli al cinema assieme, se contava sul ricambio generazionale, forse bisognava investire di più sul ragazzo. Ma Die Hard probabilmente se ne fregava dei figli, ancor più degli Expendables: è tutto un film che si fanno i vecchi sul loro essere sempre i migliori, e lascia pure che i ragazzini se ne stiano a casa a televotare Mengoni e Annalisa.



Mi ricordo una vecchia pubblicità di un atlante geografico che davano in regalo, credo, col Corriere nei primi ’90; c’era un cosmonauta che atterrava nei pressi di un pollaio e diceva (in originale coi sottotitoli) “Madre Russia!”, ma la contadina lo correggeva “Non è più Russia, è Ucraina”. Ecco. Die Hard 5 è così fieramente vecchiettistico che gli sceneggiatori (scimpanzé rubati all’esplorazione spaziale) si sono rifiutati di aggiornare gli atlanti al dopo Gorbaciov. A rischio di spoiler ve lo devo proprio dire: a un certo punto del film i McClane già un po’ ammaccati dal primo corpo a corpo con l’elicottero, decidono di recarsi da Mosca a… a Chernobyl. Per dare un’idea di quanto sia irrimediabilmente generazionale questo film, a voi cosa dice “Chernobyl”? A me fa rabbrividire la schiena, però credo che basti essere nato sette o dieci anni dopo per non sapere nemmeno di cosa si tratta. Comunque i McClane, incuranti delle radiazioni, fregano una macchina e ci vanno, così. Ho controllato su google maps, magari anche gli scimpanzé ci avrebbero dovuto pensare, sono NOVECENTO CHILOMETRI. Oltre al particolare che Chernobyl, appunto, non è in Russia, è in Ucraina, ma chissenefrega, del resto è un film che non ti fa mai mancare le falci, i martelli, le stelle rosse, magari con Putin queste cose sono tornate popolari, magari semplicemente gli americani vogliono vedere queste cose in un film russo, così come vogliono la mafia e le pecore in mezzo alla strada in un film italiano. Io poi sarei curioso di capire cosa ne pensano i russi di un film del genere – in cui Mosca viene scelta come il moderno far west, un posto dove può succedere di tutto, non c’è niente di strano se esplode un palazzo di giustizia o se un elicottero (militare?) bombarda un grattacielo, un posto dove se ti servono esplosivi e armi balistiche basta fregare la macchina nel parcheggio giusto, quello del locale “dove vanno i ceceni”. Tutto quello che nei vecchi film poteva succedere soltanto a Manhattan, adesso può succedere solo a Mosca. Però Chernobyl non si può sprecare così; non si può girare tutta la sequenza finale nella
 Zona di alienazione senza neanche mostrare qualche freak radioattivo, un pesce a tre occhi, un orso bruno gigante (erano scomparsi da secoli gli orsi bruni, ma nella Zona li hanno avvistati).  
Il regista John Moore, che ci ha già regalato il remake del Volo della Fenice e quello del Presagio, si conferma incapace di aggiungere qualcosa alla formula delle vecchie pellicole che ricalca senza fantasia. Ma forse era semplicemente preoccupato di mostrare la sua professionalità nelle scene d’azione, che in effetti sarebbero ben riuscite, all’altezza dei film precedenti (soprattutto l’inseguimento in mezzo e soprail traffico moscovita). Peccato che siano appiccicate a bella posta su una trama che non sta in piedi. È il risultato del solito equivoco per cui gli spettatori andrebbero a vedere Die Hard perché c’è Bruce che tira giù gli elicotteri. Non dico non ci sia del vero, ma quel che faceva la differenza non era l’elicottero, ma Bruce: il suo modo così poco anni Ottanta di stare in scena, di prendersi cura degli amici e di tormentare i nemici. I primi Die Hard avevano degli antagonisti memorabili, ed era sempre divertente vedere come Bruce riusciva a trasformarli in spalle comiche prima di buttarli dal cornicione. Stavolta non c’è niente, è tutto un videoclip, il supposto antagonista sta in scena pochissimo, e quello vero non fa nemmeno la spiega. Errore grave! La spiega, la digressione in cui l’antagonista spiega per filo e per segno il suo piano diabolico prima di essere sconfitto da Bruce, ha un’importanza fondamentale. Gli scimpanzé stavolta hanno pensato di poterla mettere in bocca al figlio di McClure, il risultato è una grossa pena. Jack, da bravo bimbominchia, non ha la minima idea di cosa sta parlando, borbotta del fatto che se a Chernobyl trovano un documento “si ritornerà a parlare di energia nucleare, di armi di distruzioni di massa, di terrorismo”!!!11! È il classico minchione che a vent’anni ignora totalmente di vivere sopra delle basi missilistiche in funzione; gli scimpanzé sembrano convinti che la Russia col comunismo abbia detto stop anche alle testate nucleari. 
Io spero che i ragazzini non ci vadano, a vedere come si è ridotto il Bruce di Die Hard. Mi dispiace che continuino ad ascoltare la musica (brutta) che ascoltavamo noi in quegli anni lì, e si ostinino a preferire i vecchi film; e anche nei nuovi preferiscono trovarci qualche vecchia faccia rugosa che gli ricordi gli anni Ottanta. Svelo un segreto: non erano un granché quegli anni Ottanta. È vero, c’era Bruce all’apice della forma; ma c’era anche Chernobyl, che incubo. Alcune delle radiazioni laggiù ci metteranno migliaia di anni a dimezzarsi o sparire: speriamo che Bruce si ritiri un po’ prima, e lasci il campo a qualche giovane davvero competitivo.
Die Hard è al Cinecittà di Savigliano (inizia alle ore 20:20 e alle 22:30). Dura 100′. Buona visione, se proprio insistete. 
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Le dimissioni prevedibili di B16

