Gemma

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Nel 1902?
11 aprile - Santa Gemma Galgani, mistica, ragazza (1878-1903)

Rientrano fra le gemme tutte quelle specie e varietà minerali (oltre ad alcune rocce ed alcuni materiali di origine vegetale od animale) che, suscettibili di taglio o lucidatura, possono essere utilizzate in lavori di gioielleria.
La preziosità di queste pietre è determinata dalla loro purezza e dall'intensità del loro colore oltre che dalla loro rarità.


Santa Gemma ha rischiato di chiamarsi Sant'Umberta Pia. Almeno il nonno pare che la volesse chiamare così in onore del nuovo re. Il nome Gemma, suggerito da uno zio, lasciava perplessa la madre, che non trovava nessuna santa omonima sul calendario. Si tratta in realtà di un nome attestato in Toscana già nel medioevo: ma nel lucchese, a fine Ottocento, un nome senza santo in paradiso era una scelta da anarchici o da socialisti. Non era il caso dei Galgani, stirpe di dottori e farmacisti generalmente timorati di Dio. A tagliar corta la questione fu il parroco: se non c'è ancora una santa Gemma, pazienza: magari il posto se lo prenderà la vostra bambina. Bella leggenda, parzialmente guastata dal fatto che il 13 maggio si veneri Santa Gemma di San Sebastiano di Bisegna (AQ).

La gemma è un organo vegetativo che rappresenta il primordio di un nuovo asse vegetale, da cui possono avere origine foglie, rami e fiori.

Gemma Galgani invece è una santa di fine Ottocento. Un secolo complicato per questa rubrica, ci avete fatto caso? Dal Novecento in poi è facile parlare di santi: sono nostri contemporanei, protagonisti o comparse di una storia condivisa. Per contro, i santi anteriori all'Illuminismo sono completamente alieni alla nostra sensibilità, il che in fondo ci libera dalla fatica di capirli: possiamo reinventarli un po' come preferiamo. Tra gli alieni del passato e i nostri contemporanei c'è una frontiera mobile lunga un secolo, che per ora occupa tutto l'Ottocento. I santi ottocenteschi (Giovanni Bosco, Jean-Marie Vianney, Teresina del bambin Gesù, Pio IX) sono particolarmente indigesti, refrattari a qualsiasi trattamento meno che devoto. O li stronchi o li veneri, una terza via è quasi impossibile.
la foto più iconica

L'Ottocento, in generale, è un secolo che sta scivolando giorno dopo giorno oltre l'orizzonte della nostra sensibilità: e forse per un effetto ottico, nell'ultimo istante prima di sparire ci sembra che scorra più lentamente, come il sole al tramonto. La restaurazione e il risorgimento, il romanticismo e il patriottismo, ci abbandonando lentamente, un po' alla volta: facciata ritinteggiata dopo facciata ritinteggiata, convento dopo convento ristrutturato e adibito a hotel o sala convegni. Delle passioni di un secolo ormai ci restano formule vuote, frasi tronfie su targhe di marmo e la geolocalizzazione di ogni tetto sotto cui dormì Garibaldi. Forse ci fu anche un Ottocento felice, di garzoncelli scherzosi, ma il loro lieto rumore è il primo a essere svanito nel frastuono contemporaneo. A resistere, tenace, è una sensazione di tristezza che impregna ancora certi androni: l'Ottocento è lo spettro di molte scuole che abbiamo frequentato, infestate ancora negli sgabuzzini da anime in ginocchio sui ceci. Come si chiamavano? Non lo sanno più, ma i colletti lisi delle loro camicie non potrebbero appartenere a nessun altro secolo.

Le scuole poi stanno migliorando, secondo me, anche nei colori: certi gialli sporchi, certi verdi marci penitenziari ho smesso di vedermeli attorno da un pezzo. Dobbiamo restare lì seduti per sei mattine a settimana e quindi facciamo il possibile per trovarci tutti a nostro agio: un bell'azzurro pastello è in molti casi la soluzione migliore. Ma i muri, e certi sbraghi dell'intonaco da cui affiora l'anima in mattoni, ci ricordano ogni mattina la natura concentrazionaria della nostra istituzione.

In una scuola così, diversi anni fa, ebbi un'allieva che somigliava un po' ai fotoritratti di Gemma Galgani, Di molte altre ricordo ancora meno che il volto. Non sono fisionomista e ho già avuto mezzo migliaio di alunni/e. Altri mi tornano in mente tutti i giorni, come le battaglie devono tornare in mente a un soldato (nel mio caso sono più o meno tutte sconfitte: forse è normale, o forse sono io). Di questa ragazza ricordo lo sguardo vitreo che mi rivolgeva dall'ultimo banco, e che a volte mi dava qualche pensiero: era in trance? o mi guardava? mi giudicava? aveva senz'altro avuto insegnanti migliori. Ripeteva le lezioni diligentemente e consegnava elaborati molto corretti, benché fosse chiaro che la sua anima fosse da qualche altra parte. A me andava bene così, non sono uso nutrirmi dell'anima dei miei studenti.

Gemma con la sorella Angiolina che da piccola la picchiava e che dopo il processo di canonizzazione campava smerciando reliquie della sorella.
Anche Gemma a scuola se la cavava. "Molto silenziosa e sempre obbediente", ebbe a dichiarare la direttrice che la dispensò negli ultimi anni dalla tassa scolastica. Altre colleghe non erano d'accordo: la trovavano "canzonatoria" e "ipocrita" e sabotarono la sua richiesta di ammissione nel convento delle oblate. L'apparente incoerenza delle testimonianze si lascia facilmente comporre con un po' di esperienza di consiglio di classe: alcuni insegnanti si contentano del tuo silenzio, della tua obbedienza. Altri no, vogliono scavarti dentro. Chissà cosa cercano poi, cosa pretendono: e se non riescono ad aprirti, ogni tuo vago sorriso diventa canzonatorio; ogni lezione memorizzata diventa ipocrisia. Il percorso di studi di Gemma si sarebbe interrotto di lì a poco in seguito alla morte del fratello Gino, seminarista, per tisi: aveva 17 anni. Gemma, che ne aveva due di meno, cercò coscientemente di trarre il contagio dai suoi indumenti. Lo stesso male le aveva portato via la madre quando aveva otto anni. Non morì, ma interruppe gli studi. Quattro anni dopo avrebbe perso il padre, raro esempio di farmacista senza senso degli affari: lasciava quattro figli sul lastrico. Gemma cominciava a sentire fitte lancinanti ai reni e alla testa. L'unico conforto erano i discorsi edificanti di Giulia Sestini, una sua ex maestra che l'andava ancora a visitare, molto legata ai padri passionisti: la biografia di un sacerdote passionista in via di beatificazione, Gabriele dell'Addolorata, letta tra un'emicrania e l'altra, la impressionò tantissimo.

La Sestini non fu l'unica maestra che segnò profondamente la vita di Gemma (continua sul Post...)
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L'artigianissima indipendenza veneta

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Ritorno a Capannonia. 

Tutto può darsi. Compreso che un giorno risorga davvero una Serenissima Repubblica Veneta libera e indipendente, da Belluno a Dubrovnik (ma perché non Nicosia). Che nei futuri libri di Storia, nelle wikipedia future dettate nella nobile lingua di Goldoni e Zanzotto, i secoli oscuri tra Campoformio e la prossima secessione siano definiti come un insulso interregno, un periodo in cui i veneti furono soggiogati da francesi, austriaci e - somma ingiuria - italiani, persino italiani. Può darsi che un giorno lo stendardo di San Marco sventoli di nuovo sui municipi dalla Val Trompia alla Dalmazia, e che alla loro ombra si scoprano monumenti agli indipendentisti di Brescia Patria e Veneto Stato, che oggi ridicolizziamo e che quel giorno saranno onorati come patrioti ed eroi. Tutto può darsi, compreso che le cose vadano davvero così.

Consentitemi però di dubitarne.

www.linkiesta.it
Se non altro perché - che io sappia - fin qui non è esistito un solo movimento rivoluzionario o indipendentista al mondo che abbia previsto come prima fase di lotta la trasformazione artigianale di un trattore in un carro armato. È ben strano, no? che un'idea tanto buona non sia venuta in mente per prima a Michael Collins, o Mao Tse-Tung, o Che Guevara. E non una volta sola, ma due volte in vent'anni, malgrado tutte le considerazioni di natura anche semplicemente tattico-logistica, determinate peraltro dall'esclusiva natura che fa della capitale dei veneti una città unica al mondo: una città dove sono bandite le automobili, figurarsi i cingolati. Capirei ancora un motoscafo; ma l'idea che tutto sia possibile, l'insurrezione di popolo e di piazza, purché si riesca a piazzare almeno un paio di cingoli in Piazza San Marco, è qualcosa che sfida la nostra capacità di restare seri.

