La mia amica Timeline (non me la canta giusta)

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Senza i tuoi capricci che farei? 

Ci sono stati giorni d'odio, ci sono state mezz'ore d'amore. Mesi, soprattutto, di reciproca indifferenza. Poi siamo invecchiati assieme e ormai se penso a lei penso soprattutto a un'amica, talvolta bizzarra ma tutto sommato affidabile. A volte ho il sospetto che parli male di me alle mie spalle, ma non potrei evitarlo - e poi forse a volte me lo merito. Perciò sì, in linea di massima le voglio bene, alla mia amica Timeline.

Se non ci fosse lei, certe cose le imparerei per ultimo. Non ci fosse lei, certe risate proprio non me le farei. A volte penso che sia un po' troppo sofisticata per me. Altre volte troppo frivola, ma è anche colpa mia se me la sono cresciuta così, e poi se passa qualcosa di interessante in tv lei mi avverte in tempo reale. Davvero preferirei che mi disturbasse con gli ultimi sviluppi della politica internazionale?

A volte le invidio la vitalità, la voglia di scherzarci sopra sempre e comunque. Altre volte la stessa vitalità mi infastidisce - voglio dire, non è che devi sempre fare la battuta su qualunque cosa. A volte se non ci fosse mi mancherebbe. Altre volte è Sanremo. Una cosa che se chiedo in giro a scuola, o tra i coetanei boh, sembra non interessi più a nessuno. E questo un po' mi dispiace, non so perché; al punto da trovare consolante il fatto che se ne preoccupi la mia amica Timeline. Perché a lei miracolosamente Sanremo interessa ancora.

Non dirò che le piace, anzi - non le va mai bene. Se lo fa la Clerici è troppo trucido, se lo fa Fazio troppo intellettuale, se lo fa Conti era meglio Fazio, eccetera. Ma almeno lo guarda, non se lo perde mai. E a me importa che qualcuno lo guardi. Possibilmente in un'altra stanza rispetto a quella dove sto io, com'è sempre stato credo dall'Ottantacinque. Alla fine è una vecchia zia, la mia amica Timeline.

Lo si capisce dopo un paio d'ore di battute sagacissime, dopo che ha demolito il presentatore e le vallette e com'erano vestite loro e com'era abbronzato lui. Lo si capisce quando arrivano Albano e Romina, e lei senza vergogna si mette a cantare come fosse l'Ottantacinque, la mia amica raffinata e incontentabile, la mia cara Timeline.
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Il lungo e folle volo di Iñárritu

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Questa per esempio non si sarebbe potuta mai fare,
perché è troppo scura - non c'erano luci se non
quelle su Broadway
Birdman, o l'imprevedibile virtù dell'ignoranza (Alejandro González Iñárritu, 2014)

Ma guarda che cesso di posto. Chissà se qualcuno viene mai a spolverare questo buco di merda. Come siamo arrivati fin qui, Alejandro?
Noi non apparteniamo a questo posto. Perché non siamo a LA a bere ginger ale su un terrazzo mentre leggiamo copioni drammatici sui destini incrociati di persone qualsiasi? Cristo Alejandro, c'era una sola cosa al mondo che sapevi fare bene, e te la stai fottendo, lo sai vero? Ti stai fottendo la carriera, sapresti dirmi per cosa esattamente?
"Mr Iñárritu quando vuole uscire siamo pronti a girare".
Non ascoltarli. Lo sai che mentono. Non sono pronti e lo sai benissimo. Non saranno  mai pronti per questo film, perché questo film è impossibile da girare e tu lo sai, come lo so io. Chi ti credi di essere, alla fine?

 Non è che non apprezzi, è che la cosa meritava
 secondo me un maggiore approfondimento,
magari uno spin off, una serie tv in due o tre stagioni.
Senti, io ti conosco da così tanto tempo, e te lo devo proprio dire. Sono l'unico che ti vuole bene qui dentro. L'unico. Gli altri hanno paura di te, o sperano in te come un naufrago spera in un canotto anche se ha già visto che è forato. Ti diranno tutti che sta andando tutto bene, che il film funziona, che l'idea è geniale, e non è vero un cazzo. L'idea è irrealizzabile e loro hanno una paura fottuta di sbagliare. Il tuo protagonista non fa una parte importante da vent'anni, e anche a quel tempo usava una maschera. Ma almeno è riuscita a tenersela per un sequel. Sempre meglio di quello giovane, che non è più giovane da un pezzo, ed  riuscito a farsi cacciare a calci pure dall'universo cinematico Marvel, ti rendi conto? Sai cos'ha fatto di importante negli ultimi dieci anni? Il re lebbroso, anche lui rigorosamente mascherato. Lo capisci che sono fantasmi, vero? Gente di cui ci stiamo tutti dimenticando il volto? È con questa gente che ti stai riducendo a lavorare, Cristo, tu hai ancora il numero di Brad Pitt in rubrica e invece lavori con Naomi Watts. Sai cosa faceva Naomi Watts nell'ultimo suo film? La nonna. Ora dimmi di chi è l'idea di farle baciare Andrea Riseborough, la cosa più gratuita che ti ho mai visto girare - coraggio, dimmi che non l'hai fatto per il panico, per avere almeno qualcosa di stuzzicante da mettere nei trailer, dimmi che non hai piazzato un bacio lesbo inutile perché hai la paura fottuta che questo film non se lo guardino nemmeno i critici in copia di valutazione (continua su +eventi!)

Ma cosa c’è che non va, Alejandro? Con Biutiful hai incassato un quinto di Babel, sarà questo? Non ha nessuna importanza finché hai ancora un piede a Hollywood. Ma quel piede devi tenercelo sul serio. Devi fare le cose che sai fare, le cose che la gente si aspetta. Destini incrociati, montaggi serrati, la gente vuole il dramma ma soprattutto vuole saltare di scena in scena senza troppe menate. Sono bambini iperattivi, anche se si danno arie d’adulti. Si stancano subito, non lo vedi che a metà proiezione si mettono a twittare? Cosa pretendi da loro, un piano sequenza di due ore? chi cazzo ti credi di essere, Sokurov?



Signori qui se qualcuno sbaglia una battuta tocca rifare una ripresa di dieci minuti.

Perché non ti rassegni a mettere la maschera che ti sei fatto? La gente vuole quella. La gente ha bisogno di maschere, sono comode. Si riconoscono da lontano. Perché vuoi provare a fare cose che nessuno sa ancora come fare? Cosa ti porta verso il disastro esattamente? Non puoi accettare di essere Iñárritu, il regista messicano dallo stile abbastanza riconoscibile? Stai girando un film per chi, esattamente, qualche milione di palati raffinati in tutto il mondo la cui sola preoccupazione è dove andranno a mangiare dopo la proiezione? Credi che a qualcuno di loro gliene fotta realmente qualcosa di te? E diciamocelo in faccia, Alejandro, non lo fai per amore dell’arte. Lo fai perché vorresti essere nei manuali di Storia del cinema, vorresti essere davvero Qualcuno. Come se non ci fosse là fuori un mondo pieno di gente che lotta all’ultimo sangue per essere Qualcuno – ma per te nemmeno esistono. Accadono cose continuamente, in luoghi che tu sei fiero di ignorare, e in quei luoghi tu sei già stato completamente dimenticato. Stai facendo tutto questo perché l’idea di non importare più a nessuno ti spaventa a morte, come chiunque altro, e sai cosa? Hai ragione. Non importi più a nessuno. Non sei nemmeno qui. Non sei che un puntino minuscolo sull’ultimo foglio di carta igienica su cui è tratteggiata la storia dell’umanità. Se pensi che il tuo suicidio professionale sia uno spettacolo artisticamente rilevante, perché non vai davanti al tuo pubblico di figuranti e non ti spari direttamente un colpo in testa?

“Mr Iñárritu, mi ha sentito?”.
“Arrivo, arrivo”.
(Birdman era un film impossibile da fare, finché Iñárritu e tutti gli altri non lo ha fatto e adesso è uno dei più bei film degli ultimi anni, che vale assolutamente la pena di andare a guardare, stasera, al cinema Fiamma di Cuneo alle 21:10).
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La virtù dell'ignoranza

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Ciao, scusate se non mi sono fatto sentire per qualche giorno: influenza, scrutini, neve, cavallette, ma soprattutto Kekkoz mi ha chiesto di fare i Pregiudizi. Se non sapete di cosa sto parlando non è grave, magari siete solo giovani. Dunque, dovete sapere che una volta, tanti anni fa, i film nelle sale uscivano il venerdì, e il venerdì chi aveva una connessione internet passava una discreta parte del suo tempo on line a fare f5 su Friday Prejudice, un blog in cui Kekkoz parlava dei film prima di averli visti. Era solo un gioco ma era molto divertente - finché un giorno lui non ne ha potuto più e ha cominciato a invitare nel suo blog gente che ne capisce di cinema. A un certo punto devono essere finiti, perché si è ritrovato a chiedere a tipi come me. Io comunque ce l'ho messa tutta. Era la mia occasione per dimostrare qualcosa, non so neanche bene qualcosa ma eccomi qua.

