Fateci un fischio
17-09-2013, 17:36governo Letta, ho una teoria, tvPermalinkNon credo di poter parlare a nome degli italiani, in fondo non ne frequento tantissimi. Tuttavia se mi volessi azzardare a riassumere in una frase il loro stato d'animo complessivo verso il 17 settembre 2013, credo che la frase sarebbe "Fateci un fischio".
Perché non è che certe questioni non c'interessino, anzi. Mi piacerebbe, sotto questo aspetto, poter rassicurare i politici che vanno in tv a dibattere, e i giornalisti che l'invitano, e che nessuno guarda più - non spaventatevi. Non è che non ci freghi più nulla della sorte del governo, o di quella di Berlusconi. O di Renzi che dice una cosa di Letta che dice una cosa di Renzi. Sono cose che ci appassionano ancora, però... fateci un fischio, ecco, non vi aspetterete mica che stiamo davanti al video impalati tutte le sere ad assistere al dibattito sul voto palese o sulla commissione. È una cosa senz'altro importante, che avrà ripercussioni sulle nostre vite: però nel frattempo dobbiamo viverle, abbiate pazienza, e fateci un fischio quando succede davvero qualcosa. Quando Berlusconi decade. O quando fissano la data del Congresso PD. O quando cade il governo. Nel frattempo non prendetela se cambiamo canale o se addirittura spegniamo e usciamo: non è niente di personale. Voi pretendete di avere qualcosa da dire tutte le sere, avete l'esigenza di sparare un titolo tutte le mattine, e forse a questo punto nemmeno vi accorgete che non sta succedendo niente, quasi niente, da una ventina di giorni: e che le vostre schermaglie in tv sono più noiose del raddrizzamento della Costa Concordia.
Ma davvero vi sorprende che tre talk show di politica non superino il 5% di share? Sul serio pensavate che mostrare la Santanchè tre volte alla settimana avrebbe funzionato? "Sarò forse malato, ma a me, il duello tra Marco Travaglio e Daniela Santanchè è piaciuto moltissimo: non riuscivo a staccarmi dal video", scrive Telese nella sua "apologia del talk show rissoso e inflazionato". Mi piacerebbe rassicurare anche lui: non è malato (continua sull'Unita.it, H1t#197).
Perché non è che certe questioni non c'interessino, anzi. Mi piacerebbe, sotto questo aspetto, poter rassicurare i politici che vanno in tv a dibattere, e i giornalisti che l'invitano, e che nessuno guarda più - non spaventatevi. Non è che non ci freghi più nulla della sorte del governo, o di quella di Berlusconi. O di Renzi che dice una cosa di Letta che dice una cosa di Renzi. Sono cose che ci appassionano ancora, però... fateci un fischio, ecco, non vi aspetterete mica che stiamo davanti al video impalati tutte le sere ad assistere al dibattito sul voto palese o sulla commissione. È una cosa senz'altro importante, che avrà ripercussioni sulle nostre vite: però nel frattempo dobbiamo viverle, abbiate pazienza, e fateci un fischio quando succede davvero qualcosa. Quando Berlusconi decade. O quando fissano la data del Congresso PD. O quando cade il governo. Nel frattempo non prendetela se cambiamo canale o se addirittura spegniamo e usciamo: non è niente di personale. Voi pretendete di avere qualcosa da dire tutte le sere, avete l'esigenza di sparare un titolo tutte le mattine, e forse a questo punto nemmeno vi accorgete che non sta succedendo niente, quasi niente, da una ventina di giorni: e che le vostre schermaglie in tv sono più noiose del raddrizzamento della Costa Concordia.
Ma davvero vi sorprende che tre talk show di politica non superino il 5% di share? Sul serio pensavate che mostrare la Santanchè tre volte alla settimana avrebbe funzionato? "Sarò forse malato, ma a me, il duello tra Marco Travaglio e Daniela Santanchè è piaciuto moltissimo: non riuscivo a staccarmi dal video", scrive Telese nella sua "apologia del talk show rissoso e inflazionato". Mi piacerebbe rassicurare anche lui: non è malato (continua sull'Unita.it, H1t#197).
Più probabilmente fa parte di un circuito mediatico molto ristretto, e molto autoreferenziale, che con le risse in tv ci campa, o ci vorrebbe campare. In mancanza di meglio, dal momento che i talk show politici non hanno tolto spazio ad altri programmi “più brutti”, come scrive ancora Telese: si sono fatti spazio nella seconda serata semplicemente perché costano poco, pochissimo. I politici sono una delle rare categorie che in tv ci viene gratis: butta via. Minima spesa massima resa: basta non raccontarsi che si sta facendo informazione, o addirittura una specie di servizio pubblico. Si sta semplicemente allungando il brodo, nella speranza che qualche telespettatore assonnato lo trovi comunque un po’ più saporoso di quello della concorrenza, e scelga di addormentarsi sul divano con la tua rissa in sottofondo.
Non è che la tv non aiuti a vincere o perdere le elezioni. Ma non è tramite i talk show, che storicamente hanno sempre funzionato da sfogatoi per un bacino di utenza che non è mai stato maggioritario. Si può loro riconoscere il (de)merito di avere lanciato sulla ribalta nazionale qualche personaggio, che quasi sempre però si è rivelato più bravo a discutere in tv che a combinare cose in parlamento o altrove (il classico esempio è la Polverini, da una poltrona di Ballarò alla Regione Lazio). L’inflazione di programmi del genere me ne ricorda una analoga a metà anni Novanta, quando Mediaset e TMC cominciarono a dar battaglia sul serio alla Rai in un terreno di gioco molto più ambito: il calcio parlato. Da un anno all’altro la seconda serata si popolò di processi e controprocessi, popolati da personaggi che non rifiutavano di incarnare le più trite opinioni da bar; le moviole della domenica furono rallentate per durare fino al martedì. L’irradiazione di tutte quelle ore di chiacchiere non creò in Italia un solo esperto di calcio in più: allo stesso modo, è difficile immaginare che tutti questi duelli verbali a base di Santanchè e/o Travaglio creino un qualche tipo di consapevolezza nello spettatore. Quel che c’è veramente da sapere ogni giorno si riduce a due o tre titoli accessibili da internet: tutto il resto è chiacchiera. Nessun sagace retroscenista da talk show seppe anticiparci la formazione del governo Letta; nessuno è riuscito mai a intercettare la confessione di almeno uno dei famosi 101 franchi tiratori pd che nel segreto dell’urna non votarono Prodi. I talk show non fanno che portare un po’ di bar in tv, per chi comprensibilmente è troppo stanco per uscire o non può permettersi la consumazione: dieci anni fa si parlava di sport, oggi di politica, non è che faccia tutta questa differenza. Poi ogni tanto succede qualcosa davvero: ecco, per favore, quando succederà fateci un fischio. http://leonardo.blogspot.com
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Roberto, l'inquisitore buono
17-09-2013, 03:48pontefici, preti parlanti, santi, scienzaPermalink17 settembre - San Roberto Bellarmino (1542-1621), inquisitore gentiluomo di Bruno e Gailleo
Gli anglicani, lo abbiamo visto, festeggiano San Thomas More, che fu decapitato per non aver accettato lo scisma anglicano. È un po' come se i cattolici il 17 febbraio festeggiassero Giordano Bruno. Non lo fanno, non sono altrettanto sportivi. Invece il 17 settembre festeggiano San Roberto Bellarmino, il suo più celebre inquisitore. E tuttavia.
E tuttavia le cose non sono così semplici - le cose non sono mai semplici. Quando viene coinvolto dal lungo processo a Bruno, Bellarmino ha 55 anni e non ha decisamente il profilo del tetro cacciatore di streghe che ci piacerebbe assegnargli. È uno dei pochi che ha la formazione culturale necessaria per leggere davvero gli astrusi libri di Bruno e capire se in tanta torrenziale produzione di parole ci sia qualcosa di eretico o no. In fondo il filosofo e il suo inquisitore si somigliano. Sono nati entrambi negli anni Quaranta, mentre il concilio di Trento muoveva i primi passi. Sono entrambi studenti brillanti e precoci: Bruno presso gli odiati domenicani (di cui si metterà e si toglierà l'abito a seconda della convenienza), Roberto coi gesuiti. Sono due viaggiatori in un secolo sedentario: Bruno schizza per l'Europa alla ricerca di una cattedra sicura, riuscendo a farsi interdire dai pastori di tutte le confessioni religiose possibili. Roberto comincia la sua carriera di predicatore anti-protestante, "martello degli eretici", a Gand (oggi Belgio), terra di frontiera. Sono due grafomani, proprio nel momento in cui scrivere libri in Italia diventa davvero pericoloso; e prima che finisse nei guai, anche Roberto aveva rischiato.