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Ieri un pontefice ha annunciato le sue dimissioni. È la prima volta che succede in sei secoli, senz'altro è una notizia. E tuttavia l'ondata di stupore che si è trascinata per tutto il giorno sugli organi di stampa e in tv può apparire esagerata, un tipico esempio di quella drammatizzazione a cui ricorrono i media per mantenere l'attenzione di un pubblico sempre più distratto: ogni elezione è decisiva, ogni alluvione è una catastrofe ambientale, ogni gang di maneggioni è la nuova p2, eccetera. Le dimissioni di Benedetto XVI hanno senz'altro un valore storico, e costituiranno un precedente importantissimo, ma sono tutto meno un fulmine a ciel sereno: si tratta forse dell'azione più prevedibile del suo pontificato.

Joseph Ratzinger ha sempre ritenuto che un Papa possa dimettersi per motivi di salute o di età (continua sull'Unita.it H1t#166).

Nel 2002, in una situazione piuttosto delicata (Wojtyla entrava e usciva dal Gemelli) ammise la possibilità che Giovanni Paolo II potesse dare le dimissioni “se vedesse di non poter assolutamente farcela più”. Opinione ribadita da Benedetto XVI per esempio nel libro intervista del 2010, Luce del mondo, dove addirittura sosteneva l’”obbligo” di dimettersi per un pontefice che si fosse reso conto di non poter più sostenere fisicamente e psicologicamente i doveri del suo ufficio. Ratzinger la pensava così prima di diventare papa, e una volta eletto non ha cambiato idea. E siccome la stanchezza degli ultimi mesi non era un mistero per nessuno, una dichiarazione come quella di ieri poteva tutto sommato essere prevista in tempi brevi. Un finale del genere in un certo senso era già intuibile quando nel 2005 il conclave scelse un prelato quasi ottantenne, per quello che fu subito chiamato un “pontificato breve”, di transizione. Qualsiasi speculazione sugli intrighi di palazzo, qualsiasi giudizio sulle sue difficoltà in questi anni, lasciano il tempo che trovano di fronte all’evidenza più banale: fare il papa è un mestiere sfibrante, Ratzinger ha cominciato molto tardi e ha comunque tenuto duro per otto anni, non può sorprendere veramente nessuno il fatto che non ne possa più.
Ricopio qui sotto quel che scrissi altrove più di un anno fa. A mo’ di testimonianza: non ci voleva un nostradamus – e nemmeno un vaticanista – a prevedere le dimissioni di un Papa stanco che non le aveva mai escluse. Giusto per ribadire che molte smorfie di sorpresa che vedete in tv in questi giorni fanno parte della fiction, dell’arco narrativo per cui vedi il fondamentale intervento dello story editor Padre Pizzarro.
Pio XII aveva una lettera di dimissioni pronta nel cassetto nell’eventualità che i nazisti lo arrestassero. Anche Wojtyla aveva preparato una lettera del genere, da divulgare soltanto in caso di infermità inguaribile. Il problema è che per un cattolico fervente nessuna infermità può essere ritenuta veramente inguaribile: equivarrebbe a dubitare della provvidenza, e con tutto il suo coraggio Wojtyla non avrebbe mai realmente osato farlo. Prevalse su tutto una considerazione che non era dettata dalla legge o dalla tradizione (del resto Giovanni Paolo II cambiava leggi e tradizioni ogni volta che lo riteneva utile): nessuno avrebbe potuto essere un Papa credibile mentre Wojtyla era ancora in circolazione. Come aveva detto a un chirurgo già ai tempi delle frattura al femore: “Dottore, sia lei che io abbiamo una sola scelta. Lei mi deve curare. E io devo guarire. Perché non c’è posto nella chiesa per un Papa emerito”. Una questione più mediatica che dottrinale.
