Wonder Woman nel Paese dei Mansplainers
26-06-2017, 12:0621tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, essere donna oggi, fb2020, fumetti, mitiPermalinkWonder Woman (Patty Jenkins, 2017)
Oltre il grande mare, figlia mia, vivono i Maschi. Un giorno li incontrerai. Da cosa li riconoscerai? Dalla barba, se va ancora di moda; da come si sbracano sui sedili dei mezzi pubblici - ma molto più probabilmente da come ti interromperanno mentre parli. Ti giuro. Non è una leggenda: magari stai raccontando la tua ultima battaglia, e loro, senza aspettare che tu finisca la frase, cominciano a spiegarti che le cose sono molto più complesse di quel che credevi; che non è tutto bianco o nero; pensa, esiste anche il grigio!; che certe volte un male è un bene, un armistizio serve a prolungare la guerra e un'arma chimica può servire a fare la pace. Figlia mia, il giorno che li incontrerai, tu magari ascoltali.
Poi menali tutti - neri, bianchi, grigi - non importa. Dagliene tante, figlia mia. Anche se non sai il perché: loro senz'altro lo sanno. Magari - se sopravvivono - te lo spiegheranno.
Il 2017 è un anno storico per l'uguaglianza di generi ed etnie al cinema. Dopo tanti cinecomics, finalmente ne abbiamo avuto uno al femminile, Wonder Woman - e in breve la Marvel ci darà il suo primo film concentrato su un supereroe nero, Black Panther! Non è incredibile, però, che ci sia voluto tanto? Mentre tutto intorno il nostro immaginario si faceva sempre più multicolore e multigenere; mentre i cast dei film d'azione riservavano sempre più posti alle minoranze, e sempre più spesso il ruolo della protagonista a una donna, non è curioso che i cinecomics siano arrivati a un risultato del genere così lentamente?
No.
Non è incredibile e non è nemmeno così vero, visto che 13 anni prima di Panther e Wonder Woman, Halle Berry era già Catwoman in un film che nessuno ricorda volentieri; soprattutto a casa Warner. E può darsi che quel flop, neanche il primo (Elektra, Supergirl) sia in un qualche modo responsabile del ritardo con cui la principessa amazzone arriva sul grande schermo: buona ultima dopo personaggi molto meno iconici e meno popolari (Ant-Man...), in un momento di iper-inflazione del genere a cui sempre più gli studios reagiscono proponendo personaggi collaterali e bizzarri: il supereroe che dice le parolacce, i supercattivi tuttitatuati, i procioni parlanti. Ecco il primo cinecomic al femminile arriva nell'anno del secondo film su un procione parlante. Furries 2 - Femministe 1, palla al centro.
La cosa sarebbe molto meno rilevante di quel che sembra, visto che grazie al cielo al cinema non ci sono soltanto supereroi, e nemmeno quel segmento molto chiassoso, cialtrone e culturalmente rilevante che sono i film d'azione. Prendi una qualsiasi saga young adult, da Hunger Games in poi; prendi Jennifer Lawrence, prendi Charlize Theron in Mad Max 4. Prendi Scarlett Johansson, a cui la Marvel non ha voluto dedicare un film solista, forse perché sarebbe costato troppo, e nel frattempo è diventata protagonista di una saga giapponese e di una francese. Prendi Angelina Jolie e Milla Jovovich che nel 2004 (13 anni fa!) mentre Gal Gadot diventava Miss Israele ed entrava nell'esercito, erano già protagoniste di saghe sparatutto. Persino in Fast and Furious le donne sono sempre più rilevanti: persino nei Transformers. Eppure c'è davvero chi ha aspettato il 2017, e l'arrivo di Wonder Woman, per festeggiare un traguardo nelle pari opportunità. Non è solo la storia a rendere omaggio alla bella semplicità dei tempi andati (c'è un'eroina buona ma ingenua che deve sconfiggere un cattivo astuto): anche il dibattito critico sembra arrivare da un tempo lontano in cui poteva sembrare incredibile che una donna prendesse al lazo i nemici anziché rammendar loro i calzini.
A questo punto però devo rammentare che sono un maschio eterosessuale, e forse la mia posizione non mi permette di capire che enorme salto in avanti sia, un film su Wonder Woman, per tutte le ragazze e bambine del mondo: soprattutto nei mercati emergenti, dove forse la Jolie e la Jovovich non sono arrivate così presto e così bene. Forse tutto quello che ho scritto fin qui è un lungo e ponderato mansplaining. Forse.
Ma anche in quel caso che altro posso fare, a parte recitare fino in fondo la mia parte di noioso maschio che spiega l'ovvio? Per me parlare di femminismo per questo film è fare un torto sia al femminismo sia al film. Quest'ultimo è divertente: probabilmente il migliore prodotto fin qui dall'universo cinematico Warner - dopo due mostri senza capo né coda né senso come BvS e Suicide Squad. È una storia dedicata all'origine di un singolo eroe, e per quanto la formula sia inflazionata è comunque più fresca dei polpettoni a più personaggi che la Warner ci doveva assolutamente propinare.
C'è una periodizzazione un po' più originale del solito (la Prima Guerra Mondiale, in tutto il suo orrore che a un secolo di distanza sembra ancora fantascienza apocalittica); c'è un prologo mitologico un po' kitsch ma che si riscatta con una delle cose più assurde e divertenti che ho mai visto sul grande schermo: Robin Wright che guida un assalto di amazzoni a cavallo contro delle truppe di sbarco tedesche.
C'è soprattutto una meravigliosa Gal Gadot che più che una donna è una bambina: uno spirito ingenuo e puro che difende le ragioni semplici dei bambini nel mondo complicato, deludente e orribile degli adulti. Diana fugge dalla sua isola con un'idea molto semplice - distruggere il Male - e lungo la sua strada non farà che trovare personaggi maschili che opporranno alla sua morale fanciulla le obiezioni degli adulti: sensate ma insoddisfacenti, com'è giusto che sia in un film che prima di pensare alle pari opportunità, pensa ai suoi spettatori bambini. Diana sa tutto tranne come ci si veste e come ci si comporta; in combattimento non ha rivali ma non sempre ha chiaro quali siano i veri nemici. Persino la personificazione (maschile) del Male, quando alla fine si rivelerà, avrà un paio di cose da insegnarle. Insomma tutto questo femminismo non lo vedo: non vedo nemmeno troppo maschilismo perché ho la sensazione che il film sia solo il primo capitolo di una storia, e che l'ingenuità di Diana abbia un senso narrativo, più che ideologico. La Diana odierna, già intravista in Batman v Superman, non sembra più avere bisogno che i suoi colleghi maschi in mantello le spieghino chi combattere e perché. Anzi, speriamo che nei prossimi film accada spesso il contrario, visto che ora Diana sembra il personaggio con più esperienza alle spalle. Ma soprattutto speriamo che siano guardabili: Wonder Woman grazie al cielo (e alla regista) lo era. Dopo tre settimane lo si vede ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (19:50, 22:40) e al Multisala di Bra (20:00)
Oltre il grande mare, figlia mia, vivono i Maschi. Un giorno li incontrerai. Da cosa li riconoscerai? Dalla barba, se va ancora di moda; da come si sbracano sui sedili dei mezzi pubblici - ma molto più probabilmente da come ti interromperanno mentre parli. Ti giuro. Non è una leggenda: magari stai raccontando la tua ultima battaglia, e loro, senza aspettare che tu finisca la frase, cominciano a spiegarti che le cose sono molto più complesse di quel che credevi; che non è tutto bianco o nero; pensa, esiste anche il grigio!; che certe volte un male è un bene, un armistizio serve a prolungare la guerra e un'arma chimica può servire a fare la pace. Figlia mia, il giorno che li incontrerai, tu magari ascoltali.
Poi menali tutti - neri, bianchi, grigi - non importa. Dagliene tante, figlia mia. Anche se non sai il perché: loro senz'altro lo sanno. Magari - se sopravvivono - te lo spiegheranno.
Il 2017 è un anno storico per l'uguaglianza di generi ed etnie al cinema. Dopo tanti cinecomics, finalmente ne abbiamo avuto uno al femminile, Wonder Woman - e in breve la Marvel ci darà il suo primo film concentrato su un supereroe nero, Black Panther! Non è incredibile, però, che ci sia voluto tanto? Mentre tutto intorno il nostro immaginario si faceva sempre più multicolore e multigenere; mentre i cast dei film d'azione riservavano sempre più posti alle minoranze, e sempre più spesso il ruolo della protagonista a una donna, non è curioso che i cinecomics siano arrivati a un risultato del genere così lentamente?
È incredibile come facesse ridere già dal poster (quelle orecchie, dio), |
Non è incredibile e non è nemmeno così vero, visto che 13 anni prima di Panther e Wonder Woman, Halle Berry era già Catwoman in un film che nessuno ricorda volentieri; soprattutto a casa Warner. E può darsi che quel flop, neanche il primo (Elektra, Supergirl) sia in un qualche modo responsabile del ritardo con cui la principessa amazzone arriva sul grande schermo: buona ultima dopo personaggi molto meno iconici e meno popolari (Ant-Man...), in un momento di iper-inflazione del genere a cui sempre più gli studios reagiscono proponendo personaggi collaterali e bizzarri: il supereroe che dice le parolacce, i supercattivi tuttitatuati, i procioni parlanti. Ecco il primo cinecomic al femminile arriva nell'anno del secondo film su un procione parlante. Furries 2 - Femministe 1, palla al centro.
La cosa sarebbe molto meno rilevante di quel che sembra, visto che grazie al cielo al cinema non ci sono soltanto supereroi, e nemmeno quel segmento molto chiassoso, cialtrone e culturalmente rilevante che sono i film d'azione. Prendi una qualsiasi saga young adult, da Hunger Games in poi; prendi Jennifer Lawrence, prendi Charlize Theron in Mad Max 4. Prendi Scarlett Johansson, a cui la Marvel non ha voluto dedicare un film solista, forse perché sarebbe costato troppo, e nel frattempo è diventata protagonista di una saga giapponese e di una francese. Prendi Angelina Jolie e Milla Jovovich che nel 2004 (13 anni fa!) mentre Gal Gadot diventava Miss Israele ed entrava nell'esercito, erano già protagoniste di saghe sparatutto. Persino in Fast and Furious le donne sono sempre più rilevanti: persino nei Transformers. Eppure c'è davvero chi ha aspettato il 2017, e l'arrivo di Wonder Woman, per festeggiare un traguardo nelle pari opportunità. Non è solo la storia a rendere omaggio alla bella semplicità dei tempi andati (c'è un'eroina buona ma ingenua che deve sconfiggere un cattivo astuto): anche il dibattito critico sembra arrivare da un tempo lontano in cui poteva sembrare incredibile che una donna prendesse al lazo i nemici anziché rammendar loro i calzini.
A questo punto però devo rammentare che sono un maschio eterosessuale, e forse la mia posizione non mi permette di capire che enorme salto in avanti sia, un film su Wonder Woman, per tutte le ragazze e bambine del mondo: soprattutto nei mercati emergenti, dove forse la Jolie e la Jovovich non sono arrivate così presto e così bene. Forse tutto quello che ho scritto fin qui è un lungo e ponderato mansplaining. Forse.
Ma anche in quel caso che altro posso fare, a parte recitare fino in fondo la mia parte di noioso maschio che spiega l'ovvio? Per me parlare di femminismo per questo film è fare un torto sia al femminismo sia al film. Quest'ultimo è divertente: probabilmente il migliore prodotto fin qui dall'universo cinematico Warner - dopo due mostri senza capo né coda né senso come BvS e Suicide Squad. È una storia dedicata all'origine di un singolo eroe, e per quanto la formula sia inflazionata è comunque più fresca dei polpettoni a più personaggi che la Warner ci doveva assolutamente propinare.
C'è una periodizzazione un po' più originale del solito (la Prima Guerra Mondiale, in tutto il suo orrore che a un secolo di distanza sembra ancora fantascienza apocalittica); c'è un prologo mitologico un po' kitsch ma che si riscatta con una delle cose più assurde e divertenti che ho mai visto sul grande schermo: Robin Wright che guida un assalto di amazzoni a cavallo contro delle truppe di sbarco tedesche.
La profezia si sta realizzando. |
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Il disco chiamato Desiderio
23-06-2017, 17:14Bob Dylan, musicaPermalink
Desire (1975, ma pubblicato nel 1976)
She was there in the meadow where the creek used to rise
Blinded by sleep and in need of a bed,
I came in from the east with the sun in my eyes
I cursed her one time then I rode on ahead...
Ciao, che piacere rivederti, ti aspettavo.Blinded by sleep and in need of a bed,
I came in from the east with the sun in my eyes
I cursed her one time then I rode on ahead...
Accomodati pure in veranda, c'è la tua poltrona preferita. Ti preparo qualcosa?
Non c'è bisogno di presentarsi, no? Sono il disco di Dylan di questa settimana. Lo so, non sono ufficialmente il tuo disco preferito. Non sono il disco preferito di nessuno. Ma mi va bene così.
Quando ogni tanto una rivista specializzata decide di fare una classifica ragionata dei dischi di Dylan, e chiama un sacco di giornalisti a dare i voti, alla fine io non sono mai nei primi tre. Di solito neanche nei primi cinque. Lo capisco. Lo rispetto. Ci sono quelli un po' quadrati che preferiscono Highway 61 o Blonde on Blonde, perché insomma, il Dylan importante è quello di metà Sessanta, quello appena approdato al rock d'avanguardia. Io invece sono un disco di metà anni Settanta, un po' reazionario, coi violini e le fisarmoniche - i mandolini, addirittura! Se devi scegliere un disco che ha fatto la Storia, mica puoi scegliere me. Io sono un episodio, vivo in una bolla tutta mia che scoppiò quasi subito.
