Nella vecchia fattoria di Maggie

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Real Live (1984)
(Il disco precedente: Infidels
Il disco successivo: Empire Burlesque).
Non sono io.No, no, no, non sono io, babe.
Non sono io quello che cerchi, babe
 (migliaia di persone al Wembley di Londra, 27 luglio 1984).

The Plugz (in seguito alcuni divennero i Cruzados).
The Plugz (in seguito alcuni divennero i Cruzados).
Di tutte le svolte improvvise e contraddittorie che hanno segnato la carriera di Dylan, ce n'è una che avviene in poco meno di un minuto, un minuto ridicolo, tragico e imbarazzante. Comincia con una nota dissonante, il che è molto dylaniano. Il nostro eroe sta suonando con i Plugz, un gruppo postpunk ispanocaliforniano, voglio ripeterlo: è un gruppo postpunk ispanocaliforniano col quale sta provando intensivamente da alcune settimane. Che fine hanno fatto i turnisti superprofessonali di Infidels? Accantonati. E i cori gospel? Sono passati appena tre anni, sembra una vita. I Plugz stanno stravolgendo un paio di brani del disco uscito pochi mesi prima che Dylan in teoria dovrebbe promuovere - in pratica sembra volerlo fare a pezzi. È il momento dell'assolo di armonica; Dylan si stacca di dosso la chitarra senza che il sound complessivo ne risenta, afferra un'armonica, l'accosta al microfono nel pugno, comincia a soffiare, ma l'effetto è quello di un clacson di un autobus che nemmeno il postpunk può assorbire incolume. Che sta succedendo? Gli avevano preparato l'armonica sbagliata. Chissà quante volte gli era capitato - del resto secondo voi Dylan si preoccupa di spiegare quale armonica vuole a portata di mano, o in che chiave ha intenzione di suonare la prossima canzone? Il problema è che stavolta sta succedendo in diretta tv nazionale, al David Letterman Show. E per quanto sia solo un piccolo imprevisto della diretta, che quasi nulla toglie alla freschezza dell'esibizione; per quanto lo stesso Letterman alla fine arrivi a stringere la mano a Dylan e a proporgli di tornare da lui "ogni giovedì sera", strappando al mostro sacro una risata, la verità è che abbiamo appena assistito a una delle svolte più nette e tristi della storia di Bob Dylan. Il pendolo stavolta è oscillato in un istante, il brevissimo flirt di Bob col post-punk finisce qui.



E dire che sarebbe bastato così poco - l'armonica giusta al posto giusto? Fino a pochi minuti prima sembrava felice: una telecamera lo aveva sorpreso mentre alzava addirittura un pugno chiuso con entusiasmo da combattente. Stava massacrando Jokerman con la stessa furia con cui nel '74 insieme alla Band aveva affondato Lay Lady Lay, ma il risultato era molto più convincente. Dylan sembrava staccarsi dalle secche dei Dire Straits per avvicinarsi ai promontori dei Talking Heads, dove forse non avrebbe potuto approdare, eppure... Quei ragazzi ispanocaliforniani avrebbero potuto essere suoi figli - in effetti, se non fosse stato per i dischi punk e new wave che ascoltava il suo figlio maggiore, non li avrebbe mai reclutati - ma avevano la grinta giusta per abbattere il Dylansauro e assistere al parto di un mostro nuovo. E invece.
E invece l'armonica era quella sbagliata, Dylan si ritrovò in un attimo sperduto sul set mentre i Plugz continuavano a darci dentro, impassibili, come i professionisti che ancora non erano, ma che quel giorno sarebbero potuti diventare. Qui si potrebbe anche inserire una digressione sul concetto di professionismo, su quanto permei la cultura nordamericana e abbia relativamente smorzato la carica nichilista del primo punk britannico; è un concetto contro il quale Dylan ha combattuto da una vita, scrivendo e cantando canzoni piene di trappole per i virtuosi, canzoni incantabili e insuonabili; eppure anche Dylan non è mai riuscito a liberarsi del tutto dall'imperativo morale del professionismo, dall'ansia della prestazione, dalla vergogna del fiasco. Forse mentre distruggeva Jokerman a pugno chiuso dal vivo ci stava riuscendo; ma l'armonica stonata era troppo anche per lui. Ufficialmente lo show andò bene. Letterman si congratulò, e su Youtube ci sono ancora fan che lasciano un pollice alto e definiscono quel mezzo minuto di panico da armonica una straordinaria epifania televisiva. Ma Dylan, lo abbiamo visto, non è un gran fan di sé stesso. Fa anzi un po' fatica a riascoltarsi, odia la diretta televisiva e ai Plugz, dopo le strette di mano e i saluti, disse soltanto: vi chiamo lunedì. Lo stanno ancora aspettando.
Non lavorerò più per la fattoria di Maggie (Bob Dylan, 1965; ma anche 1976; ma anche 1978; ma anche 1984).

Carlos Santana
Una rarissima foto di Carlos Santana bello (l'unica che ho trovato nell'archivio del Post).
Tre mesi dopo era in tour in Europa, un doppio show con Santana, roba da riempire gli stadi da calcio (in alcune date arrivò anche Joan Baez, ma litigarono e non si sono più rivisti, credo, da allora). Ad accompagnarlo una band di professionisti, tra cui spicca Mick Taylor (l'ex rolling stone è l'unica conferma della super-formazione di Infidels) e Ian McLagan, già (ex Small Faces e Faces). Tutti coetanei affidabili in giro dagli anni Sessanta, nessun ragazzino. Ma nemmeno coriste. In compenso c'è il coro del pubblico - tante grazie, è un live - sì, ma siamo in quella fase post-BobMarleyana in cui i live devono documentare anche l'interazione della star col pubblico, che è sempre più vasto, (non si sentono più voci e fischi, ma un boato indistinto) eppure sembra sempre più disciplinato: è un pubblico-massa ma è anche un pubblico-strumento con una partitura da seguire. Dylan non è che si metta a sollecitarlo a colpi di "Yooo-ooooh", come Marley (o Sting), né lo asseconda come Baglioni, ma gli permette per la prima volta di cantare un ritornello da solo, e di tutti i ritornelli possibili sceglie It Ain't Me. Così su Real Live abbiamo la possibilità di sentire ventimila inglesi che cantano all'unisono: Non sono io, babe. No, no, no, non sono io babe, quello che stai cercando. Quanti in quel momento avranno fatto caso all'ironia?

Sull'erba dello stadio della nazionale inglese c'era gente che lo seguiva ormai da vent'anni: quattro lustri passati a sentirlo cantare che non avrebbe più lavorato per la Fattoria di Maggie. All'inizio magari Maggie erano gli hipster del folk metropolitano che pretendevano che Dylan non giocasse con le chitarre elettriche, o l'industria musicale che pretendeva da lui due dischi all'anno, o il movimento dei diritti civili che voleva arruolarlo come tamburino. In seguito avevano cantato I ain't gonna work for Maggie's Farm i ragazzi americani che non volevano andare in Vietnam e quelli britannici che protestavano contro il governo di Margareth, "Maggie" Thatcher. L'avevano incisa persino gli Specials. L'avrebbero suonata dal vivo anche gli U2. E Dylan nell'estate 1984 poteva forse esimersi? Così in Real Live lo sentiamo cantare, per la duecentoventesima volta dal vivo, che non ha intenzione di lavorare più per quella fattoria (220 non è un numero a caso). No More! Anche in questo caso, l'ironia sembra inconsapevole, o al limite svagata come può essere svagato l'attore che recita per la 220sima volta la stessa barzelletta - sarebbe strano se la trovasse ancora divertente.
real live
Real Live è uno di quei dischi che ti domandi se Dylan si ricorda di averli pubblicati. Uno degli articoli del suo catalogo di cui è più facile dimenticarsi, così com'è difficile dimenticarsi di quel tour (che pure fu il primo in cui calò in Italia). In quell'estate del 1984 Dylan non cantava né troppo male né particolarmente bene; gli arrangiamenti non erano né postpunk come quelli sperimentati al Letterman Show, né gospel, né barocchi come ai tempi del World Tour, né fracassoni come quelli della Revue. È un robusto rock da stadio, impreziosito da una gloriosa ospitata di Carlos Santana in Tombstone Blues. È uno di quei dischi live che all'inizio passa quasi inosservato, ma poi invecchia in modo dignitoso. Come nel caso di At Budokan Hard Rain, c'è una specie di difficoltà iniziale da superare, che facilmente poteva irrigidire i primi recensori: nei primi brani Dylan deve ancora scaldarsi, e non lo aiuta il fatto di dover cantare per la duecentesima volta che Abramo deve uccidere suo figlio sull'Highway 61, e che non ha intenzione di ripresentarsi a quella maledetta fattoria. (E sta succedendo qualcosa e non sai cos'è, figurati: dopo vent'anni ancora stai lì a domandarti cosa succede, Mr Jones?) Uno ovviamente può anche retoricamente chiedersi: ma ha senso pubblicare un live del genere, il quarto in dieci anni?
Un senso c'è sempre, almeno dal punto di vista commerciale... (continua sul Post)
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Ignoranti e felici, il film

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Beata ignoranza (Massimiliano Bruno, 2017)


Riuscireste a vivere due mesi senza connessioni internet? Sì, ma sarebbe un po' scomodo. Se non aveste mai usato internet, riuscireste a diventarne dipendenti nel giro di una settimana? È abbastanza improbabile. Ve li immaginate Giallini e Gassman professori di liceo, uno tecnopatico e l'altro entusiasta digitale, che si scambiano i ruoli? Uhm, in realtà no. Ecco, beh, non ci sono riusciti neanche gli sceneggiatori di Beata ignoranza: non esattamente gli ultimi arrivati, eppure.

In questi giorni sulla mia bacheca Facebook non fanno che parlare di Sarahah. Da quel che ho capito si tratta di un social network che ti consente di ricevere e mandare messaggi anonimi agli altri utenti. Lo ripeto perché secondo me è fortissimo: in questi giorni stanno tutti provando un nuovo servizio on line che - straordinaria novità! - ti fa sentire l'ebrezza di ricevere e mandare messaggi anonimi. Sono quelle cose che mi fanno sentire decrepito, perché mi ricordo ancora bene quando tutta internet era così, un posto di anonimi che si mandavano messaggi (l'anno scorso Facebook mi ha sospeso perché il mio secondo nome non gli risultava) (in effetti il mio secondo nome, tra Leonardo e il mio cognome, era Blogspot, e finché non l'ho cancellato non mi ha riaperto l'account, che evidentemente deve combaciare con quello che risulta all'anagrafe, il che è abbastanza inquietante: avrei potuto sbattere la porta e andarmene, ma la verità è che senza il mio account Facebook ormai farei persino fatica a lavorare) (sì, a lavorare a scuola).