Era successo nel 1590. Roberto si trovava in missione nella Francia sconvolta dalla guerra di religione. Lo avvertono di non sbrigarsi a tornare a Roma: l'amato Papa Sisto V sta valutando la possibilità di mettere all'Indice dei Libri Proibiti il suo best seller, avrete indovinato, le Disputationes de controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos. Ma come? Lo stesso Sisto non aveva tanto gradito la dedica dell'opera monumentale, una sorta di enciclopedia ragionata di tutte le eresie possibili, classificate senza troppo furore polemico? Sì, ma si vede che in seguito oltre ad apprezzare si era pure messo a leggere; trovando riferimenti al potere temporale del pontefice che non gli erano piaciuti. Bellarmino si era arrischiato a definire questo potere come "indiretto", e tanto gli bastava per finire in disgrazia. A salvarlo fu una vera e propria moria di papi, che tra il 1590 e il 1592 falciò Sisto V e i suoi tre immediati successori (Urbano VII, dopo soli 13 giorni; Gregorio XIV, Innocenzo IX). Al termine di questo conclave permanente forse nessuno si ricordava più del caso Bellarmino, e all'orizzonte c'erano ben altre gatte da pelare. Prima di morire Sisto V - uno dei pontefici più risoluti e decisionisti della Storia - aveva voluto licenziare le bozze della nuova versione della Vulgata, la Bibbia in latino. Peccato che fossero piene di errori. In seguito una commissione aveva provveduto a correggere, ma ormai la versione vecchia era stata stampata, e ritirarla sarebbe stato imbarazzante: significava ammettere che un Papa si era sbagliato. Fu il gesuita Roberto Bellarmino a trovare una soluzione abbastanza elegante: anche la nuova versione sarebbe stata attribuita a Sisto. Una prefazione avrebbe spiegato che la decisione di pubblicare una nuova versione riveduta e corretta era stata presa dallo stesso papa che aveva fatto pubblicare la versione piena di errori. Questa era quasi una bugia: chi avrebbe avuto la faccia tosta e l'autorevolezza per firmare una prefazione del genere? Roberto Bellarmino, ovviamente, intellettuale di respiro europeo, stimato anche dagli avversari protestanti. Con Clemente VII Bellarmino divenne rettore del Collegio romano. Lo zuccotto da cardinale stava per arrivare. In mezzo però ci fu il penoso caso di Bruno.
Quando lo incontrò, il filosofo aveva cinquant'anni ed era recluso da sei. L'opinione più condivisa è che Bellarmino avrebbe preferito salvarlo: questo fa un po' a pugni con lo sviluppo del processo, in cui Bruno fino a un certo punto sembra orientato a salvarsi la pelle abiurando a qualsiasi cosa, salvo impuntarsi in un secondo momento, e ritrattare ogni abiura. In realtà non è affatto chiaro come andarono le cose: non sappiamo nemmeno se fu torturato o no. Ciò che è sicuro è l'esito del processo, che andò ancora per le lunghe e si concluse nel 1600 con un rogo in Campo de' Fiori. In seguito Giovanni Paolo II se ne è rammaricato: quattrocento anni dopo, meglio tardi che ancora più tardi. Sappiamo molto di più sull'altro famoso processo che riguardò San Roberto, il Galileo Uno, conclusosi con un sostanziale proscioglimento. Sono passati molti anni: siamo nel 1616, Bellarmino veste ormai lo zuccotto cardinalizio da tanto tempo - avendo vinto il fastidio per un copricapo poco consono all'austerità dei gesuiti. È stato anche arcivescovo a Capua, amatissimo dal popolo, ma forse Clemente lo aveva spostato laggiù perché non si fidava più di lui: nel divampare di una polemica tra molinisti e tomisti non si era schierato dalla parte vincente. I molinisti erano seguaci del teologo Luis de Molina, teorico del libero arbitrio; i tomisti si rifacevano al solito san Tommaso d'Aquino, che riprendendo la concezione agostiniana di grazia riduceva di molto lo spazio concesso alla scelta individuale: una posizione non molto lontana da quella di Lutero, eppure tra molinisti e tomisti Clemente aveva scelto i secondi, mentre Bellarmino molto prudentemente preferiva considerare accettabili entrambe le posizioni. C'era poi in controluce una rivalità tra i due ordini religiosi più intellettuali: de Molina era un gesuita, Tommaso un domenicano. Alla morte di Clemente l'equilibrio si ristabilì, e il prudente Bellarmino era ancora abbastanza popolare da finire nell'elenco dei papabili: sarebbe stato il primo gesuita a varcare il sacro soglio, quattrocento anni prima di Bergoglio. Lui ovviamente non ci teneva, figurarsi, era già pronto a dimettersi da cardinale per scongiurare l'elezione, e quando invece fu eletto Paolo V, tirò un sospiro di sollievo, certo: fanno tutti così. Paolo comunque se lo riprese a Roma, al Sant'Uffizio, proprio mentre scoppiava il caso Galileo (continua sul Post...)
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La schiuma dei giorni difficili
13-09-2013, 19:00cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, FranciaPermalinkMood indigo - La schiuma dei giorni (L'Écume des jours, Michel Gondry, 2013).
Colin vive felice in un mondo assurdo, dove le scarpe abbaiano, il jazz ti allunga le gambe e l'esistenzialismo si assume in pasticche. In questo mondo decide di innamorarsi, cioè di crescere lavorare e soffrire. Colin è un'invenzione di Boris Vian, incredibile trombettista e scrittore che morì nemmeno a quarant'anni, in un cinema, mentre assisteva alla prima di un film tratto da un altro suo romanzo.
Boris Vian ha vissuto poco e faticosamente; in quel poco ha scritto parecchio - tra cui una manciata di canzoni meravigliose - e non si esagera a definirlo un cardine della cultura francese del XX secolo: ha radici solidissime piantate in territori diversi, il surrealismo e lo swing, frequenta Sartre e Camus in quel breve ma cruciale periodo in cui l'esistenzialismo è un fenomeno di costume. Con lui arrivano a Parigi il bebop, la narrativa pulp e la fantascienza; senza di lui inoltre Gainsbourg non avrebbe mai pensato di scrivere canzoni a partire da sciocchi giochi di parole, e quindi insomma il pop francese sarebbe totalmente diverso da quel che è. Anche Gondry sarebbe diverso, forse non avrebbe mai girato l'Arte dei sogni. Insomma La schiuma dei giorni era un film che sulla carta aveva tutto per funzionare, e in effetti, a modo suo, funziona: e se vi sembra invece che qualcosa non vada, se vedete che qualcuno comincia a uscire dalla sala, e anche a voi vien voglia di farvi un giro e risparmiarvi il finale, vi invito a considerare l'ipotesi che il problema non sia Gondry. D'accordo, questo è il film in cui spalanca la sua valigia dei trucchi, mostrandocene il fondo; non è che siano pochi, ma dopo un po' sono sempre gli stessi: ancora art-attak a passo uno, ancora trovarobato vintage, ancora lana dove dovrebbe esserci carne. D'accordo, certe scene sembrano semplicemente non funzionare, soprattutto all'inizio si percepisce una concitazione che serve a distrarre lo spettatore quando il trucco non è troppo buono; la stanza che diventa sferica non sembra davvero sferica, il picnic tra pioggia e sole lascia perplessi, d'accordo, l'illusionista non era in giornata, però non è quello che vi fa sentire freddi. Ve lo ricordate il libro? Quand'è che l'avete, ehm, riletto? (continua su +eventi!)
Non è una domanda peregrina. Non mi ricordo più chi consigliava di leggerlo almeno tre volte nella vita: a vent’anni per innamorarsi, a quaranta per scoprirne il contenuto politico, a sessanta per capire la disperazione. Chiunque sia stato a darmi questo consiglio, vorrei ringraziarlo per avermi fatto sentire sessantenne a venti: per me La schiuma è sempre stato un libro disperato sulla malattia e la morte; non sono mai riuscito a trovarci né molta politica né molto amore. Quest’ultimo in particolare mi è sempre sembrato un pretesto: i personaggi di Vian sono automi caricati a molla che si innamorano perché decidono di innamorarsi, del primo automa che trovano a una festa; dopodiché i giochi sono fatti e la pista porta dritta dalla città danzante a un paludoso cimitero. Gondry non li rende più automatici di quanto non fossero già, anzi in certi casi riesce ad aggiungere brio dove Vian non aveva avuto voglia o tempo o necessità di mettercene. Se qualcosa è stato tradito, forse è quel cinismo che traspare sempre dietro le sue invenzioni stralunate: apro il libro a caso, trovo un colloquio di lavoro. È per pagare le cure a mia moglie, spiega Collin.