Ciao sono kekkoz e tenete stretti i braccioli perché questa settimana ho scomodato una leggenda della blogopalla italiana: Leonardo. Sì, questi pregiudizi li ha scritti proprio Leonardo, e intendo Leonardo, l’autore del blog Leonardo. Devo veramente dire altro? Leonardo, gente.

birdman jupiter iceman
BIRDMAN
Ciao a tutti, mi chiamo Leonardo e avevo un sogno: scrivere su Friday Prejudice, il mio preferito tra quei pochi blog in lingua italiana in cui non mi avevano ancora fatto entrare. Fino a oggi! Oggi è il mio grande momento! Sono molto emozionato, anche perché, come alcuni di voi sapranno, non so un cazzo di cinema ma mi ostino a parlarne. Con Birdman vado tranquillo perché se siete lettori di Friday probabilmente ne sapete più di me, e se ne sapete più di me siete consapevoli di che razza di bomba sia innescata sotto le nostre poltroncine, e del fatto che Iñárritu stavolta abbia davvero messo d’accordo tutti (92% al pomodorometro, si dice così?) Anzi è probabile che a questo punto l’abbiate già visto, e siccome era a Venezia l’anno scorso non saprei biasimarvi. Però se avete dieci euro e due ore io vi propongo di esplorare lo stesso un multisala al pomeriggio e guardare quanti ragazzini entrano convinti di farsi il classico film di supereroi del mese, e come reagiscono di fronte a una specie di lungo piano sequenza su un vecchio attore che ha un sogno ma deve lottare coi suoi fantasmi. BOMBA DI FINE DEL MONDO.

JUPITER – IL DESTINO DELL’UNIVERSO
Ciao a tutti, sono sempre quello di prima e due anni fa avevo un sogno: i fratelli Wachowski che all’improvviso si scuotevano dal loro torpore e da una base improvvisata nel Vecchio Mondo si mettevano a bombardare la prevedibilità hollywoodiana sovvertendo le regole del cinema d’azione. Ma poi qualche mese fa ho visto il primo trailer di questa roba, con Mila Kunis che di mestiere scrosta i gabinetti con l’Anatra WC ma ha un sogno: salvare l’universo! E infatti Channing Tatum con le orecchie a punta le spiega che lei è la reincarnazione della principessa dell’umanità, e il tutto è un’idea originale dei Wachowski. Come dire che le idee originali le hanno finite persino loro – se tutto quello che riescono a tirar fuori è un polpettone per young adults su un canovaccio che gratta gratta (con l’Anatra) è Cenerentola. E io ci ho voluto bene a ‘sti due registi squinternati. Ho difeso Cloud Atlas e i suoi trucchi e parrucchi imbarazzanti, e l’idea di un cinema veramente sconclusionato e folle, e nel frattempo loro mi imbastivano questa roba che ha tutta l’aria del primo episodio di una trilogia che poi diventa una quadrilogia perché tanto ormai i costumi li abbiam fatti fare e vaffanculo. Il cuore insomma mi dice pecora, ma un’altra voce dentro di me controbatte: in campana, lo sai che non capisci un cazzo di cinema, vero? Lo sai che i Wachowski ogni volta che si mettono d’impegno fondano una religione? Cioè pillola rossa e pillola blu, te le ricordi? Il revival della gnosi, l’unica realtà virtuale credibile mai messa su celluloide? E la maschera di Guy Fawkes, le avresti mai più dato una chance? Occhio che questo ha veramente l’aria di un puttanata usa-e-getta, ma potrebbe anche contenere quelle due tre situazioni che si salderanno nell’inconscio della prossima generazione. Speriamo che tra queste non vi sia quel siparietto in cui Tatum dice: Maestà io di fronte a lei sono un cane! e lei risponde: mi piacciono i cani, e poi che succede? Gli allenta il guinzaglio? Gli lancia un bastoncino? Gli offre pietosa un ginocchio su cui – PENSATORE.

THE ICEMAN
No, aspetta, adesso devo tirarmi via dalla testa l’immagine di Mila Kunis che scende nel parco a pisciare Channing Tatum. Secondo voi di che razza è? Mastino? Io senza museruola non lo porterei. Ma le orecchie non gliele puoi mozzare? Tutto questo è anche un po’ colpa di Facciamola finita, non so se avete presente quella scena in cui porta il collare e – a proposito, in The Iceman c’è James Franco! E poi c’è Wynona Rider! C’è Ray Liotta che secondo me fa il gangster, una coraggiosa scelta di casting(*). Però il protagonista è Michael Shannon che interpreta Richard Kuklinski, un onesto padre di famiglia che negli anni Sessanta ha un sogno: vuole arrivare a fine mese. Così per arrotondare comincia ad ammazzare la gente per conto della mafia, ma la cosa gli scappa un po’ di mano e ne fa fuori forse duecentocinquanta. Insomma è la risposta mafiosa ad American Sniper: un soggetto che si vende da solo, una storia pazzesca, un cast interessante, e tuttavia ci ha messo tre anni ad arrivare nelle sale italiane (era a Venezia l’anno prima di Birdman). Il che secondo me vuol dire una sola cosa e quella cosa non è Bomba. Il trailer, per quel che vale, suggerisce l’idea di un sacco di gente ammazzata in fretta perché il pubblico vuole le emozioni ma anche il bodycount. Pensatore? Pensatore.
(*) IRONIA

mune nonsposate educaz

MUNE – IL GUARDIANO DELLA LUNA
Dalla locandina sembra discretamente orribile. Mune è farina del sacco di Alexandre Heboyan, già animatore per la Dreamworks di film abbastanza sopra alla media della Dreamworks (Mostri contro alieni, Kung Fu Panda), ma se l’orsetto ciccione aveva un indubbio peso comico, questa creaturina efebica che ha un sogno (guardare la luna) risulta antipatica a pelle; sembra Avatar di Cameron ridisegnato da un tredicenne in fissa dura con gli anime. Il trailer va già meglio; diciamo che i francesi nell’animazione 3d non hanno rivali continentali, e prima o poi un sabato sera piovoso su Italia1 Mune potrà risolvervelo, specie se avete bambini. Ma portarli al cinema per questa roba, nah. Gli stronzetti ve lo chiedono perché hanno visto il trailer col leprotto blu tutto occhioni? Tenete duro, la prossima settimana esce il film di Shaun the Sheep. Non sapete cos’è Shaun the Sheep? Rimediate subito!

NON SPOSATE LE MIE FIGLIE
Questo è un grande successo di pubblico in Francia, e quindi si può tranquillamente aggirare in attesa del remake italiano in cui la coppia cattolicissima che ha un sogno (sposare una figlia su quattro con un correligionario) potrebbero farla, boh, Castellitto e la Buy? Bentivoglio e la Morante? Quante combinazioni sono ancora disponibili? La premessa è la medesima di Indovina chi viene a cena, soltanto che siamo nel 2015, le figlie sono quattro, e quella che porta a casa il nero arriva ultima; la prima aveva portato un ebreo, la seconda un musulmano, la terza un cinese. Choc culturali a strafottere! Tanti quiproquo ma anche tanto amore! Un inno alla multiculturalità e alla tolleranza che non trova il pubblico italiano nel momento migliore, diciamo così. Ora però sto pensando a chi sarà il nero nella versione italiana – possibile che non abbiamo un solo attore afroitaliano credibile, nel 2015? Neanche qualcuno che abbia fatto un po’ di fiction, niente? La pubblicità del kinder bueno vale? Nel frattempo a questo film diciamo Pecora. Un po’ pensosa, ma pecora.