La vignetta più riprodotta del New Yorker è del 1993.
Dice: "Su internet, nessuno sa che sei un cane".
Ho tirato fuori Sarahah e Facebook non perché non abbia voglia di parlare del film - alla fine è un film interessante, per quanto sballato - sembra concepito da qualcuno vecchio come me, salvo che dopo essersi preso male coi blog anonimi verso il 2004 ha chiuso il pc per sempre e non ha più cambiato la sua idea di internet. E nel 2016 ci ha scritto un film. In cui Marco Giallini interpreta un professore che non è mai stato on line in vita sua e per carità, esistono, ne conosciamo tutti, è più che giusto mostrarli nei film. Questo professore dall'oggi al domani, per una scommessa, viene dotato di adsl, di account sociali e quant'altro ed evidentemente anche di amici e followers, perché dopo una settimana sta già chattando a tutt'andare. Un po' curioso, ma si sa che nelle commedie si esagera, no? L'idea portante del film doveva essere appunto questa: mostrare un tizio che diventa dipendente da internet nel giro di pochi giorni (mentre il suo rivale speculare, Gassman, dovrebbe fare il percorso inverso). Era una idea interessante? Magari sì, ma a un certo punto qualcosa dev'essere andato storto, e basta vedere dieci minuti di film per accorgersene.

È un film veramente strano. Sembra essere stato masticato, risputato e rimesso nel vassoio da un cameriere impassibile - che purtroppo è Massimiliano Bruno, da cui sembra ovvio aspettarsi di più. Per dire: tutto comincia con una scena in cui Gassman e Giallini litigano in classe - davanti ai loro studenti! che riprendono tutto col cellulare! Dovrebbe essere lo snodo fondamentale, la crisi da cui scaturisce tutta la storia, epperò in quel momento i due attori principali non sono credibili. Si prendono a male parole, ma c'è qualcosa che stona ed è strano, è chiaro che nessuno dei due è Lawrence Olivier, ma qui sono davvero al di sotto dei loro standard professionali. Più tardi scopriremo che l'effetto era voluto: non stanno litigando davvero, bensì stanno rimettendo in scena un loro litigio precedente; cioè stanno recitando nel ruolo di due attori. Ma non sono bravi attori - cioè, no, Giallini e Gassman sono ottimi attori, ma i loro personaggi no, sono due ex filodrammatici, insomma se uno ha la pazienza di aspettare 80 minuti scopre che all'inizio stavano recitando bene il ruolo di chi recita male. Il problema è che al cinema è anche una questione di imprinting: se tu all'inizio vedi dei cani, ci resti male, e la tua voglia di dare una chance al film ne risente.


Da quel litigio parte la scommessa: Gassman deve rinunciare a smartphone e adsl, Giallini deve cominciare a usarli. Ora non importa tanto che lo sforzo degli autori di rendere una sfida del genere credibile porti viceversa il film nel Reame del Più Contorto Inverosimile (la figlia di uno dei due, non è chiaro di quale, fa la regista! e decide di fare un documentario sulla sfida! Appassionante, no?) Il guaio è che appunto il film sembra scritto da qualcuno che si è disintossicato da internet una decina di anni fa e da allora lo guarda un po' da lontano, con sospetto, come i vegani trascinati in un ristorante di pesce. C'è un preside tutto orgoglioso perché il suo liceo è diventato "smart" grazie all'adozione del registro elettronico! Che roba, eh? Peccato che il registro elettronico sia obbligatorio in tutte le scuole pubbliche da un paio d'anni. Ma più in generale: quali sono le cose che facciamo quotidianamente, oggi, grazie a internet? Le prime che mi vengono in mente: usiamo le mappe stradali. Recensiamo qualsiasi cosa. Manteniamo i contatti con gente che avremmo perso di vista da un pezzo. Incontriamo gente che non avremmo mai potuto conoscere, con la quale condividiamo interessi. Possiamo lavorare a Ferragosto, anche se siamo al mare, come sto facendo io. E i giovani, mi dicono, guardano molto più porno (continua su +eventi...)


Giallini non consulta mappe, porno men che meno, non compra né vende né scrive recensioni (si prende solo venti secondi per stroncare Tripadvisor in toto), non riallaccia nessun contatto, non si pone neanche il problema di come usare internet nel suo ambito professionale. Però si mette a giocare con un suo allievo ripetente a uno sparatutto per playstation. Da professore a gamer in punto in bianco... e va bene, le commedie esagerano. Che altro fa? Corteggia una sua collega... con un nick anonimo. Nel 2017. Non so. È come usare la macchina per attraversare la strada. Se non avessi mai usato facebook, qual è la prima cosa che farei? Storicamente, un sacco di gente cercava gli ex compagni del liceo, e poi è restata perché ha trovato vecchi amici e se ne fa di nuovi. Non sarebbe stato più credibile che Giallini si mettesse a cercare vecchie fiamme, o scoprisse anime gemelle a migliaia di chilometri di distanza? Devi usare facebook per scrivere i bigliettini? Qualcuno lo usa ancora così?

Secondo me no, ma forse non ha nemmeno così senso discuterne. Credo che i primi ad aver capito che la premessa non funzionava sono stati gli stessi autori, che probabilmente hanno riprovato a riscriverlo, a ritagliarlo, a rimontarlo, e poi forse c'era una scadenza in ballo e semplicemente hanno lasciato che Giallini e Gassman gigionassero a piacere, in barba a qualsiasi vaga pretesa di verosimiglianza (si odiano da una vita, non si vedono da 25 anni e al primo problema uno ospita l'altro in casa). Il risultato è un film molto più borisiano di Boris - o magari dello stesso genere del film nel film di Boris, Natale con la Casta: ci sono sequenze quasi surreali, a volte anche molto sofisticate, che portano avanti una trama risibile; situazioni drammatiche ai limiti della tragedia e oltre buttate lì come se fossero gag da cartone animato (a un certo punto esplode una casa); siparietti scolastici che in qualsiasi scuola vera provocherebbero ispezioni e licenziamenti (nella scuola di Beata ignoranza è prassi comune schiaffeggiare gli studenti); c'è persino lo spettro di una defunta moglie amante e madre interpretata proprio da Carolina Crescentini, icona di Boris. Ci sono, soprattutto, un paio di caratteristi che si fanno le canne dall'inizio alla fine del film, il che non è affatto inverosimile, anzi, ma assume un senso preciso nel momento in cui ci rendiamo conto che in realtà sono i due personaggi più lucidi: come se il film fosse visto secondo il loro punto di vista e probabilmente è andata davvero così. Probabilmente c'era un'idea interessante che stava evolvendosi in un film inutile, una scadenza importante che cominciava a mettere ansia, qualcuno che aveva parecchia maria in casa e ha iniziato a distribuirne, e così insomma alla fine ne è uscito un film un po' così. Però simpatico. Gli attori sono molto simpatici. Non si capisce nemmeno chi vince la scommessa, cioè si capisce che la scommessa non era così importante, l'importante è voler bene a chi ami anche se non fa sempre figli con te. Inoltre farsi le canne è meglio che andare su facebook, e vabbe', non è il messaggio più reazionario del mondo in fin dei conti. Dai dai dai.

Beata ignoranza si può vedere gratis a Bra il 17 agosto in via Sobrero, alle 21:30, in occasione della Rassegna itinerante di cinema d'autore. Altrimenti il 25 agosto a Limone Piemonte (ore 21:15). Oppure su Youtube a partire da €3,99.

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Infedele negli anni Ottanta

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Infidels (1983)
(Il disco precedente: Shot of Love
Il disco successivo: Real Live).

Mark Kopfler è questo signore.
Mark Knopfler è questo signore. Nel 1980 volevamo tutti suonare come lui, e lui voleva cantare come Dylan.
Ma vi immaginate se Mark Knopfler, al colmo del suo successo coi Dire Straits, avesse fatto un disco con Mick Taylor, l'unico chitarrista a uscire vivo dai Rolling Stones? E che oltre al fido Alan Clark alle tastiere, alla batteria e al basso avessero chiamato rispettivamente Sly Dunbar e Robbie Shakespeare, la sezione ritmica più blasonata della Giamaica e non solo, due tra i più grandi innovatori della musica leggera dell'ultimo mezzo secolo? Non sareste curiosi di sentirlo, un disco del genere? Ma forse lo avete già ascoltato, perché un disco del genere esiste, e in più è un disco di Bob Dylan. Si chiama Infidels e uscì nel 1983.
Ero incerto se cominciare il pezzo con Mark Knopfler. Già ai tempi di Slow Train mi stavo ponendo il problema: ma i lettori giovani, i famosi millennials ai quali bisognerebbe cominciare a rivolgersi, lo sanno chi è Mark Knopfler? Possono immaginare che nel 1983 vendesse più dischi di Dylan, e che per la mia generazione fosse più famoso di lui? Nel senso che io, ancora per qualche anno, non avrei avuto la minima idea di chi fosse Dylan: ma Tunnel of LoveRomeo and Juliet, le sentivo alla radio. E So Far AwayMoney for Nothing? Ancora ai tempi di Brothers in Arms io non lo sapevo, chi fosse Bob Dylan. Mentre pensavo a queste cose alla mia finestra è giunto distinto il suono della tastiera di Alan Clark che attaccava Walk of Live, nella birreria sotto casa mia una cover band dei Dire Straits stava facendo le prove per la serata. Ok, forse posso iniziare il pezzo di Infidels con Mark Knopfler. Certo, avrei preferito Cyndi Lauper.
Cyndi_lauper_girls_just_want_to_have_funIn effetti la prima idea era cominciare il pezzo con Bob nella solitudine del suo trealberi, alla deriva nei Caraibi, mentre cerca di scrivere canzoni che non abbiano nulla a che vedere con le canzoni che vanno alla radio in quegli anni. Niente contro il punk o la new wave, ma insomma, Bob Dylan è un maestro, è fuori dal tempo, fuori dalle mode! Ma è anche fuori fase, come spesso gli capita. Si distrae, stappa una bottiglia, prova a sintonizzare la radio di bordo sulla frequenza delle previsioni del tempo - ma l'unica stazione che si sente sta trasmettendo il tormentone di Cyndi Lauper, Girls Just Want to Have Fun. Deluso, spegne la radio e si rimette a strimpellare. Niente da fare, l'ispirazione non viene. Passano i giorni, che alle Antille si assomigliano un po' tutti. Lentamente, nella testa di Bob cresce un ritornello. Qualcosa di effettivamente nuovo. Qualcosa di effettivamente mai sentito. Non riesce neanche a metterci le parole, dovrà arrangiarsi con un vocalizzo, un uo-o-o-o-o-o, ma perché no? Forse che il grande Bob Dylan non può concedersi un vocalizzo? Così i critici si renderanno conto che riesce a cantare più di tre note in una frase. Ed è un gran ritornello, diciamolo. L'entusiasmo comincia a salire. Bob sa che non dovrebbe, ma a un certo punto decide di farlo sentire a qualcuno - magari al cuoco che gli porta le triglie, ehi, Ramon, senti questo ritornello:
Jokerman dance to the nightingale tune,
Bird fly high by the light of the moon,
Uo-o-oh, oh, oh, Jokerman
E Ramon, inconsapevole: ah sì, boss, piace anche a me quella canzone. E Dylan, improvvisamente riannuvolato: in che senso? La conoscevi già? Ma sì, boss, non è quella di Cyndi Lauper? Uo-o-oh, oh, oh. Si sente dappertutto.
Volevo iniziare il pezzo così, ma poi ho controllato le date. Mi stavo sbagliando. Mentre componeva Infidels Dylan non avrebbe mai potuto ascoltare la versione lauperiana di Girls, che uscì soltanto in settembre - Infidels era già pronto in primavera. Oggi è famoso soprattutto per una canzone che inspiegabilmente non contiene, Blind Wille McTell. Ai tempi fu salutato come un grande ritorno - più o meno come venivano salutati negli anni Ottanta tutti i dischi dei monumenti degli anni Sessanta - e in effetti non era un pasticcio come il disco precedente, né conteneva quelle canzoni a esplicito tema religioso che i critici musicali schivavano come la peste (in realtà, se manca un riferimento esplicito a un Dio, ce ne sono parecchi al suo contendente, Satana). Così, per un po', Infidels fu considerato il miglior disco degli anni Ottanta di Bob Dylan, quasi una contraddizione in termini.