“Mi dispiace per lei. Quando le donne si ammalano, non sono più buone a nulla”.
E non è uno scherzo. È la Schiuma dei giorni, un romanzo di automi che dicono troppo spesso la verità. Lo sceneggiatore ha fatto un lavoro egregio, ma se ha voluto perdere qualcosa, è stato precisamente questo stile tranchant che ci avrebbe reso ancora più freddi davanti allo schermo. E non ne avevamo bisogno. Non riusciamo a simpatizzare con Collin, non riusciamo a soffrire con Chloé, a dispetto dei mille trucchetti imprevedibili che Gondry snocciola senza entusiasmo, ci rendiamo conto che la storia è molto prevedibile e finirà male. E forse è esattamente quello che Vian voleva che provassimo: disagio e disperazione. Forse era prevista persino la curiosa simpatia che proviamo per i due personaggi secondari, meno perfetti e quindi più umani: Chick, l’amico di Collin che si droga di conferenze di Sartre, e Alise soprattutto, la splendida Aïssa Maïga, che deve rappresentare il rimpianto per tutte le vite che non abbiamo vissuto, tutte le avventure a cui ci siamo presentati in ritardo. “Se stavolta arriviamo primi noi cambieremo la storia! Diventerà il nostro romanzo”. Ma la storia è già stata scritta, è già diventata un feticcio culturale (dopo la morte dell’autore, come al solito), e i personaggi non possono farci più niente.
Anche Gondry non poteva farci niente. Di suo ci ha messo una curiosa cornice – una catena di montaggio di dattilografi – che ci autorizza ad accostarlo all’altra importante trasposizione cinematografica di quest’anno, Il grande Gatsby di Luhrmann. Due testi brevi e ingombranti, due registi che non si lasciano intimidire e si prendono un sacco di rischi, ma continuando a rivendicare una fedeltà al testo quasi maniacale e molto artificiale. Entrambi cominciano in quinta e dopo un’ora sembrano senza benzina: cosa c’è che non va? Forse quello che non va siamo noi spettatori cosiddetti colti, con pretese precise, idee molto chiare su cosa vorremmo vedere, salvo poi annoiarci perché dopo i fuochi artificiali il film va esattamente dov’è previsto che vada. Ed entrambi i registi aggiungono alla storia originale soltanto una cornice che esibisce la composizione del romanzo (i flash forward farlocchi in cui il protagonista “diventa” Scott Fitzgerald e si mette a scrivere Il grande Gatsby), puntando il dito su quella cosa che non so se chiamino ancora “letterarietà”… ma in parole povere è come se Gondry e Luhrmann sentissero la necessità di dirci ehi, non prendetevela con noi, è un libro, ricordate? Nel libro le cose vanno così, non ci possiamo fare niente se dopo un po’ vi annoiate. Una volta pensavo che i libri andassero sempre letti prima dei film; adesso mi piacerebbe brevettare una pillola per scordarmeli all’istante quando entro in sala. Mi domando a quel punto come avrei reagito a Mood Indigo, forse come uno di quelli che ieri sera si alzavano e se ne andavano via, che razza di film assurdo. La cornicetta letteraria supplisce anche alla carenza di finali lieti e rassicuranti: certo, le due storie finiscono male, però… qualcun altro sopravvive e le scrive, e questo dovrebbe consolarci. Funziona? Insomma, se uno si dimentica che entrambi gli scrittori sono morti in miseria, e che tutto il successo postumo è in un qualche modo indesiderato, ingiusto, un equivoco…
Ma forse il problema è ancora a monte. Non riesco più a emozionarmi, non riesco più a innamorarmi, non ho più tempo, la maggior parte lo passo a spazzar polvere e ragnatele, ne crescono di fittissime in poche ore, e i vetri, i vetri sono così schifosi a vedersi, quasi mi consola indovinare che tra un po’ si chiuderanno del tutto.
(Oppure potrebbe trattarsi di Audrey Tatou, una scelta sbagliata, secondo me. Se mai riuscirà a liberarsi da Amélie, non è certo con un film surreale come questo. Rischia di sembrare un sequel, Il fantastico mondo 2 – L’Agonia, ecco, e Gondry non è Jeunet. Ha una valigia più piccola, mi dispiace).
La schiuma dei giorni è comunque un film che va a visto al cinema Fiamma di Cuneo, tutti i giorni alle 21, tranne sabato alle 20 e alle 22:40, e la domenica pomeriggio alle 15:10 e alle 18, senza intristirsi troppo, non siete mica obbligati a innamorarvi ammalarvi e morire.
Colin vive felice in un mondo assurdo, dove le scarpe abbaiano, il jazz ti allunga le gambe e l'esistenzialismo si assume in pasticche. In questo mondo decide di innamorarsi, cioè di crescere lavorare e soffrire. Colin è un'invenzione di Boris Vian, incredibile trombettista e scrittore che morì nemmeno a quarant'anni, in un cinema, mentre assisteva alla prima di un film tratto da un altro suo romanzo.
Sta terminando la stesura del quindicesimo volume dell'Enciclopedia della Nausea, o una cosa del genere. |
Non è una domanda peregrina. Non mi ricordo più chi consigliava di leggerlo almeno tre volte nella vita: a vent’anni per innamorarsi, a quaranta per scoprirne il contenuto politico, a sessanta per capire la disperazione. Chiunque sia stato a darmi questo consiglio, vorrei ringraziarlo per avermi fatto sentire sessantenne a venti: per me La schiuma è sempre stato un libro disperato sulla malattia e la morte; non sono mai riuscito a trovarci né molta politica né molto amore. Quest’ultimo in particolare mi è sempre sembrato un pretesto: i personaggi di Vian sono automi caricati a molla che si innamorano perché decidono di innamorarsi, del primo automa che trovano a una festa; dopodiché i giochi sono fatti e la pista porta dritta dalla città danzante a un paludoso cimitero. Gondry non li rende più automatici di quanto non fossero già, anzi in certi casi riesce ad aggiungere brio dove Vian non aveva avuto voglia o tempo o necessità di mettercene. Se qualcosa è stato tradito, forse è quel cinismo che traspare sempre dietro le sue invenzioni stralunate: apro il libro a caso, trovo un colloquio di lavoro. È per pagare le cure a mia moglie, spiega Collin.
“Mi dispiace per lei. Quando le donne si ammalano, non sono più buone a nulla”.
E non è uno scherzo. È la Schiuma dei giorni, un romanzo di automi che dicono troppo spesso la verità. Lo sceneggiatore ha fatto un lavoro egregio, ma se ha voluto perdere qualcosa, è stato precisamente questo stile tranchant che ci avrebbe reso ancora più freddi davanti allo schermo. E non ne avevamo bisogno. Non riusciamo a simpatizzare con Collin, non riusciamo a soffrire con Chloé, a dispetto dei mille trucchetti imprevedibili che Gondry snocciola senza entusiasmo, ci rendiamo conto che la storia è molto prevedibile e finirà male. E forse è esattamente quello che Vian voleva che provassimo: disagio e disperazione. Forse era prevista persino la curiosa simpatia che proviamo per i due personaggi secondari, meno perfetti e quindi più umani: Chick, l’amico di Collin che si droga di conferenze di Sartre, e Alise soprattutto, la splendida Aïssa Maïga, che deve rappresentare il rimpianto per tutte le vite che non abbiamo vissuto, tutte le avventure a cui ci siamo presentati in ritardo. “Se stavolta arriviamo primi noi cambieremo la storia! Diventerà il nostro romanzo”. Ma la storia è già stata scritta, è già diventata un feticcio culturale (dopo la morte dell’autore, come al solito), e i personaggi non possono farci più niente.