EDUCAZIONE AFFETTIVA
Ma com’è entrare in Friday Prejudice, com’è? Sono contento che mi abbiate fatto questa domanda. Dunque, all’improvviso ti levano il cappuccio e ti ritrovi in una stanza buia. Intorno a te ci sono tutti i più grandi cinefili dell’internet italiana, ma non riesci a vederli. Di colpo una fessura di luce, una porta cigolante si apre e viene calciato dentro a forza un piccolo Film Italiano. A quel punto la voce di Kekkoz risuona, vagamente camonica, nell’oscurità. CANDIDATO! SE VUOI ESSERE DAVVERO AMMESSO, SAI COSA DEVI FARE.
“Ma è solo un piccolo film, non ha fatto niente di m-“.
“DERIDILO!”
“Ma non l’ho neanche vis-”
“PORTATELO VIA, NON È UNO DI NOI”.
“No, no, aspettate”.
Dunque. Che roba è? Un reality su una classe di quinta elementare che ha un sogno ma vive con ansia l’attesa di quell’orribile trauma che sarà il passaggio in prima media? Diomio, ma è davvero sfortunato. Gli doveva proprio capitare la settimana in cui i pregiudizi li scrive un prof delle medie? Allora, tanto per cominciare non si chiama più “elementare” da vent’anni. Primaria. Si chiama primaria. E poi lo so, che ci volete fare bambini miei, è terribile, tra tre mesi arriverete in un posto dove per la prima volta qualcuno pretenderà da voi che scriviate IN ITALIANO. CON LA PUNTEGGIATURA. E INVECE VOI AVETE PASSATO CINQUE ANNI A DISCUTERE DELLE VOSTRE CAZZO DI EMOZIONI, DEI VOSTRI CAZZO DI AFFETTI, A FARVI I GRATTINI NEI BRACCINI, E AVETE IL QUORE PIENO DI EMOZZIONI MA NON SAPETE ANCORA COME SI SCRIVONO. E ALLORA MI FATE GLI EMOTICON NEI TEMI E DEVO SPIEGARVI CHE QUATTRO È UN VOTO BRUTTO. No, no, fermatemi, non posso deriderlo davvero, c’è un conflitto d’interessi. Poi in realtà sono convinto che l’educazione all’affettività sia importante, specie adesso che Famiglia Cristiana dice che fa diventare i bambini gay, giuro – oddio in effetti nel trailer c’è una bambina che celebra il matrimonio di altre tre (“vi dichiaro moglie, moglie, moglie”); il che alle Sentinelle in Piedi non garberà. E poi ci sono tutte quelle inquadrature coi bambini di spalle, tutte quelle nuche in soggettiva che fanno molto Gus Van S-PENSATORE.

PS: moratoria su Vasco nei trailer. Ovviamente i bambini di questo film, quando uscì quella canzone (in un altro film) non erano ancora nati.

leoni nonce biagio

LEONI
Leoni è una commedia sul Veneto in crisi in cui stranamente non c’è Battiston, bensì Marcorè che ha un sogno (pagare i debiti) e sfoggia il suo accento messo a punto al tempo in cui fu Papa Luciani – il sorriso di Dio. Essendo il Veneto, ed essendo in crisi, il pensiero corre subito ai film di Mazzacurati, e la tristezza si vena di inquietudine: sapete quanti anni ha La lingua del Santo? Quindici. Il toro ne ha venti. Cioè voi la chiamate “crisi”, ma c’è tutta una generazione nelle scuole primarie e secondarie che c’è nata in mezzo. Non l’hanno vista iniziare e non si sognano nemmeno più che finisca. E questo non solo in Veneto, anzi sono un po’ invidioso perché questi film di cialtroni senza scrupoli li fanno quasi sempre in Veneto, al massimo in Piemonte e in Lombardia, e noi emiliani chi siamo? Possibile che le nostre infiltrazioni camorristiche non interessino nessuno? Perché non attraversate il Po, di chi avete paura? Di Pupi Avati? In effetti. Comunque questo film dal trailer non mi sembra così deridibile, c’è quel crocefisso di plastica che come correlato oggettivo è un po’ banale ma funziona, insomma un pensatore me lo gioco. Non ho la minima idea di chi sia il regista – ho googlato ed è uscito un arcivescovo cardinale segretario di Stato del Santo Padre, ah ah ah, vi immaginate se l’ha girato lui per davvero?

NON C’È DUE SENZA TE
La vera ragione di interesse per questo film (oltre a Belén Rodriguez), consiste nel suo essere uno spinoff dell’opera prima di Checco Zalone, richiamata sin dalla locandina nuvolosa. Come avrete notato, il 2014 è stato un anno senza Checco Zalone. È un problema? Dipende. Diciamo che la sua latitanza potrebbe giustificare da sola la flessione del 7% negli incassi nelle sale italiane – 44 milioni di euro in meno; lui però l’anno prima ne aveva incassati da solo più di cinquanta. Dunque oggi come oggi la crisi del cinema è quella cosa che avviene se Checco Zalone si prende una vacanza. Ovviamente le cose sono più complicate, perché in sua assenza molti hanno cercato di colmarne il vuoto, col risultato di inflazionare il segmento commedia ridanciana però con un occhio all’attualità. Tra tanti c’è pure Massimo Cappelli che ha pensato bene di prendere la coppia gay e la locandina zaloniana, montarci sopra Belén (che ha un sogno), e figurati se non sarà un successo. La premessa del quarantenne gay che se incontra Belén diventa meno gay è abbastanza avvilente: cioè io per carità sono di quelli che ancora si ostinano a credere che la sessualità sia un costrutto sociale, però a quarant’anni se Channing Tatum viene ad abbaiare sotto casa mia mica divento meno etero. O no? Bisognerebbe fare l’esperimento. Comunque a nessun regista italiano di commedie ridanciane ma con un occhio alle evoluzioni della società è ancora venuto in mente di prendere un padre di famiglia quarantenne e facciamo che incontra un bel manzo e all’improvviso scopre che è un po’ gay. O me lo sono perso? Insomma, direi che è Pecora. E così finalmente ho trovato il mio FILM ITALIANO DA DERIDERE DELLA SETTIMANA!
“IL CANDIDATO HA SUPERATO LA PROVA”.
“SUL SERIO?”
“STAI VERAMENTE RASCHIANDO IL BARILE, KEKKOZ”.
Grazie grazie sono commosso. Come?
Dite che devo pregiudicare anche l’ultimo film? Secondo me se ne sono andati tutti ormai. Comunque ecco a voi

BIAGIO
Biagio ha un sogno: trovare Dio. Nel silenzio. Nei pascoli. Tra i barboni. Prima aveva tutto ed era triste, adesso indovina: tutto il contrario! Eccetera. Tra quarant’anni, se non saremo tutti tornati pastori (tutti felicissimi), probabilmente qualcuno metterà in fila i film e i libri di questo filone neopovero neorurale, e noterà che sono davvero tanti e che questo senz’altro voleva dire qualcosa. Io conservo un po’ di stima per Pasquale Scimeca dai tempi di Placido Rizzotto, forse solo per quella corsa contro la morte il tempo e la guerra che mi fa venire i brividi ogni volta che ci ripenso (più spesso di quanto vorrei), e malgrado il trailer rabbrividente spero che il suo film neopovero sia più vicino all’Olmi migliore che ai pensierini di quel barbone in maglietta che andava sempre nei talk della Bignardi – non credo che lo vedrò mai, ma un pensatore posso lasciarglielo, per quel che mi costa. E questo è tutto. Come sono andato? Come sono andato?
Ehi, c’è ancora qualcuno?
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Un Renzi machiavellico, mah.

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A questo punto chi considerava Renzi un utile idiota ha avuto abbastanza occasioni per ricredersi. Sul fronte opposto, c'è chi approfitta dell'elezione di Mattarella, un giudice costituzionale dal profilo ben poco renziano, per celebrare un Renzi geniale in grado di mettere nel sacco alleati e avversari. Mi chiedo quanto quest'ultima interpretazione non risenta della nostra fame di personaggi machiavellici, della nostra necessità di immaginare al comando dei professionisti cinici ed efficienti. Forse dovremmo guardare un po' meno House of Cards, tutti quanti.

Renzi è stato bravo - non ho una grande simpatia per lui, ma quando ne azzecca una non ho difficoltà a riconoscerlo - ma non abbiamo nessun motivo per credere che l'elezione di Mattarella sia il risultato di un piano congegnato al millimetro, piuttosto che di un elaborato concorso di cause che ha favorito, come quasi sempre, chi aveva in mano le carte più buone. Può naturalmente darsi che Renzi pensasse a Mattarella già da mesi, e che abbia illuso Berlusconi per tutto questo tempo. Come può benissimo darsi che Renzi pensasse a un candidato diverso, e che a un certo punto si sia dovuto irrigidire di fronte alle richieste di Berlusconi (la grazia per sé, o per Dell'Utri).

Certo, preferire questo secondo scenario significa rinunciare all'idea del Renzi grande tessitore. In compenso recupererebbe un po' di coerenza l'azione del PD in questa legislatura, prima e dopo il cosiddetto patto del Nazareno. Per quanto costretti a venire a patti con Berlusconi, gli uomini del PD si sono sempre fermati di fronte a una soglia precisa: ogni volta che Berlusconi ha cercato di ottenere in cambio della propria collaborazione un lasciapassare giudiziario, il PD si è bloccato. Successe ai tempi della decadenza del Senato, è successo di nuovo stavolta. Magari se Berlusconi non avesse tirato troppo la corda, un presidente più vicino sia lui che a Renzi avrebbe potuto essere eletto al primo scrutinio: d'altro canto non sarebbe Berlusconi se non cercasse sempre di forzare la partita a suo favore. Contro B. però a questo punto gioca anche il tempo, che dà a Renzi un vantaggio sul quale non poterono contare i suoi predecessori. In futuro magari la racconteremo come di un Davide democratico contro un Golia monopolista, omettendo il fatto che Golia a quel punto aveva settant'anni, pendenze giudiziarie e altri acciacchi.