Oggi che Ratzinger è stanco, e non si fa scrupolo di mostrarlo al mondo, la situazione è piuttosto diversa. Anche qui, non si tratta di dottrina – tutto sommato Benedetto XVI non si è discostato molto dal solco wojtyliano – ma di carisma mediatico: il predecessore ne aveva a pacchi, lui giusto qualche briciola. Il mattino in cui si dimetterà, decine di accorati vaticanisti si stracceranno le vesti, per poi passare immediatamente al toto-conclave senza concedere al rimpianto una mezza giornata in più. Nessuno gli chiederà nemmeno di andarsene. Una camera nei palazzi vaticani non gliela dovrebbero negare, magari proprio quella in cui dormiva quando sognava di subentrare al suo capo. Il bello è che quando Wojtyla volle un parere serio sulla questione delle dimissioni, lo chiese proprio a lui. E lui, ovviamente dopo un accurato studio delle fonti e della patristica e del diritto eccetera, rispose sì, tranquillo, si può fare. Poi è rimasto paziente ad aspettare per altri anni. Troppi anni. I giardini Vaticani un po’ come la Fortezza sul deserto dei Tartari. Quando alla fine i Tartari sono arrivati, Ratzinger era già stanco. Il parere che aveva fornito a Wojtyla alla fine sarà servito almeno a lui (è difficile non immaginare a questo punto W. da qualche parte che sorride, sempre tremando un po’). http://leonardo.blogspot.com
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Un voto non idiota

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Io credo che di tanti errori di comunicazione che abbiamo fatto, come PD e in generale come centrosinistra e in generale come Repubblica italiana, uno dei più gravi sia stato quello di parlare di

VOTO UTILE

tradendo una sostanziale non comprensione di cosa siano gli italiani, di come vedano il mondo gli italiani. Non puoi parlare di utilità agli italiani. L'elettore è un fiero e nobile hidalgo, gli dicono che in quanto popolo italiano detiene la sovranità e lui ci si accomoda come in un castello diroccato.

Poi gli spiegano che questa sovranità comunque deve essere espressa ogni cinque anni sotto forma di un voto, e lui già comincia ad arricciare il naso: cos'è questo voto che viene a delimitare la mia sovranità? Cos'è che devo fare ogni tot anni? Due croci su due schede? Due banalissime croci? Su degli stemmi? Ma è troppo difficile, non gioco più. E ci scommetto che sotto c'è la fregatura. È andata così. Ogni volta che parlate di

VOTO UTILE

l'italiano si guarda alle spalle e dice: "utile a chi?"; a lui no di certo. E se si tratta di essere utile a qualcun altro,  l'italiano se ne guarda bene: cos'hanno fatto gli altri per me, dopotutto. Utili, puah. I servi sono utili, e io sono nato libero, devo averci anche da qualche parte uno stemma famigliare, un pedigree.