She said, where ya been?, I said, no place special
She said, you look different! I said, well, I guess
She said, you've been gone... I said, that's only natural
She said, you gonna stay? I said, if you want you me, yes!
I laid on a dune I looked at the sky
When the children were babies and played on the beach
You came up behind me, I saw you go by
You were always so close and still within reach.
When the children were babies and played on the beach
You came up behind me, I saw you go by
You were always so close and still within reach.
Now the beach is deserted except for some kelp
And a piece of an old ship that lies on the shore
You always responded when I needed your help
You gimme a map and a key to your door.
And a piece of an old ship that lies on the shore
You always responded when I needed your help
You gimme a map and a key to your door.
Oh, sister, when I come to lie in your arms
You should not treat me like a stranger
Our Father would not like the way that you act
And you must realize the danger
You should not treat me like a stranger
Our Father would not like the way that you act
And you must realize the danger
Forse il mio problema è che ai dylaniti piace soprattutto Dylan: è lapalissiano, ma si dà il caso che io sia il meno dylaniano dei suoi dischi storici: mentre Blood è un disco così personale che chi suonava con lui non riusciva nemmeno a capire che accordi usasse, io sono un lavoro di gruppo, forse il suo disco più corale. Quello che mi rende unico è la combinazione degli strumenti, dei musicisti. Scarlet Rivera, soprattutto. È una violinista di origini siculo-irlandesi che un giorno Dylan recuperò al Village: la vide passeggiare con una custodia di violino e la fece salire sulla limo con una frase da rimorchio piuttosto cruda: "ma lo sai suonare?" Desire è la risposta alla domanda. Il violino della Rivera è onnipresente come l'organo di Kooper in Blonde on Blonde (e alla lunga può dare lo stesso fastidio); riempie gli spazi lasciati dal canto, ed è altrettanto sguaiato, sfrenato e inimitabile: sempre sul filo della stonatura, proprio come la voce di Dylan. Ma anche quest'ultima è meno dylaniana del solito, perché il nostro eroe, che qualche anno prima aveva registrato un intero disco con la Band senza concedere ai suoi tre ottimi cantanti nemmeno un coro, stavolta ha deciso di farsi doppiare in molti passi da una voce femminile (Emmylou Harris, appunto), che in teoria dovrebbe armonizzare con lui. Ovviamente il risultato è spesso dissonante - come fai a intonarti con un tizio che non canta mai la stessa nota? (la Harris credeva che fosse solo una prova; sperava che buttassero via tutto). Ma è anche qualcosa di unico: non c'è un altro disco in cui Dylan e una donna cantino così. Col senno del poi, è la spia di un disagio: Dylan sta iniziando a soffrire dei limiti della propria estensione. Presto comincerà ad andare in giro con un coro femminile che gli sottolinei i ritornelli. Ma in questo specifico caso, Dylan ha semplicemente scritto canzoni talmente dolci, duttili, agili, che sarebbe un peccato sentirle cantare su un'ottava sola. Desidera suonarle tutte, come un bambino che gioca con la tastiera di un pianoforte. Va bene, ma ai dylaniti piace sentir cantare Dylan, e qui è come se a volte si nascondesse.
Ecco, appunto, i testi. I dylaniti ci tengono molto. E io per molto tiempo fui l'unico vero disco che Dylan non si era scritto da solo (Self Portrait non conta). Era tornato dalla Camargue con un sacco di storie in testa, e quel metodo simultaneista che aveva messo a frutto in Blood non gli tornava più utile. Voleva rimettersi a scrivere storie in un modo più tradizionale, con un inizio e una fine - e a dargli più problemi erano proprio gli inizi. Desiderava rimettersi a parlare di fatti di cronaca, come ai tempi The Times They Are A-changin'; desiderava persino aiutare un ex pugile che gli aveva scritto dal carcere, dove l'avevano rinchiuso ormai da otto anni per un triplo omicidio che non aveva commesso. Desiderava ricominciare a dar battaglia con le parole, ma non tutte le parole gli venivano. Aveva bisogno di quei versi che ti prendono di peso e ti buttano dentro alla canzone. Così - scandalo! - si fece aiutare.
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Abbiamo un problema con l'istigazione all'odio religioso (sì, è illegale)
21-06-2017, 01:40giornalisti, razzismi, religioniPermalinkQuel che avevo da dire sul brutto pezzo anti-islamico di Filippo Facci l'ho scritto un anno fa. Sulla sentenza che sospende Facci dall'Ordine dei Giornalisti per due mesi non dovrei entrare nel merito: non sono un giornalista e, soprattutto, non ho letto la sentenza. Facci, furbastro, ne ha pubblicato solo quelle due o tre righe che potevano servirgli a fare un po' di ironia sulla giudice, a rilevarne il "dubbio livello culturale". Sa che c'è solo una cosa che piace ai lettori di Libero quasi quanto il livore contro gli stranieri, ed è il livore contro i giudici e i magistrati. Magari la giudice avrà buttato giù qualche sfondone, ma il fatto che invece di ricorrere in appello Facci preferisca fare la vittima à la Sallusti mi sembra significativo. (Leggo di giornalisti che, decisi a difendere Facci a prescindere, parlano addirittura di abolirlo, l'Ordine: non mi sembra una cattiva idea. Restituire la tessera potrebbe essere un modo per realizzarla).
Mi rimetto a parlare del caso perché inquadra un problema enorme che in Italia forse non abbiamo ancora messo a fuoco: l'odio religioso. È un argomento molto delicato, un po' nascosto sotto i faldoni enormi di altri argomenti non meno pressanti: la libertà di opinione, il razzismo, la xenofobia. E non riguarda Facci più di quanto riguardi chiunque in questi giorni, criticandolo, si sentiva obbligato ad aggiungere una postilla: 'però odiare le religioni non è affatto sbagliato'. Come se il problema fosse che Facci ne odia una sola, invece di odiarle in generale. Una posizione simile, in Italia, passa per progressista. Credo che qui ci sia un grosso problema.
Lo stesso Facci lo ha ribadito: lui le religioni le odia tutte (tutte? jainisti inclusi? che gli han fatto?), ha già litigato col Vaticano e coi sionisti, ci ha un odio panreligioso grosso così, che gli deriverebbe dal razionalismo anglosassone. Eppure se scrivesse le stesse cose nel Regno Unito, rischierebbe molto di più che di due mesi di stipendio: perlomeno, mi sembra che il suo pezzo rientri in pieno nella definizione di hate speech che si usa nelle corti di laggiù (vedi il Racial and Religious Hatred Act del 2006). Questo forse spiega perché un fenomeno come la tarda Oriana Fallaci è nato in Italia (sul Corriere della Sera): altrove una sbrodolata come la Rabbia e l'orgoglio non sarebbe stata né pubblicata né, forse, concepita. Prima ancora di risultare illegale, si sarebbe rivelata politicamente disastrosa, un pugno nell'occhio di tutti i lettori di estrazione musulmana. In Italia invece in qualche modo l'odio religioso è tollerato e... coccolato.
Non solo a destra, dove perlomeno ha una chiarissima funzione identitaria. Anche nel centro moderato (malgrado gli sforzi ecumenici dei pontefici: è bastato che uno solo tra loro, in 50 anni, incespicasse in una bizzarra citazione da Manuele Paleologo, perché migliaia di credenti si sentissero autorizzati a odiare il prossimo loro islamico). Anche a sinistra, dove a molti anticlericali non par vero di poter moltiplicare i cleri a cui opporsi. Poi ci sono le femministe che rimarcano la misoginia; i lgbt che rimarcano l'omo/transfobia; medici e scienziati preoccupati dal diffondersi di nuovi e vecchi credi irrazionali, eccetera. Pensate quindi a come si deve trovare un giovane italiano e musulmano, oggi: si trova contro postfascisti, postdemocristiani, postcomunisti, femministe, lgbt, pensionati lettori di Libero e lettori del Manifesto, oltre a tanti simpatici elettori Cinquestelle che pur non essendo né di destra né di sinistra riescono lo stesso a condividere i patemi di Salvini sugli islamici alle porte. Insomma in questo momento storico così frammentato, l'unico collante che sembra poter tenere insieme la maggioranza della popolazione potrebbe essere l'odio per l'Islam. (Facci ci ha già pensato un anno fa - mica scemo).
Tutto questo malgrado la legge Mancino preveda la reclusione fino a un anno e sei mesi, o una multa fino a 6.000 euro, per chiunque istighi a commettere atti di discriminazione per motivi non solo razziali, non solo etnici, non solo nazionali, ma anche religiosi; malgrado tale legge recepisca la Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (ONU, 1965), che raccomanda di "sviluppare ed incoraggiare il rispetto universale ed effettivo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione". Per cui, effettivamente no, odiare le religioni non è un diritto, né in Italia né in nessun Paese che rispetti le convenzioni internazionali. Si può ovviamente mettere in discussione la legge Mancino, e in generale qualsiasi legge limiti il diritto del singolo di esprimere opinioni anche odiose e foriere d'odio; si può in sostanza fiancheggiare l'alt-right americana, che questa battaglia contro il "politically correct" in nome del "free speech" in America la sta combattendo con un discreto successo.
Detestare Facci è facile quanto scrivere "odio l'Islam"; cercare di spiegare perché l'odio religioso non può essere ammesso in una società tollerante e civile è un po' più complicato. La maggior parte delle volte la discussione viene deviata sull'odio razziale: lo stesso Facci ha buon gioco a sottolineare che nella sentenza si parla di "razzismo", mentre lui nelle razze non ci crede. Rispetto al razzismo, l'intolleranza religiosa sembra sempre un male minore; una cosa più moderna, à la page. È l'esatto contrario. L'odio razziale è un fenomeno relativamente recente - così come la nozione ottocentesca di "razza". Senz'altro è stato il principale ispiratore dei genocidi del Novecento, ma non è che nei secoli precedenti non ci si massacrasse, in Europa e altrove. Non lo si faceva per razzismo, perché appunto, la "razza" non era una nozione affatto chiara.
In compenso, l'odio religioso lascia una scia di sangue lungo tutti i secoli. Cosa portò i crociati a sterminare i gerosolimitani nel 1099? Che idea guidò i conquistadores alle ecatombi del Cinquecento? Le espulsioni degli ebrei dalla Spagna o dall'Inghilterra; i pogrom; la notte di San Bartolomeo; la Guerra dei Trent'Anni: non c'è pagina della Storia moderna che non ci ricordi le conseguenze dell'intolleranza religiosa. Gli stessi nazisti, quando sostituiscono all'odio religioso un odio razziale, si trovano per così dire il terreno già dissodato: il loro primo bersaglio non a caso è il popolo ebraico, che prima di patire le persecuzioni razziali aveva già sofferto per secoli di persecuzioni religiose. È ancora l'odio religioso, del resto, uno dei grandi moventi dell'odierno terrorismo di matrice islamica - e non c'è bisogno credo di spiegare quanto sarebbe ingenuo reagire all'odio con l'odio (oltre che ingenuo, perdente). Quindi, no, l'odio religioso non è meno pericoloso dell'odio razziale. Non è neanche così ben distinto.
Eppure c'è in molti di noi questa idea che odiare una persona per quel che crede sia meno grave che odiarla per le sue origini. In effetti le origini non si possono cambiare, le credenze sì: quindi se ti odio in fondo è colpa tua; rinnega il tuo Dio e tutto ti sarà perdonato. Peccato che non sia mai andata così. Se la Storia ci insegna qualcosa, ci insegna proprio che le comunità perseguitate resistono e si radicalizzano, in certi casi fino a trionfare e diventare esse stesse persecutrici (vedi i puritani in Inghilterra). Forse il problema è che in Italia non abbiamo avuto né l'editto di Nantes, né la Rivoluzione Gloriosa, e nemmeno una misera Pace di Augusta; la società non si è costituita attraverso una serie di patti tra comunità religiose in competizione tra loro. Non abbiamo mai concepito la laicità come una terra di nessuno, una franca contea tra fedi diverse; in Italia la laicità è arrivata tardi e si è concepita come alternativa al cattolicesimo. L'arrivo di altre confessioni l'ha messa in crisi.
Chi scrive - oltre ad avere pubblicamente scherzato coi santi per anni - è convinto che esistano religioni più misogine e omofobe di altre, e che in generale tutte le religioni organizzate abbiano un livello di misoginia e omofobia superiore a quello che la nostra società dovrebbe permettersi. Credo che un certo tasso di anticlericalismo sia non solo consentito, ma perfino necessario. Rispetto il testimone di Geova che preferisce la morte a una trasfusione, ma ritengo giusto strappargli il figlio a cui vorrebbe imporre una scelta del genere. In generale credo che qualsiasi forma di irrazionalismo vada combattuta, ma con armi più sottili e scaltre di quelle dei predicatori d'odio. Rimango convinto che una scuola pubblica laica, ben finanziata e aperta a tutti, sia un presidio necessario ed efficace. Credo che chiunque abbia il diritto di discutere di religione in modo anche polemico.