Possibile che una nazione millenaria, che sfidò imperi cristiani e islamici e seppe tener loro testa per tutto il medioevo e l'età moderna, possibile che debba necessariamente risorgere in un capannone, fissando mitragliette a una ruspa. Questi artigiani che nelle loro officine truccano e saldano, come possono realmente pensarsi gli eredi di una nazione di mercanti cosmopoliti? Sembra quasi il contrario, una rivincita dell'entroterra operoso sulla laguna: Venezia come frontiera di qualcosa che resta saldamente ancorato a terra, alle province per secoli contadine e poi, per un tempo breve, troppo breve, motore ausiliario dell'Italia industriale. L'ultimo ad andare in rodaggio veramente - nel dopoguerra era ancora zona depressa - e di conseguenza il più deluso per la fine di un benessere che ha fiutato per poco, una generazione appena: e tirando un po' troppo su col naso, se mi è concesso.

Mi è concesso. Mi separano dal Veneto terragno settanta chilometri, un'inflessione più celtica, e nient'altro. La rabbia e la frustrazione che si vedono in giro sono le stesse, e fondate sulle stesse basi malferme: l'idea che ci sia stato tolto qualcosa che doveva essere nostro per diritto, benché lo avessimo appena afferrato. I cinesi non si dovevano permettere di uscire dal sottosviluppo e farci concorrenza abbattendo i costi della manodopera. I turchi non dovevano attentarsi a comprare a prezzi di rottami i telai industriali che smantellavamo. Noi eravamo i leader del settore, i più bravi, ce lo dicevano tutti, lo saremmo ancora, è colpa dell'euro. Della Cina. Del comunismo. Del partito democratico. Degli extracomunitari. Dei politici ladroni.

Il tanko nel '97: a chi appartiene?
Chi ha deciso di esporlo alle fiere?
Al bar con un po' d'impegno puoi riuscire a dar la colpa a tutti in una frase sola: sarà colpa dei comunisti del partito democratico in combutta coi cinesi e gli extracomunitari in genere che hanno governato per sessant'anni regalandoci l'euro. Chi dice queste cose non ha dedicato molti anni del proprio percorso all'istruzione, né era previsto che lo facesse: fino a qualche anno fa chi si laureava, in zona, guadagnava a trent'anni la metà di chi aveva iniziato a diciotto. Studiare era semplicemente la scelta sbagliata - e anche oggi, che una laurea fa comodo pure per il concorso alla nettezza urbana, non è che la cultura ti offra le soluzioni: ti fa solo vedere meglio i problemi. Se hai studiato economia sai che la piccola impresa è spacciata, con o senza euro: conviene scappare. Se hai studiato idraulica sai che il momento in cui i vasi comunicanti della forza lavoro mondiale ritroveranno un equilibrio è ancora lontano. Se ti sei laureato in filosofia puoi prenderla con filosofia. Chi ha iniziato a lavorare a sedici anni può trovarsi con le mani che lavorano da sole, in officine che lasciar vuote è un peccato; qualche pezzo di ricambio ormai era stato ordinato, e in breve il tanko è come se si costruisse da sé: sta al piccolo artigiano come il bozzo al baco di seta, una fiaba a Carlo Gozzi.

Ma metti la comodità,
vai all'estero e a sera sei a casa.
Nel frattempo il cervello si dà da fare per trovare una giustificazione, l'autonomismo, certo, l'indipendentismo, certo, certo, la Serenissima. Ma il Veneto dei dogi, la crudele multinazionale che si vendette persino i resti di mamma Bisanzio, e bombardò il Partenone; la Venezia che trionfò a Lepanto e resistette altri due secoli inventando il turismo di lusso, non c'entra davvero molto. La patria che hanno in mente gli hobbisti che saldano mitragliette ai motocingolati è l'eroica Capannonia, quel nano-paese tutto villaggi industriali, tutto fabbrichette, il residuo emotivo di un sogno durato una generazione e mezza: la Piccola Impresa. Si stava così bene quando abitavamo tutti sopra l'officina del papà. Tutti proprietari, tutti padroncini, tutti con una mercedes o una porsche in leasing, perché è finito tutto questo, perché? Maledetto euro.

Non è nemmeno una coincidenza che, con tante cause perse in cui buttar via i soldi, i parlamentari cinquestelle abbiano deciso di devolverli a un fondo per la Piccola-Media Impresa: un sogno così italiano, forse iscritto nel nostro destino territoriale: in fondo siamo davvero piccoli, e a parte qualche parentesi incresciosa non abbiamo mai molto sgomitato per conquistarci altro spazio vitale. Chi ha studiato Storia sa, con una relativa sicurezza, che siamo spacciati com'era spacciata Venezia il giorno in cui Vasco De Gama vide le coste indiane: questo non le impedì di vivere ancora secoli di meravigliosa decadenza, e forse anche noi ne abbiamo il diritto. Forse l'Unesco dovrebbe fare qualcosa per i nostri Capannoni, dichiarare il nostro cemento unico al mondo. Capannonia sorgerà come una piccola patria di officine - costruiremo tutto un pezzo alla volta, i carri armati e gli acquedotti e le mura intorno alle nostre Zone Industriali. Nessuno avrà il diritto di farci la guerra, o meglio se ci attaccheranno dovranno farlo ad armi pari, con catapulte costruite secondo le antiche ricette. Verranno i turisti non solo a carnevale, saranno felici di travestirsi da cavalieri o Casanova, il cambio con la lira sarà favorevolissimo. E la legge Merlin, non c'è bisogno di dirlo, abolita. Insomma Capannonia un senso ce l'avrebbe, una storia potrebbe avercela, io che ho studiato storie forse mi ci dovrei applicare, mi domando se in fin dei conti non sia mio preciso dovere di padano.

Invece ripasso geografia, di solito a questo punto dell'anno siamo nei pressi del Canada e io richiamo l'attenzione su alcuni dati: è il secondo Paese del mondo per estensione, più grande degli USA, ma ha un decimo dei suoi abitanti. Un sacco di spazio, insomma. Certo non è coltivabile, per adesso; bisogna vedere come si scioglierà il permafrost. Nel frattempo si è aperto anche il passaggio a nordovest, pensate. Insomma è là in alto a sinistra sul planisfero, lo avete visto? Si parlano inglese e francese, un motivo in più per studiarle bene.
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Chi ha più voglia di un pornoVonTrier?

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Nymphomaniac I, (Lars Von Trier, 2013)

Che senso ha buttare via la religione e tenersi il senso di colpa? Se lo chiede il timido Seligman, all'inizio della lunga conversazione con la signora che ha trovato sanguinante in un vicolo. Dice di chiamarsi Joe e di essere, dall'infanzia, irredimibilmente cattiva. Ninfomaniaca, addirittura. Ma cos'è questa ninfomania?

Finalmente al cinema un treno regionale brutto come quelli veri!
Questa è pornografia!
Non è nemmeno una malattia. Lo sapevate? Dal 1992 l'Organizzazione Mondiale della Sanità non la riconosce più come tale; tre anni più tardi è stata cancellata dal quarto volume del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che preferisce parlare di "Ipersessualità", sia maschile che femminile. Anche su quest'ultima non c'è un vero consenso: è un disturbo ossessivo-compulsivo? Una dipendenza? Negli USA esistono i Sessuomani Anonimi, con programmi di recupero modellati su quelli degli alcolisti, perlomeno nelle serie tv e nei romanzi di Palahniuk: da noi no, credo, ma non me ne intendo.

Probabilmente neanche Lars Von Trier, che finalmente ha fatto dono al mondo del suo film porno-d'autore. Come ricorda l'ottimo Bernocchi, l'idea di girare un porno gli frulla in testa da tantissimo tempo - forse fin da quando lo conosciamo, i tempi delle Onde del destino e di Dogma. Già allora la buttava lì, forse per ravvivare un po' il gelido imbarazzo delle sue conferenze stampa: e poi sapete che c'è? una volta o l'altra faccio un porno. Certo, perché no. Ora, non voglio dire che a metà Novanta fossimo verginelli appena usciti dal collegio: i miei ricordi sono vividi ancorché un po' sgranati, come le vhs troppo videonoleggiate. Magari ci sono altri motivi per cui quella che nel 1996 poteva sembrarci una grande idea, avanguardistica e iconoclasta, oggi ci lascia un po' più che perplessi: sgomenti. Dite la verità, dai: voi come l'avete vissuta la notizia: "sta per uscire nelle sale un film di cinque ore di Von Trier con scene di sesso esplicito tra controfigure di attori famosi"? Per me è stato più o meno quando mi avvisano che devo pagare una tassa in più: buongiorno, siamo l'Ente Preposto alla Aggiornamento Culturale e le notifichiamo che ci deve cinque ore di vita: cinque ore che passerà guardando coiti altrui ripresi senza entusiasmo da un regista tormentato e depresso. Così impara a farsi piacere Dogville, Manderley addirittura. No, per dire che io sono uno di quelli che una volta Von Trier se lo andava a guardare volentieri. Qualcosa non va.