Dopo i tre dischi cristiani senza il suo sacro volto in copertina, eccone una in cui il 90% della superficie grida: "Bob Dylan" (notate anche quanto è grande il nome rispetto al titolo).
Dopo i tre dischi cristiani senza il suo sacro volto in copertina, eccone una in cui il 90% della superficie grida: "Bob Dylan" (notate anche quanto è grande il nome rispetto al titolo).
In effetti è una cosa che costa fatica accettare: che Dylan sia stato attivo per la maggior parte degli anni Ottanta; che abbia inciso quasi un disco all'anno; che abbia fatto più concerti che nei decenni precedenti, fino a esaurirsi la voce e oltre. Non ha senso, pure è andata così. Sarebbe dovuto andarsene in esilio, come altri dinosauri effettivamente fecero: in attesa che passassero di moda i sintetizzatori e che crescesse una nuova generazione di ascoltatori (e produttori), più rispettosi del bel suono artigianale dei tempi che furono. Dylan e gli anni Ottanta sono due concetti quasi antitetici - è come se a Michelangelo fosse toccato di sopravvivere per tutto il Seicento e passare indenne attraverso il barocco, magari dipingendosi da solo i mutandoni al Giudizio Universale - a Dylan è toccato pure questo.
Egli stesso intuiva di doversi difendere da una scena musicale che non andava, e forse non sarebbe mai più andata, nella direzione a lui più congeniale. In certe fasi si era semplicemente isolato: anche Gesù gli era stato utile in questo. Saved è un disco fuori dal tempo, né Settanta né Ottanta, né nulla. In altri casi aveva provato ad assecondare la corrente, a circondarsi di professionisti e/o giovani. Infidels, ormai lo sappiamo, è l'ennesima fase di un pendolo che dal 1978 oscilla tra due estremi: iperproduzione ed estemporaneità. Street-Legal era stato un disco fin troppo estemporaneo; Slow Train aveva ritrovato il successo anche grazie a una produzione a regola d'arte - ed era stata la prima collaborazione con Knopfler, al tempo un chitarrista dylaniano di belle speranze che aveva appena finito di registrare il suo secondo discoTanta regola aveva finito per stancare Dylan, che in Shot of Love aveva cercato di recuperare un suono grezzo, riuscendoci fin troppo. L'ennesimo flop commerciale gli impone una pausa di riflessione: nel 1982 non pubblica niente, e intanto si rimette in cerca di professionisti in grado di lavorare con lui. Non è che ce ne siano tanti al mondo. Il ritorno di Knopfler - nel frattempo diventato una stella di prima grandezza - può sembrare una mossa scontata: il chitarrista unisce quelle caratteristiche apparentemente antitetiche che Dylan non riusciva a conciliare - è a un tempo un discepolo di Dylan e il suo contrario, ama le strofe debordanti di parole e le improvvisazioni ma è anche un maestro di disciplina in sala d'incisione. Se proprio Dylan doveva incidere dischi negli anni '80, Knopfler era una mossa quasi obbligata, perlomeno ascoltando Sweetheart Like You la sensazione è un po' questa: è un Dylan che potrebbe essere la guest star di un brano dei Dire Straits, è un Dylan che si riprende quello che i Dire Straits gli avevano preso in prestito: quella miscela unica di ruvidezza e sentimento, quel machismo timido che se è ben dosato fa sfracelli.

(Quando finalmente il regista riesce a inquadrarlo con gli occhi aperti, non riesce più a staccarsene: Dylan ripreso da vicino è uno spettacolo, fa un sacco di smorfie molto espressive. Puoi capire perché a Hollywood dopo tanti fiaschi qualcuno fosse ancora disposto a dargli una chance per un film).

Eppure a Knopfler Dylan arrivò quasi per ripiego, dopo aver sondato terreni per lui sconosciuti e insidiosissimi: a un certo punto gli sarebbe piaciuto fare un disco con Bowie, un giorno si presentò a casa di Frank Zappa che diplomaticamente tergiversò (ok, conoscendo entrambi sarebbe stato un macello. Ma Zappa era riuscito a lavorare persino con Captain Beefheart: sarebbe almeno stato un macello molto interessante). Con Knopfler, e con la squadra di turnisti più prestigiosi mai messi assieme, Dylan non discusse più di religione, ma lavorò parecchio e bene. I filmati che ci restano ci danno la sensazione che fosse a suo agio - nello stesso periodo faceva fatica a tenere gli occhi aperti davanti ai registi dei suoi primi videoclip. Però poi successe qualcosa che deteriorò il rapporto e la stessa resa finale del disco. Apparentemente, Knopfler non aveva fretta (doveva andare in tour) e Dylan sì: forse non tanto Dylan quanto la Columbia, che senza un disco di Dylan ogni 18 mesi come è noto rischia di implodere su sé stessa. Il risultato non cambia: Dylan, turbato da qualche data di scadenza, si mise a pasticciare coi missaggi e con la scaletta, dando alle stampe un disco molto inferiore a quello che sarebbe potuto essere. È andata davvero così?


In realtà Infidels è meno rappresentativo del Dylan'80 di quanto appaia a prima vista. Per alcuni aspetti rappresenta un'eccezione: il più appariscente è l'improvvisa scomparsa dei cori femminili, che Dylan aveva cominciato a usare in Self Portrait e di cui non si separava dai tempi di Street-Legal. E siccome i cori erano diventati il marchio di fabbrica del periodo gospel, la decisione di farne a meno introduce un segno di netta discontinuità, che ai tempi dovette fare ben sperare (e invece no, Dylan tornerà presto sui suoi passi). Soltanto la voce di Clydie King fa capolino in Union Sundown: Dylan, che forse aveva già avuto una relazione con la futura moglie Carolyn Dennis, a questo punto faceva coppia quasi fissa con la King, con la quale aveva inciso poco prima un intero album di duetti che la Columbia non riteneva commerciabili e non sono ancora saltati fuori (pensate a che roba è saltata fuori: i duetti con la King ancora no). Alla base della decisione di Dylan di avvalersi dei cori c'era tutto un nodo di motivazioni religiose e sentimentali difficili e imbarazzanti da districare, ma prima ancora una relativa sfiducia nei propri mezzi vocali, che BD nutriva dalla fine degli anni Settanta e si eclissa miracolosamente durante le sessioni di Infidels; sarà una coincidenza, ma in Infidels Dylan canta come non cantava da anni. È sicuro, è intonato, è espressivo, non sbaglia un colpo. E in Jokerman ci regala qualcosa che forse non avevamo mai sentito: un vocalizzo nel ritornello. Uo-o-oh, uo-o-o-o-o-o-oh, Jokerman. A proposito di anni '80. Pensate a che cosa strana è lo Zeitgeist. Nessuno si aspetta che BD debba seguire la moda del momento, anzi. Eppure persino a mille miglia dalla sala d'incisione, nel 1983 sul suo trealberi Dylan finisce per comporre il suo ritornello più anni Ottanta, qualcosa che di lì a poco avrebbe potuto cantare Cyndi Lauper.
Dicevo più su che nel 1983 io non lo sapevo, chi fosse questo Dylan... (continua sul Post)
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Uno psicanalista a Roma (un altro)

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Lasciati andare (Woody Allen, 2016)

Elia Venezia (Toni Servillo) è uno psicanalista che ha bisogno di perdere chili. Claudia (Verónica Echegui) è una personal trainer che ha bisogno di mettere ordine nella propria vita, ma che non può evitare di sconvolgere quelle di chi incontra. Se fosse un film, non potrebbero che incrociarsi. Ah, ma è davvero un film! E di Woody Allen! Di nuovo a Roma, stavolta nella magica cornice del Ghetto! Una commedia che è una sarabanda di trovate, dove si riflette ma si ride anche a crepapelle, e finalmente si rivede in forma il Maestro! Magari, in realtà no.

Lasciati andare (Francesco Amato, 2016)

Elia Venezia (Toni Servillo) è uno psicanalista. Si capisce perché assomiglia non tanto a Freud (calvo, la barba bianca, a un certo punto gli mettono in bocca pure il sigaro) ma alle vignette di Freud. Anche i suoi pazienti continuano a sembrare macchiette dei pazienti degli psicanalisti delle barzellette, secondo una tradizione cinematografica italiana che data almeno da Caruso Pascoski e prosegue, purtroppo, nei tardi film di Moretti (mi ricordo che una volta, credo da Fazio, Moretti ammise che nessuno nel suo staff di scrittori era mai andato in analisi, e questo succedeva dopo che erano usciti già almeno due film in cui Moretti interpretava uno psicanalista, che vorrei dire: almeno un po' documentarsi, no? cosa può costare prendere cinque-sei appuntamenti, giusto per capire come funziona? Beh in effetti può costare parecchio, ma non varrebbe la pena? Uno si sdraia, no guardi dottore non ho nessun problema serio, volevo soltanto fare un po' di esperienza perché sto scrivendo un film e non vorrei cadere nei soliti stereotipi? - Tempo tre sedute e stai già confessando che a tredici anni avevi ideato l'omicidio perfetto, ovviamente di tuo padre). (Anche in Lasciati andare, come in Habemus Papam, l'ex moglie dello psicanalista è psicanalista a sua volta - in questo caso è Carla Signoris, che fa piacere rivedere al cinema).