E tuttavia penso che da qualche parte ci sia un limite - tra la mia libertà e quella del mio prossimo di poter uscire di casa e recarsi in chiesa, o in sinagoga, o un moschea, o al parco, senza sentirsi insultato da bravi cittadini istigati da opinionisti che danno il buon esempio sputando luoghi comuni sui giornali. Non saprei nemmeno dire dove passa il limite - il buon senso mi suggerisce che la Fallaci e Facci l'hanno abbondantemente superato. Ci aspettano anni difficili, in cui ogni nostra credenza sarà messa a dura prova: le migrazioni si intensificheranno, e chi si culla nell'idea di poterle bloccare si radicalizzerà. Comunque vadano le cose, io continuerò a pensare che le persone non vadano giudicate e detestate per le loro fedi religiose. Nel momento in cui qualcuno riuscirà a cambiarmi idea, avrò perso la mia fede, e la mia vita non avrà più un gran valore. Non credo di poter spiegare questa cosa meglio di così: c'è probabilmente sotto qualcosa di irrazionale, che non vi chiedo di comprendere e nemmeno di rispettare. Soltanto di tollerare.
Mi rimetto a parlare del caso perché inquadra un problema enorme che in Italia forse non abbiamo ancora messo a fuoco: l'odio religioso. È un argomento molto delicato, un po' nascosto sotto i faldoni enormi di altri argomenti non meno pressanti: la libertà di opinione, il razzismo, la xenofobia. E non riguarda Facci più di quanto riguardi chiunque in questi giorni, criticandolo, si sentiva obbligato ad aggiungere una postilla: 'però odiare le religioni non è affatto sbagliato'. Come se il problema fosse che Facci ne odia una sola, invece di odiarle in generale. Una posizione simile, in Italia, passa per progressista. Credo che qui ci sia un grosso problema.
Lo stesso Facci lo ha ribadito: lui le religioni le odia tutte (tutte? jainisti inclusi? che gli han fatto?), ha già litigato col Vaticano e coi sionisti, ci ha un odio panreligioso grosso così, che gli deriverebbe dal razionalismo anglosassone. Eppure se scrivesse le stesse cose nel Regno Unito, rischierebbe molto di più che di due mesi di stipendio: perlomeno, mi sembra che il suo pezzo rientri in pieno nella definizione di hate speech che si usa nelle corti di laggiù (vedi il Racial and Religious Hatred Act del 2006). Questo forse spiega perché un fenomeno come la tarda Oriana Fallaci è nato in Italia (sul Corriere della Sera): altrove una sbrodolata come la Rabbia e l'orgoglio non sarebbe stata né pubblicata né, forse, concepita. Prima ancora di risultare illegale, si sarebbe rivelata politicamente disastrosa, un pugno nell'occhio di tutti i lettori di estrazione musulmana. In Italia invece in qualche modo l'odio religioso è tollerato e... coccolato.
Non solo a destra, dove perlomeno ha una chiarissima funzione identitaria. Anche nel centro moderato (malgrado gli sforzi ecumenici dei pontefici: è bastato che uno solo tra loro, in 50 anni, incespicasse in una bizzarra citazione da Manuele Paleologo, perché migliaia di credenti si sentissero autorizzati a odiare il prossimo loro islamico). Anche a sinistra, dove a molti anticlericali non par vero di poter moltiplicare i cleri a cui opporsi. Poi ci sono le femministe che rimarcano la misoginia; i lgbt che rimarcano l'omo/transfobia; medici e scienziati preoccupati dal diffondersi di nuovi e vecchi credi irrazionali, eccetera. Pensate quindi a come si deve trovare un giovane italiano e musulmano, oggi: si trova contro postfascisti, postdemocristiani, postcomunisti, femministe, lgbt, pensionati lettori di Libero e lettori del Manifesto, oltre a tanti simpatici elettori Cinquestelle che pur non essendo né di destra né di sinistra riescono lo stesso a condividere i patemi di Salvini sugli islamici alle porte. Insomma in questo momento storico così frammentato, l'unico collante che sembra poter tenere insieme la maggioranza della popolazione potrebbe essere l'odio per l'Islam. (Facci ci ha già pensato un anno fa - mica scemo).
Tutto questo malgrado la legge Mancino preveda la reclusione fino a un anno e sei mesi, o una multa fino a 6.000 euro, per chiunque istighi a commettere atti di discriminazione per motivi non solo razziali, non solo etnici, non solo nazionali, ma anche religiosi; malgrado tale legge recepisca la Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (ONU, 1965), che raccomanda di "sviluppare ed incoraggiare il rispetto universale ed effettivo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione". Per cui, effettivamente no, odiare le religioni non è un diritto, né in Italia né in nessun Paese che rispetti le convenzioni internazionali. Si può ovviamente mettere in discussione la legge Mancino, e in generale qualsiasi legge limiti il diritto del singolo di esprimere opinioni anche odiose e foriere d'odio; si può in sostanza fiancheggiare l'alt-right americana, che questa battaglia contro il "politically correct" in nome del "free speech" in America la sta combattendo con un discreto successo.
Detestare Facci è facile quanto scrivere "odio l'Islam"; cercare di spiegare perché l'odio religioso non può essere ammesso in una società tollerante e civile è un po' più complicato. La maggior parte delle volte la discussione viene deviata sull'odio razziale: lo stesso Facci ha buon gioco a sottolineare che nella sentenza si parla di "razzismo", mentre lui nelle razze non ci crede. Rispetto al razzismo, l'intolleranza religiosa sembra sempre un male minore; una cosa più moderna, à la page. È l'esatto contrario. L'odio razziale è un fenomeno relativamente recente - così come la nozione ottocentesca di "razza". Senz'altro è stato il principale ispiratore dei genocidi del Novecento, ma non è che nei secoli precedenti non ci si massacrasse, in Europa e altrove. Non lo si faceva per razzismo, perché appunto, la "razza" non era una nozione affatto chiara.
In compenso, l'odio religioso lascia una scia di sangue lungo tutti i secoli. Cosa portò i crociati a sterminare i gerosolimitani nel 1099? Che idea guidò i conquistadores alle ecatombi del Cinquecento? Le espulsioni degli ebrei dalla Spagna o dall'Inghilterra; i pogrom; la notte di San Bartolomeo; la Guerra dei Trent'Anni: non c'è pagina della Storia moderna che non ci ricordi le conseguenze dell'intolleranza religiosa. Gli stessi nazisti, quando sostituiscono all'odio religioso un odio razziale, si trovano per così dire il terreno già dissodato: il loro primo bersaglio non a caso è il popolo ebraico, che prima di patire le persecuzioni razziali aveva già sofferto per secoli di persecuzioni religiose. È ancora l'odio religioso, del resto, uno dei grandi moventi dell'odierno terrorismo di matrice islamica - e non c'è bisogno credo di spiegare quanto sarebbe ingenuo reagire all'odio con l'odio (oltre che ingenuo, perdente). Quindi, no, l'odio religioso non è meno pericoloso dell'odio razziale. Non è neanche così ben distinto.
Eppure c'è in molti di noi questa idea che odiare una persona per quel che crede sia meno grave che odiarla per le sue origini. In effetti le origini non si possono cambiare, le credenze sì: quindi se ti odio in fondo è colpa tua; rinnega il tuo Dio e tutto ti sarà perdonato. Peccato che non sia mai andata così. Se la Storia ci insegna qualcosa, ci insegna proprio che le comunità perseguitate resistono e si radicalizzano, in certi casi fino a trionfare e diventare esse stesse persecutrici (vedi i puritani in Inghilterra). Forse il problema è che in Italia non abbiamo avuto né l'editto di Nantes, né la Rivoluzione Gloriosa, e nemmeno una misera Pace di Augusta; la società non si è costituita attraverso una serie di patti tra comunità religiose in competizione tra loro. Non abbiamo mai concepito la laicità come una terra di nessuno, una franca contea tra fedi diverse; in Italia la laicità è arrivata tardi e si è concepita come alternativa al cattolicesimo. L'arrivo di altre confessioni l'ha messa in crisi.
Chi scrive - oltre ad avere pubblicamente scherzato coi santi per anni - è convinto che esistano religioni più misogine e omofobe di altre, e che in generale tutte le religioni organizzate abbiano un livello di misoginia e omofobia superiore a quello che la nostra società dovrebbe permettersi. Credo che un certo tasso di anticlericalismo sia non solo consentito, ma perfino necessario. Rispetto il testimone di Geova che preferisce la morte a una trasfusione, ma ritengo giusto strappargli il figlio a cui vorrebbe imporre una scelta del genere. In generale credo che qualsiasi forma di irrazionalismo vada combattuta, ma con armi più sottili e scaltre di quelle dei predicatori d'odio. Rimango convinto che una scuola pubblica laica, ben finanziata e aperta a tutti, sia un presidio necessario ed efficace. Credo che chiunque abbia il diritto di discutere di religione in modo anche polemico.
E tuttavia penso che da qualche parte ci sia un limite - tra la mia libertà e quella del mio prossimo di poter uscire di casa e recarsi in chiesa, o in sinagoga, o un moschea, o al parco, senza sentirsi insultato da bravi cittadini istigati da opinionisti che danno il buon esempio sputando luoghi comuni sui giornali. Non saprei nemmeno dire dove passa il limite - il buon senso mi suggerisce che la Fallaci e Facci l'hanno abbondantemente superato. Ci aspettano anni difficili, in cui ogni nostra credenza sarà messa a dura prova: le migrazioni si intensificheranno, e chi si culla nell'idea di poterle bloccare si radicalizzerà. Comunque vadano le cose, io continuerò a pensare che le persone non vadano giudicate e detestate per le loro fedi religiose. Nel momento in cui qualcuno riuscirà a cambiarmi idea, avrò perso la mia fede, e la mia vita non avrà più un gran valore. Non credo di poter spiegare questa cosa meglio di così: c'è probabilmente sotto qualcosa di irrazionale, che non vi chiedo di comprendere e nemmeno di rispettare. Soltanto di tollerare.
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L'amore illegale
19-06-2017, 10:1421tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, famiglie, fb2020, razzismiPermalinkLoving (Jeff Nichols, 2016)
Hai 18 anni, e quando sei rimasta incinta, il tuo ragazzo ha solo detto: Ok. È un uomo di poche parole, un muratore, ma "ok" è una parola bellissima. Poi è andato a comprare il terreno per costruirti una casa. Per sposarti ti ha portato fuori dallo Stato perché, dice, la burocrazia è più semplice. Nella camera dove a volte dormite assieme ha appeso il certificato di matrimonio; è una cosa carina.
Una notte, mentre dormite, qualcuno vi entra in casa con le torce. C'è anche lo sceriffo. Vi ammanettano. Tuo marito indica il certificato - ecco perché l'ha appeso, allora - lo sceriffo scuote la testa e dice che quel pezzo di carta non vale niente, e che voi due dormendo assieme state commettendo un reato. Perché tu sei nera, lui è bianco, e questo è lo Stato della Virginia. Siccome dormite assieme, vi condannano a cinque anni di prigione (se vi avessero colto durante un atto sessuale, il reato e la pena sarebbero stati più gravi); vi rilasciano a condizione che non torniate più in Virginia per 25 anni. È il 1958 e il matrimonio interrazziale diventerà legale in tutti gli Stati Uniti soltanto tra nove anni. Grazie a voi. Mildred e Richard Loving.
La storia della coppia che ha cambiato la Costituzione degli Stati Uniti si meritava un film che non fosse un semplice temino edificante di educazione civica. Jeff Nichols, che fin qua aveva girato solo thriller angosciosi, psicologici o apocalittici, gioca la carta dell'iperrealismo, girando in 35 mm. e curando alla perfezione ogni dettaglio, dagli oggetti di scena alla pronuncia degli attori, affidandosi soprattutto a questi ultimi. Ruth Negga e Joel Edgerton danno vita a due protagonisti straordinariamente credibili, malgrado gli esigui margini di manovra: i Loving parlavano poco, e non amavano esibire i loro sentimenti. In particolare Edgerton riesce a nascondere sotto un ceffo da galera un personaggio mite e glorioso, uno che in due ore di film (e di prepotenze subite) avrebbe tutto il diritto di commettere una o due cazzate, e invece continua a ingoiare rospi fino a una vittoria che è così tanto più grande di lui che quasi non gli interessa (continua su +eventi!) Nel suo vocabolario di cento parole c'è spazio per frasi potentissime: quando lo arrestano, lo rilasciano e gli impediscono di pagare la cauzione per la moglie incinta: "Questo non può essere giusto". Quando l'avvocato gli spiega che lo Stato di Virginia ha intenzione di difendersi presso la Corte Suprema: "Come possono difendersi da quello che mi hanno fatto?" E quando sempre l'avvocato gli chiede se ha qualcosa da dire alla Corte Suprema: "Dica che amo mia moglie".