Anche Gondry non poteva farci niente. Di suo ci ha messo una curiosa cornice – una catena di montaggio di dattilografi – che ci autorizza ad accostarlo all’altra importante trasposizione cinematografica di quest’anno, Il grande Gatsby di Luhrmann. Due testi brevi e ingombranti, due registi che non si lasciano intimidire e si prendono un sacco di rischi, ma continuando a rivendicare una fedeltà al testo quasi maniacale e molto artificiale. Entrambi cominciano in quinta e dopo un’ora sembrano senza benzina: cosa c’è che non va? Forse quello che non va siamo noi spettatori cosiddetti colti, con pretese precise, idee molto chiare su cosa vorremmo vedere, salvo poi annoiarci perché dopo i fuochi artificiali il film va esattamente dov’è previsto che vada. Ed entrambi i registi aggiungono alla storia originale soltanto una cornice che esibisce la composizione del romanzo (i flash forward farlocchi in cui il protagonista “diventa” Scott Fitzgerald e si mette a scrivere Il grande Gatsby), puntando il dito su quella cosa che non so se chiamino ancora “letterarietà”… ma in parole povere è come se Gondry e Luhrmann sentissero la necessità di dirci ehi, non prendetevela con noi, è un libro, ricordate? Nel libro le cose vanno così, non ci possiamo fare niente se dopo un po’ vi annoiate. Una volta pensavo che i libri andassero sempre letti prima dei film; adesso mi piacerebbe brevettare una pillola per scordarmeli all’istante quando entro in sala. Mi domando a quel punto come avrei reagito a Mood Indigo, forse come uno di quelli che ieri sera si alzavano e se ne andavano via, che razza di film assurdo. La cornicetta letteraria supplisce anche alla carenza di finali lieti e rassicuranti: certo, le due storie finiscono male, però… qualcun altro sopravvive e le scrive, e questo dovrebbe consolarci. Funziona? Insomma, se uno si dimentica che entrambi gli scrittori sono morti in miseria, e che tutto il successo postumo è in un qualche modo indesiderato, ingiusto, un equivoco…
Ma forse il problema è ancora a monte. Non riesco più a emozionarmi, non riesco più a innamorarmi, non ho più tempo, la maggior parte lo passo a spazzar polvere e ragnatele, ne crescono di fittissime in poche ore, e i vetri, i vetri sono così schifosi a vedersi, quasi mi consola indovinare che tra un po’ si chiuderanno del tutto.
(Oppure potrebbe trattarsi di Audrey Tatou, una scelta sbagliata, secondo me. Se mai riuscirà a liberarsi da Amélie, non è certo con un film surreale come questo. Rischia di sembrare un sequel, Il fantastico mondo 2 – L’Agonia, ecco, e Gondry non è Jeunet. Ha una valigia più piccola, mi dispiace).
La schiuma dei giorni è comunque un film che va a visto al cinema Fiamma di Cuneo, tutti i giorni alle 21, tranne sabato alle 20 e alle 22:40, e la domenica pomeriggio alle 15:10 e alle 18, senza intristirsi troppo, non siete mica obbligati a innamorarvi ammalarvi e morire.
Sei e più tipi di eroi al caffè
12-09-2013, 03:59blog, giornalisti, guerraPermalinkSpiana li monti, sfonna, spara, ammazza...Per molto tempo siamo riusciti a ignorare la Siria. C'era la campagna elettorale, poi la campagna post-elettorale, poi bisognava fare il governo, poi disfarlo... In mezzo a tutto questo, anche chi aveva lo stomaco per dare un'occhiata alle notizie dal Medio Oriente trovava quasi sempre guerre e rivoluzioni più promettenti. Finché Obama non si è arrabbiato per vie di certe armi chimiche, e insomma finalmente è venuto il momento di discutere di Siria: con la competenza e la serietà che contraddistingue noi eroi al caffè, opinionisti della domenica ma ormai anche del fondo del lunedì. Può anche darsi che fino a qualche ora fa ignorassimo l'ubicazione della Siria sul planisfero: non è cosa che ci scomponga, la geografia, figurati, bruscolini, pinzillacchere. Ciò che conta, quando si parla di Siria o di Egitto o Birmania o Sarcazzo, è la rapidità con la quale riusciamo a declinare le due o tre opinioni prefabbricate che scriviamo da vent'anni, sempre le stesse. Ci riconosci? Siamo un po' dappertutto, su blog e su carta e ogni tanto finiamo pure in diretta al parlamento; ci dividiamo in simpatiche tribù, vediamone alcune.
Per me - barbotta - c'è una strada sola...
E intigne li biscotti ne la tazza.
Gli Stranamore
E vabbe', in Siria gasano i civili, che problema c'è? Si bombarda. No, ma sul serio, stiamo ancora a discuterne? con tutti i Cruise negli arsenali Nato da rottamare? Bombardiamo, ha sempre funzionato, no? Vedi la Serbia.
"Veramente finché non sono entrate le truppe da terra, Milosevic è restato lì".
"Sì, vabbe', allora vedi l'Iraq".
"Ahem".
"Che c'è?"
"...no, niente".
Gli Stranamore amano il bombardamento per il bombardamento: quasi mai si ricordano come sia andata a finire la storia in Iraq o altrove, loro di solito ronfavano del sonno postcoitale dei giusti. Non c'è crisi umanitaria che non si possa risolvere con un'operazione chirurgica, mirata, un bel megatone di argomenti. Obama questa cosa non la capisce, perché è un pappamolle, un insicuro, uno che perde tempo a chiedere il parere del Congresso, vi rendete conto? Del Congresso. Non ti basta il parere di Gianni Riotta?
Gli amerikanisti
È successo qualcosa di brutto? A Damasco, o a New York, o a Pearl Harbor, o dovunque? Se è qualcosa di veramente brutto, il colpevole si è già tradito: infatti esiste una sola entità veramente malvagia in questo mondo, e tutto ciò che è veramente brutto non può che derivare da lei. Tale entità è ovviamente l'Amerika. Crollano le Twin Towers? È stata l'Amerika - oh, l'ha detto un deputato alla Camera, pare che non ci siano più dubbi: era un complotto dell'Amerika per gettare l'Amerika nel panico. In Siria gasano i civili? Chi può essere così malvagio da vendere gas venefici a uno storico alleato dei russi? È evidente, no? No? Non resta che lasciare la parola all'esperto:
Ora però la situazione si è fatta grave, perché un gran numero di civili, bambini in particolare, sono stati uccisi dal gas nervino che solo i mercenari, i tagliagole, i ribelli, bene armati e foraggiati attraverso mille triangolazioni dagli Stati Uniti possono aver diffuso. Quale interesse avrebbe avuto il governo siriano ad ammazzare civili, se non guadagnarsi impopolarità? Quindi sono stati gli Stati Uniti a fornire ai tagliagole questo gas letale. Le televisioni fanno di tutto con la loro informazione assassina per confondere le idee alla gente, quando la situazione invece è estremamente semplice, e non rimane che sperare sui deputati e senatori del Movimento 5 Stelle... (Mario Albanesi, non so chi sia ma era in home sul sito di Beppe Grillo, per cui tenderei a fidarmi)I semplicisti
Hanno letto che in Siria c'era un dittatore e hanno pensato: brutto! Poi hanno saputo che c'era una rivoluzione e si sono detti: bello! Però la rivoluzione è diventata una guerra civile e hanno pensato: mah, non tanto bello. A un certo punto hanno scoperto che tra i rivoltosi c'erano molti integralisti islamici: bruttissimo! Lo stavano per scrivere, quando il dittatore si è messo a gasare gli avversari, e adesso i semplicisti sono un po' in imbarazzo. Perché la vita è così complicata? Se solo si potesse trasformare una guerriglia senza quartiere tra un dittatore baathista sostenuto da russi ed hezbollah e uno schieramento eterogeneo sempre più dominato da jihadisti e predoni in qualcosa di più semplice, che so, Buoni contro Cattivi, o meglio ancora... Pace contro Guerra! Viva la pace! Muoia la guerra!
"E come la uccidi?"
"Uffa ma lo vedi che lo fai apposta?"
Gli elefanti
Non li sottovalutare. Vanno piano, ma non li smuovi, e si ricordano tutto. Hai un'opinione sulla Siria? Pensaci bene prima di condividerla. Potrebbe non essere coerente con quello che pensavi ai tempi di Srebrenica.
"Ma io ai tempi di Srebrenica... non ero ancora nato".
"Allora è stato tuo padre".
Gli elefanti sanno che nel 1991 hai occupato il liceo contro la Guerra nel golfo, e quindi le tue mani sono sporche di sangue bosniaco e kossovaro, e non intendono passarci sopra. In effetti non hanno la minima idea di cosa stia succedendo in Siria o altrove da almeno dieci anni in qua, continuano a prenderla coi pacifinti dei cortei del 2003. Si sono legati al dito delle cose che ormai si ricordano soltanto loro. L'unica guerra che gli interessa davvero è quella che hanno combattuto dall'11 settembre in qualche forum o blog dimenticato da Dio in cui si annidano ancora, gli ultimi giapponesi.
Gli israelomani
Una sottospecie di elefante che non si è mai veramente ripreso dall'Intifada. Esiste solo Israele. Purtroppo è minacciato nella sua stessa esistenza. Occorre difenderlo a ogni costo. Per esempio, se in Siria un dittatore massacra la popolazione coi gas, l'israelomane si gonfierà di sdegno, non tanto per il dittatore, ma per chi in Italia perde tempo a criticare Israele. Che magari potrebbe anche avere commesso qualche errorino, l'israelomane non lo esclude a priori, ma... con che faccia si può criticare Israele mentre a pochi chilometri di distanza accade ben peggio? E siccome ci sarà sempre qualcuno a mille o diecimila km di distanza che si comporta peggio di Israele, ne consegue che Israele non può essere criticato.