Francesco Amato ha diretto tre film in dieci anni. Il primo (Ma che ci faccio qui!) era la storia fresca, sorprendente, di un ragazzo che scappa da Roma per fare il giro del mondo ma si ferma alla prima spiaggia; il secondo (Cosimo e Nicole) è la storia fresca, sorprendente, di due ragazzi che si incontrano al G8 di Genova e di quel che combinano in seguito. Lasciati andare è il suo terzo film ed è una delle commedie italiane migliori dell'anno. Però non è fresca, né sorprendente.

Francesco Bruni è lo sceneggiatore storico di Calopresti e soprattutto di Paolo Virzì, passato alla regia con Scialla, Noi 4 Tutto quello che vuoi. Nel 2016 ha scritto, con Francesco Amato e Davide Lantieri, Lasciati andare. È esagerato affermare che da una squadra di autori del genere potevamo aspettarci di più di una commedia che, in effetti, gira che è un piacere ed è divertente il giusto, ma sembra approfittare di qualsiasi luogo comune cinematografico e narrativo che incontri sulla strada? Non bastava trasformare Servillo in un sosia di Freud che consiglia best-seller e ipnotizza i pazienti; bisognava anche affiancargli la pur brava Verónica Echegui nel ruolo della classica Manic Pixie Dream Girl, quel personaggio femminile che esiste soltanto nelle sceneggiature e ha il preciso scopo di dare una scossa al personaggio maschile? E se la scelta di ambientare la storia nel Ghetto era almeno qualcosa di originale, valeva proprio la pena caratterizzare il protagonista come uno spilorcio? Ma in generale: oltre allo psicanalista freudiano-quindi-ebreo-quindi-avaro, abbiamo una personal trainer solare e un po' pazza, e infatti spagnola; un capoverdiano che vende il fumo, un brutto ceffo dal coltello facile e l'accento balcanico, un lombardo carrierista e antipatico (Giacomo di Aldo Giovanni e Giacomo) e... un centravanti un po' scugnizzo e criptogay - questo a ben vedere è un luogo comune invertito, ormai banale quanto il luogo comune normale. L'unica scelta un po' originale è il rapinatore balbuziente di Luca Marinelli, che compare soltanto nel terzo atto e non a caso si porta a casa il film. E tuttavia.

Tuttavia alla fine Lasciati andare è un film divertente; Servillo è in forma (e non è meno macchietta che in altri prodotti più blasonati), la Echegui è davvero in parte, la storia è un po' prevedibile ma funziona. Forse il vero test per una commedia del genere sarebbe quello di Woody Allen: ovvero immaginare che cosa direbbero i critici di un film come Lasciati Andare se lo avesse girato lui. Secondo me sarebbero entusiasti. È vero, psicanalista e pazienti sembrerebbero quelli delle vignette, ma non è sempre stato così con Allen? È vero, più che spiazzare gli spettatori la storia sembra andare incontro alle loro attese, ma non è il tratto tipico di tanti film dell'ultimo Allen? La principale differenza è che Lasciati Andare si sarebbe visto in molte più sale e avrebbe incassato assai di più. Lo si può rivedere comunque a Cherasco venerdì 11 agosto, al cortile di Palazzo Gotti di Salerano (ore 21:30); l'ingresso è gratuito e il regista sarà ospite! Altrimenti venerdì 18 e venerdì 25 agosto alle 21:00 al cinema Sangiacomo di Roburent.
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Una botta d'amore (per Dio)

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Shot of Love (1981)
(Il disco precedente: Saved
Il disco successivo: Infidels)
Siete un giovane cantautore italiano in cerca di idee, nel 1981. Quando avete visto in vetrina l'ultimo disco di Bob Dylan eravate un po' increduli. Non sembra un disco di Dylan: non c'è la sua faccia e non c'è nemmeno Gesù, insomma che roba è? Più che l'illustrazione in stile Pop Art, l'ultimo stile che accostereste alla musica di Dylan, a incuriosirvi è il titolo: cosa vorrebbe poi dire, "shot of love"? Il dizionario tascabile d'inglese vi conferma che "shot" è il participio di sparare: uno "sparo d'amore"? L'immagine sembra suggerire un esplosione più devastante: "scoppio d'amore"? Ma magari avete fatto almeno una vacanza all'estero e sapete che lo shot è un bicchiere piccolo: "bicchierino d'amore"? Un vostro amico che è stato a Londra scuote la testa: ma non lo sai che lo shot è l'iniezione (di eroina, ovviamente)? "Schizzo d'amore", bisognerebbe tradurre. Ma chi dice più "schizzo"? Una "pera d'amore"? Oppure una dose, ecco, "Dose d'amore". Che titolo buffo, pensi, e se la dose è troppa cosa ti succede? Ed ecco improvvisa l'ispirazione:

(Vedi alla voce: Crimini contro l'umanità che Bob Dylan ha reso possibili).
Sapete che John Lennon non è praticamente mai stato quarantenne? Giusto un paio di mesi tra il 9 ottobre e il maledetto 8 dicembre 1980, quando Mark Chapman gli sparò sotto casa a New York. Dylan ne rimase comprensibilmente sconvolto. Avrebbe compiuto 40 anni l'anno successivo, e da venti aveva a che fare con fan ossessionati e fuori di testa. Il mondo in generale stava impazzendo. Dylan assunse una squadra di addetti alla security, con il compito di bonificare i palazzetti dove faceva i concerti. Al suo bassista, Tim Drummond, regalò un giubbotto antiproiettile. Ma non avrebbe scritto canzoni su Lennon, per altri trent'anni. Invece un giorno ne scrisse una per Lenny Bruce, che era morto così tanto tempo prima.

Mark David Chapman
Mark David Chapman
Una sera Bob Dylan e Lenny Bruce avevano preso un taxi assieme. Non sappiamo in che circostanze: Dylan non le ha mai chiarite. Dobbiamo presumere che fosse a New York, senz'altro prima che Bruce morisse di overdose, nel 1966, ormai estromesso dal giro dei locali che non volevano essere coinvolti in processi per oscenità. Qualche tempo prima, lui e Dylan furono compagni di viaggio. "Solo un miglio e mezzo, ma sembrò un mese". Chissà cosa significa: c'era molto traffico? Non sapevano cosa dirsi e si annoiavano? Oppure avevano tante idee da scambiarsi, e il viaggio fu troppo breve? Poi Bruce se ne andò e Dylan diventò una stella distante. Aveva testimoniato in suo favore a un processo, quando morì non ne parlò più - del resto se avesse scritto una canzone per ogni compagno di viaggi morto in quegli anni, ne sarebbe uscito un disco doppio o triplo, una Spoon River spaventosa. Poi, un giorno qualsiasi del 1981, prese un foglio e si mise a scrivere: "Lenny Bruce is Dead". Al presente, come se fosse appena successo. A tutti gli intervistatori che gli hanno chiesto cosa ci fa, una canzone sul blasfemo Lenny Bruce, in un disco cristiano, Dylan non ha saputo rispondere. Non ne ho idea, ha detto: l'ho scritta in cinque minuti. Come se la scelta di includerla nel disco non fosse dipesa da lui. E in effetti. Prendi il disco da cui è tratta Lenny BruceShot of Love: ha senso parlarne come se fosse davvero un album e non una raccolta di canzoni scritte in momenti diversi e registrate per caso? Ovvero: ha senso continuare a fare quello che abbiamo fatto fin qui, ora che siamo negli anni Ottanta?

Lenny Bruce (13 ottobre 1925 – 3 agosto 1966), nome d'arte di Leonard Alfred Schneider, è stato un noto comico americano, famoso sopratutto per i temi piuttosto scabrosi che toccava nei suoi spettacoli e per il suo linguaggio spesso volgare. Nel 1964 venne arrestato e processato per 'oscenità'. Nonostante durante il processo testimoniarono a suo favore personaggi come Woody Allen, Bob Dylan e Allen Ginsberg, Lenny Bruce fu dichiarato colpevole. Morì a causa di una overdose di morfina nella sua casa di Hollywood. Nella foto, Lenny Bruce all'aeroporto di New York, l'8 aprile 1963 (AP Photo)
Lenny Bruce (13 ottobre 1925 – 3 agosto 1966), nome d'arte di Leonard Alfred Schneider, è stato un noto comico americano, famoso sopratutto per i temi piuttosto scabrosi che toccava nei suoi spettacoli e per il suo linguaggio spesso volgare. Nel 1964 venne arrestato e processato per 'oscenità'. Nonostante durante il processo testimoniarono a suo favore personaggi come Woody Allen, Bob Dylan e Allen Ginsberg, Lenny Bruce fu dichiarato colpevole. Morì a causa di una overdose di morfina nella sua casa di Hollywood. Nella foto, Lenny Bruce all'aeroporto di New York, l'8 aprile 1963 (AP Photo)
Almeno fino a Saved il concetto di "album di Bob Dylan" aveva un senso. Ogni disco era veramente un episodio della sua storia. Non ce n'era uno uguale all'altro, e tutti assieme creavano la storia di un artista, compositore e performer: coi suoi alti, i suoi bassi, le sue digressioni, gli imprevisti, i ritorni e le delusioni. Tra 1981 e 1989 Dylan pubblica ancora degli album - anche troppi - ma non sono più capitoli di un romanzo, non sono più tratti di un percorso, sono quasi una falsa pista; una di quelle mappe delle regioni in guerra, con tutti i confini sbagliati. A osservarla da lontano, sembra una crisi di ispirazione. È l'esatto contrario. Almeno nei primi anni dopo la conversione Dylan ha il problema opposto: troppe canzoni per la testa, scarsa inclinazione a pubblicarle. Diversi pezzi che comincia a provare, alla prima difficoltà li accantona finché non li perde da qualche parte. Alla fine del 1980 si dimentica letteralmente di incidere un disco. A quel punto non aveva soltanto già scritto Shot of Love (la canzone), ma una serie di brani per niente inferiori a quelli di Saved, ispirati, più che da Gesù, dal concetto di Peccato e da quanto sia faticoso liberarsene: c'è Ain't Gonna Go To Hell For Anybody (sorella maggiore di Tight Connection of My Heart), c'è un rock robusto intitolato Yonder Comes Sin, c'è Caribbean Wind, una cavalcata emozionante dedicata a un amore esotico e sbagliato che avrebbe potuto diventare un classico; c'è un blues tra i suoi migliori (The Groom's Still Waiting at the Altar) e tanta altra roba buona, scritta per lo più durante una vacanza estiva ai Caraibi su una tre-alberi che aveva appena varato. Quando nell'autunno del 1980 ricomincia coi concerti, ha una gran voce, una scaletta in cui si riaffacciano i suoi vecchi classici ma composta in buona parte di materiale inedito - che inedito è rimasto; quando finalmente si deciderà a registrare un disco nuovo, in primavera, scarterà quasi tutto. Solo The Groom verrà riutilizzata come lato B di un singolo, e poi inserita nella versione CD di Shot of Love, di cui resta uno dei brani più solidi. E gli altri pezzi dell'estate-autunno 1980? Forse si era stancato di cantarli in tour; forse se li era dimenticati; possiamo farci un'idea del tutto ascoltando un paio di bootleg abusivi su Youtube (forse saranno il prossimo capitolo della Bootleg Series, forse ormai Dylan ha deciso di lasciarli perdere).