Concentrandosi sugli attori, Nichols è riuscito a evitare che Loving diventasse uno di quei film in cui il meccanismo dell'indignazione scatta meccanicamente, perlopiù ai danni di cattivi da operetta, obiettivi fin troppo facili come i segregazionisti della Virginia di mezzo secolo fa. E però la scelta di escluderli quasi completamente dalla scena è molto particolare, e discutibile. Loving è un film antirazzista in cui i razzisti non stanno in scena. C'è in quattro scene intensissime uno sceriffo (un granitico Marton Csokas), anche lui un tizio di poche parole, che non ha bisogno di alzare la voce per annunciare che spaccherà la testa a qualcuno, e che tratta i Loving come due bambini testardi e capricciosi. C'è un giudice convinto di essere clemente, quando spiega che Dio creò bianchi e neri in continenti diversi perché non li voleva mescolati. Ma i bravi e onesti cittadini bianchi della contea - quelli che elessero il giudice e lo sceriffo - Nichols decide di non mostrarli. In questo modo l'imposizione della legge diventa un po' più assurda, e forse il film un po' più astratto. Loving voleva parlare soprattutto dei suoi due eroi per caso, e di come loro tranquilla cocciutaggine abbia reso la Virginia e il mondo intero un posto migliore. Tratta il razzismo come un male oggettivo che peggiora la vita delle sue vittime, un ostacolo da rimuovere: non ne indaga le cause, non ne studia i comportamenti. Chi andava al cinema in cerca di questo - chi ha la sensazione che nel 2017, in Italia, ci sia bisogno soprattutto di questo - potrà restare deluso, e forse continuerà a voler più bene a Mississippi Burning, o al Buio oltre la siepe.
Loving si rivede solo martedì 20 giugno, al Cinema Italia di Saluzzo (ore 17:00 e 21:15).
Hai 18 anni, e quando sei rimasta incinta, il tuo ragazzo ha solo detto: Ok. È un uomo di poche parole, un muratore, ma "ok" è una parola bellissima. Poi è andato a comprare il terreno per costruirti una casa. Per sposarti ti ha portato fuori dallo Stato perché, dice, la burocrazia è più semplice. Nella camera dove a volte dormite assieme ha appeso il certificato di matrimonio; è una cosa carina.
Una notte, mentre dormite, qualcuno vi entra in casa con le torce. C'è anche lo sceriffo. Vi ammanettano. Tuo marito indica il certificato - ecco perché l'ha appeso, allora - lo sceriffo scuote la testa e dice che quel pezzo di carta non vale niente, e che voi due dormendo assieme state commettendo un reato. Perché tu sei nera, lui è bianco, e questo è lo Stato della Virginia. Siccome dormite assieme, vi condannano a cinque anni di prigione (se vi avessero colto durante un atto sessuale, il reato e la pena sarebbero stati più gravi); vi rilasciano a condizione che non torniate più in Virginia per 25 anni. È il 1958 e il matrimonio interrazziale diventerà legale in tutti gli Stati Uniti soltanto tra nove anni. Grazie a voi. Mildred e Richard Loving.
La storia della coppia che ha cambiato la Costituzione degli Stati Uniti si meritava un film che non fosse un semplice temino edificante di educazione civica. Jeff Nichols, che fin qua aveva girato solo thriller angosciosi, psicologici o apocalittici, gioca la carta dell'iperrealismo, girando in 35 mm. e curando alla perfezione ogni dettaglio, dagli oggetti di scena alla pronuncia degli attori, affidandosi soprattutto a questi ultimi. Ruth Negga e Joel Edgerton danno vita a due protagonisti straordinariamente credibili, malgrado gli esigui margini di manovra: i Loving parlavano poco, e non amavano esibire i loro sentimenti. In particolare Edgerton riesce a nascondere sotto un ceffo da galera un personaggio mite e glorioso, uno che in due ore di film (e di prepotenze subite) avrebbe tutto il diritto di commettere una o due cazzate, e invece continua a ingoiare rospi fino a una vittoria che è così tanto più grande di lui che quasi non gli interessa (continua su +eventi!) Nel suo vocabolario di cento parole c'è spazio per frasi potentissime: quando lo arrestano, lo rilasciano e gli impediscono di pagare la cauzione per la moglie incinta: "Questo non può essere giusto". Quando l'avvocato gli spiega che lo Stato di Virginia ha intenzione di difendersi presso la Corte Suprema: "Come possono difendersi da quello che mi hanno fatto?" E quando sempre l'avvocato gli chiede se ha qualcosa da dire alla Corte Suprema: "Dica che amo mia moglie".
I tentativi di imbruttire Ruth Negga si sono rivelati abbastanza vani. |
Loving si rivede solo martedì 20 giugno, al Cinema Italia di Saluzzo (ore 17:00 e 21:15).
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È il sangue di Bob Dylan su quei solchi?
16-06-2017, 09:49Bob Dylan, musicaPermalink
Blood on the Tracks (1975)
Qualcuno deve avercela con me, mandano bufale ai giornali...
Come a questo punto qualcuno avrà indovinato, Bob Dylan non esiste.
È solo una finzione letteraria. Non sapevo più cosa scrivere per il Post e allora mi sono inventato la discografia finta di un personaggio che comincia a strimpellare la chitarra nei caffè del Village, poi incontra Joan Baez, diventa un attivista politico, poi una rockstar, e poi... il proposito originale era farlo morire sul più bello, in moto, ma ai lettori ormai piaceva troppo, non si sarebbero rassegnati alla fine della storia, e allora ho aggiunto una convalescenza (proprio come Collodi che voleva far morire Pinocchio impiccato, ma i lettori protestarono e lui lo fece risuscitare dalla Fata Turchina: non fosse stato per i lettori, a Pinocchio non sarebbe mai cresciuto il naso a causa delle bugie). Il personaggio però cominciava a stancarmi e così ho provato a renderlo odioso, gli ho fatto incidere alcuni dischi orrendi, ma questo alla fine lo ha reso ancora più interessante - e poi anch'io mi stavo affezionando ormai. A questo punto però non so davvero cosa fare. Mi piacerebbe continuare il feuilleton fino a Natale, ma come? Ormai il mio eroe è una rockstar a fine carriera. Che altro può fare, a parte qualche disco mediocre, qualche tour celebrativo, eccetera eccetera? Mica può rimettersi a sfornare capolavori adesso, no? Dopo sette dischi magri? Non sarebbe un romanzo credibile. Insomma mi ritrovo in uno di quei momenti in cui un buon scrittore d'appendice tirerebbe fuori il Gemello Cattivo.
Lui aveva sempre fretta, troppo impegnato o troppo fatto; e tutto quello che lei progettava veniva sempre posticipato. Lui pensava che quello fosse il successo, lei pensava che fossero stati benedetti con tante belle cose materiali. Ma io, io non mi sono mai lasciato impressionare. (Nel testo originale di Tangled Up in Blue, Dylan slitta ogni tanto dalla prima alla terza persona: sembra un osservatore esterno, il coinquilino di una coppia instabile).
Mettiamola così: a fine 1974, un tizio bussa al portone degli studi della Columbia sulla 54esima Strada. Si presenta come "Bob Dylan" e non c'è motivo per non dargli retta, insomma si vede benissimo che è lui. Ha gli occhi di Bob Dylan, il naso di Bob Dylan, e poi la voce, andiamo, nessuno gli chiede un documento. Alcuni tecnici del suono restano perplessi: ma come, non aveva rotto con la Columbia? Il produttore Phil Ramone se ne infischia, perdio, c'è Bob Dylan nell'edificio: quando gli ricapita? Manda subito a chiamare la band di Eric Weissberg, l'eroico suonatore di banjo di Un tranquillo week-end di paura: c'è Bob Dylan che vi aspetta nello Studio A, fate tutto quello che vi dice Bob Dylan. Dylan in realtà non dice niente. Ma è normale. Si mette subito a suonare. Ok, lo sanno tutti nell'ambiente che l'unico modo per accompagnare Bob Dylan è guardargli le mani e cercare di anticipare l'accordo che sta per impugnare sul manico della chitarra. Non è facile, ma non è nemmeno un'impresa, salvo che stavolta...
Stavolta ha un'accordatura aperta. Da quand'è che non le usava più? Forse più di dieci anni. Ma che significa "accordatura aperta", poi?
Ogni corda di una chitarra è una specie di minitastiera: ovunque metti il dito, suoni una nota diversa. Dunque sul manico è come se avessi sei minitastiere affiancate, no? Ecco. La prima volta che ci pensi ti vengono le vertigini, ma in realtà queste sei minitastiere sono affiancate sempre nello stesso modo, e questo fa sì che quasi tutti i chitarristi al mondo abbiano una gestualità simile, riconoscibile. Gli accordi sono tanti, ma non tantissimi. È una lingua di trenta parole, mettiamola così. Non si impara in un giorno, ma è meno difficile di qualsiasi lingua tu stia parlando. Però.
A volte qualche chitarrista decide di affiancare le tastiere in qualche altro modo. Si chiama accordatura "aperta", nel senso che è aperta a qualsiasi possibilità. A quel punto le vertigini ti tornano, perché gli stessi gesti stereotipati che sei abituato ad associare a un accordo, adesso suonano diversi. È come se aprissi la bocca per dire una parola e te ne uscisse un'altra. Bisogna imparare tutto da capo. Certo, se si tratta di suonare nel nuovo disco di Dylan, ne vale la pena.
Salvo che Dylan non ha la minima intenzione di spiegarvi come ha accordato la sua chitarra. È 'aperta' solo per lui. Per voi è chiusa. Ha scritto una dozzina di canzoni così, e si aspetta che voi le accompagnate. Oppure no, si aspetta soltanto che rinunciate. A uno a uno i musicisti saltano. Persino Mike Bloomfield, recuperato dieci anni dopo Highway 61, aveva gettato la spugna. Dopo un po' è rimasto in lizza soltanto il bassista, Tony Brown, che in un qualche modo riesce a capire cosa Dylan si aspetti da lui. Più che decifrare gli accordi, Brown segue la melodia: appena riesce a trovare la nota giusta, la sottolinea alzandola di un'ottava. Un espediente molto semplice che crea una specie di profondità e forse a Dylan non dispiace. Lui comunque continua a non dire niente. A volte si interrompe a metà canzone e ne comincia un'altra. Phil Ramone lo lascia fare, il genio non si disturba. In capo a quattro giorni un disco è pronto. È diverso da qualsiasi altro disco di Dylan. È un po' più cupo di John Wesley Harding, e ancora più crudo: basso, chitarra, e l'armonica che si muove un po' a disagio tra quegli accordi dissonanti. Ramone ha aggiunto solo un po' di riverbero alla voce. È un disco più tagliente di Blonde On Blonde, aspro come Dylan non è stato da anni - forse come non è stato mai. Probabilmente ha litigato con la moglie, è l'unica spiegazione per certe canzoni sorprendentemente livorose. Ma anche per certe ballate un po' più tumide del solito - dopo tanto tempo sembra che il Dylan che canta abbia riscoperto la fase del corteggiamento, con le sue gioie, e soprattutto le sue frustrazioni. La mestizia di alcune nuove canzoni sembra quasi un contrappasso alla sfrontatezza di quelle di dieci anni prima: vi ricordate di quando Dylan cantava "vattene via, non sono da solo" a una tizia che lo seccava di notte al citofono? Ecco, adesso la scena sembra invertita, adesso la tizia è lassù che se la spassa con qualcuno, e a appeso al citofono come un salame è rimasto lui, il famoso Bob Dylan - com'è possibile?
L'amore è così semplice, tanto per citare una frase. Tu l'hai sempre saputo, io lo sto imparando in questi giorni. Ah, e so dove ti posso trovarti: nella camera di qualcuno. È il prezzo che devo pagare: adesso sì, sei una ragazza grande
Qualche giorno dopo i funzionari della Columbia chiamano Ramone: tieni libero lo Studio A, Dylan ha firmato, sta per venire a fare un disco. Come sarebbe a dire? Risponde lui. Guardate che è stato già qui una settimana fa. E il disco è pronto. Eh?
Poco dopo arriva Dylan. Non c'è dubbio, è proprio lui: gli occhi, il naso, la voce inconfondibile eccetera. Cos'è questa storia del disco? Fatemelo ascoltare. Gli passano una cuffia, attaccano Tangled Up in Blue. Per quaranta minuti a non tradisce un'emozione. Solo alla fine, levandosi le cuffie, si passa rapidamente una mano sulla fronte e dichiara: questa è tutta roba di Ismaele.
"Ismaele?"
"Il mio gemello, Ismael Zimmerman".
"Ah, Bob, non... non sapevo che avessi un gemello".
"Nessuno lo sa, ovviamente".
"Non... non corre buon sangue tra di voi?"
"Non saprei. È da molto che l'ho perso di vista. L'ultima volta che l'ho sentito lavorava su un peschereccio dalle parti di Delacroix. Pensavo che avesse abbandonato la musica".
"Ha uno stile molto... peculiare".
"Puoi dirlo forte. Come diavolo ha fatto il bassista a tenergli dietro? Lui usa quell'accordatura assurda, ce la siamo inventata quando stavamo in Montague Street, sai. Poi abbiamo litigato, credo ci fosse di mezzo una ragazza".
"Il mio gemello, Ismael Zimmerman".
"Ah, Bob, non... non sapevo che avessi un gemello".
"Nessuno lo sa, ovviamente".
"Non... non corre buon sangue tra di voi?"
"Non saprei. È da molto che l'ho perso di vista. L'ultima volta che l'ho sentito lavorava su un peschereccio dalle parti di Delacroix. Pensavo che avesse abbandonato la musica".
"Ha uno stile molto... peculiare".
"Puoi dirlo forte. Come diavolo ha fatto il bassista a tenergli dietro? Lui usa quell'accordatura assurda, ce la siamo inventata quando stavamo in Montague Street, sai. Poi abbiamo litigato, credo ci fosse di mezzo una ragazza".
Mettetevi in Phil Ramone. Era convinto di avere registrato il nuovo, pazzesco disco di Bob Dylan. E invece ha lasciato per una settimana una manciata di professionisti in balia di un sosia pazzo che non sa accordare la chitarra.