Potrebbe anche non trattarsi di Von Trier, che alla fine ha il solo torto di restare fedele ai suoi temi, alle sue ossessioni eccetera (anche se mi sembra sempre meno rigoroso, sempre più incerto, stavolta per esempio fa il citazionista ma in modo un po' maldestro, a un certo punto toglie il colore per fare Bergman ma è come mettersi i baffi finti per fare Chaplin, cioè proprio non basta, capisci? In altri casi sembra voler fare il verso a Greenaway, è un auto-paragone impietoso). Dicevo, potrebbe anche non trattarsi di Von Trier, ma di tutto quello che gli è successo intorno. Il concetto stesso di pornografia, che nel '95 era eversione, era l'anti-Hollywood, il realismo estremo, dogmatico, e oggi cos'è? la cosa più normale del mondo. Ne è passato di liquido sotto i ponti.

Per dire, alla fine degli anni '90 nella mia città (non Cuneo) c'erano ancora i cinema porno. Erano una specie di specialità locale, i turisti fotografavano le locandine sbianchettate. Ci andavano perlopiù vecchietti e persone in cerca di partner occasionali. Il consumo di pornografia era, per così dire, "sociale". Ma era uno spettacolo al tramonto. Trionfava il modello di consumatore completamente opposto, quello dei videonoleggi: un solitario manovratore di telecomando, nell'oscurità della propria cameretta. Da allora ci sono state due o tre rivoluzioni tecnologiche: il passaggio ai dvd; il peet-to-peer su internet; flash e i siti alla youtube. Un economista ci direbbe che la pornografia è diventata una commodity: come l'acqua potabile e la luce elettrica, anzi ancora più comoda, visto che per raggiungerla non dobbiamo nemmeno alzarci dalla sedia. Entrare in un videonoleggio o in un sex shop a metà Novanta richiedeva ben altra determinazione. Oggi guardare un porno è diventato maledettamente facile. Risultato? (scopritelo su +eventi!)

Diciamo subito che la paventata disintegrazione della società e della famiglia e della civiltà occidentale fin qui non c’è stata. Non vi è stata una particolare recrudescenza dei crimini sessuali, nemmeno tra i minori. Qualcuno afferma di soffrire di forme di dipendenza dalla pornografia – e però anche su questa sindrome gli specialisti litigano: forse non esiste. Senz’altro tra centinaia di milioni di utenti in tutto il mondo vi sarà chi ne consuma in modo patologico (ammesso che su internet abbia senso parlare ancora di consumo). Ma la maggior parte degli utenti, oggi, consulta pornografia per un tempo ridicolmente breve. Qualche mese fa un popolare sito porno ha messo on line le statistiche, da cui si evince che la visione di un utente medio duri più o meno tre minuti (ma è in lieve aumento nell’ultimo anno). Come dire che la maggior parte degli utenti trova la visione di un porno piacevole ma – dopo nel giro di pochi minuti – insostenibile.


Può darsi che sia sempre stato così: il fatto che le nostre modalità di fruizione in passato fossero più lente non significa che ci divertissimo di più. Pensiamo a quel che è successo coi quotidiani: una volta ne leggevamo di più, ma eravamo più informati? No: ci mettevamo semplicemente più tempo a trovare cose che ci piacessero. Era così con la musica (dedicavamo più ascolto agli album, o ai programmi radio) e probabilmente con la pornografia. Ci serviva più tempo per trovare la roba interessante. Quello che ha veramente accelerato i tempi è l’aumento vertiginoso della biblioteca a disposizione (per questo mi pare che oggi abbia più senso il verbo “consultare” che “consumare”) e il motore di ricerca. Non dobbiamo più accontentarci: se ci piacciono brune coi piedi lunghi, possiamo rapidamente digitare e ottenere “brune coi piedi lunghi”. Questo rende il nostro rapporto con la pornografia sempre più breve e, in fin dei conti, soddisfacente. Pensavamo che l’abbondanza di internet ci avrebbe portato a insane abbuffate, ma fin qui non è andata così; ormai ci basta qualche snack ogni tanto.

E proprio in quel momento, dalla Danimarca tormentata il dinosauro dogmatico si risveglia e ci fa sapere che ha pronto per noi un pranzo nuziale di cinque portate. Noi che ormai, al cinema, quando c’è una scena di sesso di più di trenta secondi, ridiamo dall’imbarazzo. Se vi ricordate cos’è successo con Adèle, e del modo in cui una stupenda scena di sesso era stata presentata come interminabile – otto minuti, vi rendete conto? Ormai in sala facciamo fatica a sostenere la visione di due molto graziose ragazze che fanno sesso per otto miserevoli minuti.


Pubblicità ingannevole.
Devono aver tratto simili conclusioni anche i produttori di Nymphomaniac che, non paghi di aver tagliato il film in due parti, hanno provvisoriamente accantonato un’altra ora di girato, che probabilmente riusciremo a recuperare in dvd. Il risultato com’è? Boh, non saprei. Davvero. Chi ha già visto la seconda parte ne parla abbastanza bene. Io ho visto solo la prima e non credo di poter già esprimere un giudizio sensato. Senz’altro non ha senso prendersela con Von Trier per l’antirealismo di molte scene, che sembrano progettate in laboratorio piuttosto che studiate dal vero. Il fatto che tra una situazione astratta e artificiale e l’altra faccia capolino un po’ di sesso molto crudo mi ha fatto realmente ricordare i vecchi porno con la trama, ma non so quanto l’effetto sia voluto: però se davvero è riuscito a citare Joe D’Amato fingendo di citare Bergman, complimenti. Mi domando se valga la pena di guardare un film di Von Trier così – anche dopo aver visto la seconda parte, quando uscirà, mi resterà la sensazione di essermi perso qualcosa (tipica anche questa di certe esperienze cinematografiche anni Ottanta, quando finalmente riuscivi a guardare Otto settimane e ti dicevi: tutto qui? Ma no, impossibile, avranno censurato un sacco di roba). Sarebbe più saggio probabilmente aspettare il dvd – e mentre scrivo questa cosa una voce dentro di me bisbiglia: non lo guarderai mai quel dvd, non troverai mai cinque ore di spazio per i tormenti sessuofobi o sessuomani di Lars Von Trier. Con tutte le cose interessanti che ci sono in giro, su internet e altrove.

Che altro dire. Fin qui è un film che ti fa apprezzare altri film, per contrasto. L’estasi libera dai sensi di colpa di Adèle. La leggerezza e l’attenzione al dettaglio con cui Ozon in Jeune et jolie affronta un tema molto simile; al confronto Von Trier sembra perso in una controriforma tutta sua. Stacy Martin è inquietante e molto a suo agio nel ruolo della giovane ninfomane (che nella seconda parte si evolverà in Charlotte Gainsbourg). Uma Thurman, contrariamente a quanto poteva farvi pensare il poster, non gode, anzi non fa sesso proprio; ma compare in uno sketch tragicomico che mi spinge a riflettere una volta ancora sul senso dell’umorismo di Lars Von Trier. Può darsi dopotutto che non ce l’abbia, allo stesso modo in cui Refn non vede i colori. Mettiamo che esista una sindrome che ti rende incapace di capire le barzellette. Passi la vita a sentire barzellette e a notare che la gente ride. A un certo punto provi anche tu a raccontarle, tanto più o meno le regole le capisci, la teoria è facile. In pratica racconti storie assurde e il pubblico prova disagio: sei un artista.

Nymphomaniac Volume I si può guardare al Cinecittà di Savigliano alle 20:20 e alle 22:30. È vietato soltanto ai minori di 14 anni.
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Peccato che sia incostituzionale

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Facciamo un esempio, uno tra tanti: nella nuova bozza della riforma, a Palazzo Madama sono ritornati i sindaci dei capoluoghi di regione: i sindaci che qualche collaboratore assennato di Renzi era riuscito a un certo punto a depennare - rieccoli là:

Art. 57. Il Senato delle Autonomie è composto dai Presidenti delle Giunte regionali, dai Presidenti delle Province autonome di Trento e di Bolzano, dai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione e di Provincia autonoma...