Così anche in questi giorni si assiste alla cerimonia di quelli che sui social network ci informano che il Pd non lo voteranno mai, perché non vogliono essere utili al Pd, e ci mancherebbe. Anche qui sotto, la discussione ha preso subito questa piega: gente che orgogliosamente viene a farci sapere che è inutile implorare, loro non voteranno Pd. Gli sfugge il fatto che nessuno li sta implorando, perlomeno qui: possono fare quel che vogliono col loro voto. La mia principale obiezione a quelli che, per esempio, votano Ingroia (non solo in Lombardia ma soprattutto) e che quel voto otterrà il risultato contrario a quello che si prefissano, spostando a destra il baricentro del Senato e rendendo necessaria la coalizione Pd+Monti+Casini+Fini. È un banale argomento aritmetico, ma il fiero hidalgo non sopporta che gli sia opposta l'aritmetica, nulla detesta più di un maestrino che venga a rammentargli l'odiosa tirannia del due più due uguale quattro. Cos'è questo due, cos'è questo quattro, cos'è questo segno uguale? Strumenti di dominio borghese sulla realtà fenomenica. Non è una coincidenza che molti di loro pensino anche di poter aumentare i propri spiccioli nel conto corrente cambiando l'unità di misura. È stato un vero errore parlare di

VOTO UTILE

senza soggiungere: "utile a te, visto che sei di sinistra, e che se voti Ingroia al senato in alcune regioni il tuo voto sarà carta straccia, dal momento che lo sbarramento dell'8% appare secondo tutti i sondaggi proibitivo; dunque se metti la crocetta su Rivoluzione Civile tanto vale metterci anche i cuoricini, o le falci, o i martelli o le manette decidi tu; tanto è un voto inutile, nel senso di un voto buttato. Cioè in realtà una sua utilità ce l'ha, perché anche grazie al tuo voto buttato il Pd non otterrà la maggioranza in senato e si alleerà con Monti+Casini+Fini. Insomma votare Ingroia al senato equivale a votare Pd+Monti". L'hai capita? No.

Ma non è una questione intellettuale, è solo puntiglio. Quel che veramente non sopporti (oltre al Pd, si capisce) è la natura aritmetica del voto. Secondo te il voto dovrebbe essere un'altra cosa, uno strumento identitario, e si capisce, il recipiente atto ad accogliere una cosa così sacra come la tua sovranità non può essere che un calice pregiato, un Graal. Nessun partito ti merita veramente, sono tutti uno meno peggio dell'altro, come si fa a votare per il meno peggio, dimmi come si fa?

"Si apre la scheda, si prende la matita copiativa e poi..."
"Che schifo, che vergogna, come siamo caduti in basso".

Anche questa cosa è interessante, dovunque si trovi ora il nobile hidalgo si rappresenta sempre nell'atto dell'essere caduto in basso, cioè una volta si stava meglio, i voti erano luminose espressioni di volontà popolare e irradiavano volti di nobili statisti, Pertini Moro Berlinguer. Ci siamo sbagliati a parlare di

VOTO UTILE

con questi fieri uomini liberi che hanno camminato sulla terra al tempo dei Giganti; giammai si faranno servi dell'utilità di qualcun altro; bisognava forse parlare di un 

VOTO NON IDIOTA

visto che nulla li spaventa più della possibilità di essere fatti fessi. Certo, l'operazione richiedeva abilità e diplomazia, perché se li prendi di petto questi qua è finita. Però insomma bisognava tentare di spiegar loro, senza troppe argomentazioni aritmetiche (l'aritmetica è noiosa) che un voto al Senato a Rivoluzione Civile, in una regione dove è implausibile che prenda più dell'8% è un 

VOTO FESSO

che equivale sostanzialmente a mettere una croce su Monti+Casini+Fini. Si può essere più chiari di così?

VOTARE RIVOLUZIONE CIVILE = VOTARE MONTI+CASINI+FINI

dal momento che l'obiettivo di Monti+Casini+Fini è di essere l'ago della bilancia, e pesare sul prossimo governo in modo anche superiore al numero di seggi che otterranno: e il risultato del vostro voto ingroiano sarà precisamente rendere Monti+Casini+Fini l'ago della bilancia. È come fare goal: se il centravanti avversario non riesce a buttarla dentro, può provarci il difensore e fare autogol. L'arbitro marcherà comunque un goal per gli avversari. Ecco, forse ho trovato un linguaggio comune: il calcio

VOTARE RIVOLUZIONE CIVILE = AUTOGOL

Ma temo che sia troppo tardi.
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La martire aveva mille denti

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9 febbraio - Santa Apollonia martire, invocabile contro il mal di denti

A un certo punto - eravamo già nel Settecento - i denti di Sant'Apollonia in giro per la cristianità erano così tanti che persino il papa (Pio VI) decise di farla finita: se li fece consegnare, li chiuse in un baule (che a detta degli osservatori pesava diversi chili) e li gettò nel Tevere. Erano probabilmente svariate centinaia. D'altro canto un dente è una reliquia perfetta: facile da trovare e da conservare, immediatamente identificabile, commerciare denti è intuitivamente più semplice di trafficare clavicole. Mancava ancora più di un secolo alla messa in commercio dei primi analgesici.