Ogni volta che ammazzano arabi fuori da Israele, l'israelomane dà l'impressione di goderne. Non perché muoiano arabi, no, come si può anche solo pensare che l'israelomane goda per la morte di arabi? Ma si tratta di dimostrare che Israele li tratta meglio: infatti è indubbio che ne ammazzi di meno. Chi perde tempo quindi a criticare Israele è antisemita, cvd.
L'israelomane ha una domanda retorica ricorrente: perché gli unici arabi che ci interessano sono quelli un po' oppressi da Israele? Perché i tiranni giordani, iracheni, libanesi, egiziani, siriani possono massacrarli senza destare la nostra indignazione? Perché siamo tutti antisemiti, certo. Inutile protestare, inutile cercare di dimostrare che (per quel poco che è servito) ci siamo indignati anche per quel che succedeva in Giordania o in Iraq o in Egitto o adesso in Siria. Anche negli ultimi mesi si è parlato nei quotidiani italiani più di Siria (comunque poco) che di Palestina, ma l'israelomane che ne sa. Filtra solo le notizie che parlano di Israele. Ne deduce che tutti criticano soltanto Israele.
I Cavalieri dell'Ovvio
Per ogni mille blog che ci fanno sapere che la guerra è brutta, c'è almeno un editoriale di Ernesto Galli Della Loggia che ci tiene a farci sapere che purtroppo è ineliminabile. Ci avevate mai pensato? Sì. Ma avevate mai pensato a quel che pensavate pensando di pensare?
C'è infine un argomento molto usato per dirsi in generale contro la guerra: «La guerra non ha mai risolto alcun problema». Nella sua perentorietà l'argomento è però palesemente falso. Dipende infatti dalla natura dei problemi: non pochi problemi la guerra li ha risolti eccome (penso a tante guerre per l'indipendenza nazionale, ad esempio); per gli altri bisogna intendersi su che cosa significa «risolvere»Un dibattito sul significato di "risolvere", professore, ma è sicuro che siamo pronti a un simile sforzo ermeneutico? Non è che prima ci dovremmo intendere su che cosa significa "significa"? Ed è nato prima l'uovo o la gallina? Ok, Sartori prima di entrambi, ma qual è l'anello di congiunzione? Sartori partorì il primo uovo da cui la prima gallina? Sartori si evolse in pollo da cui il primo uovo? Tutto ciò merita un supplemento di indagine.
(potrebbe pure continuare)
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Corre in cielo corre in cielo, oh! Battagliero
09-09-2013, 00:04Emilia paranoica, musica, Ottanta, santiPermalinkMa sul serio ti prendevamo sul serio? |
Giovanni Lindo Ferretti prende forse il nome da San Giovanni, che come lui perse la testa, o dall'Evangelista, che invecchiando appartato scrisse di rivelazioni e apocalissi con l'aria di chi la sa lunga e invece magari bastava variare il dosaggio; da Lindo, ovvero "pulito", perché seppe ripulirsi di tanta rumorosa malvagità diffusa negli anni della perdizione; e dai Ferri di cavallo, che lo sostennero nei terreni impervi quando più facile era ricadere nelle paludosi valli della concupiscenza.
GLF nacque, se Wikipedia non tira i pacchi, a Cerreto, in culo ai lupi, nel decennale del primo giorno della Resistenza antifascista; e fu buon figliolo e chierichetto e spesso deliziava i parrocchiani cantando gli inni a maggior gloria di Dio eccetera. Crescendo nell'appennino reggiano fu avviato sin dalla più tenera età alla professione maggiormente richiesta in quelle terre benedette da Dio, ovvero l'operatore psichiatrico, cioè psico-socio-assistenziale, cioè assisteva i matti in manicomio anche se non si può più chiamare manicomio e non è giusto chiamarli matti e però andateci voi sul Crinale, andateci, poi ditemi. Fu forse operando in quel settore strategico dell'economia reggiana che incrociò per la prima volta il demonio, che stese la sua ala sopra di lui e gli disse, Lindo, dam rèta, i matti che cerchi non sono qui, va' in stazione e prendi il primo treno per Berlino, amarcmand, Ovest. Lui obbedì ma in cuor suo temeva che una volta arrivato nell'avamposto della civiltà occidentale non si sarebbe trovato a suo agio per la mancanza di cavalli e l'inveterata tendenza dei nativi a parlare in tedesco. Ma non temere Lindo, gli disse il demonio, ti manderò un tizio che conosce il reggiano come te, puoi chiamarlo Zamboni, insieme passerete il Muro e scoprirete il fascino vintage dei colbacchi e della cartellonistica del socialismo reale con quindici anni di anticipo su tutti i potenziali competitors. Poi tornerete in Italia e trasferirete lo stesso tipo di ironia sull'Emilia oppressa dal giogo del Partito Comunista Più Grande d'Occidente. E così fu, e per anni GLF divenne il punto di riferimento di una generazione di sconquassati che non sempre andando a furiosa caccia di gomitate in mezzo alla pista percepivano l'ironia demoniaca di chi cantava Voglio rifugiarmi sotto il patto di Varsavia.
Fu forse lo stesso demonio a rendersene conto, nel mentre che l'Unione Sovietica liquidava il Comecon, e gli disse: Lindo, qui cominciano a mancare i punti di riferimento, basta pankeggiare contro tutti, qui tra un po' ci sarà fame di guru e tu hai la fisionomia giusta. Cosa devo quindi fare? Chiese GLF. Boh, rispose il demonio, prova a a prendere le cose più sul serio, riscopri i valori veri in cui crede la gente, che ne so, la Resistenza, la pace nel mondo, la natura incontaminata. "Posso metterci i cavalli?" chiese GLF. Va bene, perché no, se ci tieni, infilaci pure i cavalli, e il tramonto dell'Occidente. E mi raccomando, ieratico. "Cioè?"
"Eh, come faccio a spiegarti, hai presente Battiato quando ha cominciato a sedersi sul tappetino in mezzo al concerto?"
"Forte Battiato, posso metterci anche Battiato?"
"Certo, mi fa piacere se ti piace, è un altro mio cliente" (continua sul Post...)
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Difficilis, querulus, laudator temporis acti
08-09-2013, 00:38chiudere i licei (con i prof dentro), ho una teoria, lingue morte, scuolaPermalink
Ma siamo sicuri che sia una tragedia se calano un po' le iscrizioni ai licei classici? In realtà calano anche gli iscritti agli scientifici, ma inevitabilmente si finisce per discutere dei licei classici, e di paventarne la fine, e con essa il crollo della civiltà italiana tutta. Vedi Giorgio Israel sul Messaggero: "Se muore il liceo classico muore il paese". Può anche darsi. Per ora il classico non muore, ha soltanto registrato un calo di iscrizioni a livello nazionale intorno allo 0,6%. È grave? Lo stiamo perdendo? Vogliamo almeno aspettare giugno, e confrontare con il dato dei promossi? Forse l'anno scorso si era iscritto qualche migliaio di studenti in più che a dicembre aveva già capito di aver sbagliato scuola. O magari è la crisi economica che comincia a picchiare davvero, anche sui progetti familiari a lungo termine: se meno famiglie scelgono il liceo (classico o scientifico), è perché non sono più sicure di potersi permettere di mantenere il figlio all'università. Potrebbe trattarsi insomma di una questione economica, ma in rete e sui giornali continuo a leggere allarmi accorati sulla fine della cultura classica assassinata dal pensiero unico, dalla barbarie tecnoscientifica del 'sapere applicato', eccetera eccetera eccetera.
Chi scrive questo genere di cose continua a difendere la vecchia idea del liceo classico che 'apre la mente', anche se non offre competenze immediatamente spendibili, anzi proprio per questo: un luogo comune contro-intuitivo che però è strenuamente difeso da esperti che molto spesso nei classici per coincidenza ci lavorano. Nessuno sembra voler ricordare che il liceo classico, oltre a essere quella famosa fucina di intelligenze eclettiche che il mondo ci invidierebbe, è stato sempre uno status symbol: ci andavano i rampolli delle buone famiglie, non necessariamente i più dotati o motivati. Gli stessi poi proseguivano attraverso l'università, approdando a un buon posto di lavoro a cui erano destinati, spesso non per i meriti maturati studiando i classici. Se in qualche realtà - specie in provincia - questo tipo di civiltà stesse tramontando, io non la troverei una cattiva notizia. Sono sicuro che di studenti di materie classiche abbiamo bisogno. Ma non di tantissimi. Anzi, meglio se pochi, ma bravi veramente.