Embè, direte voi? Che c'è di male se un sindaco di capoluogo di regione si ritrova ogni tanto a Roma per partecipare a una seduta del Senato delle Autonomie? Tanto non deve mica discutere e approvare tutte le leggi (tutte no: ma le riforme costituzionali, quelle sì). Non deve mica votare la fiducia al governo. E il tempo libero il sindaco di capoluogo di regione lo trova sicuramente, per dire Renzi faceva il sindaco nel capoluogo della Toscana, e a tempo perso è diventato presidente del Consiglio... Bisogna proprio essere degli arcigni difensori dello status quo; bisogna veramente odiare Renzi, anzi coltivare una vera e propria allergia nei suoi confronti, la chiamerebbe Menichini, per non capire la straordinaria novità di un Senato delle Autonomie composto pure dai sindaci dei capoluoghi di regione. Già.

Peccato che sia incostituzionale.

E non ci vuole un Rodotà o uno Zagrebelsky. Prendete una cartina dell'Italia politica. Noterete che le regioni sono venti. Ne consegue che i sindaci in questione sono venti. Ventuno in realtà, perché Bolzano e Trento non si son mai messe d'accordo. Molto bene. I ventuno sindaci in questione, nel futuro Senato delle Autonomie, chi rappresenteranno? I cittadini di ventuno città. Alcune molto grandi (Roma), altre di media grandezza (Perugia), altre davvero piccine (Aosta).

I cittadini di tutte le altre città d'Italia, chi le rappresenterà? E i cittadini delle province?

Prendi i cittadini di Pescara. Non è Pescara una degna città, peraltro più popolosa del suo capoluogo di regione? Sì. Però gli aquilani manderanno al Senato delle Autonomie un sindaco, i pescaresi no. Perché? Perché a Renzi piace così, e a chi non piace così non piace Renzi, e se non vi piace Renzi avete in odio la modernità, voi arcigni difensori dello status quo. Aveva ragione Ciccio Franco a Sbarre: e dire che al tempo la battaglia per il capoluogo di regione sembrava una cosa assurda, a metà tra il medioevo e il Risiko. E invece adesso ottantamila catanzaresi avranno un sindaco che li rappresenta nel Senato delle Autonomie; e i reggini (che sono appena in centomila in più), i reggini no. Perché? Perché a Renzi garba così. Lui deve assolutamente vincere le elezioni, ma per vincerle deve cambiare il sistema elettorale; ma per cambiare davvero il sistema elettorale in modo da vincere deve abolire il Senato (o meglio: le elezioni del Senato), e per abolirle ha deciso di fare così e ci si gioca tutto! Ci mette la faccia! E voi arcigni difensori dello status quo che cosa avete contro la nobilissima faccia di Matteo Renzi? Se lui vuole dare un rappresentante in più al Senato ai triestini, e uno in meno agli udinesi, chi siete voi per giudicarlo?

Gli abitanti dei 20 capoluoghi di regione + Bolzano, messi assieme, non superano i dieci milioni. Gli altri cinquanta milioni di italiani non saranno rappresentati in Senato da un sindaco di capoluogo. È davvero un peccato che un piccolo articolo, seminascosto, della Costituzione del '48, reciti... cosa recita? "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge"... normale che uno se lo dimentichi, è soltanto l'articolo tre. Occorrerà modificarlo prima che qualche pedante professorone lo impugni davanti a una Corte Costituzionale; tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, ma i cittadini di Venezia sono rappresentati nel Senato delle Autonomie dal loro sindaco: quelli di Verona no. Perché? Perché ci garbava così, se non ci seguite non prendetevela, noi andiamo veloci, noi siamo il futuro.

Per intenderci: quando si sostiene che la riforma di Renzi, che le riforme di Renzi, siano scritte male e pensate peggio, si intendono situazioni di questo genere. Fosse solo questa. Ma no, ce ne sono tante altre così. La genialata di Delrio che per risparmiare un'elezione ha deciso che d'ora in poi il sindaco metropolitano della provincia di Bologna lo farà il sindaco di Bologna. Molto bene. E il cittadino di Imola (BO) si troverà amministrato da un sindaco metropolitano che non ha eletto; espresso in elezioni a cui egli non è stato invitato a partecipare; non suona un tantino strano, e anticostituzionale, forse?

Ma dicono che bisogna portar pazienza, che magari qualcosa è scritto male, ma che Renzi ha fretta... ma fretta dove. Ma fretta quando. Io l'idiozia dei sindaci di capoluogo in senato me la ricordo nei cento punti della prima Leopolda. È una delle tante, tantissime cose che mi fece pensare: simpatico, ma non comprerei mai una riforma da lui. Una riforma costituzionale, poi. Si tratta di un'idea irredimibilmente scema, quasi certamente anticostituzionale, che qualche pollo da think tank d'allevamento ha messo in una bozza quattro anni fa: una di quelle che dovevano essere discusse "in rete", dove la discussione si limitò alla possibilità di mettere like con facebook. Dopodiché nessuno se l'è più andata a leggere. Nessuno. Anche solo per capire se le formidabili idee di Renzi fossero davvero così formidabili. Niente. Chi vende un prodotto mica si mette lì a legger gli ingredienti.

Matteo Renzi potrebbe fare meglio di così, se non avesse fretta? È una domanda malposta. Matteo Renzi avrà sempre fretta; avrà sempre un'ottima ragione per tagliar corto e schivare le domande. Matteo Renzi è la sua stessa fretta. Voi invece che lo sostenete, cosa siete? Cosa pensate di una riforma tutta basata sul tempo libero dei sindaci? Vi sembra sensato che in un organo democratico, investito del potere di modificare la Costituzione, un tarantino sia meno rappresentato di un barese? Che un abitante della provincia di Catania non possa scegliere il suo sindaco metropolitano? Che il futuro capo del governo possa avere la maggioranza assoluta di una sola camera con appena il 37% dei suffragi? Tutto questo vi piace o ve lo fate piacere perché avete fretta? E quando vi passerà la fretta?

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Le origini calabresi della Paulaner

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Tre uomini in saio, attraverso lo stretto di Messina.
2 aprile, San Francesco di Paola o da Paola (1416-1507), eremita d'esportazione.

Essere eremiti di successo è complicato. La logistica, ad esempio: devi vivere in un luogo lontano da tutti, ma non del tutto irraggiungibile, sennò rischi che i pellegrini si scelgano un altro venerato maestro. A Paola (provincia di Cosenza) a un certo punto si decise di costruire un ponte tra le due sponde scoscese di un torrente, che avrebbe accorciato di molto il faticoso percorso dei devoti all'eroe locale, Francesco detto Ciccio. Per fare i ponti, però, bisogna venire a patti col demonio: ciò è noto sin dal tempo dei Longobardi, e anche i santi più facili al miracolo si sono rassegnati: Dio fa tante cose, ma i ponti sono una specialità demoniaca.

Persino Francesco di Paola, che aveva attraversato lo stretto di Messina sul suo mantello per non pagarsi il traghetto; Francesco di Paola che aveva resuscitato il suo agnellino preferito facendolo uscire illibato dal forno da dove gli operai si aspettavano uscisse un abbacchio cotto e croccante; Francesco che per i suoi prodigi fu invitato alla corte del re di Francia; persino lui dovette chiedere una consulenza ingegneristica al demonio. In cambio il demonio, come sempre in questi casi, richiese l'anima del primo essere vivente che avrebbe transitato sul ponte. Francesco accettò e, a lavori ultimati, fece attraversare il ponte a un cane.

Il demonio si arrabbiò molto, o almeno così dice la leggenda: ma siccome il trucco era vecchio di secoli, e adoperato in dozzine di ponti medievali in tutta Europa, viene il sospetto che sia tutta una messinscena, e che il demonio sia al contrario piuttosto ghiotto di anime di cani, maiali o altri animali. Non si spiega altrimenti la buona volontà con cui è disposto a edificare ponti a qualsiasi altezza, dimostrando capacità ingegneristiche molto elevate, sempre col pretesto di pigliarsi la prima anima che passa, e sempre costretto ad accontentarsi della povera bestiola il cui transito è una specie di cerimonia inaugurale, forse di origine pagana, tanto è diffusa in tutto il continente. Ponti del diavolo ce n'è dappertutto anche in Italia: quello di Paola è anzi uno degli ultimi, il medioevo ormai è finito. Il diavolo che finge di adirarsi col santo sembra volersi prestare a un'ultima sacra rappresentazione: la colluttazione lascia sul ponte una traccia, una buca in cui ancora oggi i viandanti sputano, anche chewing-gum se capita di averne uno in bocca.