E pensare che l'Apollonia vera di denti probabilmente ne aveva ben pochi. Se mai è realmente esistita; ma rispetto ad altre martiri del terzo secolo la sua storia appare molto più verosimile. Molto prima di diventare la giovane principessa standard insidiata dal re cattivo, nel primo resoconto di Dionigi di Alessandra, Apollonia era una vecchietta. Non fu vittima di una persecuzione imperiale, ma di un linciaggio durante uno di quei tumulti che opponevano comunità religiose diverse nella metropoli egiziana, milleottocento anni fa come oggi. I denti li avrebbe persi durante la colluttazione; le tenaglie vengono aggiunte dopo dalla fantasia popolare (continua sul Post).
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Il Grande Osama Bianco

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Zero Dark Thirty (Kathryn Bigelow, 2012)

Zero Dark Thirty è un film unico nel suo genere: l'autobiografia di un personaggio vivente che forse non conosceremo mai. Nel film si chiama Maya ed è l'agente della CIA che ha passato quasi dieci anni a cercare Bin Laden, finché non l'ha trovato (forse) e l'ha fatto ammazzare (così dicono, ma perché hanno buttato il corpo in mare immediatamente? E perché non hanno divulgato al pubblico nemmeno una foto? Vabbe', storia vecchia, parliamo del film).

C'è stato un momento - non posso dire quale - in cui guardando il film della Bigelow mi sono accorto che stavo tifando per i cattivi, i malvagi terroristi islamici. È stato un solo momento, comunque imbarazzante. Il punto è che dopo un'oretta nei corridoi della CIA, trascorsa a guardare dei professionisti seri e poco empatici alle prese con procedure standard che prevedono la tortura di alcuni mentecatti, quando finalmente un mentecatto riesce a organizzare un tranello e ammazzarne un po', ti viene spontaneo pensare qualcosa del tipo toh, beccatevi questa yankees, chissà se succede a tutti. Probabilmente no. Zero Dark Thirty è un film ambiguo, il che andrebbe benissimo, se fosse un sistema per disorientare lo spettatore e costringerlo a rivedere le sue opinioni. Da quel che ho letto in giro però non mi pare che le cose siano andate così: ognuno ha semplicemente pescato nell'ambiguità del film quello che serviva a sostenere la propria tesi preconfezionata. Per aver mostrato semplicemente come funzionavano gli interrogatori dei prigionieri (waterboarding, musica ad alto volume ecc.), la Bigelow è stata accusata di apologia di tortura. Per Michael Moore invece il film sarebbe la dimostrazione che la tortura è inefficace, infatti Bin Laden viene trovato soltanto dopo che Obama la proibisce (ma l'inchiesta era partita molto prima, dalla soffiata di un tizio sottoposto a waterboarding...) Per Andrew Sullivan è addirittura un atto di accusa ai criminali che governavano nel 2002 (quando Sullivan li sosteneva), ma in fondo è inutile porsi il problema di quel che pensa Sullivan, tra qualche anno avrà cambiato di nuovo idea. Se però uno spettatore medio entra convinto che la tortura possa essere necessaria per prevenire stragi come quella dell'11/9, non sarà Zero Dark Thirty a fargli cambiare idea: il film a un certo livello di lettura sembra proprio dire che Bin Laden è stato trovato anche grazie al waterboarding.