Io non credo che il liceo classico 'apra la mente' più di altri indirizzi di studio (continua sull'Unita.it, H1t#196)
Chi scrive questo genere di cose continua a difendere la vecchia idea del liceo classico che 'apre la mente', anche se non offre competenze immediatamente spendibili, anzi proprio per questo: un luogo comune contro-intuitivo che però è strenuamente difeso da esperti che molto spesso nei classici per coincidenza ci lavorano. Nessuno sembra voler ricordare che il liceo classico, oltre a essere quella famosa fucina di intelligenze eclettiche che il mondo ci invidierebbe, è stato sempre uno status symbol: ci andavano i rampolli delle buone famiglie, non necessariamente i più dotati o motivati. Gli stessi poi proseguivano attraverso l'università, approdando a un buon posto di lavoro a cui erano destinati, spesso non per i meriti maturati studiando i classici. Se in qualche realtà - specie in provincia - questo tipo di civiltà stesse tramontando, io non la troverei una cattiva notizia. Sono sicuro che di studenti di materie classiche abbiamo bisogno. Ma non di tantissimi. Anzi, meglio se pochi, ma bravi veramente.
Io non credo che il liceo classico 'apra la mente' più di altri indirizzi di studio (continua sull'Unita.it, H1t#196)
Non capisco in che modo lo studio della grammatica e della letteratura latine o greche riuscirebbero a sviluppare le capacità critiche degli studenti meglio di qualsiasi altra materia. E siccome il mio parere lascia il tempo che trova, scomoderò l’auctoritas del professor Alfonso Traina: “Il latino non è più “logico” di qualunque altra lingua. Tutte le lingue hanno una loro “logica”, cioè un loro sistema: formativo è lo studio contrastivo di sistemi linguistici diversi, della lingua madre, per noi l’italiano, e di una lingua seconda, che può essere il latino come il greco antico o qualunque lingua moderna. È lo studio contrastivo a stimolare la riflessione sui meccanismi del linguaggio, la consapevolezza delle relatività delle categorie grammaticali e delle “visioni del mondo” che vi si esprimono. Anzi, a tale scopo sarebbe forse più utile una lingua geneticamente diversa dall’italiano”(¹).
È vero, molti studenti con la maturità classica ottengono ottimi risultati anche nelle facoltà scientifiche, ma trovo più semplice dedurne che si tratti di alunni brillanti, che avrebbero avuto ottimi risultati in qualsiasi cosa si fossero applicati: il fatto che in Italia li si addestri per cinque anni nella traduzione di testi in lingue morte mi sembra una resistenza culturale, forse uno spreco di risorse e di potenzialità. Non penso che il liceo classico favorisca una qualche forma di eclettismo culturale: mi sembra viceversa un indirizzo di studi molto specifico, da cui in teoria si dovrebbe uscire con competenze già molto raffinate. E ho la sensazione che questo non accada più, perché tutti questi latinisti e grecisti in giro non li vedo – d’accordo, non li vedo perché il mercato del lavoro non ne ha bisogno; ma dopo cinque anni di immersione in un mondo così diverso e affascinante, dovrei almeno sentirli scambiare qualche sentenza in latino ogni tanto, quando scrivono sui blog o sui giornali o quando cercano di colpirti con un detto memorabile in tv. Di solito copiano frasi fatte dai titoli di giornale, Cicerone mai: questo è ben strano. Una volta perlomeno non era così.
Credo che per constatare la crisi irreversibile della cultura classica in Italia – molto prima che il liceo accusasse una flessione di iscrizioni – si possa semplicemente dare un’occhiata alle annate della Gazzetta dello Sport e degli altri quotidiani dello stesso settore. Fino al 1985 nei fondi troveremo latinismi a iosa, se non proprio a vanvera, citazioni omeriche a buon mercato e voli pindarici ogni volta che uno scalatore si aggiudicava la tappa. I cronisti della vecchia scuola il latino lo avevano studiato, qualche volta persino il greco, e in un qualche modo erano riusciti a rivenderlo. La generazione successiva non si è mai permessa di scomodare l’Iliade per parlare delle imprese di un centravanti. Forse erano preoccupati di non arrivare al lettore medio? Ma nel frattempo la base dei lettori si era persino ristretta. Comunque è gente che ha sopratutto bisogno di foto grosse e didascalie molto chiare. Il giornalismo sportivo campa da sempre di frasi fatte e retorica a buon mercato: fino a 25 anni fa li rubacchiava anche dalle pagine dei classici, poi ha smesso. Non ci sono più aitanti e indomiti centromediani metodisti, adesso sono tutti top player. Questo non è il motivo per cui il liceo classico è in crisi: diciamo che è un sintomo suggestivo. Può darsi che al classico il latino e il greco si continuino a studiare bene come in passato. La differenza è che non escono più da porte e finestre, verso la piazza; non investono più i lettori casuali che ancora nel 1968 imparavano a dire “Timeo Danaos et dona ferentes” perché lo avevano letto su un fumetto di Asterix(²). È un processo lungo, e oltre a stracciarsi le vesti, i nostri esperti di scuola e didattica potrebbero riflettere sulle implicazionidi aver tolto la storia antica dalla secondaria inferiore: il tredicenne che oggi deve scegliere tra un liceo o un istituto, il più delle volte non sa chi sia Giulio Cesare; pretendere che si innamori del latino così, di punto in bianco, forse è un po’ ingiusto. http://leonardo.blogspot.com
(¹) Latino perché? Latino per chi?, “Nuova Paideia”, II, 5, 1983, poi in Traina-Perini, Propedeutica al latino universitario, Bologna, 1992. Anche se prosegue così: “Ma proprio perché il latino non è che una fase antica dell’italiano, ci aiuta a renderci conto dello strumento linguistico che usiamo. E al limite, a usarlo meglio”.
(²) Asterix il legionario, Milano 1968.
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Un Pane così amaro
06-09-2013, 12:12cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, lavoroPermalinkL'intrepido (Gianni Amelio, 2013)
C'è gente che lavora a questo mondo. Che solleva pesi sulle impalcature, che ti porta la pizza in motorino, che gioca coi tuoi bambini mentre fai la spesa, gente che spazza lo stadio quando te ne vai. Ti pela le carote che trovi impiattate al ristorante; gente che quando va male al ristorante prova a venderti le rose. C'è gente che lavora, e il giorno che non riesce a lavorare chiama Antonio Albanese che di lavoro fa il rimpiazzo. In questo film si chiama Pane, ma potrebbe ancora chiamarsi come il protagonista di un altro film di Amelio, Buonavolontà: è l'eroe senza macchia e con qualche paura, che però deve farsi subito passare. Non è affatto intrepido, trema continuamente, ma tira fiato e va avanti. Il male gli scorre intorno senza sporcarlo: lo tenta con gli occhi disperati di una ragazza, il male lo assume tutti i giorni e qualche volta lo paga persino, ma non c'è niente da fare. Pane è così puro, così tranquillamente tetragono a ogni spunto di disperazione, che ti fa sorgere il sospetto che la sua bontà sia soltanto un'ossessione, che lui sia il più malato di tutti. Proprio come il Buonavolontà della Stella che non c'è, la sua energia è un motore che gira a vuoto e che forse non serve più a nessuno.
Antonio Pane, se potesse scegliersi il lavoro, vorrebbe fare il cartello stradale in un giorno di sagra, quando al paese arriva tanta gente che non sa dove trovare le cose: Antonio Pane vorrebbe aiutarli tutti, abbracciarli tutti, ma anche quelle sagre ormai utilizzano tabelloni elettronici. Sono più convenienti. Antonio Pane è disposto a cercare il lavoro ovunque si sia cacciato, eventualmente in Albania. Ha una moglie che lo ha lasciato per qualcuno più furbo, e un figlio che non riesce a dar forma ai suoi sogni; un'amica misteriosamente disperata che rovescia le tazzine al bar ma almeno non fa le piazzate, questo è importante. Un film italiano senza personaggi che si urlano in faccia è sempre una buona notizia. Allora cosa c'è che non va. Non lo so (continua su +eventi!)
Forse è il periodo. Fosse uscito qualche anno fa, sarebbe stato più semplice simpatizzare col protagonista e il suo ottimismo a ogni costo. Lo abbiamo passato tutti un momento in cui ogni giorno ci alzavamo ed eravamo pronti per un lavoro diverso. Ripensandoci, era divertente. Sarebbe ancora divertente guidare un tram una volta nella vita. Guardare Milano dall’alto di un cantiere, entrare in un team di cucitrici professioniste: c’è qualcosa da imparare in ogni luogo al mondo, tranne forse nella nicchia dove a un certo punto la vita ci ha lasciato. Ma è passato qualche anno e le fabbriche ancora non riaprono, e Pane sembra uno Charlot veramente fuori tempo massimo.