È facile fare ironia sui retroscenisti ossessionati dal patto del Nazareno, che anche questa volta non avevano capito niente; e però stiamo parlando di politica, che non è l'arte di indovinare quel che succederà, ma di farlo succedere. Se Renzi ha ritenuto necessario non cedere a Berlusconi e ricompattare PD (e SEL, persino), non sarà anche per merito di chi in tutto questo tempo lo ha tirato per la giacchetta accusandolo di intelligenza col nemico? Gli ultimi sondaggi non erano molto positivi per lui - è vero che di solito sbagliano, ma lui li legge lo stesso. Forse senza questa ossessione pubblicistica per l'inciucio, Renzi avrebbe avuto qualche scrupolo in meno ad accordarsi con Berlusconi. Forse, chissà.

C'è comunque un limite all'eterogenesi dei fini, ed è quello che scavalca penosamente Aldo Giannulli quando rassicura i grillini sul fatto che Mattarella al Quirinale sia una "discreta" vittoria del MoVimento. È un po' quel tipo di vittorie che l'Eiar annunciava su tutti i fronti di terra di aria e di mare negli anni Quaranta. Certo, Machiavelli riteneva più conveniente "andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa". D'altro canto Machiavelli scriveva per il principe, mica per un blog.
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L'ultimo dei nonni

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Oggi forse eleggono il presidente e io non ho niente da mettermi. Sono molto contento di aver trovato altro di cui parlare, in questi giorni, visto che non avevo la minima idea di cosa sarebbe successo. Sono contento che Berlusconi sia rimasto spiazzato - credo che lo spiazzamento di Berlusconi abbia un valore in sé. Sono anche relativamente soddisfatto che dagli anfratti del colle Quirinale si sia trovato qualche altro notabile settantenne: non che il nome di Sergio Mattarella trasfonda in me un qualsiasi entusiasmo, ma nelle ultime settimane erano girati nomi tali da renderlo ai miei occhi, per contrasto, un padre della patria. In realtà ricordo poco di Mattarella (fece anche il ministro dell'istruzione in un antichissimo governo Andreotti), ma in un qualche modo sono già sicuro che sarà un buon presidente. D'altro canto, c'è mai stato un presidente che non mi sia piaciuto?

Questo blog esiste da quattordici anni, infida età. C'era giusto lo spazio per due settennati, ma le cose si sono un po' complicate, e così abbiamo assistito agli ultimi cinque anni di Ciampi e a nove, dico nove anni di Napolitano. In tutto questo tempo ho scritto un sacco, soprattutto di politica, non perché io ne capisca un granché ma perché è l'argomento più semplice e quello che richiama più lettori. Persino il calcio secondo me richiede più impegno della politica (come minimo ogni tanto ti devi guardare una partita). In tutto questo tempo credo di essermela presa con chiunque - certo con qualcuno più che con qualcun altro - eppure non trovereste, nemmeno se aveste davvero voglia di cercarla, un sola riga di biasimo per il presidente Napolitano o per il presidente Ciampi. Nessuno dei due mi ha fatto impazzire, nessuno dei due mi sembrava criticabile. Forse c'è in me un senso dello Stato, un rispetto per le istituzioni più forte di quanto uno possa sospettare.

Ai tempi di Scalfaro non avevo un blog, ma posso dire di averlo molto stimato anche se i suoi messaggi alla nazione erano insopportabilmente lunghi e alati, e il suo "non ci sto!" mi imbarazzò parecchio. Prima di Scalfaro c'era Cossiga: l'unico presidente che ho trovato discutibile. Molto discutibile: ma solo negli ultimi anni. Col senno del poi non sono tantissime le cose di cui mi pento, ma tra quelle c'è l'aver pensato che l'impeachment per il caso Gladio fosse una cosa seria. Prima di Cossiga c'era Pertini e questo potrebbe anche spiegare tutto: io sono di quello scaglione che è cresciuto con Pertini alla tv, e Pertini alla tv non si discuteva, si amava. Sono passati molti anni, la figura di Pertini mi si è parecchio ridimensionata (grazie soprattutto a chi ne ha fatto un santino), ma forse per me il presidente è ancora un nonno. Un tizio che merita rispetto prima di tutto, anche se non è detto che capisca sempre quello che succede. Questa idea del presidente nonno mi ha forse impedito di ironizzare sulle derive patriottarde dell'ultimo Ciampi, o di preoccuparmi il dovuto della situazione del tutto particolare in cui si trovò Napolitano dalle dimissioni di Berlusconi in poi. Continuo a credere che in quel frangente, e nei successivi, Napolitano prese decisioni forti, ma del tutto ragionevoli. Però forse sono obnubilato dal mio rispetto per il nonno. Il che spiegherebbe parzialmente il mio disagio per i nomi che erano stati fatti nei giorni scorsi. Alcuni di questi erano persino ragionevoli, ma non sarei mai riuscito a considerarli davvero i miei presidenti (a parte Veltroni, che avrei voluto al Colle solo per divertimento). Erano tutti politici di lungo corso che conosco troppo bene per ammirare, forse il problema è tutto qui. Ma forse c'è un'altra spiegazione: non appartengono più alla generazione dei nonni.

Mattarella dovrebbe essere il primo presidente nato negli anni Quaranta, seppur di striscio ('41). Mio padre è dell'anno successivo: il discrimine. Di quelli nati dopo non mi fido. Alcuni so che sono bravi, anche molto bravi. Ma ho la sensazione che possano essere bravi ai miei danni, una sensazione che i nonni non danno mai. L'idea che ormai sia finita, che la cosa pubblica sia interamente nelle mani di gente più giovane di mio padre, se non di me, mi dà una vertigine tremenda e mi spinge ad aggrapparmi a qualsiasi sostegno, sia pure un canuto moroteo. Esprimo dunque i miei più cordiali auguri al nuovo presidente, sempre che oggi lo eleggano.
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Il film più spaventoso che guarderò quest'anno

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Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

Dici che sei mia figlia e sei un'attrice, uhm, la seconda mi lascia molto perplessa.
Una volta ho letto di un paesino in Olanda che in realtà non è un paesino vero, è un'enorme casa di cura per malati di quella malattia, quella che ti mangia i ricordi. Poche cose mi fanno più paura. All'inizio sembri soltanto un po' più sbadato del solito. Ti distrai, cambi argomento e sembra quasi che lo fai apposta. A volte lo fai apposta per non far capire che non ti ricordi più di che argomento stai parlando. La tua mente elabora strategie per tenerti in sella anche se non reggi più il ritmo di una banale conversazione. Finché a un certo punto non ti ricordi più esattamente con chi stai conversando, chi è quella brava giovane? Qualcuno ti ricorda che è tua figlia. Ah. Ma certo, naturalmente.

Still Alice è un film misurato, mettiamola così. Descrive un inferno dal vestibolo. D'altro canto, qualcuno ha davvero voglia di entrare a guardare com'è fatto l'inferno? La persona a te più cara potrebbe svegliarti nel cuore della notte e non riconoscerti. Tutte le notti. Quanti ricordi devi perdere prima di non essere più te stesso? Una volta ho letto di un paesino in Olanda, appunto, che in realtà non è un paesino vero, ma un'enorme casa di cura. Telecamere in tutte le strade. E un sacco di personale di servizio - giardinieri, vigili urbani - che in realtà sono dottori e infermieri. È una storia che mi ha scosso perché, effettivamente, come posso essere sicuro di non vivere in un posto del genere già in questo momento? E come puoi esserne sicuro tu che mi leggi? Ti ricordi cosa stavi facendo cinque minuti fa? A cosa stavi pensando un attimo prima di cliccare qui sopra?

D'altro canto come faccio a essere sicuro che tu esisti. Se io vivessi laggiù mi avrebbero tolto internet da un pezzo. Però avrei ancora l'illusione di scrivere, magari su una rete chiusa al pubblico, con qualche infermiere che viene a complimentarsi nei commenti. Probabilmente scriverei lo stesso pezzo all'infinito, senza mai pubblicarlo. Oppure lo pubblicherei una dozzina di volte, con qualche variazione. Di cosa stavamo parlando?



Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

Mia figlia d'accordo, ma un'attice?
Siamo seri, su.
Quanti ricordi puoi perdere prima di smettere di essere te stessa? Still Alice è un film misurato, mettiamola così. Il tema - una delle malattie più spaventose - si prestava a tutta una serie di possibilità cinematografiche che i registi hanno scartato, optando quasi sempre per le soluzioni più banali (i ricordi sono girati, indovinate, in super8). In sostanza è un film dove Julianne Moore - ovviamente bravissima - perde la memoria. Alec Baldwin rimane forse un po' troppo ingessato nel ruolo del marito che a un certo punto non ce la fa più. Kristen Stewart invece è la figlia di Alice, un'attrice fallita - la sua migliore interpretazione, ah ah ah - no, in realtà almeno nella versione doppiata i suoi monologhi sono un po' imbarazzanti. Molte scene sono efficaci nell'esprimere un orrore quotidiano che è più spaventoso di quello di tanti horror contemporanei, ma alla fine la sensazione è che i registi si siano contentati di descrivere un inferno dal vestibolo. I malati possono comportarsi in modo molto più osceno di così. Possono picchiarti perché nel cuore della notte si svegliano e non ti riconoscono. Possono prendere un figlio per un padre, un nipote per un marito. I malati di quella malattia.

Quella che mi fa più paura di ogni altra al mondo.


Quant'era piccolo il Manitoba all'inizio
C'è un posto in Olanda di cui ho sentito parlare, dove i pazienti sono convinti di vivere una vita normale. Hanno le loro case, i loro amici. Ma le case sono quartieri di una clinica, gli amici sono altri pazienti, e i dottori sono giardinieri e vigili travestiti. Pare che vivano meglio così, più a lungo e con meno medicine. Mi domando se ci possa essere internet, in un posto così. Magari una rete interna. In effetti i primi stadi della malattia somigliano in un qualche modo alla nostra esperienza on line. Tu accendi per controllare la data di scadenza del bollo e, wow, guarda che video di gattini! Postato dalla Columbia Britannica. Che poi tra parentesi dov'è? In Canada credo, fammi controllare - giusto. Ma perché si chiama così? Ah, ma a un certo punto anche gli Stati Uniti dovevano chiamarsi "Columbia", ecco, questo non lo sapevo! Un attimo.

Perché sto controllando la voce Columbia di wikipedia? (Continua su +eventi)

In questi casi a volte lambiccarsi è inutile, meglio andare a controllare la cronologia. Dunque. Kristen Stewart?
Perché sono andato a controllare la bio di Kristen Stewart? Non mi piace nemmeno.
Ha sempre quel broncetto che - no, un momento. Diamo un'occhiata all'ultimo film che ha fatto. Ah, certo, naturalmente.
Posso anche credere che tu sia mia figlia, ma un'attrice la so ancora riconoscere che ti credi


Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

Quanti ricordi puoi perdere prima di smettere di essere te stessa? In uno dei momenti più tranquillamente atroci del film - il film più spaventoso che ho intenzione di vedere quest'anno - il dottore spiega ad Alice che i pazienti intellettuali rendono più difficile il lavoro ai dottori. La memoria se ne va lo stesso, più o meno alla stessa velocità, ma la mente dell'intellettuale conosce più trucchi per tenersi in sella. Forse la cultura, l'istruzione, in fin della fiera consistono in questo: un repertorio di trucchi per ricordare meglio le cose. Se hai studiato sai come girare intorno a un argomento all'infinito. Dopo un po' la gente penserà che ci stai scherzando su. Tu stesso penserai che ci stai scherzando su, e che se solo volessi potresti ricordare benissimo quella parola. Quella data. Quel volto. Quel ricordo.

È un po' come quando ti perdi su internet - esiste un posto in Olanda dove i pazienti vivono in una clinica a forma di paesino - beh, immagino che passino il tempo a discutere un po' come noi discutiamo su Facebook, di tutto e di niente. Non si sa bene chi abbia cominciato la discussione, ogni tanto in cima compare un video di gatti e ci mettiamo tutti a guardarlo, poi ci rimettiamo a parlare di qualcosa o di qualcos'altro ma senza mai concludere nulla, e del resto che dovremmo concludere? Non ci ricordiamo neanche bene come siamo arrivati qui, e però adesso ci siamo e almeno non stiamo picchiando qualche famigliare perché non lo riconosciamo più.

Still Alice si sporge sul bordo dell'inferno, ma non guarda troppo a fondo e forse è un bene. Non c'è niente di davvero interessante laggiù. L'aspetto realmente spaventoso della malattia è il suo primo manifestarsi, con una dimenticanza occasionale, un lapsus, una parola che hai sulla punta della lingua. E allora controlli internet - uh, guarda, c'è un video di cani che interrompono i padroni mentre fanno yoga. Sono buffi.



D'altro canto se continuo a guardare video su internet la recensione quando la scriverò?
La recensione di cosa, poi? Devo ancora guardare il film.
Scusate, è un periodo che sono così distratto - facciamo che se ne riparla domani.

(Mentre cercavo di scrivere la recensione in effetti Still Alice è sparito dalle sale di Cuneo. Lo trovate ancora a Moncalieri alle 19:50).
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Non parlerai di Gaza il 27

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27 gennaio - Giorno della memoria, "al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati" (legge 211/2000).

Aveva le orecchie a sventola.
Una storia del genere capita forse tutti gli anni: quest'anno è capitata a Magenta (MI). Una mostra dal discutibile titolo "Shoah di ieri shoah di oggi" è stata prima patrocinata dal comune, poi precipitosamente annullata quando esponenti della comunità ebraica hanno fatto notare che esporre foto dei campi di sterminio tedeschi accanto a disegni dei bambini di Gaza avrebbe potuto creare "confusione su due piani storici e di consistenza differenti” (Daniele Cohen, assessore alla cultura della Comunità ebraica di Milano). Nel frattempo la proprietaria della libreria che aveva promosso la mostra si dichiara scossa dalle mail di odio ricevute.

Il Giorno della memoria si celebra in Italia ormai da quindici anni. Come tutte le ricorrenze, ha generato in breve tempo i suoi automatismi: la Shoah si è fatta spazio nei palinsesti tv e nei manuali scolastici; persino la programmazione dei cinema ne risente. Chi passa quotidianamente davanti alla vetrina di una libreria conosce la sensazione: a Natale renne e uomini di neve, un mese dopo stelle di David e filo spinato. Ha persino un senso: dopo la festa della bontà obbligatoria, il ricordo di quanto possiamo essere crudeli. De Bortoli qualche anno fa cominciava a sentire una certa stanchezza, avvertiva "un pericoloso scivolamento nella retorica o nella ritualità dei ricordi". Ma retorica e ritualità sono entro un certo livello inevitabili, quando si decide di fissare un evento sul calendario per tutti gli anni a venire. E funzionano: per ogni De Bortoli che si stanca di leggere o scrivere il solito temino, ci sono nuove classi che ogni tanto si affacciano sui banchi di scuola, e di una certa dose di retorica e di ritualità hanno bisogno.

Allo stesso tempo, retorica e ritualità non sono i migliori custodi dei ricordi che loro affidiamo. Così come il Natale non è nato festa dei bambini, e di renne volanti per secoli non si è parlato, anche la giornata della memoria tra un secolo non sarà quella che oggi immaginiamo. Credo che sia inevitabile che col tempo certe narrazioni più rassicuranti, come La vita è bella o Il bambino col pigiama a righe, scacceranno le meno concilianti e più crude. Per ora, si registra il tentativo di respingere le interpretazioni 'attualizzanti'. Mescolare il passato col presente, suggerire come la libraia di Magenta che "i bambini, ebrei e palestinesi, hanno gli stessi sogni", è sbagliato. Come dichiara il suo vicesindaco: "Promuovere quella mostra è stato un grave errore, ci scusiamo eliminandola dal programma. Parlare dei bambini palestinesi il 27 gennaio non è opportuno in quanto è un dramma diverso dal punto di vista storico e di dimensione". 

È un'opinione che tutto sommato condivido: sono convinto che il paragone sballato tra territori occupati e lager nazisti non abbia mai giovato alla causa palestinese. Purtroppo è un paragone che non si può evitare. Ovvero: io posso rispondere di me stesso. Ma non posso evitare che qualcun altro lo faccia (la libertà di espressione, ricordate?) È un paragone sbagliato, proprio dal punto di vista storico e "di dimensione": ma è un paragone inevitabile, com'è inevitabile confondere parole molto simili dal significato anche diverso. Ebrei sterminati in un recinto, israeliani che alzano un recinto. È sbagliato accostare le due immagini, anche se sono simili. È sbagliato istituire correlazioni causa-effetto, ma il nostro cervello funziona così: vede cose simili e cerca di capire se una è la causa dell'altra. Dobbiamo chiedere al nostro cervello di sospendere un attimo la cosa, per favore, perché è controproducente. Una volta sistemata la questione col nostro cervello, dovremmo anche provare a convincere quello degli altri: da bravi, "parlare dei bambini palestinesi il 27 gennaio non è opportuno". Tutti gli altri giorni va bene: il 27 magari evitate. Non è un giorno come gli altri.