Dai, non dite che non ci somiglia.
Sospeso tra medioevo ed epoca moderna, Francesco di Paola è un santo attualissimo: è difficile impedire alla fantasia di visualizzarlo con i tratti di un altro meridionale frate dei miracoli, Francesco Forgione, più noto come Padre Pio di Pietrelcina. Non si può escludere che tra le cause del successo di quest'ultimo ci sia la facilità con cui la sua figura aderiva a un modello già elaborato e diffuso da secoli: un frate barbuto, burbero e penitente, la cui severità è temperata dalla generosità con cui dispensa i suoi prodigi. Entrambi sembrano ricevere il loro destino insieme al nome di battesimo: Forgione chiese di entrare in convento a 14 anni, Francesco "Ciccio" di Paola a 13 fu contattato in sogno da un frate che gli ricordò il voto fatto dai genitori, già in età avanzata: se avremo un primogenito lo consacreremo a Francesco d'Assisi. Già da bambino del resto gli era stato imposto per un anno il saio francescano, affinché guarisse da un'infezione agli occhi.

Nel 1429 entra quindi in un convento a Cosenza, ma vi resta solo per l'anno di prova, quanto basta per stupire i confratelli con un primo assaggio di effetti speciali: Ciccio si sta già esercitando a reggere i carboni ardenti nelle mani, è in grado di accendere le candele con un semplice sfioramento; a volte riesce a essere simultaneamente sia nella cappella sia nel refettorio (è la bilocazione, un altro grande classico di Padre Pio). Ma il saio dei francescani regolari gli sta troppo stretto, o troppo largo, a seconda dei punti di vista. L'anno successivo coinvolge i genitori in una specie di grand tour della spiritualità nell'Italia centrale: visita Assisi, Loreto, Montecassino, nonché ovviamente Roma, dove rimprovera un cardinale per i suoi abiti sfarzosi. Al suo ritorno, decide di fare il francescano in proprio, ritirandosi sui monti. È una scelta estrema e anche un po' pericolosa: non solo l'epoca d'oro degli anacoreti era tramontata da secoli, ma da almeno cent'anni le gerarchie ufficiali della Chiesa guardavano con sospetto a chi interpretava la povertà francescana in senso troppo letterale. Lo scontro tra frati conventuali e spirituali era terminato con l'espulsione di questi ultimi; altre esperienze borderline, come quella dei fraticelli, erano state represse con la spietatezza riservata alle correnti eretiche. La povertà era potenzialmente rivoluzionaria.

Ciccio in realtà non rischia niente finché nessuno si accorge di lui: le cose cambiano quando i cacciatori cominciano a parlare di un sant'uomo ritirato sulle montagne. Ai primi ammiratori che lo raggiungono, Ciccio impone un regime durissimo: niente carne né latticini o uova, una quaresima di trecentosessantacinque giorni che si aggiunge ai tre voti francescani (povertà, castità, obbedienza). Anche all'ispettore ecclesiastico inviato da Roma, Baldassarre de Gutrossis, Francesco non nasconde la sua dieta vegan. Questo regime è impossibile, gli obietta il prelato. Nulla è impossibile a chi ama Dio, ribatte Ciccio, prendendo in mano un tizzone ardente a mo' di dimostrazione. Baldassarre riparte in fretta per Roma, deposita una relazione entusiastica, e ritorna a Paola, dove aiuterà il santo verdurista a organizzare un vero e proprio Ordine. Quando l'approvazione del Papa arriva, nel 1474, Francesco ha quasi sessant'anni, e anche se tra la corte di Napoli e la Sicilia ha viaggiato molto più di quanto ci si sarebbe aspettato da un eremita, tutti si aspettano che termini i suoi giorni in uno degli eremi da lui fondati. E invece, nel 1782, l'imprevisto: Francesco riceve un invito che non può rifiutare, dal più potente regnante europeo, Luigi XI detto il prudente (Continua...)
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La fabbrica delle bufale

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Qualche giorno fa un parlamentare - non ha importanza di che partito - ha esordito un discorso col memorabile sfondone Sarò breve e circonciso, reso celebre (credo) da Diego Abatantuono in Eccezziunale veramente. La gaffe è stata coperta dagli organi di stampa con molta più attenzione di quanta non meritasse, mettiamo, l'Accordo Commerciale Transatlantico. Ne riparlo soltanto perché domani è il primo aprile, e molti lo celebreranno pubblicando qualche bufala pescata in giro. È una tradizione ormai antica, e forse meno inutile di quanto sembri: un'occasione per esercitare la nostra capacità di distinguere il falso dal vero, e per identificare chi tra i nostri Amici o Contatti non ne è in grado: sono quelli che domani rilanceranno la bufala più smaccata senza accorgersene. E tuttavia.

E tuttavia proprio qualche giorno fa leggevo da qualche parte uno studio(*) che, partendo dall'impressionante mole di dati che mettiamo su internet, cercava di dimostrare da dove nascono le teorie del complotto. È una domanda interessante, anche perché chi se la pone rischia di ricadere nei confini della sua stessa ricerca (non si tratterà per caso di un complotto?)

Lo studio in questione ovviamente non commetteva quest'errore, anzi difendeva un'ipotesi affascinante: i complotti nascerebbero dai malintesi. Ogni tanto qualcuno su internet scrive una storia smaccatamente falsa, volutamente paradossale (ad esempio un popolo rettile extraterrestre ha invaso la terra secoli fa e si nasconde tra noi); qualcuno la legge, la apprezza, la segnala ai suoi contatti; la storia si propaga finché non incontra esponenti di quella minoranza statistica che non riesce a capire la differenza tra cronaca e fiction. Purtroppo sono più di quelli che crediamo, e se a loro manca il senso critico, non manca tuttavia l'energia per indignarsi e trasmettere la loro indignazione: una volta arrivata fino a loro, la storia si spoglia di tutti quei tratti che ci consentivano di identificarla immediatamente come finzionale, e viene irradiata sotto forma di storia vera, da condividere con chi non crede alla realtà ufficiale!!1!

Per intenderci: se oggi Jonathan Swift pubblicasse Una modesta proposta, tra qualche mese qualcuno su internet comincerebbe a parlare di un complotto di massoni irlandesi infanticidi e antropofagi. L'informazione arriverebbe a loro in modo talmente indiretto che sarebbero incapaci di riconoscere la fonte originaria anche se gliela mettessimo sotto il naso: costretti a leggere il testo di Swift, direbbero che beh, sì, è chiaro che Swift scherza, ma... sta soltanto coprendo qualcuno che i bambini li vuole cucinare lo stesso, ne ho sentito parlare su facebook.

Non so se le cose vadano sempre così; ma in certi casi mi è capitato di assistere a qualcosa di simile (continua sull'Unita.it, H1t#225).