"Non capisco, Bob. Perché ha voluto regalarti queste canzoni?"
"Ti sembra un regalo?"
"Ti sembra un regalo?"
Ramone comincia ad avvampare. Si rende conto che sta discutendo con il genio Bob Dylan come se fosse un suo amico. Dopo una settimana trascorsa a lavorare col suo sosia, è vittima di una falsa sensazione di familiarità. Grave errore, gravissimo. Ora il vero Dylan punterà gli occhi su di lui, dirà un paio di sillabe stentate e sparirà per sempre dalla sua vita.
"A me sembra che abbia voluto sputarmele in faccia. Comunque, non sono brutte canzoni".
"N-no".
"Ma bisogna registrarle da capo, così sono impresentabili, non trovi?"
"Certo, Mr Dylan, certo".
"N-no".
"Ma bisogna registrarle da capo, così sono impresentabili, non trovi?"
"Certo, Mr Dylan, certo".
Non sono brutte canzoni, no. Sono le migliori che Dylan si sia trovato in mano dai tempi dell'incidente. Sono spiazzanti, originali, 100% dylaniane ma anche in qualche modo al passo coi tempi, persino sofisticate. Persino i due blues, Buckets of Rain e Meet Me in the Morning (l'unico pezzo in cui alla fine suona davvero Weissberg), sono i migliori blues che Dylan abbia cantato dai tempi di Highway 61. Non c'è un brano che non irrida qualsiasi altra cosa abbia fatto Dylan dall'incidente in poi, e tutti i fan che si sono sforzati a trovare qualcosa di buono in tutti quei cosiddetti "ritorni di forma": ah, ma sul serio pensavate che New Morning fosse un disco interessante? Che Planet Waves reggesse il confronto? Sul serio eravate così disperati da distillare essenza di Dylan da Pat Garrett? Non vi accorgevate che erano tutti palliativi? La verità è che Dylan non esiste più da un pezzo. Ma Ismaele è ancora in giro per le strade statali con la sua chitarra Martin accordata in un modo assurdo, la sua armonica fissata alle spalle con il fil di ferro, le sue canzoni sofferte e disperate. Troppo sofferte. Troppo disperate. "Non posso pubblicare questa Idiot Wind", pensa. "La gente crederà che sto litigando con mia moglie. E in effetti io sto litigando con mia moglie, ma perché dovrei aprirmi il cuore in un disco? È che la gente vuole esattamente questo da un mio disco: il sangue. Non sarà contenta finché non l'avrà avuto". Lo ha capito persino Ismaele.
Ismaele è il Bob Dylan che non ce l'ha fatta. Non è diventato famoso, non ha abbandonato il folk per il rock, non ha avuto un esaurimento nervoso, non ha messo su famiglia. Ha fatto un po' il cuoco da qualche parte nel grande Nord, poi si è ritrovato a New Orleans, e per tutto il tempo ha continuato trascinarsi chitarra e armonica, a scrivere canzoni che nessuno avrebbe ascoltato, su accordi che nessuno riesce a suonare. Ma il suo gemello famoso è appena tornato alla Columbia dalla porta principale, dopo essere sgattaiolato da quella di servizio: ha bisogno di dimostrare di essere ancora il grande cantautore, non di snervare i suoi fan con l'ennesimo disco stravagante. Bisogna rifare tutto. E non a New York - magari Ismaele è ancora nei paraggi, meglio levare le tende. Andrà in una città a caso. Il fratello minore, Daniel, ha un'etichetta a Minneapolis, ecco, registrerà là con qualche arrangiamento convenzionale. Dovrà sembrare un classico disco da cantautore di metà anni Settanta. Semplificherà qualche accordo, cambierà qualche parola qua e là, per stornare i sospetti. Aggiungerà qualche abbozzo di flamenco, uno schizzo di mandolino, e in Idiot Wind un organo che è la tetra parodia di quello che Al Kooper suonava ai tempi di Sad-eyed Lady of the Lowlands. Alla fine si stancherà a metà e pubblicherà una via di mezzo: cinque brani di Ismael registrati sobriamente a New York con Brown al basso, cinque brani rifatti da Bob a Minneapolis da un gruppo di sessionmen locali capeggiati da un tale Kevin Odegard, il chitarrista che riuscì a suggerire a Bob Dylan di alzare di un tono Tangled Up in Blue e a sopravvivere per raccontarlo. Alla fine non verrà fuori un brutto disco. Certo, i critici ci metteranno un po' a capirlo.
Sul serio: i critici ci misero un po' a capire Blood on the Tracks... (continua sul Post)
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D'amore e d'ombra
12-06-2017, 23:3521tw, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, ebraismo, fb2020, Israele-PalestinaPermalinkSognare è vivere (A Tale of Love and Darkness, Natalie Portman, 2015).
Quand'ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand'anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik, Valladolid, Vancouver...
Nel cinquantenario della guerra dei Sei Giorni, nelle sale italiane si celebra una specie di mini-festival israeliano, tutto al femminile: oltre a Un appuntamento per la sposa di Rama Burshtein (presentato a Venezia lo scorso settembre) è saltato fuori A Tale of Love and Darkness, girato e recitato in ebraico da Natalie Portman che era a Cannes due anni fa (e poi naturalmente c'è Gal Gadot, riservista dell'esercito israeliano, che fa Wonder Woman, e pare che sia molto brava). Dei tre film Love and Darkness è il più ambizioso: trasformare in cinema la monumentale autobiografia di Amos Oz richiedeva una dose di incoscienza che Natalie Portman fortunatamente ha conservato per dieci anni di lavorazione.
Come dimostrazione di serietà e perizia dietro la macchina da presa, A Tale of Love è sorprendente, forse anche troppo manierato: luci, ricostruzioni di esterni, montaggio, non puoi dirle niente. La Portman sa persino dirigere i bambini! (non solo il protagonista: c'è una ragazzina che sta in scena cinque minuti e riesce a comunicare con gli sguardi più di molti attori professionisti). Come trasposizione cinematografica, il film deve fare scelte inevitabili e in certi casi interessanti (ad esempio lo sfondo politico della storia è riassunto dalle chiacchiere dei passanti o dei passeggeri di un autobus, tra cui già onnipresenti nel 1948 i fanatici del complotto). Soprattutto la Portman sembra essere riuscita a cogliere un nucleo cinematografico in un libro disperatamente libresco, così concentrato sulla magia e sulla dannazione delle parole, sul fascino dei libri e sul desiderio degli uomini di partorirli e trasformarsi in loro. Di solito tutta questa letterarietà a Hollywood si risolve mettendo in scena tanti libri, possibilmente polverosi. La Portman non si sottrae, ma ti piazza ogni tanto qualche correlativo oggettivo di precisione spaventosa: l'utopia sionista di "far fiorire il deserto" trasformata in un orticello di cortile che non attecchisce, o il momento in cui il padre annuncia commosso al figlio: ora che è nato lo Stato di Israele nessuno farà più il prepotente con lui a scuola! e in capo a cinque minuti, ovviamente, il piccolo Amos deve cedere la merenda ai bulli (però israeliani).
Purtroppo il film ha un problema di ritmo (continua su +eventi!). In novanta minuti succedono parecchie cose, eppure sembra che non succeda quasi niente. Il disincanto che Amos Oz può permettersi, dopo aver partecipato alla guerra e alla stagione dei kibbutz, nelle mani volonterose ma affannate della Portman si trasforma in un pessimismo fin troppo cupo. Proprio quando ti aspetti che gli eventi precipitino (dalla dichiarazione d'indipendenza in poi) e la Storia irrompa sulla scena, la Portman decide di liquidare i combattimenti in un paio di scene e boati fuori campo, e concentrarsi sulla vicenda della madre: ovvero sul ruolo interpretato da lei stessa, ancora una volta nei panni di una depressa cronica.
Il problema è che i depressi sono i malati meno cinegenici al mondo. Piangono, prendono pillole, si scusano, prendono altre pillole, un po' d'euforia poi il crollo, altre pillole, chi non c'è passato difficilmente riesce a provare empatia. La voce narrante interverrà a collegare il crollo di Fania con l'inevitabile disillusione storica legata alla nascita di Israele: ogni sogno realizzato è un sogno deludente, voleva spiegarci Oz, e Israele non è più un sogno. Forse lo avremmo capito anche senza la didascalia, ma che fatica arrivarci. Alla fine anche questo film è un buon correlato oggettivo: un sogno cullato per lunghi anni, realizzato con grande fatica e serietà, che alla fine della visione lascia ammirati ma un po' freddi, stanchi: e i soldi del budget (perlopiù americani) non sono ancora stati recuperati. Come in altri film importanti prodotti in Israele (Kippur, Va' e vedrai), i palestinesi sono quasi del tutto assenti: compaiono soltanto in un paio di scene. Come se anche la Portman, per rispettarli e riconoscere i loro diritti, avesse bisogno di tenerli a una prudente distanza: quella distanza che a Gerusalemme forse non c'è mai stata. Sognare è vivere (un titolo italiano più sbagliato del solito, per un film che racconta la fatica di sopravvivere ai sogni) fino a mercoledì è all'Impero di Bra (20:20, 22:30) e ai Portici di Fossano (21:15).
Quand'ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand'anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik, Valladolid, Vancouver...
Nel cinquantenario della guerra dei Sei Giorni, nelle sale italiane si celebra una specie di mini-festival israeliano, tutto al femminile: oltre a Un appuntamento per la sposa di Rama Burshtein (presentato a Venezia lo scorso settembre) è saltato fuori A Tale of Love and Darkness, girato e recitato in ebraico da Natalie Portman che era a Cannes due anni fa (e poi naturalmente c'è Gal Gadot, riservista dell'esercito israeliano, che fa Wonder Woman, e pare che sia molto brava). Dei tre film Love and Darkness è il più ambizioso: trasformare in cinema la monumentale autobiografia di Amos Oz richiedeva una dose di incoscienza che Natalie Portman fortunatamente ha conservato per dieci anni di lavorazione.
Come dimostrazione di serietà e perizia dietro la macchina da presa, A Tale of Love è sorprendente, forse anche troppo manierato: luci, ricostruzioni di esterni, montaggio, non puoi dirle niente. La Portman sa persino dirigere i bambini! (non solo il protagonista: c'è una ragazzina che sta in scena cinque minuti e riesce a comunicare con gli sguardi più di molti attori professionisti). Come trasposizione cinematografica, il film deve fare scelte inevitabili e in certi casi interessanti (ad esempio lo sfondo politico della storia è riassunto dalle chiacchiere dei passanti o dei passeggeri di un autobus, tra cui già onnipresenti nel 1948 i fanatici del complotto). Soprattutto la Portman sembra essere riuscita a cogliere un nucleo cinematografico in un libro disperatamente libresco, così concentrato sulla magia e sulla dannazione delle parole, sul fascino dei libri e sul desiderio degli uomini di partorirli e trasformarsi in loro. Di solito tutta questa letterarietà a Hollywood si risolve mettendo in scena tanti libri, possibilmente polverosi. La Portman non si sottrae, ma ti piazza ogni tanto qualche correlativo oggettivo di precisione spaventosa: l'utopia sionista di "far fiorire il deserto" trasformata in un orticello di cortile che non attecchisce, o il momento in cui il padre annuncia commosso al figlio: ora che è nato lo Stato di Israele nessuno farà più il prepotente con lui a scuola! e in capo a cinque minuti, ovviamente, il piccolo Amos deve cedere la merenda ai bulli (però israeliani).
Purtroppo il film ha un problema di ritmo (continua su +eventi!). In novanta minuti succedono parecchie cose, eppure sembra che non succeda quasi niente. Il disincanto che Amos Oz può permettersi, dopo aver partecipato alla guerra e alla stagione dei kibbutz, nelle mani volonterose ma affannate della Portman si trasforma in un pessimismo fin troppo cupo. Proprio quando ti aspetti che gli eventi precipitino (dalla dichiarazione d'indipendenza in poi) e la Storia irrompa sulla scena, la Portman decide di liquidare i combattimenti in un paio di scene e boati fuori campo, e concentrarsi sulla vicenda della madre: ovvero sul ruolo interpretato da lei stessa, ancora una volta nei panni di una depressa cronica.
Il problema è che i depressi sono i malati meno cinegenici al mondo. Piangono, prendono pillole, si scusano, prendono altre pillole, un po' d'euforia poi il crollo, altre pillole, chi non c'è passato difficilmente riesce a provare empatia. La voce narrante interverrà a collegare il crollo di Fania con l'inevitabile disillusione storica legata alla nascita di Israele: ogni sogno realizzato è un sogno deludente, voleva spiegarci Oz, e Israele non è più un sogno. Forse lo avremmo capito anche senza la didascalia, ma che fatica arrivarci. Alla fine anche questo film è un buon correlato oggettivo: un sogno cullato per lunghi anni, realizzato con grande fatica e serietà, che alla fine della visione lascia ammirati ma un po' freddi, stanchi: e i soldi del budget (perlopiù americani) non sono ancora stati recuperati. Come in altri film importanti prodotti in Israele (Kippur, Va' e vedrai), i palestinesi sono quasi del tutto assenti: compaiono soltanto in un paio di scene. Come se anche la Portman, per rispettarli e riconoscere i loro diritti, avesse bisogno di tenerli a una prudente distanza: quella distanza che a Gerusalemme forse non c'è mai stata. Sognare è vivere (un titolo italiano più sbagliato del solito, per un film che racconta la fatica di sopravvivere ai sogni) fino a mercoledì è all'Impero di Bra (20:20, 22:30) e ai Portici di Fossano (21:15).