Se ne parli con un cinefilo puro ti dirà che è un film, soltanto un film: mostra cose che semplicemente sono successe, e lo fa molto bene. La sequenza dell'attacco al compound di Abbottabad è senz'altro lo stato dell'arte del film di guerra nel 2012: tra cinquant'anni guarderemo ancora Zero Dark Thirty se vorremo sapere come era fatta la guerra ai nostri tempi. Purtroppo era una cosa molto noiosa, con elicotteri invisibili e occhiali infrarossi da una parte e kalashnikov impolverati dall'altra, un lunghissimo estenuante match di nervi tra Juventus e Nocerina di cui peraltro conosci già il risultato finale. E i giocatori della Nocerina sono brutti, sporchi, fanatici. Ciononostante, quando fanno almeno un gol... (continua su +eventi!) mi è venuto da alzare il pugno, ma è un problema credo solo mio.

Forse ha ragione chi sostiene che la Bigelow è diventata una specie di regista embedded. Dopo il successo di The Hurt Locker (premio Oscar alla faccia blu dell'Avatar dell'ex marito Cameron) si è subito rimessa a scrivere un altro film di guerra vera, non videogiocata: all'inizio doveva raccontare la battaglia di Tora Bora (in cui Bin Laden non veniva trovato), poi la scoperta del vero nascondiglio dello sceicco del terrore l'ha portata a riscrivere la sceneggiatura in corsa. Film del genere sono interessanti e persino necessari, però per girarli devi avere dei contatti nell'esercito, forse anche nell'Agenzia - ed è gente preparata, magari non sono bravissimi a trovare Bin Laden, ma è indubbio che ai registi la sappiano raccontare. I giornalisti embedded sono inquadrati nell'esercito senza la possibilità di vedere le cose dal di fuori: non c'è scelta, l'unico modo di vedere la guerra è assumere il punto di vista di chi la fa. Allo stesso modo la Bigelow non può permettersi di mettere in dubbio la sua fonte. Col tempo forse scatta anche una specie di sindrome di Stoccolma: a forza di stare in mezzo ai soldati (o agli agenti CIA) non puoi che sviluppare un po' di simpatia per questi uomini rudi, per queste donne tutte d'un pezzo che lottano contro mille avversità per uno scopo, e se torturano qualche talebano nelle gabbie lo fanno comunque con professionalità e senza partecipazione emotiva, figurati, poi si sfogano vezzeggiando le scimmiette nella gabbia più piccola. Per la verità, da quel poco che sappiamo, i carcerieri sadici (e le carceriere) non sono affatto mancati; però la Bigelow non ce li mostra, non ha tempo. Deve raccontarci la storia di Maya, piccola grande Maya, che sola contro tutti e contro tutto riesce a trovare Bin Laden e poi - siccome ai suoi superiori alla fine sembra che non interessi più di tanto questo Bin Laden - pianta una grana infinita finché Obama non si decide a farlo ammazzare.

Maya, ha osservato qualcuno, a suo modo non è meno fanatica dei tizi che vuole eliminare. Sotto ai capelli rossi di Jessica Chastain (bravissima) è ancora e sempre il capitano Achab che non si darà pace finché la Balena Bianca non sarà catturata, e con la Balena tutto il dolore e tutto il terrorismo del mondo. Non ha un passato e, una volta liquidata la Balena, nemmeno un futuro; non si capisce nemmeno come possa far carriera, visto che l'unica cosa che ammette di saper fare è dare la caccia a Bin Laden, con risultati (per i primi nove anni) piuttosto frustranti. In un qualche modo, comunque, i compagni la rispettano e i superiori la temono, e lei va dritta per la sua strada finché la Storia non le dà ragione. Quella che vuole raccontarci la Bigelow, per sua stessa ammissione, è la success story di una persona che non tradisce la sua fede. "Tutti noi come esseri umani possiamo identificarci con il credere in qualcosa - crederci così tanto che non rimane nient'altro nella nostra vita" (tutti? Sul serio?) La narrazione americana procede per success stories: anche la biografia complessa di Lincoln deve essere bignamizzata da Spielberg in un singolo episodio in cui lui deve avere ragione e tutti gli altri torto, a onta di tante altre situazioni in cui gli altri acceleravano e lui frenava, e del chiaroscuro degli eventi precedenti e successivi. Alla fine della fiera Zero racconta la stessa storia dei film di ballerini da talent: devi credere fortissimo nel tuo successo finché si autoavvera; tutti i falliti che ti scorrono attorno non ci hanno creduto abbastanza forte.