Io non credo che la libraia di Magenta sia antisemita, come le hanno scritto a quanto pare in tanti. Mi chiedo spesso a che serva l'etichetta di antisemitismo, se la si banalizza così. Si minaccia in un qualche modo il popolo ebraico esponendo disegni di bambini di Gaza? Si lede l'immagine di Israele e quindi la sua economia e quindi si congiura contro la sopravvivenza del suo popolo? C'è qualcuno che la pensa seriamente così? E se invece esporre disegni non danneggia in nessun modo concreto né Israele né l'ebraismo, cos'è esattamente questo "antisemitismo" che si esprimerebbe solo in pensieri e non in azioni, uno psicoreato? (continua sul Post)

Secondo me la libraia non ha fatto che applicare un principio sul quale veniamo martellati da quindici anni: chi non ha memoria non ha futuro, chi non ricorda il passato è condannato a riviverlo ecc.. Ovvero: ricordare il passato ci dovrebbe servire a interpretare il presente e modificarlo. Cercare a Gaza i lager moderni è un’operazione ingenua, ma in un qualche modo automatica: il risultato del modo in cui insegniamo e studiamo la Storia sin dalla più tenera età. La insegniamo e studiamo come museo degli errori, sollecitando continuamente l’alunno a istituire paragoni con la sua contemporaneità, a domandarsi: tutto questo a che mi serve? Può capitare anche a me? Posso fare in modo che non mi ricapiti? Così, di fronte alla Shoah, scatta automatica la domanda: esistono Shoah oggi? Dove esistono? Come posso combatterle?

A questo punto scatta una obiezione, anche questa ormai automatica: se proprio si devono cercare situazioni paragonabili alla Shoah, perché proprio Gaza? Con tutto il mondo a disposizione? Perché i bambini di Gaza possono esporre in una libreria italiani e di quelli che a pochi chilometri di distanza vivono la tragedia della Siria non ci interessiamo? Giusto. Ma l’obiezione si può anche ribaltare: se la libraia avesse esposto disegni di Kobane invece che di Gaza, la comunità ebraica avrebbe protestato ugualmente per il paragone indebito? Voglio pensare che sì; che se è indebita la Gaza recintata e saltuariamente bombardata dagli israeliani, sarebbe indebita anche Kobane occupata dall’Isis. Che non si tratta di difendere le politiche di Israele, ma di salvare la specificità della Shoah, tragedia assoluta senza termini di paragone.

D’altra parte, a questo punto possiamo domandarci: che ce ne facciamo di una tragedia assoluta se non possiamo usarla come termine di paragone? Che senso ha ricordare l’orrore nazista se poi dobbiamo subito puntualizzare che nessun orrore sulla terra può essere paragonato a esso? O qualche orrore può essere paragonato a esso, senza che nessuno si offenda? È una domanda non retorica. La comunità ebraica è oggettivamente investita della responsabilità non leggera di decidere cosa si debba ricordare nel Giorno della Memoria e cosa no. Il paradosso per cui il 27 gennaio rischia di diventare il giorno in cui tante altre cose devono essere temporaneamente dimenticate, per evitare paragoni sbagliati, era forse prevedibile già nella lettera della legge 211/2000, che definiva la Shoah “sterminio del popolo ebraico” e prescriveva di ricordare “gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte”. Nessun cenno alle altre minoranze sterminate: omosessuali, Testimoni di Geova, zingari sono universalmente riconosciuti come vittime dei lager, ma nella legge non se ne faceva menzione. (Eppure se quindici anni fa avessimo cominciato a riflettere più seriamente su come avevamo trattato zingari e omosessuali durante la seconda guerra mondiale, forse oggi vivremmo in una società diversa. Pensate soltanto a quanti italiani sono passati nelle nostre scuole negli ultimi quindici anni).

La legge insisteva invece sulla tragedia degli ebrei e anche questo ha un senso (un senso “di dimensione”, direbbe il vicesindaco, e suona goffo ma non saprei trovare un’espressione più felice). Nessun genocidio ha le dimensioni di quello ebraico; nessun altro dimostra la geometrica efficienza dell’uomo nell’eliminare il prossimo. Nessun altro mette in gioco la facoltà cruciale della memoria, configurandosi come una sfida alla Storia che, se avessero vinto i nazisti, sarebbe stata riscritta eliminando un intero popolo. Tutto questo è eccezionale e merita che ogni anno ci fermiamo a rifletterci, anche se certi anni non ci verrà in mente niente da dire e ci affideremo alle stampelle della ritualità e della retorica. Ma il dubbio rimane: che senso ha ricordare una cosa che ci è successa, se ogni anno ci dobbiamo affrettare ad aggiungere che è stata eccezionale, non paragonabile a nulla di presente e vivo?

Oggi è il 27 e in molte scuole si tratta di scegliere che film guardare, che brano leggere. Per orientarmi in mezzo a una produzione vastissima io di solito faccio tre mucchi: c’è la Shoah delle vittime, la Shoah degli spettatori e la Shoah dei carnefici. Alcuni prodotti (Schindler’s list) sono abbastanza complessi da rientrare in qualche modo in tutti e tre. La Shoah delle vittime può essere molto cruda (il Pianista), ma conserva di solito un impianto rassicurante: lo spettatore è indotto a immedesimarsi nella vittima, il che lo riempie momentaneamente di angoscia ma lo tranquillizza sulla propria condotta: i cattivi sono gli altri. La Shoah degli spettatori è ambigua, e adatta a un pubblico un po’ più cresciuto, al quale viene chiesto di immedesimarsi in personaggi né vittime né carnefici, che a un certo punto devono fare una scelta. La scelta di solito è di opposizione al nazismo, e quindi anche queste opere si chiudono su una nota rassicurante. La Shoah dei carnefici è quasi improponibile nelle scuole, ma credo che da un certo punto in poi dovrebbe essere l’unica a interessare chi ebreo non è, e non è omosessuale o zingaro, o testimone di Geova o handicappato: il passato che rischiamo di rivivere, se non stiamo attenti, è quello in cui gente come noi non fu vittima, ma volenterosa esecutrice.

Credo che un film come quello di Spielberg andrebbe visto almeno tre volte: da ragazzini, per immedesimarsi nella bambina col cappotto o i bambini nascosti nella latrina; più in là nell’adolescenza, quando cominciamo a sentire i pruriti di Oskar Schindler per le belle ragazze e i bei vestiti (e abbiamo ancora bisogno di qualcuno che ci perdoni, se nel finale ci scioglieremo in lacrime); a vent’anni, per specchiarsi in Amon Goeth. Si spera poi nella vita di non dover essere nessuno dei tre, ma è Goeth quello da cui ci dovremmo guardare con più attenzione. Se continuiamo a dirci che è stato eccezionale, il monstrum dei latini, un caso straordinario a cui nessuno è (in)degno di paragonarsi; se non riusciamo a intravedere nei suoi occhi un bagliore simile ai nostri, allora sì, può darsi che il rito davvero non stia funzionando; che la retorica stia girando a vuoto.
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Vite parallele

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Come molti oggi ricordano, Alex Tsipras nel 2001 avrebbe dovuto partecipare alle proteste contro il vertice G8 di Genova: fu fermato dai carabinieri con tutta la sua delegazione nel porto di Ancona, e si prese pure qualche mazzata. Se fosse riuscito a passare, magari le avrebbe prese insieme a noi, marciando tra gli altri insieme a Francesco Caruso, Luca Casarini, Vittorio Agnoletto: quelli che già ai tempi cominciavamo a chiamare "non leader". Il loro scarso carisma, che li rendeva già allora poco interessanti a buona parte di chi li fiancheggiava, era ai tempi rivendicato come un segno di diversità: beata la rivoluzione che non ha bisogno di eroi.

Ai tempi Tsipras era leader dell'area giovanile di Synapsismos; nel 2004 entra nella segreteria politica. Nello stesso anno Agnoletto diventa europarlamentare con Rifondazione Comunista. Caruso ce ne mette due in più per approdare a Montecitorio, sempre con RC (racconterà di aver seminato piantine proibite nei vasi del cortile). Di Casarini nessuno sembra più parlare, ma nel 2005 la sua area di riferimento era ricomparsa sotto i riflettori nazionali per aver candidato alle primarie del PD un anonimo in passamontagna arcobaleno: il "candidato senza volto". Nel 2006 Tsipras è eletto consigliere comunale ad Atene. Due anni dopo è eletto presidente di Synapsismos: fonda Syriza (che si attesta alle elezioni sotto il 5%) ed entra in parlamento.