Dylan prima e dopo il diluvio
10-06-2017, 14:31Bob Dylan, concerti, musicaPermalink
Before the Flood (1974; doppio album dal vivo con la Band).
Stenditi STELLA sul mio BEL LETTO D'OTTONE! Stenditi STELLA sul mio BEL LETTO D'OTTONE Qualsiasi colore tu ABBIA IN MENNNNTE Te lo mostrerò e lo vedrai SPLEEEENDERE. Stenditi STELLA sul mio BEL LETTO D'OTTONE!
Mettiamola così: una sera, dopo che lo avete aspettato a lungo, vostro marito torna a casa brandendo un inspiegabile mazzo di rose in mano - un mazzo simile a quello che vi comprò cento primavere fa - e invece di spiegarvi cosa sta succedendo comincia a darvelo in testa, il mazzo di rose, senza farvi male perché per fortuna il fiorista ha tolto le spine, ma è comunque una scena che vi sareste risparmiati. Che cos'è successo? Perché sei così arrabbiato? È qualcosa che ho detto?
Perché ASPETTARE CHE IL MONDO COMINCI? PRENDITI QUESTO DOLCE, E MANGIATELO PURE!
È solo un modo di dire, forse un po' maldestro per una canzone d'amore (l'equivalente di "moglie piena e botte ubriaca"), ma adesso altro che canzone d'amore. Sembra che voglia aprirti la bocca con la forza, Dylan, e cacciartelo giù in gola finché soffochi, quel dolce. Davanti a un pubblico pagante, un popolo che lo attende da anni, una folla che ha tutti i diritti del mondo di assistere a un bel concerto del suo idolo, quest'ultimo sceglie la sua canzone più dolce e la scanna senza pietà - perché? Che t'ha fatto? Sappiamo che non t'ha mai convinto davvero; che l'hai usata, a volte, proprio per prendere le distanze. Sappiamo che è uno di quei fortuiti risultati di laboratorio che riescono una volta su mille, e sono irriproducibili dal vivo. Ma è un buon motivo per farla a pezzi come un marito impazzito?
La sola cosa di cui parlava la gente era l'energia. Energia qui, energia là. Il miglior complimento era una cosa tipo, "Wow, un sacco di energia, amico". Era diventata una cosa assurda. Più grande la cosa diventava, più forte suonava, più energia ci si aspettava che avesse (Intervista del 1985 con Cameron Crowe).
Before the Flood è il primo disco ufficiale dal vivo di Dylan. Procedendo in ordine cronologico ne abbiamo già ascoltati parecchi, ma Before the Flood è uscito per primo (il secondo e ultimo disco inciso per l'Asylum, dopo Planet Waves). In precedenza l'unico sistema per capire come suonasse Dylan dal vivo erano i bootleg, quel diluvio di incisioni abusive che riempivano scaffali dei negozi di dischi e a lui non fruttavano un soldo. A voi piace andare ai concerti? Quando ero bambino pensavo che mi sarebbe piaciuto. Quelli grossi, negli stadi, quelli coi biglietti sold out tre mesi prima; quelli di cui gli amici cominciano a parlarti tre mesi prima, e dieci anni dopo (se vai a controllare su facebook) ne stanno ancora parlando. Quelle feste pazzesche in cui tutti saltano e cantano i cori. Da bambino non vedevo l'ora di andarci, a quei concerti: ascoltavo Under a Blood Red Sky, ascoltavo Made In Japan, Banana Republic, ero convinto che mi sarei divertito tantissimo. Finché nella mia piccola città, nel giro di pochi mesi, arrivarono gli U2 e... Bob Dylan. E io riuscii ad andare a entrambi: anche se ero troppo piccolo, l'occasione era troppo grande.
E poi basta. Non sono più andato a un concerto di massa in vita mia (quasi). Perché ho scoperto che non mi diverto così tanto, dopotutto. C'è molta gente, spesso fa caldo, il gruppo è comunque molto lontano e persino la musica si sente troppo forte, distorta, a volte m'infastidisce. Non è così importante, si può amare la musica anche senza amare i concerti di massa. Io perlomeno posso. Bob Dylan no. Lui non poteva sottrarsi più ormai.
"Ho odiato ogni momento di quel tour" (Da un'intervista del 1978).
Prima o poi sarebbe dovuto tornare in mezzo alla gente. Ci mise otto anni ad accettare la cosa, e dovette pure rompere con Mamma Columbia, ma era destino. Dylan si era stancato di strimpellare ai festival folk già nella primavera del 1965. A quel punto si era dato al rock, ma l'avventura elettrica era durata poco più di un anno e una quarantina di concerti tra USA, Europa e Australia. Breve come un amore di gioventù, troppo veloce per capire cosa stesse davvero succedendo. Dylan e gli Hawks erano andati in giro per il mondo ad incendiare teatri e palazzetti, e non sapevano nemmeno se la gente fischiasse la svolta elettrica o la resa del suono (il dibattito è ancora aperto). Dopo pochi mesi Levon Helm, socio fondatore degli Hawks, aveva gettato la spugna. In capo a un anno persino Dylan ne aveva avuto abbastanza. Troppo baccano, troppa rabbia, troppi rischi, troppa fatica (troppe pasticche per gestirla). Nello stesso anno avevano smesso anche i Beatles e gli Stones - questi ultimi più per volontà di Scotland Yard che per scelta manageriale. A metà anni Sessanta i gruppi rock più popolari non riuscivano più a suonare dal vivo. Era un problema soprattutto logistico. Non solo la sicurezza era un incubo - Beatles e Dylan attiravano anche gli psicopatici e avevano più di un motivo per temere la propria incolumità - ma anche l'acustica era tutta da ripensare.
Otto anni dopo, la situazione era radicalmente cambiata. Amplificatori più potenti, servizi d'ordine professionali, mixer performanti - e soprattutto, ora Dylan poteva riempire il Madison Square Garden all'indomani del match tra Muhammed Ali e Joe Frazier, anche se il biglietto per Dylan era più caro (e meno facile da trovare). Come Ali, Dylan aveva un titolo mondiale da riconquistare, un tempo perduto da ritrovare. Gran parte del pubblico che ora si svenava per vederlo si era perso il tour del 1966, quella brevissima Età dell'Oro documentata dai bootleg più illustri. Avevano aspettato tanto, avevano pagato un botto e ora reclamavano il loro pezzo di Bob Dylan elettrico. Salvo che a Dylan, ovviamente, la cosa non andava a genio... (continua sul Post).
C'è un giudice a Sana'a
07-06-2017, 02:52cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, essere donna oggi, fb2020, IslamPermalinkLa sposa bambina (I Am Nojoom, Age 10 and Divorced, Khadija al-Salami).
Una bambina di dieci anni entra in un taxi. Chiede al conducente di portarla da un giudice. Quale giudice? La bambina non ne ha idea. Il giudice. Ce ne sarà almeno uno a Sana'a, Yemen. La bambina non può dirlo al tassista, ma sta andando a chiedere il divorzio.
La sposa bambina è il primo film di Khadija al-Salami, regista yemenita nata nel 1966 e data in sposa dalla sua famiglia nel 1977; ripetutamente violentata dal marito, riuscì a separarsene e alla fine vinse una borsa di studio negli USA. Trent'anni dopo, in Yemen ci sono ancora spose bambine: tra queste Nojoom Ali è diventata suo malgrado famosa in tutto il mondo per essere riuscita a divorziare a dieci anni. I Am Nojoom, Age 10 and Divorced è la storia agghiacciante del suo matrimonio, descritto da Nojoom stessa e dalla giornalista francese Delphine Minoui nel libro omonimo. La regista si trova insomma di fronte a una storia vera, tragica, necessaria, che è anche molto simile alla storia della sua vita: è un'occasione unica e non la spreca.
La sposa bambina è un film talvolta ingenuo, ma tutt'altro che banale... (continua su +eventi!) Paga senz'altro la scelta coraggiosa di girarlo completamente in Yemen - uno dei paesi più cinegenici del mondo - e di non lesinare in quanto a esterni. Sana'a è una metropoli infida e polverosa; le montagne terrazzate un mondo a parte dove ogni pietra, se spostata, può originare una disgrazia. Una gestione originale dei piani temporali scongiura il rischio (altissimo) di trasformare una storia tanto potente in una semplice didascalia: per quanto la distanza tra buoni e cattivi non possa che essere enorme e chiara sin da subito, il film riesce ugualmente a spiegarci che le cose sono più complesse di quel che sembrano, e addirittura si permette di dosare un po' di suspense. Allo stesso tempo, La sposa bambina è un film che non si vergogna di volerci indignare e commuovere con tutti i mezzi che ha - e il più potente forse è il volto così disarmante della sua protagonista, Reham Mohammed: una bambina qualsiasi che potremmo aver incrociato su qualsiasi marciapiede, anche davanti a casa nostra.
Femministe e islamofobi potrebbero restare delusi da un film sulla carta così promettente: ci sono donne che partecipano attivamente al meccanismo della violenza, e giudici apparentemente illuminati che però ci tengono a far notare che stanno semplicemente applicando i dettami della Sharia. La cosa più curiosa è il rilievo modesto dato ai personaggi positivi, un giudice tranquillissimo che non alza mai la voce nemmeno di fronte all'ingiustizia più palese, e un'avvocata esperta di diritti civili che dice dieci parole in tutto il dibattimento (gli imputati non riescono nemmeno a capire chi sia, e perché non si faccia i fatti suoi). Come se la giustizia non avesse poi bisogno di tutte queste parole o lacrime per affermarsi. Il film termina con una nota di speranza che purtroppo la cronaca si è incaricata di deludere: la guerra in Yemen ha di fatto bloccato l'approvazione di una legge che proibisca le nozze tra minorenni; coi soldi dell'autobiografia della figlia, il vero papà di Nojoom si è comprato altre spose.
La sposa bambina è all'Aurora di Savigliano mercoledì 7 e giovedì 8 giugno, sempre alle ore 21:00.
Una bambina di dieci anni entra in un taxi. Chiede al conducente di portarla da un giudice. Quale giudice? La bambina non ne ha idea. Il giudice. Ce ne sarà almeno uno a Sana'a, Yemen. La bambina non può dirlo al tassista, ma sta andando a chiedere il divorzio.
La sposa bambina è il primo film di Khadija al-Salami, regista yemenita nata nel 1966 e data in sposa dalla sua famiglia nel 1977; ripetutamente violentata dal marito, riuscì a separarsene e alla fine vinse una borsa di studio negli USA. Trent'anni dopo, in Yemen ci sono ancora spose bambine: tra queste Nojoom Ali è diventata suo malgrado famosa in tutto il mondo per essere riuscita a divorziare a dieci anni. I Am Nojoom, Age 10 and Divorced è la storia agghiacciante del suo matrimonio, descritto da Nojoom stessa e dalla giornalista francese Delphine Minoui nel libro omonimo. La regista si trova insomma di fronte a una storia vera, tragica, necessaria, che è anche molto simile alla storia della sua vita: è un'occasione unica e non la spreca.
La sposa bambina è un film talvolta ingenuo, ma tutt'altro che banale... (continua su +eventi!) Paga senz'altro la scelta coraggiosa di girarlo completamente in Yemen - uno dei paesi più cinegenici del mondo - e di non lesinare in quanto a esterni. Sana'a è una metropoli infida e polverosa; le montagne terrazzate un mondo a parte dove ogni pietra, se spostata, può originare una disgrazia. Una gestione originale dei piani temporali scongiura il rischio (altissimo) di trasformare una storia tanto potente in una semplice didascalia: per quanto la distanza tra buoni e cattivi non possa che essere enorme e chiara sin da subito, il film riesce ugualmente a spiegarci che le cose sono più complesse di quel che sembrano, e addirittura si permette di dosare un po' di suspense. Allo stesso tempo, La sposa bambina è un film che non si vergogna di volerci indignare e commuovere con tutti i mezzi che ha - e il più potente forse è il volto così disarmante della sua protagonista, Reham Mohammed: una bambina qualsiasi che potremmo aver incrociato su qualsiasi marciapiede, anche davanti a casa nostra.
Femministe e islamofobi potrebbero restare delusi da un film sulla carta così promettente: ci sono donne che partecipano attivamente al meccanismo della violenza, e giudici apparentemente illuminati che però ci tengono a far notare che stanno semplicemente applicando i dettami della Sharia. La cosa più curiosa è il rilievo modesto dato ai personaggi positivi, un giudice tranquillissimo che non alza mai la voce nemmeno di fronte all'ingiustizia più palese, e un'avvocata esperta di diritti civili che dice dieci parole in tutto il dibattimento (gli imputati non riescono nemmeno a capire chi sia, e perché non si faccia i fatti suoi). Come se la giustizia non avesse poi bisogno di tutte queste parole o lacrime per affermarsi. Il film termina con una nota di speranza che purtroppo la cronaca si è incaricata di deludere: la guerra in Yemen ha di fatto bloccato l'approvazione di una legge che proibisca le nozze tra minorenni; coi soldi dell'autobiografia della figlia, il vero papà di Nojoom si è comprato altre spose.
La sposa bambina è all'Aurora di Savigliano mercoledì 7 e giovedì 8 giugno, sempre alle ore 21:00.