C’è un gruppo cospicuo di persone, su internet, convinto che ai concessionari di slot machine sia stata “scontata” una multa di cento miliardi. Questa multa non esiste: chiunque può controllare; è vero che per una serie di infrazioni riscontrate la procura aveva quantificato un danno di 98 miliardi, ma alla fine la Corte dei Conti ha inflitto multe per 2,9 miliardi (poi ulteriormente ridotte a 600 milioni). A un certo punto qualcuno – un giornalista, probabilmente – ha iniziato a chiamare la differenza tra i 98 miliardi inizialmente richiesti della procura e i tre miliardi della sentenza uno “sconto”. È soltanto un modo di dire, che identifica un certo atteggiamento nei confronti della giustizia (l’assunzione acritica del punto di vista dell’accusa); una definizione insidiosa, perché gli “sconti di pena” esistono e sono una cosa ben diversa. È triste constatarlo, ma molti lettori non sono equipaggiati per capire la differenza. Hanno letto “sconto” e hanno capito: sconto. Da cui la legittima domanda: chi è che sconta le multe per cento miliardi? Perché già che c’è non ci sconta le cartelle equitalia? Segue l’ondata di indignazione, cavalcata con molta sapienza, tra gli altri, da Grillo e dal Fatto Quotidiano.
In questo caso nessuno si è inventato niente: è stato sufficiente distribuire una metafora a un pubblico che non sa leggere tra le righe. Purtroppo è un pubblico un po’ più folto di quanto non crediamo noi irradiatori di messaggi scritti, già frustrati dalla consapevolezza di poter comunicare soltanto col 53% dei nostri compatrioti in grado di leggere e scrivere. Stima fin troppo ottimistica, che include ancora quella percentuale che leggere sa, ma non tra le righe. Un disagio linguistico che forse non abbiamo ancora studiato abbastanza: la condizione di chi, per esempio, non è in grado di decodificare i messaggi ambigui o ironici, per limiti cognitivi o culturali. La situazione in cui negli USA, al varo di un progetto sanitario denominato Children’s Health Insurance Program (CHIP), qualche voce critica lo ha magari scherzosamente definito intrusivo come un vero e proprio “chip” da iniettare sottopelle, e qualcun altro ci ha creduto – e dopo qualche anno anche questa leggenda è sbarcata nel parlamento italiano.
Qualcosa di analogo può essere capitato allo sventurato parlamentare “breve e circonciso” – ammesso che non si tratti di un più banale lapsus. Un bel giorno, tanti anni fa, Diego Abatantuono o chi per lui inventa un gioco di parole, fondato peraltro sull’idea che il termine “circonciso” sia di uso abbastanza comune: se non sai cosa vuol dire non è divertente. Per molto tempo il gioco di parole rimane davvero divertente: milioni di fruitori lo citano alla noia. Molto presto probabilmente smette di essere divertente in quanto tale e diventa divertente in quanto citazione. Il che significa purtroppo che molti non ridono più per la battuta ma perché ridono gli altri (è la cosiddetta “soglia Ricci”, che i miei coetanei riconoscono perché divideva quelli che ridevano alla prima puntata di ogni stagione di Drive In da quelli che ridevano dalla seconda in poi; la differenza tra chi trova divertente una battuta e chi trova divertente un ritornello). Trent’anni dopo l’espressione è di uso talmente comune da potersi quasi definire una polirematica: sicché può capitare che la ripeta acriticamente anche chi non conosce il senso di “circonciso”. Questa gente vive tra noi: cerca di leggere gli stessi quotidiani e siti che leggiamo noi, ma non è un caso che si incazzi di più, o che rida più sguaiatamente alle battute, proprio come chi intuitivamente cerca di mascherare la sua incapacità di capirle.
Questa gente esiste, e oggi pubblicherà contenuti ridicoli, esponendosi al pubblico ludibrio. La questione però è molto meno divertente di quel che sembra, e forse dovrebbe stimolare un dibattito sull’atteggiamento di chi divulga notizie in rete: quanto è giusto usare l’ironia in un contesto in cui il 20% non la capisce? È chiaro che chi sta qui per far satira continuerà a farla, ma chi invece si veste di una relativa serietà fino a che punto può permettersi di usare un linguaggio figurato? Anche chi accusa Napolitano di golpe probabilmente all’inizio stava scherzando; se dopo qualche mese però si trova costretto a chiedere un procedimento di impeachment, è evidente che qualcosa sta sfuggendo di mano pure a lui. Disseminare storie false su internet è un passatempo che con gli anni mi sembra sempre meno divertente e sempre più pericoloso. È pieno di bambini, qui, e in generale di gente che si beve troppe cose. Oltre a ridere di loro, bisognerebbe preoccuparsi di fornire a loro anche qualche strumento.
(*) La cosa buffa è che non la trovo più. L’ho letta più di una settimana fa e google non mi aiuta. Possibile che me la sia inventata? Al massimo sarà la mia bufala del primo aprile.
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Capitan America prende a pugni i droni della NSA ma Scarlett è solo un'amica

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Captain America - The Winter Soldier (Anthony e Joe Russo, 2014)

"E allora com'era il film?"
"Eh? Non male".
"Non male?"
"Ma sì, dai, salva il mondo come al solito, però in modo non banale, sono abbastanza soddisf..."
"Berlinguer?"
"Eh?"
"Non sei andato a vedere Berlinguer?"
"Ma certo, sì, naturalmente, sono andato a vedere Berlinguer".
“Non ti lascerò andare stavolta, Bucky.
Stavolta ci salveremo, o cadremo insieme”.
"E salva il mondo in un modo non banale?"
"Beh, in un certo senso..."
"Ma è morto, Berlinguer".
"Non del tutto, no... in realtà è solo congelato, vedi... ogni tanto lo riattivano e gli fanno fare delle missioni speciali".
"Berlinguer".
"Ma nel suo cuore resta il ricordo struggente del suo amico che non seppe salvare, come si chiama..."
"Aldo Moro".
"E insomma il mondo ha ancora bisogno di eroi come lui, perché i nuovi politici hanno una visione semplificata dei problemi e minacciano di far decollare piattaforme sociali che distruggeranno..."
"Sei andato a vedere Scarlett".
"Ma che c'entra, scusa".
"Me lo puoi dire. Hai preferito Scarlett Johansson a un documentario su Enrico Berlinguer, per favore, ammettilo".
"Ma non è Scarlett... cioè c'è anche Scarlett, ma un film di Capitan America, ambientato al tempo dell'NSA, dei droni, presenta svariati motivi di interesse che..."
"Si spoglia in automobile anche stavolta?"
"No, maledizione".
"Tu lo sai, vero, che ti stanno prendendo in giro da... quanti film? Tre".
"Sono bei film se ti piace il genere. La Marvel sa veramente il fatto suo".
"Te la piazzano lì in tre scene e ti staccano un biglietto da dieci".
"Non l'ho visto in 3d. Anche se le traiettorie dello scudo magari meritavano".
"Lo scudo?"
Adesso, onestamente, perché non può avere un film tutto per sé?
Le vedo solo io le potenzialità? Ma io le vedo molto bene.

"Capitan America ha uno scudo, è la sua arma e il suo simbolo, nonché una metafora dell'America tutta".

"Lo scudo".
"L'America è un bel ragazzo biondo che in qualsiasi parte tu ti trovi al mondo ha il diritto di ammazzarti, però con uno scudo".
"Perché gli americani si stanno soltanto difendendo".
"In realtà no, è più complesso di così. La vera minaccia è sempre interna. In tutti questi film ci sono due cattivi. Possiamo chiamarli il Burattinaio e il Burattino. Per esempio..."
"In Scarlett Johansson si infila un costume nero in macchina aka Iron Man 2 c'era Mickey Rourke".
"Ecco, Mickey Rourke in Scarlett Johansson si cambia in macchina ftg Iron Man faceva il Burattino. Parlava russo, sembrava matto. Anche Ben Kingsley in Iron Man 3. I Burattini sono sempre personaggi esotici con accenti strani".
"Stavolta chi lo fa il Burattino?"
"Un attore rumeno. Interpreta il Soldato d'Inverno, un'ex super-spia sovietica, come Scarlett del resto".
"Si baciano?"
"No. Nel film, cioè. Nel canone ufficiale succede".
"Nel cosa?"
"Nella continuity, insomma, nei fumetti".
"Hai quarant'anni, ti rendi conto".
"I Burattini all'inizio sembrano la vera minaccia, e in un certo senso danno il sapore al film: per esempio questo è il film in cui Capitan America combatte contro il Soldato d'Inverno. Ma i Burattini non sono mai il vero nemico".
"Il vero nemico è il Burattinaio".
"Ovviamente. E il Burattinaio è sempre un Wasp, un americano bianco e biondo. Sempre".
"Vabbe', è la politically correctness".
"No, è più complicato di così. L'idea che nelle stesse radici della libertà americana si annidi il seme del male, il germe del nazismo..."
"Vabbe' ma se i cattivi sono tutti biondi dopo cinque minuti li scopri comunque".
"Magari i ragazzini ci mettono un po' di più".
"Ho visto che nel cast c'è Robert Redford, niente niente che..."
"SSsssst! Spoiler!"
"Hai quarant'anni. Quarant'anni".
"Capitan America ne ha novantacinque".
"E va in giro con la tutina rossa e blu".
"Blu molto scuro, kevlar, una cosa abbastanza realistica".
"Realistica".
"Il film si ispira ai classici politici della Nuova Hollywood, Tutti gli uomini del Presidente, I giorni del Condor..."
"Quanti elicotteri vengono abbattuti?"
"Eh, tre..."
"Solo tre?"
"Tre PORTA-ELICOTTERI DA CENTO ELICOTTERI L'UNA SI PRENDONO A CANNONATE SOPRA IL FIUME POTOMAC, FIGATA PAZZESCA".
"Mentre Capitan America e Scarlett si baciano".
"No. Capitan America ritrova il suo amico perduto".
"E si baciano".
"No ma quasi - diciamo che non ci si può aspettare un sottotesto omoerotico più evidente di così da un blockbuster".
"E Scarlett?"
"Un bacetto a un certo punto, solo per depistare i pedinatori".
"Mamma mia che roba banale".
"No, è fatta molto bene, con molta cura, da autori sensibili che rispettano il materiale di partenza e..."
"Il materiale di partenza? Un coglione in tutina rossa e blu che ammazza i cattivi con lo scudo?"
"Capitan America non era così. Cioè. Poteva diventare così. Ma proprio perché il rischio di sembrare un coglione in tutina a stelle e strisce era altissimo, è sempre stato un personaggio che ha stimolato i suoi autori, che li ha spinti a scrivere storie meno banali di quanto avrebbero potuto essere, capisci? Capitan America è stato il primo fumetto con un supereroe nero".
"È diventato nero?"
"No, è sempre stato biondo, ma negli anni Settanta ha avuto un amico nero, Falcon".
"Molto avanti".
"È un fumetto che ha raccontato lo scandalo Watergate, ha preso le distanze dal Maccartismo... pensa che le storie in cui picchiava i comunisti, negli anni Cinquanta, sono state rifiutate dal canone: in seguito si è scoperto che il Capitano che scopriva spie rosse dappertutto in quegli anni non era il vero Capitano, ma un impostore paranoico, capisci?"
"Hai quarant'anni".
"Pensa solo a come nasce... lo sai cosa c'era sul primo numero di Capitan America nel 1940?"
"Tiro a indovinare... Capitan America".
C'è scritto March, ma uscì quattro mesi prima.
Un milione di copie. Ma anche centinaia
di lettere indignate, non si tratta così
un capo di Stato.
"Che prende a pugni Adolf Hitler".
"Uh, hai ragione, molto meno banale di come avrebbe potuto essere".
"Riflettici bene, esce un anno prima di Pearl Harbor, mezzi Stati Uniti erano ancora isolazionisti, un sacco di bravi biondi ragazzi americani pensavano che Adolf Hitler non avesse tutti i torti. E invece a New York c'era gente che diceva: ehi ragazzi, questo è un nemico, questo va contro tutto quello in cui crediamo, questo va preso a pugni".
"E ci disegnano un fumetto".
"Erano fumettisti, che altro dovevano fare. Chaplin faceva il Grande Dittatore, loro facevano fumetti. Ma avrebbero potuto fare l'ennesimo eroe in calzamaglia che salva la cassaforte dagli scassinatori, invece no. Si impegnano. Una volta si chiamava engagement".
"Si chiama  propaganda politica".
"Anche il primo film... una mezza cazzata, però c'era questa idea geniale, di un Capitano che viene arruolato nel settore propaganda, fa gli spettacoli con le ballerine in cui prende a pugni Hitler... però poi diventa un eroe vero e elimina i pericolosi nazisti. E però alla fine i più pericolosi sono simili a lui... dopotutto è il risultato di un esperimento che doveva creare il super-soldato... i nemici che combatte gli sono sinistramente famigliari, capisci? Il germe del male..."
"...alligna nelle stesse radici della libertà bla bla".
"Pensa solo a questo. Il nemico è la NSA. In un futuro prossimo la NSA si dota di droni orbitanti e usa le informazioni in suo possesso (tutte le mail che ci siamo scritti, le foto che ci siamo scattati, ecc.) per decidere chi eliminare. Per la pace nel mondo. Per la stabilità".
"Siamo spacciati".
"Ma Capitan America combatte".
"E Scarlett?".
"Lo aiuta, ovviamente".
"Ma non si baciano".
"Solo un istante, per depistare".
"E Berlinguer?"
"Magari la settimana prossima".
"La settimana prossima esce Charlotte Gainsbourg fa sesso con chiunque per quattro ore, Parte prima".
"Non so, ci devo pensare".
"Con Scarlett non sei stato molto a pensarci".
"No, è più complicato".
"Hai quarant'anni".
"È più complicato".