Forse è il pubblico. Chaplin faceva film per tutti, borghesi e operai. Nel suo Tramp non doveva essere difficile riconoscersi; quando alzava le spalle e ti chiedeva di sorridere, tu di lui ti fidavi: ricacciavi le lacrime e gli davi la mano. I film italiani di oggi hanno un pubblico più delimitato. Amelio cerca di mostrarci il mondo dal lato dei lavoratori, ma dall’altra parte dello schermo c’è un pubblico abbastanza benestante da permettersi sette euro e mezzo di biglietto, che empatizza più volentieri coi clienti del ristorante. I lavoratori restano marziani, molto spesso stranieri, e non è certo colpa di Amelio se le cose stanno così. Chaplin indicava un futuro all’orizzonte, Pane sembra una bestiolina in via d’estinzione, da tutelare, il tuttofare italiano doc. Ha radici in Puglia e in Brianza, parla correntemente cinque dialetti, e non sa stare fermo. Se non stai attento si attacca ai tuoi macchinari mentre tu sei in pausa pranzo, e poi staccalo.
Pane è Antonio Albanese, che tra poco compirà cinquant’anni e avrà fatto cinema da venti. A dirlo sembra incredibile, Vesna va veloce è del 1996 e l’Italia continua a essere il posto sbagliato dove coltivare affetti e speranze. Lui non è quasi cambiato; ha interpretato ruoli buffi, tristi ed esilaranti, ma nessuno veramente memorabile, e neanche questo lo è. È molto triste: si meritava di meglio, ci aspettavamo di più. Forse in un altro periodo avrebbe trovato autori (sceneggiatori, soprattutto) che gli avrebbero dato quella spinta in più. Forse in quel periodo avrebbe patito la concorrenza di attori più dotati e sarebbe rimasto un degno caratterista. Forse alla fine è questa la storia di Albanese al cinema: uno che era lì per fare un lavoretto, un rimpiazzo, e poi non si è trovato di meglio, e lui è rimasto. In fondo sa fare tutto, anche se non sembra al suo posto da nessuna parte.
L’intrepido è al Multisala Impero di Bra alle 20:20 e alle 22:30; al cinema Aurora di Savigliano alle 21:15. Non è così deprimente, ma ti lascia in bocca un certo amaro. Sono tornato a casa e mi sono visto quattro puntate di Law and Order, gente che ha un lavoro ben pagato e lo fa bene e i cattivi perdono sempre.
C'è gente che lavora a questo mondo. Che solleva pesi sulle impalcature, che ti porta la pizza in motorino, che gioca coi tuoi bambini mentre fai la spesa, gente che spazza lo stadio quando te ne vai. Ti pela le carote che trovi impiattate al ristorante; gente che quando va male al ristorante prova a venderti le rose. C'è gente che lavora, e il giorno che non riesce a lavorare chiama Antonio Albanese che di lavoro fa il rimpiazzo. In questo film si chiama Pane, ma potrebbe ancora chiamarsi come il protagonista di un altro film di Amelio, Buonavolontà: è l'eroe senza macchia e con qualche paura, che però deve farsi subito passare. Non è affatto intrepido, trema continuamente, ma tira fiato e va avanti. Il male gli scorre intorno senza sporcarlo: lo tenta con gli occhi disperati di una ragazza, il male lo assume tutti i giorni e qualche volta lo paga persino, ma non c'è niente da fare. Pane è così puro, così tranquillamente tetragono a ogni spunto di disperazione, che ti fa sorgere il sospetto che la sua bontà sia soltanto un'ossessione, che lui sia il più malato di tutti. Proprio come il Buonavolontà della Stella che non c'è, la sua energia è un motore che gira a vuoto e che forse non serve più a nessuno.
Antonio Pane, se potesse scegliersi il lavoro, vorrebbe fare il cartello stradale in un giorno di sagra, quando al paese arriva tanta gente che non sa dove trovare le cose: Antonio Pane vorrebbe aiutarli tutti, abbracciarli tutti, ma anche quelle sagre ormai utilizzano tabelloni elettronici. Sono più convenienti. Antonio Pane è disposto a cercare il lavoro ovunque si sia cacciato, eventualmente in Albania. Ha una moglie che lo ha lasciato per qualcuno più furbo, e un figlio che non riesce a dar forma ai suoi sogni; un'amica misteriosamente disperata che rovescia le tazzine al bar ma almeno non fa le piazzate, questo è importante. Un film italiano senza personaggi che si urlano in faccia è sempre una buona notizia. Allora cosa c'è che non va. Non lo so (continua su +eventi!)
Forse è il periodo. Fosse uscito qualche anno fa, sarebbe stato più semplice simpatizzare col protagonista e il suo ottimismo a ogni costo. Lo abbiamo passato tutti un momento in cui ogni giorno ci alzavamo ed eravamo pronti per un lavoro diverso. Ripensandoci, era divertente. Sarebbe ancora divertente guidare un tram una volta nella vita. Guardare Milano dall’alto di un cantiere, entrare in un team di cucitrici professioniste: c’è qualcosa da imparare in ogni luogo al mondo, tranne forse nella nicchia dove a un certo punto la vita ci ha lasciato. Ma è passato qualche anno e le fabbriche ancora non riaprono, e Pane sembra uno Charlot veramente fuori tempo massimo.
Forse è il pubblico. Chaplin faceva film per tutti, borghesi e operai. Nel suo Tramp non doveva essere difficile riconoscersi; quando alzava le spalle e ti chiedeva di sorridere, tu di lui ti fidavi: ricacciavi le lacrime e gli davi la mano. I film italiani di oggi hanno un pubblico più delimitato. Amelio cerca di mostrarci il mondo dal lato dei lavoratori, ma dall’altra parte dello schermo c’è un pubblico abbastanza benestante da permettersi sette euro e mezzo di biglietto, che empatizza più volentieri coi clienti del ristorante. I lavoratori restano marziani, molto spesso stranieri, e non è certo colpa di Amelio se le cose stanno così. Chaplin indicava un futuro all’orizzonte, Pane sembra una bestiolina in via d’estinzione, da tutelare, il tuttofare italiano doc. Ha radici in Puglia e in Brianza, parla correntemente cinque dialetti, e non sa stare fermo. Se non stai attento si attacca ai tuoi macchinari mentre tu sei in pausa pranzo, e poi staccalo.
Pane è Antonio Albanese, che tra poco compirà cinquant’anni e avrà fatto cinema da venti. A dirlo sembra incredibile, Vesna va veloce è del 1996 e l’Italia continua a essere il posto sbagliato dove coltivare affetti e speranze. Lui non è quasi cambiato; ha interpretato ruoli buffi, tristi ed esilaranti, ma nessuno veramente memorabile, e neanche questo lo è. È molto triste: si meritava di meglio, ci aspettavamo di più. Forse in un altro periodo avrebbe trovato autori (sceneggiatori, soprattutto) che gli avrebbero dato quella spinta in più. Forse in quel periodo avrebbe patito la concorrenza di attori più dotati e sarebbe rimasto un degno caratterista. Forse alla fine è questa la storia di Albanese al cinema: uno che era lì per fare un lavoretto, un rimpiazzo, e poi non si è trovato di meglio, e lui è rimasto. In fondo sa fare tutto, anche se non sembra al suo posto da nessuna parte.
L’intrepido è al Multisala Impero di Bra alle 20:20 e alle 22:30; al cinema Aurora di Savigliano alle 21:15. Non è così deprimente, ma ti lascia in bocca un certo amaro. Sono tornato a casa e mi sono visto quattro puntate di Law and Order, gente che ha un lavoro ben pagato e lo fa bene e i cattivi perdono sempre.
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Riassunto delle puntate precedenti
02-09-2013, 03:09autoreferenziali, governo Letta, scuolaPermalink
L'Italia è il Paese in cui abito. Poteva andarmi peggio, ma in sostanza si tratta di una piccola terra senza grandissime risorse che in passato si trovò a essere al centro di traffici e imperi, e fino alla fine della guerra fredda occupava comunque una posizione strategica importante. Ora rimane un ponte tra il nord ricco e il sud povero della terra, un ruolo che non garantisce particolare benessere e sicurezza ai suoi abitanti (storicamente è la categoria del Messico, senza offesa). Nel momento in cui il baricentro dell'economia mondiale si riequilibra verso l'Asia, forse c'era un modo di valorizzare la nostra posizione, ma non lo abbiamo trovato. La classe dirigente ha le sue responsabilità: gli imprenditori più avveduti si sono semplicemente spostati in luoghi dove il lavoro era più conveniente; i politici non hanno trovato di meglio che individuare capri espiatori (è tutta colpa dei comunisti, è tutta colpa di Roma Ladrona, è tutta colpa di Berlusconi) trasformando il dibattito in un infinito match di populismo in cui alla fine sono stati travolti da pagliacci di mestiere (è colpa dei politici! è colpa dell'euro!) La produzione di miti su quanto staremmo bene se soltanto la facessimo pagare ai colpevoli (banchieri, dipendenti pubblici, pensionati, auto blu, extracomunitari) prosegue incessante ed è fin troppo prevedibile, succede più o meno così quasi sempre in situazioni simili. Altrettanto prevedibile il razzismo, che non mi piace chiamare xenofobia fintanto che investe in gran parte mediterranei come noi, fin troppo simili a noi: è la loro povertà, non i loro tratti somatici, a farci paura; ci parlano del nostro passato e ci avvisano di un prevedibile futuro.