Comments (1)
Solo un dimenticabile ritorno di fiamma
02-06-2017, 14:21Bob Dylan, famiglie, invecchiare, musicaPermalinkPlanet Waves (1974)
In una notte come questa, sono così contento che ti sia fatta viva... abbracciami stretto che scaldo un po' di caffè. (Che inizio promettente per un disco, vero? No, appunto).
Nel mezzo del cammin di vostra vita, diciamo sulla trentina, potrà capitare anche a voi di ritrovarvi soli, o male accompagnati. Sono cose che possono succedere a tutti, e in teoria non c'è niente di male, ma a un certo punto potreste dovervi arrendere all'evidenza: non sta succedendo a tutti, sta succedendo a voi; e fa male, eccome se fa male. È proprio in quel momento, in cui cominciate a sentire quanto sia salato il pane altrui, che statisticamente aumentano le possibilità di incrociare per caso una vecchia fiamma che non sentivate da anni, da mesi, e poi improvvisamente da settimane, e poi dopo un po' cominciate a chiamarvi tutte le sere perché avete un sacco di cose da dirvi, un sacco, cosa sta succedendo? Forse siete cresciuti; gli errori che vi siete lasciati alle spalle ormai sembrano sciocchezze, incomprensioni giovanili; e le cose che invece funzionavano, ora, con più esperienza, non potrebbero che funzionare meglio.
Insomma dovreste rimettervi assieme. È un segno del destino essersi ritrovati dopo tanto tempo. Forse è così.
Oppure siete entrambi nel panico, perché state sulla trentina e siete soli; e non farete che tirarvi giù a vicenda.
Stenditi accanto a me, tienimi compagnia... (c'è un sacco di spazio, per cui, per favore, non sgomitarmi). (Questo forse è uno dei versi più profondi di Dylan).
Sia come sia, nel 1974 Dylan e la Band decisero di rimettersi assieme. Per un po'. Per vedere come andava. Un disco e un tour. Dylan nel frattempo si era trasferito a Malibu, California, ai margini del cantiere di una casa enorme che sua moglie riprogettava tutti i giorni: un pozzo senza fondo in cui finivano i diritti delle sue vecchie canzoni. Aveva persino rotto con la sua Casa Madre, la Columbia, che aveva lasciato scadere il contratto e poi per ripicca pubblicato un brutto disco a nome suo, una collezione di scarti. Quanto alla Band, beh...
Mamma Tosta, ti balla la ciccia sugli ossi. Andrò al fiume a prendere un po' di pietre. Tua sorella è per strada con la squadra dei minatori. Papà è nella grande casa, ha finito di faticare. Mamma Tosta, posso soffiarti un po' di fumo addosso?
La Band era molto cambiata. Non era più la fanciulla screanzata con cui Dylan aveva fatto tutto quello straordinario baccano nel '66; non era quella ragazzina emozionata e inesperta che aveva piantato in asso a New York per andare a registrare Blonde On Blonde a Nashville, con musicisti seri. Non era neanche la ragazza volenterosa e disponibile alle sperimentazioni che lo aveva coccolato e rimesso in sesto nella cantina della Grande Rosa. Ma nemmeno la splendida signora che si era emancipata a partire da Music From the Big Pink, e che senza il patrocinio di Dylan, disco dopo disco, era diventata una vera professionista, puntuale, affidabile sul palco e impeccabile in sala di registrazione. Nel mezzo del cammino della sua vita, anche la Band si stava perdendo in una di quelle tipiche selve anni Settanta che attendevano i musicisti di successo: alcool droghe e ripicche. Gli ultimi due dischi non erano andati un granché bene, anche Robertson aveva smesso di imporre le sue canzoni ai colleghi alcolisti o eroinomani. Nel 1974 si ritrova pure lui a Malibu, a pochi isolati da casa Dylan, guarda tu la coincidenza. Ehi Bob, hai notato che dopo tanto tempo siamo ancora qua tu e io? Qualcosa vorrà dire. E se ci rimettessimo assieme? Ora che siamo adulti, che siamo seri, che abbiamo imparato come si fa. Un disco, ci vuole, e un tour. Cosa potrà andare storto?
Planet Waves è l'unico disco che Dylan e la Band hanno inciso assieme. Pazzesco, se uno ci pensa: si frequentavano da otto anni (e continueranno a frequentarsi, fino all'Ultimo Valzer). Basterebbe questo a renderlo un disco memorabile, no?
No. Perché Planet Waves non è un disco memorabile. Non sto dicendo che sia un brutto disco, perché davvero, non si può dire che lo sia: Dylan sa fare molto di peggio, lo abbiamo visto. Ma è davvero un disco facile da dimenticare. Alzi la mano chi si ricordava che dopo Pat Garrett c'era Planet Waves. Visto? Anch'io stavo quasi per passare direttamente a Blood on the Tracks. Ho notato che è un lapsus che commettono in parecchi - è come se Planet Waves avesse qualcosa che implora di passare inosservato. Qualcosa come... come...
Come un ritorno di fiamma che non ha funzionato.
(Del resto è mai successo che funzionasse?)
Credevo di essermi scrollato di dosso le meraviglie e i fantasmi della mia giovinezza. Giorni piovosi nei Grandi Laghi, a spasso sulle colline di Duluth. C'ero io e Danny Lopez, dagli occhi freddi come la notte nera e c'era anche Ruth. C'è qualcosa di te che mi riporta a una verità dimenticata da tempo.
Non funziona mai. Non importa quanto siate disperati, quanto ci siate riavvicinati, quanto vi stiate impegnando: tempo due settimane, un mese, e starete litigando per gli stessi antichi motivi. La Band aveva bisogno di Dylan per superare le lotte intestine e disintossicarsi; Dylan aveva bisogno della Band per non impazzire a Malibu mentre la moglie gli spostava per l'ennesima volta la posizione del camino nel soggiorno. Avrebbe dovuto filare tutto liscio. Erano grandi stavolta, erano professionisti, avevano avuto altre esperienze e sapevano come fare a farla funzionare, almeno questa. E invece si rimisero a suonare all'infinito la stessa canzone senza che Dylan riuscisse a spiegare cos'era che non funzionava. Le stesse, perverse dinamiche di tanti anni prima. La canzone in questione era, significativamente, Forever Young. Dylan l'aveva scritta durante la permanenza sul folle set di Pat Garrett, paradossalmente uno dei momenti più felici per la sua ispirazione: anche Knockin' on Heaven's Door viene da lì. Knockin' era perfetta per il film; Forever Young rimase nel cassetto ancora per un po'. Non sapeva cosa farci. Cioè: era chiaro che ci avrebbe fatto un sacco di soldi. Ma esitava. Cosa avrebbe perso nella transizione? Un po' di credibilità, un po' di... giovinezza?
Era un brano dal potenziale altissimo. Il testo è semplice, una variazione sul tema della lista (o anafora), simile ad altri suoi brani discograficamente fortunati, All I Really Want to Do e Rainy Day Women (in seguito verranno Gotta Serve Somebody ed Everything Is Broken). L'argomento è una tipica ossessione dylaniana: la necessità di essere giovani, la lotta contro un invecchiamento morale prima che anagrafico. Ma varcata la boa dei trenta, Dylan non può più come in My Back Pages permettersi di rivendicare il suo ringiovanimento, senza rischiare di passare per uno di quegli adulti patetici che cominciano a frequentare palestre e tingersi i capelli. Forever Young è anche un paradosso: è evidente che chi la canta non è più davvero giovane da un po'.
Che tu cresca per essere giusto, che tu cresca per essere sincero.
Che tu conosca sempre la verità, e vedere luce intorno a te.
Che tu sia sempre coraggioso, sempre saldo sui tuoi piedi,
che tu possa essere
per sempre giovane.
È una canzone che implica la paternità - la prima, direi, in cui parla in seconda persona a un figlio. È anche la canzone di Dylan che più si avvicina a un testamento morale: nel senso che se uno si domandasse cosa significa essere Per Sempre Giovane, Dylan qui per la prima volta avrebbe delle risposte: significa aiutare gli altri e farsi aiutare, significa sincerità e rettitudine, etica del lavoro e "forti fondamenta" che non cedano al "vento del cambiamento". Insomma è una canzone in cui finalmente papà Dylan scopre le carte e ci mostra la sua scala di valori - a costo di perdere la mano col pubblico, perché tutto sommato si tratta proprio dei valori di un onesto lavoratore del Midwest. Era una canzone che avrebbe funzionato: in radio, sul palco, in classifica. Dylan ormai aveva l'esperienza sufficiente per capirlo subito. Ma forse lo avrebbe anche rovinato. Forever Young scorreva troppo liscia, credo che quando l'abbia scritta Dylan abbia sentito come se improvvisamente il piano si stesse inclinando; magari di pochissimo ma adesso scendeva, verso cosa? forse verso il rincoglionimento? Figlio mio, comportati bene e non smettere mai di lavorare, e resterai Per Sempre Giovane. Mio Dio. Ci vorrebbe un arrangiamento che prendesse le distanze, qualcosa di dissonante. La Band avrebbe dovuto capirla, questa cosa.
Ma - questo è il punto - la Band non capiva, neanche stavolta. Erano vecchi amici, sul palco s'intendevano al volo, conoscevano Dylan da quando erano ragazzini, eppure... non erano fatti per stare assieme, tutto qui. Planet Waves, se proprio vogliamo, potremmo ricordarlo come la cronaca di come andò l'ultima volta che provarono a mettersi assieme: dalla smagliante introduzione chitarristica di Robertson a On a Night Like This, fino a quel senso di spossatezza e nessuno-sta-andando-a-buttare-la-spazzatura di Wedding Song. Gran parte delle sessioni se ne andarono in realtà nel tentativo di capire cosa voleva fare Dylan con Forever Young: lui ovviamente era il primo a non avere una chiara idea in testa. Lavoravano in uno studio di Los Angeles, assistiti da Bob Fraboni, un tecnico del suono che aveva fatto la gavetta con Phil Spector e lavorato con gli Stones. Se Forever Young fu davvero pubblicata nel '74 nella sua versione più famosa (quella lenta), lo dobbiamo a Fraboni. La storia è nota: dopo una serie di tentativi infruttuosi, finalmente erano riusciti a registrare questa versione che Fraboni definiva "immediata", "potente", "avvincente" (anche se per me quando parte l'armonica è come se tutti se ne stessero andando per i fatti loro; ma forse non si poteva pretendere di più). A un primo ascolto anche il silenzio di Dylan si lasciava interpretare come un segno di assenso: questa sì, questa funziona. Ma poi... (continua sul Post)
In una notte come questa, sono così contento che ti sia fatta viva... abbracciami stretto che scaldo un po' di caffè. (Che inizio promettente per un disco, vero? No, appunto).
L'Asylum gli aveva evidentemente dato carta bianca per la grafica delle copertine: e il pittore Dylan, ehm, faceva progressi. |
Insomma dovreste rimettervi assieme. È un segno del destino essersi ritrovati dopo tanto tempo. Forse è così.
Oppure siete entrambi nel panico, perché state sulla trentina e siete soli; e non farete che tirarvi giù a vicenda.
Stenditi accanto a me, tienimi compagnia... (c'è un sacco di spazio, per cui, per favore, non sgomitarmi). (Questo forse è uno dei versi più profondi di Dylan).
Sia come sia, nel 1974 Dylan e la Band decisero di rimettersi assieme. Per un po'. Per vedere come andava. Un disco e un tour. Dylan nel frattempo si era trasferito a Malibu, California, ai margini del cantiere di una casa enorme che sua moglie riprogettava tutti i giorni: un pozzo senza fondo in cui finivano i diritti delle sue vecchie canzoni. Aveva persino rotto con la sua Casa Madre, la Columbia, che aveva lasciato scadere il contratto e poi per ripicca pubblicato un brutto disco a nome suo, una collezione di scarti. Quanto alla Band, beh...
Mamma Tosta, ti balla la ciccia sugli ossi. Andrò al fiume a prendere un po' di pietre. Tua sorella è per strada con la squadra dei minatori. Papà è nella grande casa, ha finito di faticare. Mamma Tosta, posso soffiarti un po' di fumo addosso?
La Band era molto cambiata. Non era più la fanciulla screanzata con cui Dylan aveva fatto tutto quello straordinario baccano nel '66; non era quella ragazzina emozionata e inesperta che aveva piantato in asso a New York per andare a registrare Blonde On Blonde a Nashville, con musicisti seri. Non era neanche la ragazza volenterosa e disponibile alle sperimentazioni che lo aveva coccolato e rimesso in sesto nella cantina della Grande Rosa. Ma nemmeno la splendida signora che si era emancipata a partire da Music From the Big Pink, e che senza il patrocinio di Dylan, disco dopo disco, era diventata una vera professionista, puntuale, affidabile sul palco e impeccabile in sala di registrazione. Nel mezzo del cammino della sua vita, anche la Band si stava perdendo in una di quelle tipiche selve anni Settanta che attendevano i musicisti di successo: alcool droghe e ripicche. Gli ultimi due dischi non erano andati un granché bene, anche Robertson aveva smesso di imporre le sue canzoni ai colleghi alcolisti o eroinomani. Nel 1974 si ritrova pure lui a Malibu, a pochi isolati da casa Dylan, guarda tu la coincidenza. Ehi Bob, hai notato che dopo tanto tempo siamo ancora qua tu e io? Qualcosa vorrà dire. E se ci rimettessimo assieme? Ora che siamo adulti, che siamo seri, che abbiamo imparato come si fa. Un disco, ci vuole, e un tour. Cosa potrà andare storto?