C'è da mettersi a piangere... (continua sul Post)

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Spiderman è tornato alla Casa

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Spider-Man: Homecoming (Jon Watts, 2017)

C'era una volta un supereroe così smagliante, così perfetto, che volle sfidare Atena: vediamo chi tesse la storia più avvincente. Invano Atena cercò di ricordargli i precedenti: guarda che chi sfida gli Dei casca malissimo. Eh ma io non casco mai! disse il supereroe, è impossibile! E fu proprio così. Quando vide la sua storia, Atena strabuzzò i suoi larghi occhi: era la migliore mai tessuta, persino le Parche in tanti eoni non avevano mai concepito roba del genere. E tuttavia chi sfida gli Dei va punito: pertanto Atena condannò il supereroe a rivivere quella storia per sempre. Ogni cinque, massimo ogni dieci anni, un narratore o una major cinematografica lo avrebbero fatto ricominciare da zero: di nuovo si sarebbe trovato in quel laboratorio di chimica e sarebbe stato morsicato da un ragno radioattivo, e suo zio sarebbe morto assassinato eccetera eccetera, nei secoli dei secoli dei secoli. Hai scritto la storia migliore? Non te ne libererai mai. 

Non è Octopus e non è Venom; non è nessuno dei trentadue goblin. Non è J. J. Jameson (che ci manca tantissimo, torna JJJ). Il peggior nemico dell'Uomo Ragno, da sempre, è sé stesso. No, non il suo clone (ma è indicativo che nessun altro supereroe abbia avuto tanti problemi coi cloni). Proprio sé stesso. Il suo essere, banalmente, il miglior supereroe possibile. Quello che salta tra i grattacieli e schizza ragnatele: non ce n'è uno più spettacolare di lui, né sulla carta né sullo schermo. Se ci fosse lo sapremmo, perché è da mezzo secolo che ci provano. Spidey piace perché è un insetto? Hanno provato con qualsiasi altro insetto. O forse piace perché è un ragazzino? Hanno provato con tanti altri ragazzini. Sarà l'ironia? Abbiamo avuto ondate di supereroi ironici, ma niente da fare. Abbiamo avuto anche un milione di variazioni sul tema: dozzine di Donne Ragno e Uomini Ragno potenziati. Ultimamente va forte uno Spiderman nero - per dire, la gente che si lamenta che Zia May nel film è troppo giovane, li legge i fumetti? Lo sa che nei fumetti esistono Zie May giovani, Spidermen neri, Peter Parker in pensione? Per dire che le hanno provate veramente tutte. Niente.

Non riescono a cambiare nemmeno il costume. Steve Ditko lo inventò nel 1963, e in capo a un anno si era già stancato di disegnarci le ragnatele. Hanno provato a semplificarlo, a renderlo più d'impatto: niente da fare. Alcuni costumi di Spiderman sono diventati dei personaggi a sé, ma Spidey resta rosso e blu. Ormai quando prova a cambiare costume lo sai già, che è solo una finta per far impazzire i lettori.

The Amazing Spider Man, #1 Annual 

Il peggior nemico di Peter Parker non è Elektro e non è senz'altro l'Avvoltoio, quel poveraccio. Il peggior nemico di Spiderman è il suo successo. Il suo creatore pensava a un supereroe con superproblemi, ma come fai a essere credibile se qualsiasi tua versione va a ruba, il tuo merchandising è una solida certezza, e al cinema vorrebbero farti un film all'anno? Come fai a sembrare fresco come un teenager, dopo cinquant'anni di produzione industriale? Come fai a ripresentarti dopo 15 anni e cinque film e dire, ehi, azzeriamo tutto per la terza volta, sono di nuovo un semplice liceale che scopre di restare attaccato ai muri?

Ma soprattutto: come fa la Marvel a non sbagliare un colpo? (Continua su +eventi!)

Ma soprattutto: come fa la Marvel a non sbagliare un colpo? A riprendere un eroe oggettivamente un po’ consumato – gli ultimi due episodi Sony non erano andati benissimo – e a ridargli vita come se fosse un concetto appena inventato? Come fa a inserirlo in una saga cinematografica già pesante e sfaccettata come quella degli Avengers, riuscendo però a suggerire forte e chiaro il messaggio che Spiderman sarà sempre un’altra cosa, una cosa un po’ a parte (una dinamica non troppo diversa da quella dello Spidey originale coi Fantastici Quattro)? Ammettiamolo, è un po’ irritante il modo in cui la Marvel sembra sempre arrivare al risultato – e senza darci nemmeno la consolazione di gridare al colpo di genio, perché non c’è niente di geniale in Homecoming: c’è solo il lavoro di squadra di un pool di sceneggiatori che sa fare il suo mestiere e non disprezza il suo pubblico. Uno degli aspetti più appariscenti dell’operazione – il ringiovanimento di Zia May – sembra alla fine più un trucco per attirare un po’ di polemica fine a sé stessa: Marisa Tomei è ovviamente perfetta, ma è dosata con il contagocce. Una trovata brillante è quella di riassumere la puntata precedente (il siparietto di Spidey in Civil War) con la sintassi di Youtube. Nota l’abissale differenza con Suicide Squad e la sua mezz’ora di preambolo in formato trailer: mentre la Warner tratta gli adolescenti come bimbominchia a cui somministrare riassuntini, Homecoming si pone il problema di capire come si raccontano, oggi, i liceali: con quali mezzi, con quali risultati. Perché ogni generazione ha le sue differenze, anche se a una certa distanza non sembrano un po’ granché, se lavori per loro queste differenze sono importanti. La Marvel lo sa, ma non si dimentica nemmeno tutti i quaranta-cinquantenni che continuano imperterriti a entrare al cinema a vedersi i suoi film. Quelli che forse non avevano più voglia di vedere per l’ennesima volta lo zio Ben morire, ma a tante altre cose non saprebbero rinunciare.

E la Marvel gliele dà. C’è una breve scena – quella dell’ascensore – che dà le vertigini per la quantità di riferimenti che contiene in pochi secondi. Quando vediamo l’inesperto Spiderman tentare il salvataggio della sua bella che precipita, non possiamo non pensare a Gwen Stacy. Quando un attimo dopo si trovano tête-à-tête – lui ovviamente in posizione invertita – qualcuno sussurra “baciala” e non possiamo non pensare a Tobey Maguire e Kirsten Dunst. Non sono inutili strizzate d’occhio: la scena è spettacolare e funziona, probabilmente, anche per chi tutti questi precedenti non li conosce; ma chi ha già qualche dimestichezza con Spidey si sentirà più in ansia quando Liz cade; e sta già dicendo “baciala” prima che si senta forte e chiaro. Se Spidey è condannato a rivivere la stessa storia ogni tot anni, noi possiamo ogni volta trovarci a nostro agio e scoprire qualcosa di più, qualcosa di meglio. È questa semplice, banale cosa che alla Marvel hanno capito. Forse perché a cucinare gli stessi personaggi da cinquant’anni ci sono abituati. Homecoming non è un capolavoro – nemmeno ci prova: si ferma di fronte a certi punti fermi quasi con riverenza: costruisce una scena notevole come quella del traghetto che sembra fatta apposta per farti pensare: non sono ancora lo Spiderman di Raimi che salvava quel treno sul binario sospeso e poi veniva salvato dai passeggeri; ma sto crescendo, dammi il tempo di fare i miei disastri e vedrai.

Anche se la trovata migliore del film resta il riscatto dell’Avvoltoio. Michael Keaton trasforma uno dei personaggi più patetici dell’universo Marvel – la tipica invenzione che Stan Lee poteva buttar giù in cinque minuti al gabinetto – un antieroe spaventosamente simpatico, che ha quasi il compito di mettersi tra noi genitori e Spidey: non provateci neanche, dice Keaton, i giorni in cui vi potevate immedesimarvi in un Tobey Maguire sono finiti. Oggi voi somigliate a me. Vi sentite presi a pugni dal sistema e fareste qualsiasi crimine per garantire ai vostri figli un futuro migliore. Keaton non ruba il film al suo eroe – la Marvel è troppo sgamata per commettere un errore del genere – ma è il primo villain della Casa che avremmo voglia di rivedere in un sequel. E se le cose vanno così non dovremo nemmeno aspettare molto. Nel frattempo Spiderman: Homecoming è ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:00), al Fiamma di Cuneo (21:10) e al Multilanghe di Dogliani (21:30).

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Il disco che Bob Dylan fu creato per comporre

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Saved (1980)
(Il disco precedente: Slow Train Coming
Il disco successivo: Shot of Love).