In quel 2008 cade il governo Prodi, Napolitano scioglie le camere, e non si sa bene che fine faccia Caruso (anche nel suo curriculum il buco è molto vasto). Pansa, in un libro contro la "casta rossa" scrive che avrebbe lavorato nel Parco del Gran Sasso. In compenso nel 2008 fa parlare di sé Casarini, che pubblica un romanzo con Mondadori! Dell'anno successivo è una sua intervista famosa in cui spiega di aver aperto una partita iva e di simpatizzare con gli imprenditori che fanno disubbidienza fiscale. In quel momento immaginarlo come una scheggia impazzita ormai convergente con la Lega era plausibile.

Nel 2009, intanto, Agnoletto riprova a candidarsi per il parlamento europeo, ma Rifondazione ormai non riesce più a superare la soglia del 4%. Gli va male anche l'anno dopo la campagna per il consiglio regionale lombardo. Nel 2014 ritroviamo Casarini nelle liste dell'Altra Europa con Tsipras, anche lui non eletto. L'ultimo dei non leader italiani ad aver dato notizia di sé è Francesco Caruso, per una cattedra di sociologia affidatagli dall'Università Magna Grecia di Catanzaro. I gradini saliti da Tsipras negli ultimi anni (17% e poi 27% nel 2012, 35% oggi) li sapete.

Tutto questo vuol dire qualcosa? Magari no. Magari se Caruso o Casarini avessero insistito con più serietà sulla propria carriera politica, innestandosi con più convinzione in un partito e mantenendo ferma la barra tra una tempesta e l'altra, magari... non sarebbe successo niente di diverso. La Grecia non è l'Italia, anche se a momenti stavamo per regalarle un sistema elettorale altrettanto demenziale. Quel che posso dire è che il composito mondo di sinistra che per più di un decennio non si è preoccupato di costruire nessun leader credibile ha avuto esattamente quel che desiderava: nessun leader credibile. Se c'è stato forse un momento in Italia per costruire qualcosa di diverso, in quel momento nessuno ha voluto o potuto metterci la faccia. Alla fine ce l'ha messa Beppe Grillo, uno che passava di lì e probabilmente voleva soltanto vendere qualche libro, qualche dvd.
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Il prof Lo Cascio è sempre più laido

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Il nome del figlio (Francesca Archibugi, 2015)

"Se lo avete odiato
nel Capitale Umano e nei
Nostri Ragazzi, non perdete
le sue nuove figure di m."
Luigi Lo Cascio è un intellettuale di sinistra che un tempo era idealista è adesso è soltanto frustrato. Ancora? Sì. È il terzo film in un anno in cui fa si ritrova nello stesso personaggio, e ogni volta riesce a metterci dentro qualcosa di più ributtante. Stavolta per esempio è schiavo di twitter, e la fatica di pensare in segmenti di 140 caratteri, gli impedisce di aiutare la moglie a sparecchiare e assolvere ad altri doveri coniugali. Ora io capisco che casting che vince non si cambia, ma tra un po' siamo alla Commedia dell'Arte; c'è il serio rischio che al prossimo carnevale tra le maschere di Arlecchino e Balanzone spunti quella di Lo Cascio Prof di Sinistra Frustrato. Il suo antagonista è, per la seconda volta in sei mesi, Alessandro Gassman Pariolino Apparentemente Arrogante ma Dal Cuore d'Oro.


Ci lamentiamo di Hollywood che fa troppi sequel, ma il Nome del figlio rischia di presentarsi come I nostri ragazzi 2 - il ritorno. Ancora una cena, ancora parole grosse tra parenti, guest star Micaela Ramazzotti che indovinate, fa la coatta (stavolta, purtroppo, non bisessuale, ma ci auguriamo sia un'eccezione), Valeria Golino ancora una volta madre amorevole ma oberata dagli impegni, Rocco Papaleo musicista. I nostri ragazzi era tratto da un thriller olandese, Il nome del figlio da una commedia francese: è strano che si somiglino. Vorrei però confortare chi ha espresso il timore che il film risulti incomprensibile fuori dal Raccordo Anulare. In realtà il rifacimento italiano di Le prénom non è poi così lontano dal testo originale, e lo si può serenamente apprezzare anche se si ha un'idea molto vaga del Pigneto e di Casal Palocco. Francesca Archibugi e Francesco Piccolo si sono impossessati del testo in modo più sottile, ricavandone un film secondo me più interessante di quello francese, proprio per come si allontana dal modello pur rispettandone apparentemente le strutture.


Lo sai cosa sei? Sei un paguro! (Giuro).
Considerato che si trattava della riduzione di un testo teatrale su due coppie (e mezza) che si rinfacciano le peggio cose a cena, il rischio di un film 'urlato in faccia', alla Baciami ancora, era altissimo. Il modo in cui l'Archibugi lo ha sventato ha del miracoloso: è commovente vedere attori italiani che riescono a litigare per più di un'ora sbroccando soltanto quand'è davvero il momento, senza sbavate inutili. Lé prenom era un film molto più autoindulgente verso le sue origini teatrali; un tipico buon prodotto della borghesia francese per la borghesia francese (l'unico elemento estraneo, un fattorino porta-pizza, veniva scacciato al terzo minuto). In scena andava un classico gioco delle parti tutto interno a quel milieu: intellos arrabbiati contro neogollisti goderecci e rampanti. Una contrapposizione molto meno netta e divaricata di quella tra postcomunisti e postfascisti italiani. Quello che nel Prénom era una discussione oziosa e astratta sul tabù di Hitler e sul narcisismo della sinistra, condotta da benestanti contenti con un bicchiere in mano, nel Nome del figlio viene presa più sul serio: metà dei personaggi diventano ebrei figli di un reduce di Auschwitz, l'altra metà è declassata affinché il conflitto sociale scoppi davvero. Il personaggio del musicista, che nella versione francese era un trombonista svizzero un po' fuori del mondo, nel film diventa letteralmente il figlio della serva. Ma la differenza più spettacolare la fa ovviamente Micaela Ramazzotti.

Il Pigneto non è un arrondissement. Non può e soprattutto non vuole diventare un mondo a sé; non se la passa certo male ma sotto sotto si vergogna di non essere come Tutti, e quindi li invita a cena sotto forma di una scrittrice coatta di best-seller.  Nell'originale francese il suo personaggio era un'algida manager di una maison di moda: con questa trasformazione il film ottiene almeno tre risultati molto interessanti. Il primo è far entrare effettivamente un po' di aria fresca. La seconda è infilare tra una riga e l'altra del canovaccio francese un'ode alla spontaneità dei neoprolet di borgata, loro sì che sanno come si racconta una storia, mica noi borghesi e parassiti di borghesi (il fatto che questa ode la intoni forse Piccolo è un cortocircuito meraviglioso). La terza è caricare ulteriori frustrazioni sulle spalle del repellente Lo Cascio, che ovviamente invidia la scrittrice di successo perché il suo libro invece non se l'è comprato nessuno.

Forse parlo da uomo ferito, però l'accanimento nei confronti dello stereotipo locasciano dell'intellettuale di sinistra comincia a sembrarmi eccessivo. (continua su +eventi!) Se Le Prénom riservava qualche frecciata a tutti i personaggi (mostrando le unghie più che graffiare davvero), la sua versione italiana sembra molto più sbilanciata nel distribuire difetti e responsabilità. Alcuni finiscono per uscirne quasi esenti. Su Lo Cascio invece si infierisce senza pietà, quasi dovesse chiedere scusa per sempre per aver dato il volto dieci anni fa a un progressismo sorridente e ottimista nei film di Giordana. Uno stereotipo altrettanto irritante, d’accordo, ma non è colpa sua se quel progressismo ha mostrato nel frattempo tutti i suoi limiti. D’altro canto in Lo Cascio si rispecchia una fascia di spettatori che pratica orgogliosamente l’autocritica, ridendo volentieri dei propri difetti, e che al cinema ci va già. Quindi tanto vale continuare a prenderlo di mira, tanto più che bisogna attirare altre fasce di mercato: stuzzicare i coatti, confortare i borghesi, proporre pariolini simpatici, insomma andare verso il centro, verso quelli che votavano Berlusconi e non vogliono sentirsi dire che si sono fatti prendere in giro per vent’anni anche se sono i primi a sospettarlo. Vogliono vedere Renzi che se la prende coi dinosauri di sinistra, vogliono leggere Piccolo che se la prende coi radical di sinistra, vogliono vedere al cinema un tipo di sinistra come se lo immaginerebbero Sallusti e la Santanché al telefono, un disadattato schiavo di twitter che si riempie la bocca di imperativi categorici e non sa neanche dove sua moglie tiene le posate, un parassita che sicuramente insegna cose inutili (ha appena finito un corso di “metrica ariostesca”). E Lo Cascio si presta, ma a questo punto forse dovremmo smettere di prestarci noi.