Planet Waves è l'unico disco che Dylan e la Band hanno inciso assieme. Pazzesco, se uno ci pensa: si frequentavano da otto anni (e continueranno a frequentarsi, fino all'Ultimo Valzer). Basterebbe questo a renderlo un disco memorabile, no?
No. Perché Planet Waves non è un disco memorabile. Non sto dicendo che sia un brutto disco, perché davvero, non si può dire che lo sia: Dylan sa fare molto di peggio, lo abbiamo visto. Ma è davvero un disco facile da dimenticare. Alzi la mano chi si ricordava che dopo Pat Garrett c'era Planet Waves. Visto? Anch'io stavo quasi per passare direttamente a Blood on the Tracks. Ho notato che è un lapsus che commettono in parecchi - è come se Planet Waves avesse qualcosa che implora di passare inosservato. Qualcosa come... come...
Come un ritorno di fiamma che non ha funzionato.
(Del resto è mai successo che funzionasse?)
Credevo di essermi scrollato di dosso le meraviglie e i fantasmi della mia giovinezza. Giorni piovosi nei Grandi Laghi, a spasso sulle colline di Duluth. C'ero io e Danny Lopez, dagli occhi freddi come la notte nera e c'era anche Ruth. C'è qualcosa di te che mi riporta a una verità dimenticata da tempo.
Non funziona mai. Non importa quanto siate disperati, quanto ci siate riavvicinati, quanto vi stiate impegnando: tempo due settimane, un mese, e starete litigando per gli stessi antichi motivi. La Band aveva bisogno di Dylan per superare le lotte intestine e disintossicarsi; Dylan aveva bisogno della Band per non impazzire a Malibu mentre la moglie gli spostava per l'ennesima volta la posizione del camino nel soggiorno. Avrebbe dovuto filare tutto liscio. Erano grandi stavolta, erano professionisti, avevano avuto altre esperienze e sapevano come fare a farla funzionare, almeno questa. E invece si rimisero a suonare all'infinito la stessa canzone senza che Dylan riuscisse a spiegare cos'era che non funzionava. Le stesse, perverse dinamiche di tanti anni prima. La canzone in questione era, significativamente, Forever Young. Dylan l'aveva scritta durante la permanenza sul folle set di Pat Garrett, paradossalmente uno dei momenti più felici per la sua ispirazione: anche Knockin' on Heaven's Door viene da lì. Knockin' era perfetta per il film; Forever Young rimase nel cassetto ancora per un po'. Non sapeva cosa farci. Cioè: era chiaro che ci avrebbe fatto un sacco di soldi. Ma esitava. Cosa avrebbe perso nella transizione? Un po' di credibilità, un po' di... giovinezza?
Eppure su Google i primi sono ancora gli Alphaville, incredibile. |
Che tu cresca per essere giusto, che tu cresca per essere sincero.
Che tu conosca sempre la verità, e vedere luce intorno a te.
Che tu sia sempre coraggioso, sempre saldo sui tuoi piedi,
che tu possa essere
per sempre giovane.
È una canzone che implica la paternità - la prima, direi, in cui parla in seconda persona a un figlio. È anche la canzone di Dylan che più si avvicina a un testamento morale: nel senso che se uno si domandasse cosa significa essere Per Sempre Giovane, Dylan qui per la prima volta avrebbe delle risposte: significa aiutare gli altri e farsi aiutare, significa sincerità e rettitudine, etica del lavoro e "forti fondamenta" che non cedano al "vento del cambiamento". Insomma è una canzone in cui finalmente papà Dylan scopre le carte e ci mostra la sua scala di valori - a costo di perdere la mano col pubblico, perché tutto sommato si tratta proprio dei valori di un onesto lavoratore del Midwest. Era una canzone che avrebbe funzionato: in radio, sul palco, in classifica. Dylan ormai aveva l'esperienza sufficiente per capirlo subito. Ma forse lo avrebbe anche rovinato. Forever Young scorreva troppo liscia, credo che quando l'abbia scritta Dylan abbia sentito come se improvvisamente il piano si stesse inclinando; magari di pochissimo ma adesso scendeva, verso cosa? forse verso il rincoglionimento? Figlio mio, comportati bene e non smettere mai di lavorare, e resterai Per Sempre Giovane. Mio Dio. Ci vorrebbe un arrangiamento che prendesse le distanze, qualcosa di dissonante. La Band avrebbe dovuto capirla, questa cosa.
Che ci fa un angioletto come te in una storiaccia del genere? |
Ma - questo è il punto - la Band non capiva, neanche stavolta. Erano vecchi amici, sul palco s'intendevano al volo, conoscevano Dylan da quando erano ragazzini, eppure... non erano fatti per stare assieme, tutto qui. Planet Waves, se proprio vogliamo, potremmo ricordarlo come la cronaca di come andò l'ultima volta che provarono a mettersi assieme: dalla smagliante introduzione chitarristica di Robertson a On a Night Like This, fino a quel senso di spossatezza e nessuno-sta-andando-a-buttare-la-spazzatura di Wedding Song. Gran parte delle sessioni se ne andarono in realtà nel tentativo di capire cosa voleva fare Dylan con Forever Young: lui ovviamente era il primo a non avere una chiara idea in testa. Lavoravano in uno studio di Los Angeles, assistiti da Bob Fraboni, un tecnico del suono che aveva fatto la gavetta con Phil Spector e lavorato con gli Stones. Se Forever Young fu davvero pubblicata nel '74 nella sua versione più famosa (quella lenta), lo dobbiamo a Fraboni. La storia è nota: dopo una serie di tentativi infruttuosi, finalmente erano riusciti a registrare questa versione che Fraboni definiva "immediata", "potente", "avvincente" (anche se per me quando parte l'armonica è come se tutti se ne stessero andando per i fatti loro; ma forse non si poteva pretendere di più). A un primo ascolto anche il silenzio di Dylan si lasciava interpretare come un segno di assenso: questa sì, questa funziona. Ma poi... (continua sul Post)
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L'uomo che si spogliò per rivestirci
30-05-2017, 03:02cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, internet, privacyPermalinkCitizenfour (Laura Poitras, 2014; Oscar al miglior documentario).
Quando dopo un quarto d'ora di film improvvisamente compare - sulla poltrona di quell'anonima stanza d'albergo che abbandonerà soltanto negli ultimi minuti - non possiamo che identificarlo: a distanza di appena tre anni il suo volto è diventato un'icona inconfondibile. Ma questo Edward Snowden ancora non lo sa. Su quella poltrona, è ancora semplicemente Citizenfour: un tizio affabile, dalle idee chiare e dalla parlantina sciolta che ha appena disertato, tradendo la fiducia del suo Paese e del suo datore di lavoro. Sa che non tornerà mai più a casa. Sospetta che verrà arrestato e rinchiuso a tempo indeterminato, come Chelsea Manning. Ci parleresti di te?, gli chiede Glenn Greenwald. Snowden all'inizio nicchia: non vorrebbe attirare l'attenzione su sé stesso. Quel che importa davvero è nei file, e nell'enorme significato che quell'enorme raccolta di dati sensibili ha per tutti i cittadini del mondo. Bisognerebbe parlare di questo. Ma la Poitras continua a stringere l'obiettivo su di lui.
Citizenfour è un documento e un paradosso: la regista invitata a documentare l'eroico atto di ribellione di uno dei più grandi paladini della privacy, per fare bene il suo lavoro non può che lederne la privacy. È lo stesso Greenwald, in una scena successiva, a difendere l'approccio: solo la trasparenza assoluta può togliere argomenti a chi accuserà Snowden di spionaggio, di complotti, di intelligenza col nemico. Dichiarare subito il nome, il cognome, raccontare la storia, spiegare le motivazioni: Snowden non vorrebbe, ma da semplice tramite di informazioni preziose deve trasformarsi in contenuto. Può essersi giocato la carriera e la libertà per difendere la nostra privacy, ma la sua è finita per sempre. La Poitras lo mostra a letto, in bagno, lo spia mentre si veste; documenta gli istanti esatti in cui il mondo si accorge di lui, attraverso i telegiornali che lo stesso Snowden ispeziona dal televisore di quell'anonima stanza d'albergo che è diventata da un momento all'altro il luogo più caldo al mondo. Nessun documentario su un divo musicale o televisivo è mai stato così vicino al suo soggetto nel momento in cui dall'anonimato viene assunto nell'empireo dei personaggi globali, quelli il cui volto viene proiettato sugli schermi dei grattacieli (continua su +eventi!)
Tutto questo succede unicamente perché lui l'ha voluto: e mentre succede Snowden è nervoso, rassegnato, stanco, perplesso, spaventato, euforico. Comunica meglio dei giornalisti che lo intervistano, sembra aver passato la vita al microfono più che davanti a un terminale: quasi più sciolto di Gordon-Levitt che lo interpretava nel film di Oliver Stone. Aveva previsto tutto, tranne forse che gli sospendessero il mutuo sulla casa. Snowden conserva ricordi (idealizzati) di un tempo in cui la Rete era libera davvero, i bambini anonimi dialogavano con gli scienziati e a nessuno veniva in mente di autocensurarsi mentre usava un motore di ricerca. Per regalarci una speranza di riottenere quell'innocenza, quell'anonimato, Snowden deve spogliarsi davanti alla Poitras (la quale invece esclude la sua immagine dal quadro). L'ultima scena, in cui da una ripresa esterna si intravede l'immagine sgranata della sua compagna che lo ha finalmente raggiunto a Mosca, e sta assaggiando la pasta in cucina, è voyerismo puro, temo inconsapevole: Citizenfour, la storia di come la privacy di ognuno di noi sia a rischio, finisce con una ripresa da paparazzo. Citizenfour si rivede a Bra mercoledì 31 maggio in occasione della rassegna Cinema e valori 2017.
Quando dopo un quarto d'ora di film improvvisamente compare - sulla poltrona di quell'anonima stanza d'albergo che abbandonerà soltanto negli ultimi minuti - non possiamo che identificarlo: a distanza di appena tre anni il suo volto è diventato un'icona inconfondibile. Ma questo Edward Snowden ancora non lo sa. Su quella poltrona, è ancora semplicemente Citizenfour: un tizio affabile, dalle idee chiare e dalla parlantina sciolta che ha appena disertato, tradendo la fiducia del suo Paese e del suo datore di lavoro. Sa che non tornerà mai più a casa. Sospetta che verrà arrestato e rinchiuso a tempo indeterminato, come Chelsea Manning. Ci parleresti di te?, gli chiede Glenn Greenwald. Snowden all'inizio nicchia: non vorrebbe attirare l'attenzione su sé stesso. Quel che importa davvero è nei file, e nell'enorme significato che quell'enorme raccolta di dati sensibili ha per tutti i cittadini del mondo. Bisognerebbe parlare di questo. Ma la Poitras continua a stringere l'obiettivo su di lui.
Citizenfour è un documento e un paradosso: la regista invitata a documentare l'eroico atto di ribellione di uno dei più grandi paladini della privacy, per fare bene il suo lavoro non può che lederne la privacy. È lo stesso Greenwald, in una scena successiva, a difendere l'approccio: solo la trasparenza assoluta può togliere argomenti a chi accuserà Snowden di spionaggio, di complotti, di intelligenza col nemico. Dichiarare subito il nome, il cognome, raccontare la storia, spiegare le motivazioni: Snowden non vorrebbe, ma da semplice tramite di informazioni preziose deve trasformarsi in contenuto. Può essersi giocato la carriera e la libertà per difendere la nostra privacy, ma la sua è finita per sempre. La Poitras lo mostra a letto, in bagno, lo spia mentre si veste; documenta gli istanti esatti in cui il mondo si accorge di lui, attraverso i telegiornali che lo stesso Snowden ispeziona dal televisore di quell'anonima stanza d'albergo che è diventata da un momento all'altro il luogo più caldo al mondo. Nessun documentario su un divo musicale o televisivo è mai stato così vicino al suo soggetto nel momento in cui dall'anonimato viene assunto nell'empireo dei personaggi globali, quelli il cui volto viene proiettato sugli schermi dei grattacieli (continua su +eventi!)
Tutto questo succede unicamente perché lui l'ha voluto: e mentre succede Snowden è nervoso, rassegnato, stanco, perplesso, spaventato, euforico. Comunica meglio dei giornalisti che lo intervistano, sembra aver passato la vita al microfono più che davanti a un terminale: quasi più sciolto di Gordon-Levitt che lo interpretava nel film di Oliver Stone. Aveva previsto tutto, tranne forse che gli sospendessero il mutuo sulla casa. Snowden conserva ricordi (idealizzati) di un tempo in cui la Rete era libera davvero, i bambini anonimi dialogavano con gli scienziati e a nessuno veniva in mente di autocensurarsi mentre usava un motore di ricerca. Per regalarci una speranza di riottenere quell'innocenza, quell'anonimato, Snowden deve spogliarsi davanti alla Poitras (la quale invece esclude la sua immagine dal quadro). L'ultima scena, in cui da una ripresa esterna si intravede l'immagine sgranata della sua compagna che lo ha finalmente raggiunto a Mosca, e sta assaggiando la pasta in cucina, è voyerismo puro, temo inconsapevole: Citizenfour, la storia di come la privacy di ognuno di noi sia a rischio, finisce con una ripresa da paparazzo. Citizenfour si rivede a Bra mercoledì 31 maggio in occasione della rassegna Cinema e valori 2017.