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Come probabilmente ormai sospettavate, il mondo non esiste più. È finito all'incirca intorno al 1990, quando l'Unione Sovietica, l'Iran e la Repubblica Popolare Cinese hanno attaccato le basi Nato in Medio Oriente. Durante la battaglia di Armageddon, esattamente 40 anni dopo la proclamazione dello Stato d'Israele, il Cristo si è manifestato nella Sua gloria, portando i suoi prescelti con Sé in paradiso. Tra loro il reverendo Hal Lindsay, che leggendo la Bibbia queste cose le aveva previste e rivelate in un best seller già nel 1970: e il grande cantautore cristiano Bob Dylan, che alla predicazione di queste verità aveva dedicato i suoi dischi migliori, nel decennio precedente.
Come probabilmente a questo punto sospettate, voi non siete stati prescelti; bensì condannati a vivere nel peggiore degli inferni: un simulacro del mondo, simile per tutto e per tutto a quello che esisteva prima della Fine, con la differenza che non finirà mai, e ruoterà per sempre trascinando nell'oscurità tutto il suo peccato. In questo simulacro di mondo esiste anche un simulacro di Bob Dylan, che ha dimenticato le sue verità e si è rimesso a cantare canzoni d'amore terreno o di tenebra. Qualche suo vecchio disco cristiano circola ancora, ma lui stesso non capisce perché li ha incisi, perché li ha cantati. In effetti non li ha incisi lui, non li ha cantati lui.
"Vi voglio raccontare una storia. Quattro mesi fa stavamo suonando in un campus, o in un college, non so. Non ricordo neanche dove eravamo... In Arizona, mi pare.
Comunque, si dà il caso che io legga un sacco la Bibbia, e la Bibbia dice alcune cose precise di cui sono diventato consapevole solo di recente, e alle università c'è gente che tipo ha un'istruzione superiore, sapete, gli insegnano diverse cose come... le filosofie, così studiano tutte quelle filosofie, come quella di Platone e... chi altro? Beh, mica posso ricordare tutti quei nomi, non so, Nietzsche, gente così... Ma insomma, la Bibbia dice cose precise... nel Libro di Daniele, nell'Apocalisse, si parla di cose che potrebbero proprio riferirsi ai nostri tempi. Dice che ci saranno presto delle guerre - non saprei dire esattamente quando, ma comunque presto. In quel tempo, beh, cita un Paese all'estremo nord, che ha come simbolo "l'orso". E si scrive R-O-S-H. Nella Bibbia, ora, è un libro che è stato scritto un bel po' di anni fa. Beh, non può che riferirsi a una nazione che io sappia... se voi sapete di un'altra nazione a cui si potrebbe riferire... magari voi ne conoscete un'altra, io no".
Bob_Dylan_-_Saved
Se Self Portrait è, per definizione, il disco più brutto di Dylan, Saved è facilmente il più ignorato. Siamo nel punto più profondo della palude meno frequentata della sua discografia: la trilogia cristiana. Il primo episodio (Slow Train Coming) godeva del vantaggio della novità, e di una produzione fin troppo professionale e radiofonica; il terzo episodio (Shot of Love) contiene già rassicuranti segnali di ritorno al secolarismo. Saved è senza compromessi, già dalla copertina originale, che nel suo Kitsch esibito è una delle più efficaci mai autorizzate da Dylan: questo è un disco per gente che si sente salvata dal Sangue dell'Agnello. Non vi sentite salvati? Trovate la cosa ridicola? Lasciate perdere questo disco. Tanto il mondo sta per finire - vendere qualche milione di copie in più o in meno non è la priorità
Siete pronti a incontrare Gesù?
Siete al posto che vi è stato assegnato?
Quando vi vedrà, Egli vi riconoscerà
O dirà: "Allontanatevi da Me"?
Questa assenza di compromessi lo rende meno antipatico dei suoi due fratelli, concepiti per rendere testimonianza davanti a un pubblico di non credenti - un pubblico al quale Dylan in fondo non aveva molto più da dire che "pentitevi stolti". Anche Saved è una predica, ma ai convertiti: praticamente priva di quei fervorini moralistici che Slow Shot dispensano, incuranti del ridicolo. È un disco che è quasi pura estasi: o la senti o lasci perdere. Lo puoi capire solo se per un attimo ti sforzi di crederci - se non in Gesù Cristo, almeno nel fatto che Bob Dylan ci abbia creduto davvero: sì, risorgerò, i miei occhi vedranno il Salvatore. Non in qualche nuvola lontana, come in certe fantasie cattoliche: questa è la rivelazione evangelicale, una cosa molto più concreta e immediata: il mondo sta per finire e Cristo sta per arrivare, e io lo vedrò con questi occhi - ma sono pronto per una cosa del genere? In Saved Dylan ha più dubbi su sé stesso che su Gesù.
Sono pronto a dare la vita per i miei fratelli,
e a caricarmi la croce?
Mi sono arreso alla Sua volontà
o sto ancora facendo il boss?
Con Saved Dylan sbarca anche negli anni Ottanta, il suo decennio terribile. Ci arriva con un deliberato suicidio commerciale: sarà il suo primo disco dai tempi dell'esordio a non entrare nella top 50 americana. Il primo a non conquistare nemmeno un disco d'oro (500.000 copie). Su Spotify, i nove brani di Saved sommati ottengono un milione e trecentomila ascolti. È una cifra minuscola anche se confrontata ad altri dischi poco brillanti di Dylan - per dire, è meno della metà di Shot of Love. (Ma Saved Shot of Love, sommati, non raggiungono i sei milioni di ascolti del primo brano di Street-LegalChanging of the Guards). Anche chi ha simpatia per i dischi cristiani di Dylan, e non siamo in tanti, ascolta Saved meno della metà di quanto non ascolti Shot of Love; meno di un terzo di quanto non ascolti Slow Train Coming. D'altro canto è pur vero che il dylanita medio non è un tizio da streaming - in molti casi deve ancora assorbire il trauma del passaggio da vinile a cd.
"E poi c'è un'altra nazione che si chiama... non mi ricordo, ma è nella parte orientale del mondo e ha un esercito di 200 milioni di fanti, ora: c'è una sola nazione che potrebbe aver un esercito del genere. Così stavo raccontando queste cose a quella gente... non avrei mai dovuto, mi sono lasciato trascinare... Ho detto loro, attenti! perché la Russia sta per scuotersi e attaccare il Medio Oriente, c'è scritto nella Bibbia! E io ho letto ogni genere di libri in vita mia... riviste libri, e qualsiasi cosa mi capitasse sottomano, e a essere sincero non vi ho mai trovato nessuna verità, se volete sapere la verità. Ma sembra che queste cose nella Bibbia mi abbiano svegliato, e mostrato la verità. Così ho detto che una certa nazione si sarebbe riscossa e avrebbe attaccato, e tutta quella gente... saranno stati cinquantamila persone, qualcuno c'era? No, non so, non ce n'erano cinquantamila, cinquemila magari... beh loro mi hanno fatto: "buuuuuuuh", come fanno di solito, un intero auditorium... Ho detto: "La Russia sta per invadere il Medio Oriente", e "buuuuuuh", non potevano ascoltare, non ci credevano. Beh, un mese dopo, ecco che la Russia invade il... il coso, l'Afghanistan credo, e tutto cambia, sapete".



Da un punto di vista tecnico, descrivere Saved come un buco nell'acqua è abbastanza semplice: si tratta di un disco inciso in fretta, nel posto sbagliato: certo, questo non ha impedito in altre occasioni a Dylan di produrre capolavori, ma a quanto pare non è il caso di Saved. In questa fase del resto Dylan pensa più all'apostolato che al prodotto finito: sta perfezionando uno show tutto gospel, senza un solo brano del vecchio repertorio, con un sacco di inediti. Vuole addirittura farne un film. A metà tour la Columbia gli propone di incidere un disco: lui non fa una piega e torna in Alabama da Jerry Wexler, il mago della Stax che aveva levigato così bene l'album precedente. È una mossa sensata: produttore che vince non si cambia. Ma nel frattempo è cambiato Dylan, come al solito: in fondo non gli è ancora riuscito di incidere due dischi con lo stesso team, neanche quando ci si è impegnato. In questo caso i brani arrivano in Alabama già arrangiati e perfezionati dalla band che sta seguendo Dylan in tour: non c'è più spazio per aggiungere un granché. Per Wexler è un ritorno alle origini: come ai tempi in cui Ray Charles gli telefonava e gli diceva: "tieniti pronto tra tre settimane, facciamo un disco". Stavolta le settimane di preavviso sono ancora meno, e Dylan quando arriva è un po' giù di voce (ma se ne frega) (tanto la fine dei giorni è vicina). I brani sono quasi tutti gospel traboccanti di emozioni, e Wexler quelle emozioni in studio non riesce a ricrearle; neanche ci prova. A lui piacciono i suoni puliti, è un cesellatore; farlo lavorare con un pasticcione come Dylan era stato un esperimento interessante, ma come molti esperimenti la seconda volta il risultato è meno convincente. I brani più trascinanti, come Saved Solid Rock, ringhiano come leoni in gabbia.

Persino Dylan deve essersene conto, al punto di proporre alla Columbia un piano B: un disco con lo stesso materiale inedito, ma registrato dal vivo, da pubblicare col film. Probabilmente alla sola parola "film" i commerciali della Columbia devono averci visto rosso - Dylan aveva appena finito di pagare i debiti di Renaldo & Clara. Ci credeva talmente da proporre di inciderlo a sue spese: niente da fare. Anche il film, girato a Toronto, uscirà dai cassetti solo abusivamente. Si trova su Youtube ed è film-concerto completamente privo dei fronzoli artistoidi del RenaldoEd è... strepitoso (continua sul Post)
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Ultimo treno per il '96

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T2: Trainspotting (Danny Boyle, 2017).

Se stai leggendo questo, è perché circa 20 anni fa hai scelto la vita, dopotutto. Hai scelto un lavoro. Una carriera. La famiglia. Il televisore full hd 42 pollici. Hai scelto la lavatrice, la macchina, lo smartphone e l'apriscatole elettrico. La buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita. Hai scelto il mutuo a interessi fissi. La prima casa. Gli amici. Già, gli amici.

Magari quando hai sentito che usciva il seguito di Trainspotting ti è venuto voglia di risentirli, gli amici (a parte quello che sta in galera, certo). (E quello che non ti perdona un pacco da vent'anni). (Poi c'è quello che sta morendo, quello che si è trovato la fidanzata bulgara ed è il destino più pericoloso di tutti - a questo punto forse ti era passata la voglia di andare a vedere il seguito di Trainspotting 2).

Anch'io d'altronde punterei tutto su Anjela Nedyalkova

Se stai leggendo questo, forse hai anche tu una cameretta dove non torni dagli anni Novanta. Un disco che non oseresti mettere sul piatto - hai paura che ne moriresti. E un po' di voglia di drogarti, ma hai perso tutti i contatti - i cosiddetti amici. E poi lo sai anche tu, che più che voglia di drogarsi è... nostalgia. Quella che ti prende alle spalle, certe volte, davanti a uno scorcio di città o a due foto ingiallite.

Cosa ha riportato insieme Ewan McGregor, Danny Boyle (che per anni non si sono parlati), con lo sceneggiatore John Hodge e l'autore Irvin Welsh (che non ha scritto niente ma fa un cameo)? A parte i soldi, intendo. Anche se i soldi, in effetti, non sono mai stati irrilevanti. Cioè parliamoci chiaro, Trainspotting non era Amici Miei. Le bravate consistevano nel rompere la testa a una ragazza con un bicchiere senza un motivo, il cameratismo serviva a dividere la siringa e si fermava davanti al primo vero mucchio di soldi da dividere. Quindi cosa c'era da rimpiangere? Trainspotting era un film sull'eroina. I personaggi erano esili, intercambiabili, il film non pretendeva di farteli piacere e infatti non ti erano piaciuti; T2 vent'anni dopo li rianima, ma al posto dell'eroina pretende di ravvivarli con la nostalgia. Ma certo.


Chi non ha nostalgia per il 1996? (Continua su +eventi!) Quel momento in cui qualsiasi cosa venisse dalla Gran Bretagna sembrava oro, e con due trucchi da videoclip Boyle sembrava la punta di diamante del cinema giovane mondiale. Ovviamente adesso siamo tutti più sgamati e non ci incanta più, Danny Boyle. Così come i tuoi amici del paese, ora che hai girato la tua parte di mondo, non sei così sicuro di volerli rivedere. C'è stato un momento in cui erano tutto per te: lo yin, lo yang, i punti cardinali. Ma è stato vent'anni fa, cosa ne sapevi in fondo. T2 è un film realizzato senza troppe pretese di verosimiglianza (Begbie evade e nessuno lo va a cercare a casa sua) da un gruppo di persone che non si stimano e che stanno già immaginando dove scapperanno con l'incasso. È un film di truffatori senza truffe - come nel primo episodio, verso la fine i soldi piovono un po' dal cielo (e prendono direzioni inaspettate, ma logiche). È un film molto cinico, ovviamente: ma anche il cinismo che era merce così preziosa nel '96 ormai te lo regalano al discount.