Intellettuali e cognitari di sinistra, uniamoci! Facciamo sentire la nostra voce mentre diciamo chiaro e tondo che questo è l’ultimo film di Lo Cascio intellettuale frustrato che abbiamo intenzione di vedere. Come riparazione esigiamo un film in cui l’intellettuale di sinistra lo farà Argentero a torso quasi sempre nudo, dottore di ricerca in filologia romanza, irresistibile tombeur de femmes costretto dalle circostanze della vita ad affrontare a mani nude un commando neonazista pariolino che ha preso in ostaggio un asilo nido – un film così ci porto le classi a guardarlo, anche a prezzo ridotto è un affare, rifletteteci. Va bene voler piacere a Tutti, ma ogni tanto vi conviene piacere anche a Me.

Trovate Il nome del figlio al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:40); all’Impero di Bra (20:20, 22:30); ai Portici di Fossano (20:30, 22:30); all’Aurora di Savigliano (21:15). Buona visione!

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In una parola, Klopstock.

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Ancora una graticola? Ma è roba vecchia.
22 gennaio - San Vincenzo di Saragozza (†304, martire citazionista).

[Si legge aggiornato qui].

San Vincenzo era diacono, come Santo Stefano, presso Saragozza (come San Braulione). Sotto Diocleziano imperatore fu arrestato, come San Sebastano, e interrogato come il suo vescovo, San Valerio. Trovato colpevole di cristianesimo, fu torturato sul cavalletto, come Santa Caterina. Siccome invece di pentirsi ringraziava i suoi torturatori, come Sant'Ignazio, il magistrato decise di arrostirlo, come San Giovanni. Dopo un po' che era sui ferri ardenti pare che abbia detto anche lui al carnefice "Voltami, son cotto", come San Lorenzo. Ma a quel punto il magistrato si stancò, e così Vincenzo rimase cotto a metà, il destino di ogni imitazione di un'originale. Le copie più riuscite molto spesso sono le più superficiali.

Vincenzo è il patrono di Lisbona, di Vicenza, del casino di Saint-Vincent, dei vinai e dei vignaioli, e di tutti noi ogni volta che vorremmo dire qualcosa di importante, di potente, anche solo una parola ma definitiva, e tutto quello che ci viene in mente è una citazione. Una frase che ha già detto qualcun altro, pensando ad altro, e che ci è rimasta attaccata addosso. Come diceva Oscar Wilde. Come diceva Voltaire. Come diceva Albert Einstein. Questi uomini insigni passano i loro giorni nell'Ade a tormentarsi e rigirarsi: questa non l'ho detta! questa forse sì, ma intendevo l'esatto contrario! Questa sicuramente, ma ripensandoci era una cazzata. Ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi a Davos ha detto che l'Italia deve investire nel futuro, deve smettere di considerarsi un museo: e per dimostrarlo ha citato un motto di duemila anni fa: Carpe diem! Se avete fatto un liceo italiano (i migliori del mondo) avrete già riconosciuto la citazione di Robin Williams. Il problema è che quella poesia dice l'esatto contrario, maledizione. Dopo Carpe diem viene "quam minimum credula postero", più o meno "credi al futuro quanto meno puoi". Altro che investire nel futuro, Leucò, lascia perdere, versami da bere piuttosto. E infatti se ci pensate gli studenti di Robin Williams in quel film non è che si diano troppa pena di alzare le medie del quadrimestre: preferiscono appartarsi con le ragazze, scrivere poesie o suicidarsi direttamente.

Che ci importa del futuro, qui e ora prendere tutti sette in condotta ci sembra una splendida idea.
D'altro canto le citazioni sono definite proprio dal loro essere ormai completamente estrapolate dal contesto. Come le parole. In effetti sono diventate parole. Le usiamo nello stesso modo, combinandole in frasi senza più preoccuparci della storia lunga e complessa che ce le ha portate sulla bocca. Diciamo "Faccio cose vedo gente". Diciamo "ho visto cose", e non sappiamo nemmeno più che film stiamo citando e perché. Diciamo "digitale" e le dita sono l'ultima cosa a cui pensiamo. Quanto a gennaio, non è più il mese del dio Giano da un pezzo: perché carpe diem dovrebbe sottrarsi all'incessante mutare del tempo, dei significati e dei significanti?

"Figlio del guerriero vittorioso, figlio di colui che ascolta, dall'anima semplice e pura".
Un altro esempio. Avete mai conosciuto un Bart Simpson? Credo di sì. Ne conosciamo tutti uno. È un ragazzino a tratti svogliato, a tratti iperattivo, dal quale possiamo aspettarci azioni di efferata crudeltà e insospettabile eroismo. Se poi ha pure i capelli a spazzola e gira in skate, magari c'è capitato di chiamarlo Bartsimpson. C'è una possibilità non remota che un giorno, quando il cartone animato oggi più famoso al mondo sarà solo una curiosità per archivisti, bartsimpson resista come sostantivo - se ce l'hanno fatta mecenate e donchisciotte, perché no? Persino gianburrasca ha avuto una chance, e non ditemi che avete mai letto davvero il Giornalino di Gian Burrasca. Chi dice "casanova" quasi mai ha letto l'Histoire de ma vie; chi userà in una lingua del futuro "bartsimpson" per dire "bimbo iperattivo" non saprà nulla del vero Bart, della sua infanzia difficile, del tormentato rapporto col padre, il bullismo subito a scuola, le umiliazioni... bartsmpson non sarà più un discorso, ma solo una parola. E non ha nessuna importanza che questa parola conservi la traccia di secoli di discorsi. Abbiamo già visto che "Bartolomeo" è un ibrido curioso: il prefisso aramaico "Bar" sta per "figlio", mentre "Tolomeo" è una voce greca per "guerriero", come si conveniva al nome di una dinastia egizia fondata da un soldato macedone. Bart è il figlio di un guerriero (quanti secoli di significato in quella misera t). Ed è Simpson, ovvero figlio dei semplici - ma questa è l'etimologia più superficiale. In realtà "Simp-" è una corruzione dell'anglo "Simme", che può essere sia la versione nordica dell'ebraico "Simon" (colui che ascolta), sia una corruzione di Sigmund. In questo caso "Sig" starebbe per vittoria, "mund" per uomo, e Simpson significherebbe: figlio dell'uomo vittorioso. In una lingua impossibile, che mantenesse il ricordo di tutti significati transitati da ogni sillaba, "Bart" e "Simpson" sono quasi sinonimi: figlio del guerriero, figlio del vincitore. Come due fratelli che ignorano di esserlo, pur vivendo a fianco da una vita. Solo dimenticandosi della loro origine possono funzionare assieme. E in effetti Matt Groening quel giorno non aveva la minima idea degli ingredienti che stava mescolando: scelse Bart forse perché anagramma di "brat", e "Simpson" era il cognome perfetto per una famiglia di sempliciotti. Inventare una parola significa strapparla a viva forza da un contesto, e darle un senso nuovo. Uscire dal museo e buttarsi nella mischia. Carpe diem, come disse Renzi.

Il fatto di vivere in un mondo saturo di discorsi, dove ogni parola che ci viene in mente è una citazione, forse non dovrebbe tormentarci. Peraltro non è una novità, ci sono stati altri periodi così. Forse tutti i periodi sono così, anche se a posteriori non è sempre facile accorgersene. Alcuni di voi avranno certamente letto da ragazzini il capolavoro del Federico Moccia del secolo XVIII, tal Wolfgang Goethe - in seguito seppe riciclarsi egregiamente come autore di testi per adulti seri, ma nel nostro cuore è sempre stato l'autore di quell'agile romanzetto che lanciò la moda della giacca blu col panciotto giallo - e anche quella dei suicidi tra i lettori più sensibili - i Dolori del Giovane eccetera. Se l'avete letto nel periodo giusto forse ricordate ancora la notte di lampi e tuoni in cui il Giovane Imbucato a una festa di nobili conosce Lotte e s'innamora di lei. L'espressione "colpo di fulmine" forse prima non esisteva, ma il momento in cui il Giovane si infiamma davvero non coincide con un tuono o con un lampo. Il grosso della tempesta è già passato, quando Lotte pensosa alla finestra pronuncia la parola che lo infiammerà, condannandolo a un amore impossibile e alla lunga mortale.

Questa parola è "Klopstock".

Ciò mi ha sempre fatto ridere.

(continua sul Post...)
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