L'Italia è il Paese che tanti più svegli di me si sono sbrigati a lasciare. Io mi sono sempre consolato pensando che se i migliori se ne andavano sarebbe rimasto più spazio per mediocri come me: ciò non sta avvenendo. Avrò fatto male i conti. Al centro di questa pianura, mi basta comunque poco per sentirmi privilegiato: una famiglia, un posto fisso, un tetto, un blog dove scrivere quello che mi pare. Non è che ne capisca spesso più dei lettori, questo è implicito ma ogni tanto va ripetuto. Vorrei che in Italia esistesse un partito socialdemocratico che riuscisse a contare qualcosa in Europa: la cosa che gli si avvicinava di più era il Pd di Bersani, ma non è andato molto bene. Quel che è successo dopo l'ultimo voto mi sembra che ci dia una lezione importante: quando gli italiani non sanno da chi farsi governare, ci pensano i democristiani. È una cosa incredibile, perché una volta almeno qualcuno li votava, adesso invece no, in teoria non li vuole più nessuno, ed eccoli lì. Loro se ti distrai un attimo ti fottono, incertezze non le hanno, e quindi sarebbe meglio che non ce le permettessimo neanche noi. Ma noi chi, dopotutto. Già.
Sta per ricominciare la scuola, ho fatto un piccolo esame di coscienza. Tra le tante competenze che dovrei trasmettere ai miei studenti c'è la speranza. Io in questi anni l'ho un po' snobbata, all'inizio pensavo addirittura che non fosse il caso. In fondo sono ragazzini, mi dicevo, le speranze dovrebbero portarsele da casa: speranze immense, impossibili da gestire, al punto che credevo che il ruolo dell'adulto fosse quello di smorzarle un po'. Ricordavo certi miei insegnanti, appesi a speranze un po' datate, speravo di sembrare un po' più sgamato: ma la verità è che non saprei semplicemente spiegare che senso ha il mio insegnare, il loro apprendere, nel Paese in cui sempre più controvoglia abitiamo. Non voglio dire che una speranza non ci sia - non mi alzerei da letto se non ne avessi - ma la mia è così personale, così legata alla mia individuale esistenza che da dentro risulta così complessa e contorta che mi ci perdo e mi annoio io per primo - insomma io sono un tizio che si diverte, spero che un po' si capisca dalle cose che finiscono pubblicate qui.
Mi piace imparare le cose, insegnarle, impararle di nuovo, mi piace cercare di capire, e litigare, soprattutto con gli sconosciuti sull'internet. Tutto questo divertimento, che vergogna, mi compensa evidentemente del vivere in un Paese che va in malora. Ma questo vale solo per me, non è una cosa che si possa dividere o condividere. I ragazzini avrebbero bisogno di speranze un po' più sode; forse anche voi che leggete ne avreste bisogno. In giro ci sono solo quattro deficienti che promettono che senza l'euro o senza l'ici o senza gli africani o senza i magistrati comunisti l'Italia tornerà la quinta potenza industriale. A me basta star qui e dire che non è vero. Ma appena uno mi risponde: cosa proponi? io che posso dire. Propongo di restare qui, e continuare a dirvi che non è vero, che state soltanto dicendo fregnacce; che è prevedibile che le diciate, considerato il momento storico politico ed economico; è prevedibile ma non vi scusa. Forse avevo bisogno di un Paese di mediocri più mediocri di me, e l'ho trovato, senza neanche troppo viaggiare. Forse. Forse l'Italia è il Paese che mi merito.
L'Italia è il Paese che tanti più svegli di me si sono sbrigati a lasciare. Io mi sono sempre consolato pensando che se i migliori se ne andavano sarebbe rimasto più spazio per mediocri come me: ciò non sta avvenendo. Avrò fatto male i conti. Al centro di questa pianura, mi basta comunque poco per sentirmi privilegiato: una famiglia, un posto fisso, un tetto, un blog dove scrivere quello che mi pare. Non è che ne capisca spesso più dei lettori, questo è implicito ma ogni tanto va ripetuto. Vorrei che in Italia esistesse un partito socialdemocratico che riuscisse a contare qualcosa in Europa: la cosa che gli si avvicinava di più era il Pd di Bersani, ma non è andato molto bene. Quel che è successo dopo l'ultimo voto mi sembra che ci dia una lezione importante: quando gli italiani non sanno da chi farsi governare, ci pensano i democristiani. È una cosa incredibile, perché una volta almeno qualcuno li votava, adesso invece no, in teoria non li vuole più nessuno, ed eccoli lì. Loro se ti distrai un attimo ti fottono, incertezze non le hanno, e quindi sarebbe meglio che non ce le permettessimo neanche noi. Ma noi chi, dopotutto. Già.
Sta per ricominciare la scuola, ho fatto un piccolo esame di coscienza. Tra le tante competenze che dovrei trasmettere ai miei studenti c'è la speranza. Io in questi anni l'ho un po' snobbata, all'inizio pensavo addirittura che non fosse il caso. In fondo sono ragazzini, mi dicevo, le speranze dovrebbero portarsele da casa: speranze immense, impossibili da gestire, al punto che credevo che il ruolo dell'adulto fosse quello di smorzarle un po'. Ricordavo certi miei insegnanti, appesi a speranze un po' datate, speravo di sembrare un po' più sgamato: ma la verità è che non saprei semplicemente spiegare che senso ha il mio insegnare, il loro apprendere, nel Paese in cui sempre più controvoglia abitiamo. Non voglio dire che una speranza non ci sia - non mi alzerei da letto se non ne avessi - ma la mia è così personale, così legata alla mia individuale esistenza che da dentro risulta così complessa e contorta che mi ci perdo e mi annoio io per primo - insomma io sono un tizio che si diverte, spero che un po' si capisca dalle cose che finiscono pubblicate qui.
Mi piace imparare le cose, insegnarle, impararle di nuovo, mi piace cercare di capire, e litigare, soprattutto con gli sconosciuti sull'internet. Tutto questo divertimento, che vergogna, mi compensa evidentemente del vivere in un Paese che va in malora. Ma questo vale solo per me, non è una cosa che si possa dividere o condividere. I ragazzini avrebbero bisogno di speranze un po' più sode; forse anche voi che leggete ne avreste bisogno. In giro ci sono solo quattro deficienti che promettono che senza l'euro o senza l'ici o senza gli africani o senza i magistrati comunisti l'Italia tornerà la quinta potenza industriale. A me basta star qui e dire che non è vero. Ma appena uno mi risponde: cosa proponi? io che posso dire. Propongo di restare qui, e continuare a dirvi che non è vero, che state soltanto dicendo fregnacce; che è prevedibile che le diciate, considerato il momento storico politico ed economico; è prevedibile ma non vi scusa. Forse avevo bisogno di un Paese di mediocri più mediocri di me, e l'ho trovato, senza neanche troppo viaggiare. Forse. Forse l'Italia è il Paese che mi merito.
Comments (58)
Documento recuperato
31-08-2013, 18:02poesia, Svuotando i solaiPermalink
sirena capricciosa
‘¥æ‡¤þ, siccome il vento mi riavvita,
- galletto banderuola -
di' solo una parola
e svolgimi o riavvolgimi la vita.
Boschetto in riva al mare
– proibito campeggiare –
‘¥æ‡¤þ, il tuo Sebastiano Puntaspilli,
percosso in modi vari,
dà suoni straordinari:
intona quindi, e intendi quanti strilli.
‘¥æ‡¤þ chi dice ciao ti dice: schiavo.
‘¥æ‡¤þ prima ti sogno e poi mi lavo....
Lo spleen di Sorbara di Bomporto
31-08-2013, 01:21Emilia paranoica, poesia, Svuotando i solaiPermalink1993
I mille fogli sparsi in cui il destino
mio ricercavo in un segno, una traccia
stan nel cestino
della cartaccia.
Le corde e i tasti che in giorni volati
tanto sondai, cercandone l'incanto
giaccion scordati
lì, in un canto.
Dei cieli troppo azzurri sono stanco
dei tuoi occhi verdi non ne posso più:
mi sa che lascio questo foglio in bianco
e imparo a manovrare le autogrù.