È un film che in mancanza d'altri argomenti si mette a fare il moralista, come se volesse porgerti il conto per tutta la gioiosa amoralità del primo episodio, il che sottopone i personaggi già non troppo spessi a torsioni incomprensibili: Begbie deve diventare un buon padre, ma è anche un assassino; Spud non farebbe male a una mosca ma continua a fottere tutti, e così via. T2 è un film che si atteggia a vecchio duro; che ti guarda di sbieco e ti dice: non sei meglio di me, anche tu non hai avuto più niente di meglio del 1996. Ma si sbaglia: io ho avuto tante cose in seguito e le rimpiango tutte più volentieri di Trainspotting. Un bel lavoro, una carriera, la famiglia, il televisore, eccetera. Non sono neanche andato a vederlo al cinema, figurati. Ma lo fanno giovedì 27 luglio all'Arena di Alba alle 21:45 (e si noleggia già su Youtube a €3,99). Here comes Johnny Yen again...

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Gesù è giusto dietro la curva

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Slow Train Coming (1979)
(Il disco precedente: At Budokan
Il successivo è... un mistero).
Nessun servo può servire due padroni; o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Non potete servire Dio e Mammona (Vangelo di Luca, 16:13).
Un giorno Bob Dylan apparve a Gesù Cristo. Fu in un albergo di Tucson, di tutti i posti al mondo. A Gesù Bob parve stanco, sfibrato, un divo del rock che si stava avvicinando alla curva della quarantina senza né casco né cinture, niente. "Oh Padre", si sarà detto, "Prenderlo all'amo sarà persino troppo facile".
È il primo disco di studio a non avere il volto di Dylan sulla copertina.
È il primo disco di studio a non avere il volto di Dylan sulla copertina.
"Bob, vieni a me, accetta il mio giogo: è molto leggero".
"Eh? Chi ha parlato? Chi sei?"
"Chi vuoi che io sia? Sono Gesù Cristo: la Via, la Verità, la Vita".
"Ma Gesù, sei sicuro? Io... sono Bob Dylan!"
"Nientemeno".
"Sono ebreo!"
"Perché, io no?"
"In effetti".
"Cosa c'è che ti angustia, Bob? A me puoi dirmelo".
"Non lo so neanch'io... credo di essere stanco, soprattutto".
"Stanco di cosa".
"Non lo so. Di essere me, forse".
"Troppi concerti?"
"I concerti sono ok. Mi piace suonare. Se solo non dovessi suonare tutte le volte quelle cazzo di canzoni di Bob Dylan".
"Insomma non ne puoi più di Dylan".
"Puoi capirmi?"
"Altroché. La celebrità è una vera tortura, sai. Ti costruiscono un personaggio e pretendono che tu ci aderisca perfettamente... poi lo innalzano davanti a tutti e..."
"Ti crocifiggono, Gesù".
"Non dirlo a me".
"Ma quindi tu saresti il Messia?"
"E certo, non hai visto i segni? I ciechi tornano a vedere, i sordi ci sentono, Van Morrison ha fatto un bel disco con me, Patti Smith ha dedicato una canzone a Papa Luciani... Sto tornando..."
"Stai tornando?"
"...di moda".
"E io? Cosa vuoi che io faccia? Vendere tutto e seguirti?"
"Non esageriamo. Niente che non ti suggerisca già il buon senso. Datti una ripulita, bevi meno, basta coca. Puoi perfino continuare a uscire con le coriste..."
"Whew".
"Magari una sola alla volta, ecco".
"Ci proverò. Tutto qui?"
"Beh, naturalmente dovrai suonare per me".
"Un disco?"
"Un disco sono buoni tutti, cioè se tu fossi Neil Young mi accontenterei, ma stiamo parlando di Bob Dylan, il rocker più sputtanato del decennio, qui c'è bisogno di un investimento a medio termine".
"Ma Gesù..."
"Tre dischi in tre anni, prendere o lasciare".
"Tre dischi in tre anni? Gesù, sei peggio di Grossman".
"Ehi, pensavi che la Via la Verità e la Vita venissero via con lo sconto? Stiamo parlando di convertirsi, Bob. Rinascere. Tu non hai idea di cosa si scatenerà là fuori tra un po' - il punk è solo un avvertimento, sai".
"L'Armageddon?"
"L'Armageddon sarà una passeggiata al confronto, stanno per iniziare gli anni Ottanta. Il Rock - questo gigante dai piedi d'argilla - sarà rovesciato dal trono, e in suo luogo regnerà prima l'empio Pop, poi il suo nipote degenere, Hip-Hop! E poi bestie ancora più immonde..."
"Non capisco. Stai annunciandomi che la fine è vicina?"
"Oh, la fine! La implorerete, la fine!, mentre nell'aere risuoneranno campionamenti e scratch. Hai bisogno di un altro rifugio nella tempesta, povero Bob. E io ne ho uno".
"Non lo so... sono appena uscito da una storia difficile, forse non dovrei subito impegnarmi..."
"E pensa a un'altra cosa. Pensa a Blowin' in the Wind..."
"Gesù, ormai la odio quella canzone".
"Appunto. Non dovrai suonarla più".
"Sul serio? Ma il pubblico".
"Non dovrai più piacere a loro. Dovrai piacere soltanto a me. Molto più semplice. Basta vecchie canzoni. Mr Tambourine, Knockin', Rolling Stone: puoi smettere di suonarle. D'ora in poi canterai solo le mie lodi".
"Ma per rifarmi un repertorio ci metterò degli anni!"
"Dici? Ma non puoi fare come negli anni '60? Eri molto prolifico al tempo, mi pare di ricordare".
"Eh ma allora era più facile. Bastava suonare il blues".
"Blues, perfetto, adoro il blues".
"Gesù, sei sicuro?"
"Perché? Non crederai mica anche tu a quella storia della musica del diavolo, eh? Basta con le superstizioni".
"Se lo dici tu".
"Ah, e poi voglio più professionismo in sala d'incisione. Ultimamente registravi un po' da schifo, ecco, non deve più succedere. Lavori per Gesù, adesso".
Mark_Knopfler_-1979
Mark Knopfler nel '79, prima di scoprire i benefici della fascia tergisudore.
Un giorno Bob Dylan apparve a Mark Knopfler: un miracolo che fino a qualche anno prima sarebbe stato meno credibile dell'apparizione di Gesù a Tucson. Le rare volte che mi capita di riascoltare Slow Train Coming finisco sempre per pensare a come dev'essersi sentito Knopfler. Hai trent'anni e ascolti Dylan da quando ne avevi undici. Hai imparato a cantare e comporre ascoltando i suoi dischi. Col tempo, mentre ti allenavi nei seminterrati e sbarcavi il lunario nei pub, hai sviluppato una strana schizofrenia artistica: più la tua voce si avvicinava a Dylan, più le tue mani ti portavano nella direzione opposta, verso uno stile chitarristico pulito, preciso, rigoroso. Alla fine sei riuscito a pubblicare un disco, e sta andando bene, e una sera alla fine del concerto si avvicina il tuo Dio e ti fa i complimenti. Vuole che tu suoni per lui. Non è incredibile? Voglio dire, Gesù è apparso a un sacco di gente con un sacco di problemi, non fa neanche notizia ormai; ma Dylan che appare a Knopfler è la fiaba di Cenerentola - e invece è successo davvero. Lo porti giù in Alabama, nella sala d'incisione dove il grandissimo Jerry Wexler ha curato i lavori dei grandi dell'Atlantic e della Stax. Tu e Jerry avete appena finito di lavorare al secondo non indimenticabile disco dei Dire Straits; ma adesso realizzerete il disco che rilancerà Bob Dylan. Ha avuto un periodo difficile, ma adesso sta tirando fuori un sacco di nuove canzoni. Roba buona. Un sacco di blues, beh, se è blues siamo nel posto giusto. C'è solo un problema.
Sono tutte canzoni su Gesù.
Cristo.
Di tutti i momenti in cui ti poteva capitare di incontrare Dylan, proprio quello in cui si è dato anima e corpo al Vangelo. Il principe azzurro si è battezzato, va a catechismo tutti i giorni, vorrebbe convertire persino te. Tu che non hai mai avuto un vero Dio - fin qui ti bastava Dylan. E adesso?
Che tu sia un divo rock, rampante sul palco;
che tu abbia ogni droga, e ogni donna al tuo comando;
che tu sia un uomo d'affari, o un ladro d'alta società;
che ti chiamino dottore o che ti chiamino Maestà...
tu devi servire qualcuno.
Potrà essere il diavolo, o potrà essere il Signore, ma devi servire qualcuno. 
"Guarda, Bob, hai a che fare con un incallito ateo ebreo di 62 anni. Sono senza speranza. Limitiamoci a fare questo disco, va bene?" (Jerry Wexler a Dylan, quando cominciò a parlargli di Gesù).
"Guarda, Bob, hai a che fare con un incallito ateo ebreo di 62 anni. Sono senza speranza. Limitiamoci a fare questo disco, va bene?" (Jerry Wexler a Dylan, quando cominciò a parlargli di Gesù).
Non puoi servire Dio e mammona, diceva Gesù. Devi scegliere, ribadisce Bob Dylan in Gotta Serve Somebody, il sermone introduttivo. Eppure Slow Train Coming mi ha sempre dato l'impressione opposta, di un Dylan servitore di due padroni, deciso a tenere il piede in due scarpe tanto diverse: da una parte l'urgenza del convertito, il sacro fuoco dello zelo religioso; dall'altra il professionismo di Wrexler e Knopfler: la precisione quasi asfissiante con cui al Dylan rinato nella fede viene cucito addosso il vestito più elegante che abbia mai indossato. Gotta Serve Somebody è l'incarnazione di questa ambiguità: la canzone che rifiuta ogni compromesso col demonio è anche un singolo pulito e levigato che corre via che è un piacere, e che riporta Dylan nella top40 di Billboard. Ci vinse pure un Grammy per la "miglior performance vocale". L'ho sempre trovato un buffo paradosso, però forse ero vittima dei miei pregiudizi. Perché il professionismo e la fede religiosa dovrebbero essere due opposti, dopotutto?
Forse ragiono da cattolico. Non trovo credibile un predicatore che non vesta di sacco e non predichi la povertà: ma in America non è così. I pastori evangelicali pubblicano best seller, vanno in tv; non trovano senz'altro sconveniente servire Dio in giacca e cravatta. Il Gesù dei born again non grida ai ricchi di lasciare tutto quello che hanno e seguirlo: è un Gesù più pragmatico, un life-coach, ti chiede di darti una ripulita e sta attento che non ti riattacchi alla bottiglia. Non c'è nessuna contraddizione nell'aver trovato in Gesù un nuovo boss e nel dare al suo messaggio la veste più radiofonica possibile: più gente avrebbe raggiunto, più anime avrebbe salvato. Funzionò talmente bene che alcuni riuscirono ad accusarlo di opportunismo: di aver usato Gesù per attirare l'attenzione, di essersi convertito per aumentare il suo bacino di fan. Solo il flop dei due dischi successivi avrebbe convinto i più cinici che BD aveva veramente preferito Cristo a Mammona. Lo stesso Slow Train Coming è scivolato col tempo nel cono d'ombra della trilogia cristiana, la fase della sua carriera che fan e critici preferiscono aggirare e che lui stesso non frequenta volentieri: eppure quando uscì fu accolto bene. Per quanto in certi punti sembrasse un invasato, il furore religioso che lo animava era tutto sommato preferibile ai lamenti enigmatici di Street-Legal. Anche quando sembra un bigotto che borbotta contro i nemici dell'America, borbotta con una grinta che sembrava aver perduto da anni.
Sembra che Gesù abbia funzionato, dopotutto... (continua sul Post)
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La sinistra che odia Recalcati