Captain America secondo me si può vedere tranquillamente in 2d, per esempio al Fiamma di Cuneo (21:15), al Cine4 di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:05, 22:45), all'Italia di Saluzzo (21:30), al Cinecittà di Savigliano (21:30). Ma se ci tenete a vedere lo scudo della libertà che vi arriva adosso, troverete la versione 3d al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:40) e all'Impero di Bra (20:10, 22:30).
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La repubblica basata sul dopolavoro

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Ce l'hanno fatta - o quasi. Servirà una rilettura alla Camera. Intanto Renzi e Delrio possono già festeggiare: il Senato ha votato il maxiemendamento, gli italiani non voteranno più per un solo consigliere provinciale. Siccome però le strade provinciali non spariranno improvvisamente dalle città che collegano, e le scuole provinciali continueranno ad aprire ogni mattina, è lecito domandarsi cosa abbiamo veramente abolito, mercoledì sera. Renzi va veloce e ci ha già dato una risposta: tremila indennità.

Da qui in poi le strade saranno gestite gratis, da sindaci eletti da altri sindaci, che nel tempo libero invece di fare volontariato per la Caritas lo faranno per l'Area Metropolitana o per l'Area Vasta - dovrebbero chiamarsi così. Anche la gestione delle scuole sarà affidata agli stessi nobili volontari. Anche la pianificazione territoriale (la cura dei corsi d'acqua, possibilmente in anticipo sulle inondazioni), la tutela e valorizzazione dell'ambiente, la pianificazione dei servizi di trasporto (le autocorriere) la raccolta ed elaborazione dati ed assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali, la gestione dell'edilizia scolastica, il controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e la promozione delle pari opportunità. Pur lavorando pro bono, di un qualche budget dovranno disporre. Tagliare fondi alla tutela dell'ambiente o all'edilizia scolastica non sembrava una buona idea: l'unico taglio possibile era l'indennità a chi prende le decisioni, e Renzi e Delrio lo hanno fatto.

Anche Grillo può festeggiare: queste 3000 indennità non sarebbero mai cadute senza quell'incessante campagna anti-province di cui anche il M5S si è fatto promotore in questi anni, conquistando nei fatti un'egemonia culturale. Se la prossima riforma costituzionale prevede il raschiamento del termine "provincia" dal Titolo V, è grazie a lui e a tanti altri tribuni come Di Pietro, il cui partito fu il primo, qualche anno fa, a presentare la medesima proposta di revisione costituzionale. Questo è interessante, perché un'altra delle idee forti di Grillo è che i politici siano nostri dipendenti. E però si tratta di dipendenti che non meritano di essere pagati, perlomeno a livello provinciale: le scuole ce le devono gestire gratis, le strade anche. Il sistema non selezionerà i più capaci? Non è evidentemente un problema. Per ora è più forte l'immagine ideale del nuovo politico à la M5S: un tizio pieno di tanta buona volontà che magari non sa quello che vota e a volte in effetti combina tanti disastri ma... per quel che paghi cosa ti lamenti?

La stessa cosa potrebbero dirci i sindaci metropolitani o i presidenti delle future aree vaste, quando un fiume strariperà, o una strada si dimostrerà inadeguata al traffico... (continua sull'Unità, H1t#224), o l’ala di una scuola verrà giù a causa di usura: per quel che pagate di cosa vi lamentate? Non è che manchino i soldi per riparare argini o tetti, ma… non riusciamo a capire dove spenderli, non riusciamo a organizzarci: abbiamo tante cose da fare, tante riunioni… e poi diciamola tutta: se fossimo davvero bravi a gestire queste cose avremmo fatto carriera nel settore privato, quello dove se sai gestire le cose qualcuno ti paga uno stipendio vero.

Questa invece è solo politica, e la politica a livello provinciale la fanno i sindaci nel dopolavoro. Perlomeno nel Ddl Delrio c’è scritto così. L’idea portante è sostituire gli eletti dal popolo con gli eletti dai politici. E non pagarli. Come si finanzieranno? Non saranno maggiormente esposti alla tentazione di fare la cresta al budget, di lasciarsi corrompere da qualche impresa affamata di appalti?
Anche escludendo gli scenari più pessimisti, rimane un sospetto: ma che tipo di amministratore locale hanno in mente Renzi e Delrio? Un’assemblea provinciale di sindaci, un senato di sindaci, un sindaco-tipo continuamente diviso tra tavoli e riunioni, uno con un biglietto di treno in tasca tutti i giorni. Uno che ha fretta, che non si può fermare e concentrare su qualcosa. Uno, in sostanza, come Renzi e Delrio, sempre in fuga in avanti. Non li vedremo mai fermi a un tavolo, avranno sempre qualcuno che ha bisogno di loro al telefono. Magari ogni tanto gli capiterà anche di transitare in gran fretta su una strada provinciale, e di accorgersi che il manto lascia a desiderare. Speriamo. http://leonardo.blogspot.com
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Il virus dell'ignoranza e i suoi vaccini

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Ma anche se fosse vero. 


http://www.summagallicana.it/Volume2/B.XVIII.04.2.htm
A differenza di quanto possano aver capito il Codacons e la procura di Trani, la vaccinazione trivalente non causa l'autismo: possiamo dirlo con ragionevole sicurezza, dal momento che l'unico studio scientifico che cercò di dimostrare correlazione tra trivalente e un disturbo del comportamento fu pubblicato nel 1998 su Lancet da Andrew Wakefield, un ricercatore che era in conflitto di interessi, falsificò i dati in suo possesso e arrivò a inventarsi l'enterocolite autistica, una patologia che prima non esisteva e non esiste neanche adesso (vedi la ricostruzione di Menietti sul Post).