Per una Maya testarda che cerca Bin Laden e alla fine incoccia nella pista giusta, chissà quanti agenti hanno continuato a brancolare per dieci anni nel buio, leggendo e rileggendo verbali di interrogatori tradotti alla carlona, bevendo caffè e mangiando ciambelle a spese del contribuente senza cavarci un ragno dal buco - ma la Bigelow ci mostra solo Maya, quell'una su mille che ce l'ha fatta. E ci mostra il mondo con gli occhi di Maya: un luogo pieno di maschi lenti che non vogliono convincersi che Maya ha ragione. Neanche quando un superiore glielo dice chiaro e tondo: Bin Laden è morto, o comunque chissenefrega di Bin Laden, il terrorismo è ovunque, le cellule si scambiano informazioni via internet... Maya non capisce, non può. Nemmeno per un istante l'attraversa il dubbio di essere una semplice pedina: trova intollerabile che una volta rintracciato il compound i dirigenti esitino a fiocinare la Balena. L'unica spiegazione che riesce a darsi (ed è l'unica che ci offre la Bigelow) e che vogliano essere assolutamente sicuri che quello sia proprio Bin Laden e non, poniamo, un trafficante di droga: sono rimasti traumatizzati dalla figuraccia di Colin Powell che mostrava delle foto di camion alle Nazioni Unite spergiurando di aver trovato le Armi di Distruzione di Massa in Iraq. Nemmeno il dubbio che ai piani alti non preferissero tenersi un Bin Laden anziano, stanco, tracciato, piuttosto di farlo fuori a rischio di scatenare rappresaglie e una prevedibile gara tra i successori per conquistarsi sul campo la carica di "Numero uno di Al Qaida". Nemmeno il sospetto che l'ordine finale non sia dovuto all'esasperazione di un direttore che non ne può più di vedersi Maya tutte le mattine che tiene il conto dei giorni col pennarello, ma a un presidente che magari comincia a pensare alla campagna per la rielezione. Niente. Un pezzo grosso saudita offre un'informazione fondamentale? Sarà senz'altro perché gli hanno offerto una Lamborghini, i sauditi sono tutti bambinoni viziati. Così almeno le fonti governative devono averla raccontata alla Bigelow, ma potrebbe anche essere andata diversamente: qualche pezzo grosso saudita potrebbe aver deciso che era il momento politico adatto per mollare l'osso, e la Lamborghini potrebbe essere stato un semplice lubrificante di una trattativa più complessa. Non è che ci voglia molto per farsi venire il dubbio, ma la Bigelow non sembra nutrirne, né ha l'aria di credere che ne debbano nutrire i suoi spettatori.

Solo in un fotogramma l'arcigna Maya si scioglie in un sorriso: quando un soldato, in attimo di relax alla vigilia della battaglia, ammette con un commilitone di essere convinto che Bin Laden c'è, soltanto perché ci crede lei, Maya, e in Maya lui confida. Lì tutto il femminismo della Bigelow si stacca come una concrezione calcarea, e sotto riusciamo a vedere ancora la fanciulla medievale che gode nel vedere il cavaliere pronto a morire per lei. Perlomeno io l'ho vista, ma forse è solo un problema mio eccetera.

Zero Dark Thirty è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (ore 21). Buona visione.
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Evacuate piano

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È passata ormai una settimana da quel giovedì sera in cui centinaia di residenti in Garfagnana evacuarono le loro case anche se in realtà non era stata ordinata nessuna evacuazione, a causa di una scossa che - ora possiamo dirlo - non c'è stata. È possibile, perlomeno statisticamente, che qualcuno di loro oltre a un bel po' di paura si sia preso un accidente, visto che è stata una delle settimane più fredde dell'anno. La cosa non fa notizia: ammalarsi è normale, e il fatto che in Italia le epidemie di influenza facciano più vittime dei terremoti è una semplice curiosità. Mesi fa, quando tremò un po' più forte la terra nella bassa emiliana, Beppe Grillo scrisse sul suo blog scandalizzandosi che in Italia non si facessero ancora le previsioni dei terremoti, come le previsioni del tempo. "Se il meteo ci dice che domani pioverà, terremo a portata di mano l'ombrello. Ma se viene annunciato il rischio di un forte terremoto, perché il Comune non ci dice come comportarci?" L'esempio della Garfagnana potrebbe spiegarci perché - finché non diventerà la prassi, e allora probabilmente Grillo si metterà a gridare sdegnato contro i Comuni che spingono migliaia di persone a dormire al freddo a causa di vaghe probabilità statistiche. Sarà senz'altro un complotto delle multinazionali che vogliono vendere più paracetamolo. Più probabilmente, al terzo o quarto o dodicesimo allarme di questo tipo la gente smetterà di prendere sul serio chi li dirama, e magari sarà proprio quella l'occasione in cui la terra tremerà davvero.