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"Dottore, la prego, mi aiuti..."
"Ma certo, si accomodi. Mi sembra un po' scosso".
"È a causa dell'odio".
"Dell'odio?"
"L'odio della sinistra".
"Mi faccia capire. C'è qualcuno che la sta odiando?"
"Non me, dottore, non me! Sta odiando Matteo Renzi!"
"Matteo Renzi?"
"Quale è il peccato commesso da Matteo Renzi per aver attirato su di sé un odio così intenso?"
"Ma un odio da parte di chi, mi perdoni?"
"Gliel'ho detto, dottore! Da parte della sinistra!"
"La sinistra in che s-".
"La sinistra che odia".
"E perché odia?"
"È nel suo DNA".
"Prego?"
"Fa parte del suo Dna e della sua storia, anche di quella più recente, scatenare l'odio nei confronti di coloro che, dichiarandosi militanti di sinistra, osano introdurre dei cambiamenti che rischiano di minare alla base la sua identità ideologica..."
"Cioè mi sta dicendo che c'è gente che passa il tempo a scatenare l'odio nei confronti di chi mina la sua identità?"
"La sinistra! La sinistra fa sempre così".
"Io non so esattamente cosa lei intende per sinistra, ma ammettiamo per un attimo che sia così: avrebbe un senso evolutivo. Se qualcuno ti mina alla base, tu cerchi di isolarlo e sconfiggerlo, no? Voglio dire, l'alternativa sarebbe farsi minare alla base, e se ti minano alla base poi..."
"Ma Renzi non è così!"
"Non vuole minare alla base?"
"No! Vuole solo mettere la sinistra di fronte al suo cadavere!"
"Matteo Renzi è un cadavere?"
"No! La sinistra è un cadavere!"
"Beh, in tal caso sarebbe comprensibile un minimo di ritrosia da parte del... del cadavere che non sa di essere tale, voglio dire..."
"La vera ragione di tutto questo odio è la difficoltà della vecchia sinistra di fare il lutto della sua fine storica".
"...s'immagini che qualcuno all'improvviso le dica che è morto: lei magari non la prenderebbe bene".

"Se fossi morto non mi si porrebbe più il problema!"
"Ha ragione anche lei".
"E invece la sinistra insiste a odiare Renzi!"
"Si vede che... non è così morta. Ma mi farebbe un esempio?"
"L'accusa di essere un rinnegato o un traditore in questi casi scatta come la salivazione condizionata nel cane di Pavlov".
"Ma veramente il cane di Pavlov non sbavava subito, aveva prima bisogno di una fase di condizionamento in cui... ma sta paragonando la sinistra a un cane?"
"Un cane fanatico!"
"Però non è morto. Perché prima ha detto che era morta, adesso dice che è un cane - un cane stupido, va bene - ma comunque un cane vivo".
"Un cane ringhioso che odia a comando!"
"Ma mi fa un esempio?"
"Un esempio? Vuole un esempio?"
"Ma sì, perché io tutto questo odio per Renzi, francamente..."
"Ma ne ho finché vuole, di esempi".
"Bene, quindi me ne faccia uno".
"La storia ci offre una miriade di esempi, antichi e più recenti".
"Sentiamo".
"La dichiarazione di voto favorevole al Referendum del 4 dicembre è assimilabile, per chi sente di appartenere al mondo della sinistra, a un vero e proprio outing con tutti i fatali effetti di discriminazione che esso comporta".
"Prego? Non si capisce".
"Mi ha sentito? Nel mondo della sinistra, se uno diceva di voler votare favorevole al Referendum..."
"Votare favorevole significa votare Sì, immagino".
"...era come se facesse outing".
"Forse lei intendeva un coming out".
"...con tutti i fatali effetti di discriminazione!"
"E cioè?"
"Cioè cosa?"
"Guardi, lei mi sembra un po' scosso e non si sta spiegando molto bene, ma mi pare di capire che abbia paragonato i disagi di un renziano durante la campagna referendaria a quelli di un gay che fa coming out".
"Esattamente".
"Ora lei magari fa un altro mestiere e le sfuggono quelli che possono essere i disagi di un gay che si dichiari tale di fronte alla sua famiglia, o nell'ambiente di lavoro: a volte si corre il rischio di rompere i contatti coi genitori, o perdere il lavoro, o patire forme di bullismo o di mobbing... c'è persino gente che si suicida".
"Ma infatti".
"Ma lei conosce casi del genere? Qualcuno è stato mobbizzato o bullizzato per aver dichiarato il suo sostegno a Renzi? Ci sono stati tentativi di suicidio?"
"Ma possibile che ogni atto, ogni pensiero, ogni gesto politico di Renzi sia sbagliato?"
"No, aspetti, non cambi argomento. Si rende conto che ha paragonato i renziani ai gay che fanno coming out?"
"È una metafora".
"È molto forte. Ma ha degli argomenti su cui sostenerla? Episodi specifici, non so, discriminazioni sul luogo di lavoro, colluttazioni... qualcosa di reale, insomma".
"Matteo Renzi viene identificato non come la cura, ma come la malattia della sinistra. Una infezione, un batterio, una anomalia genetica".
"Ma da chi?"
"Gliel'ho detto! Dalla sinistra!"
"Ma mi saprebbe citare una sola persona che ha paragonato Matteo Renzi a un batterio?"
"Insomma lei vuole delle citazioni".
"Delle prove, sa com'è. Perché finora l'ho sentita paragonare la sinistra a un morto e a un cane di Pavlov, mentre non ho ancora sentito nessuna persona di sinistra paragonare Renzi a un batterio... ma forse me lo sono perso, sa, ognuno vive nella sua bolla e quindi..."
"Va bene, le farò un esempio".
"Oh, ecco".
"Così si capirà che non mi sto inventando tutto".
"Bene".
"Un intellettuale lucido verso il quale provo solo stima come Tomaso Montanari esigeva eloquentemente che Pisapia facesse autocritica per aver votato Sì al fine di risultare credibile nel suo sforzo di rifondazione di un nuovo campo della sinistra".
"...e quindi?"
"Ma non capisce? Vogliono l'autocritica! Per aver votato Sì!"
"Beh, dal loro punto di vista, mi scusi, se loro erano per il No e Pisapia ha votato Sì... la loro ritrosia a farsi guidare da qualcuno che la pensava in modo diverso da loro mi pare in qualche modo comprensibile..."
"L'odio investe l'altro in quanto eterogeneo e inassimilabile. Renzi per la "sinistra sinistra" è l'incarnazione maligna di una eterogeneità che resiste ad ogni assimilazione".
"Senta, non starà un filo esagerando? Renzi ha proposto una riforma, molte persone a sinistra di Renzi non la gradivano e hanno votato contro. È quel che succede in democraz..."
"È un fenomeno che ricorda il rito tribale di alcune popolazioni dell'Africa nera riportato da Franco Fornari nel suo celebre Psicoanalisi della guerra"
"Addirittura".
"Di fronte alla morte insensata di un bambino, la tribù afflitta anziché incamminarsi verso la via dolorosa dell'elaborazione del lutto preferisce attribuirne la responsabilità alla popolazione confinante e ai malefici del suo sciamano dichiarandole guerra".


"E insomma prima erano morti, poi erano cani, adesso sono tribù primitive, mi sembra che stiamo facendo progressi".
"L'odio che lo investe vorrebbe coprire la fine di una concezione del mondo che ha nutrito l'interpretazione della storia per tutto il Novecento".
"Va bene, va bene, ho capito".
"La lotta di classe, una concezione etica dello Stato, l'identificazione del liberalismo e dei sui principi come Male, la gerarchia immobile del partito, la prevalenza della Causa universale sulle relazioni di cura particolari, una differenziazione paranoide del mondo in forze del Bene e in forze del Male".
"Una differenziazione paranoide, già..."
"L'ho convinta, dottore?"
"Beh, diciamo che mi ha fornito alcuni spunti interessanti... ma non vorrei saltare a delle conclusioni. Credo che lei abbia bisogno di uno specialista".
"Uno... specialista?"
"Quel che mi è sembrato di capire è che lei è reduce da un investimento emotivo molto... molto pesante. Probabilmente ha trasferito su Matteo Renzi un grosso carico di fiducia, e ha vissuto la sua sconfitta al referendum come un trauma. Piuttosto di riconoscere gli oggettivi errori del suo eroe, si è costruito un nemico implacabile a cui addossare tutte le colpe... attingendo dalla retorica anticomunista di qualche anno fa, mi pare: la sinistra-sinistra che fa i processi ai traditori, roba da fine anni Settanta, forse l'imprinting dei primi anni di università..."
"Ma dottore..."
"Credo che un po' di analisi le farebbe bene, e forse so anche chi consigliarle: in città abbiamo uno dei migliori d'Italia, scrive libri bellissimi".
"Dottore, guardi che..."
"Non deve avere paura; l'analisi è solo uno strumento. Lei è venuto qui perché mi voleva parlare: perfetto, le sto soltanto proponendo di parlare con qualcuno molto più bravo di me. Non è una fortuna che esistano specialisti che ci possono aiutare in casi come questi?"
"Ma dottore..."
"Si chiama Massimo Recalcati, davvero, ci vada, lui può fare veramente molto per lei".
"Dottore, sono io".
"Cosa?"
"Massimo Recalcati sono io".


(I brani in corsivo sono tratti da questo editoriale di Massimo Recalcati).
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