Wakefield è stato radiato dall'albo dei medici britannici, e Lancet ha cancellato dai suoi archivi l'articolo in questione. Quindi purtroppo i magistrati italiani non lo potranno acquisire: potranno invece dare un'occhiata alla sentenza dell'Alta Corte britannica che nel 2012 ha radiato Wakefield dall'albo dei medici e gli ha proibito di esercitare la professione. Se qualche dubbio dovesse sussistere gli stessi magistrati potranno volgersi al Giappone, dove la trivalente non si pratica più dal 1994: per coincidenza, è uno dei pochissimi Paesi industriali interessato da epidemie di morbillo - fenomeno raro nell'emisfero settentrionale, da quando sono stati diffusi i vaccini. Nonostante questo, i casi di autismo sono aumentati - all'incirca come nei Paesi dove almeno non si rischia l'orchite o persino la morte a causa del morbillo. Dunque, per quel che sappiamo fin qui, né la vaccinazione trivalente né altre causano l'autismo, e questo è tutto quello che dovrebbero dire al riguardo gli organi di informazione.

Su un blog invece, credo, ci si può concedere qualche margine di speculazione intellettuale, e proporre il seguente esercizio: ma mettiamo invece che sì. Non esistono prove, non esistono studi, non esiste nessun tipo di evidenza statistica. Ma fingiamo che ci sia: fingiamo che sia dimostrato che un bambino su cento, vaccinato con la trivalente o qualche altro intruglio, diventi autistico. Questo sarebbe un buon argomento contro il vaccino?

Dal punto di vista del genitore, ovviamente, sì: l'1% di rischio è di gran lunga superiore allo 0% che mio figlio correrebbe se non fosse vaccinato. Ma dal punto di vista della collettività? L'1% di autistici o una possibile epidemia? Anche qui la risposta credo sarebbe scontata, ma chi avrebbe il diritto di assumere un punto di vista del genere? La politica, ovviamente. Chi ci rappresenta dovrebbe avere chiara la situazione (che tanto chiara non è, se una bufala smontata dieci anni fa ancora mette in allerta una procura) e assumersi le responsabilità di una scelta così grave, ma in un certo senso obbligata. Questa scelta avrebbe grandi benefici e un costo terribile, che la collettività poi dovrebbe accollarsi, visto che è per salvare il 99% che quell'1% svilupperebbe una patologia. Eppure se così fosse (e non è così) il rischio di contrarre l'autismo sarebbe semplicemente una faccia della medaglia: sull'altra faccia ci sarebbe il rischio ben più alto di contribuire a trasmettere epidemie potenzialmente devastanti. Perché sempre più individui non riescono a vedere l'altra faccia? Risposta politica: viviamo in una società sempre più individualistica, abbiamo perso di vista ogni riferimento comunitario (lo Stato, l'Europa).

È il caso di ricordare che in tutto il mondo, più o meno civilizzato, le epidemie stanno rialzando la testa: non solo a causa della diffidenza dei cittadini democratici verso i vaccini, ma per la maggior resistenza agli antibiotici. L'anno scorso a quanto pare negli USA le vittime di malattie infettive sono state il doppio di quelle degli incidenti stradali. E quest'anno a New York è tornato il morbillo.

A questo punto l'intellettuale immaginoso non può evitare il sospetto che anche la diffidenza postmoderna dei cittadini verso i vaccini sia a suo modo una epidemia, che viaggia attraverso l'informazione e che ha il suo ruolo nel grande disegno evoluzionistico: gli esseri umani sono troppi, lo sanno, e prima di devastare irreversibilmente il loro habitat reagiscono a questa consapevolezza in modo intuitivo, solo apparentemente egoistico, rifiutando di alzare una barriera immunitaria e condannando la prossima generazione a patire per malattie in teoria già debellate, come il morbillo.

La mia speranza è che queste forme di resistenza alla consapevolezza collettiva, a cui assistiamo in rete con sgomento, siano anch'esse una specie di vaccino: il politico che vuole vietare le punture o renderle tutte facoltative, il procuratore che vuole indagare, il giornalista-comico che in tv ci monta il caso, non sono che forme benigna di ignoranza, da inoculare ai nostri figli, a scuola, almeno una volta al mese. Quelli che si lasciarono terrorizzare dalla campagna pubblicitaria di Giacobbo per il suo libro sulla fine del mondo non crederanno più a nessuna minaccia d'apocalisse; quelli che ieri hanno creduto alle Iene su Stamina, oggi quel programma non lo guardano più, o con occhi diversi. Quelli che oggi ritengono di sapere che la trivalente causa l'autismo, forse domani ammetteranno di essersi sbagliati. Spero non siano necessari molti casi di morbillo per farli ricredere: spero che non sia necessaria la mia vita, o quella dei miei cari. Ma questa è solo una sciocca preoccupazione individuale.
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Canonizzato in direttissima

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Il ladrone è un film del 1980 di Festa Campanile, con un'Edvige Fenech molto in forma. Ho ricordi vaghi ma positivi.
25 marzo - San Disma, il ladrone buono.

One of the thieves was saved. It’s a reasonable percentage. (Waiting for Godot)

Il vangelo di Marco, forse il più antico, parla in effetti di due ladroni: uno a destra e uno a sinistra di Gesù. Così si avvera tra l'altro una profezia di Isaia: "È stato messo tra i malfattori". Dopo Marco, Matteo riprende l'episodio, ma è più ricco di particolari e aggiunge quello degli insulti a Gesù: anche i ladroni sulla croce lo scherniscono. Nessun accenno a un pentimento da parte di uno dei due. È Luca a mettere loro in bocca le parole: "Non sei tu Messia?", dice il primo, "salvati da solo e salva anche noi". E il secondo, con un po' di buon senso: ma lascialo stare. Non ce l'hai un po' di timor di Dio? Io e te ce la meritiamo, ma che ha fatto lui di male? Bellissime parole che Luca, cronista di razza, potrebbe aver recuperato da un testimone orale (Maria di Nazareth, ad esempio: Luca sa molte più cose di lei degli altri tre evangelisti). Ma potrebbe anche anche essersele inventate per dare più colore alla storia.

E però Luca è bravo e sa dove fermarsi prima di trasformare la cronaca in leggenda: il ladrone non rinnega la sua vita di peccato, non chiede a gran voce perdono: si comporta in modo semplicemente umano, rifiutandosi di passare le ultime ore della vita a ingiuriare un innocente compagno di sofferenze. Si potrebbe persino sostenere che ad avere più fede sia l'altro ladrone, quello che non si rassegna e si aspetta un miracolo in extremis - da un Messia è il minimo. Sarà stato senz'altro molesto, come molti disperati prima di morire, ma il Cattivo non fa che chiedere a Cristo quello che tutti si aspettano che Cristo faccia: staccati dalla croce e sàlvati, e già che ci sei salva anche noi. Il Buono però soggiunge:

"Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno".

È quasi certamente un Tiziano, custodito alla pinacoteca di Bologna, impaginato in modo molto singolare e moderno - ma forse è il ritaglio di una tela più grande. In alcuni quadri il Buon Ladrone non è inchiodato ma (a differenza degli altri due condannati) semplicemente legato.
Tutto qua e tanto basta: In verità ti dico, gli risponde quegli, oggi sarai con me in paradiso. Il processo di canonizzazione più rapido della Storia: l'unico a cui per ora Gesù Cristo ha partecipato direttamente e non mediante vicari facenti funzione. La semplificazione burocratica è tale che secondo alcuni il Buono è già assunto in cielo in carne e ossa, uno dei pochissimi a non dover aspettare la fine dei tempi affinché il corpo si ricongiunga con l'anima (è la condizione di Maria, forse di Giuseppe, di altri non si sa). La Chiesa non si è mai pronunciata ufficialmente, ma la credenza è così diffusa e radicata che non esistono reliquie del Ladrone Buono: neanche un ossicino, un dente, nulla. La croce, viceversa, è spezzata in varie schegge, la più grande custodita a Roma presso la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, che come dice il nome è una specie di parco a tema gerosolimitano che custodisce anche frammenti della Croce di Gesù, più alcune spine, il cartiglio di Ponzio Pilato, il dito dell'apostolo Tommaso e tanti altri souvenir della Terrasanta. Il Cattivo, per contrappasso, sarebbe stato inghiottito direttamente dall'inferno, attraverso una voragine che metterebbe tuttora la collina del Golgota in comunicazione con il fuoco eterno (continua sul Post...)
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