A scanso di equivoci, vorrei esprimere la mia solidarietà ai sindaci che nel pomeriggio del 31 gennaio ricevettero un fax dalla Protezione Civile, firmato dal Capo Franco Gabrielli, che confermava "l'ipotesi che la sequenza sia generata da una struttura orientata NE-SW - dunque trasversale alla catena" e che quindi "nelle prossime ore potrebbero avvenire altre scosse a SW della scossa principale, in prossimità dell'abitato di Castelnuovo in Garfagnana e dell'epicentro del terremoto del 23 gennaio 1985". Come si vede il fax, una comunicazione di emergenza rivolta a sindaci non necessariamente esperti di sismologia, né di abbreviazioni in lingua inglese (SW sta per South-West, in italiano sarebbe SO) risultava piuttosto criptico: non per la difficoltà della materia, ma per la sciatteria di chi anche in una comunicazione di emergenza non rinuncia a usare termini tecnici e abbreviazioni non universalmente intellegibili. Se si voleva dare un forte segnale di allerta, forse Gabrielli avrebbe fatto meglio a scrivere: SCOSSE POSSIBILI IN PROSSIMITA’ DI CASTELNUOVO NELLE PROSSIME 24H.(continua sull'Unita.it, H1t#165). La semplicità, la chiarezza, in queste situazioni dovrebbe essere considerata necessaria.

Una volta c’era il telegrafo a torcere il collo all’eloquenza dei burocrati; adesso si potrebbe prendere lezioni da twitter, ma forse il problema è un altro: Gabrielli voleva realmente dare un forte segnale di allerta? O voleva semplicemente cautelarsi con un fax in tecnichese? I sindaci che si sono trovati quel foglio in mano hanno dovuto scegliere in pochi minuti tra il rischio di essere condannati per aver minimizzato la situazione (come i membri della Commissione Grandi Rischi dell’Aquila) e quello di essere indagati per procurato allarme. Un’eventualità tutt’altro che remota nel loro caso: è quello che successe al ministro Zamberletti, che proprio in Garfagnana nel 1985 ordinò l’evacuazione di dieci comuni, in attesa di una scossa forte che non si verificò. Il dilemma è stato risolto in modo abbastanza salomonico dai sindaci che  hanno scelto di non evacuare, ma di… esortare la popolazione a uscire di casa, quasi la stessa cosa: però ora Gabrielli può difendersi dalle critiche sostenendo di non aver sollecitato nessuna evacuazione. In effetti no. Si è limitato a informare i sindaci via fax dell’eventualità di scosse di entità imprecisata in un intervallo di ore imprecisate. Non ci sarebbe da stupirsi se mentre lo dettava, oltre ai sismologi, il Capo della Protezione Civile avesse consultato qualche avvocato.
La massima solidarietà anche agli abitanti, che nel frattempo saranno tornati quasi tutti alle loro case, pur sapendo che il rischio non è affatto cessato. Io, se mi fossi trovato nella loro situazione, avrei cercato di allontanare i bambini per qualche giorno; nel frattempo avrei chiesto a un ingegnere, o al limite a un geometra, di controllare la mia abitazione, e l’avrei lasciata soltanto se fossero stati riscontrati dei difetti strutturali, rimandando alla fine dello sciame sismico i lavori di ristrutturazione. Mi è abbastanza facile immaginare la situazione perché ne ho vissuta una simile pochi mesi fa. Ma è assurdo che io dia consigli del genere ai garfagnini, che di queste cose dovrebbero essere esperti più di me. Non c’è una sola regione in Italia in cui ci si possa permettere di trattare i terremoti come degli ospiti improvvisi e sconosciuti. Dovremo cominciare a considerarli per quello che sono: turisti abituali, dai ritmi imprevedibili, ma che prima o poi ritornano. Sempre. http://leonardo.blogspot.com


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