Leone contro tutti

Permalink
10 novembre – San Leone Magno (400 ca. – 461), papa combattente e combattuto.

Il nome, dicono, è un destino: spero non sia il mio caso, ma fu quello per esempio di Leone Magno, che combatté per tutto il suo pontificato e qualche volta vinse. Contro i discepoli di Priscilliano, un santone che mescolava profeti e oroscopo e stava allontanando le chiese spagnole dal controllo di Roma: ma Leone lottò finché non convinse l'imperatore Graziano che Priscilliano era un eretico e uno stregone, e lo fece giustiziare. Contro i manichei, che credevano che l'universo fosse il risultato di una lotta tra Luce e Tenebre e avevano fatto breccia non solo tra i poveracci impressionabili, ma anche su intellettuali promettenti come il giovane Agostino d'Ippona; per cui a Leone non bastava confutarli dottamente: li denunciava all'autorità imperiale, che avrebbe proceduto a torturarli. Contro i monofisiti, che in Oriente predicavano la natura solo divina di Cristo e stavano portando dalla loro parte tutta la chiesa di Costantinopoli e di oriente: ma Leone s'impuntò, chiese e ottenne un nuovo concilio che mise fuorilegge pure i monofisiti. Contro i vescovi delle Gallie che credevano di potersi nominare tra loro (come in effetti avevano spesso fatto) invece di riconoscere l'autorità del vescovo di Roma, non un vescovo tra tanti ma il successore dell'apostolo Pietro. Contro la stessa lingua latina che si stava un po' rammollendo nelle cancellerie: a causa delle migrazioni certi accenti forse non si sentivano più, certe sfumature si erano perse. Servivano nuove regole per scrivere in prosa e Leone Magno se le inventò, forse improvvisando, e poi gliele copiarono per secoli, lo chiamarono cursus leonino.

L'Occidente intanto franava, gli Unni premevano sui Goti che premevano sui Vandali che in un qualche  modo si erano trovati in fondo alla catena e schizzarono sui territori dell'Impero in modo impressionante, dalla Spagna al Marocco alla Tunisia, e dalla Tunisia (via nave) di nuovo a Roma. Leone, che pochi anni prima forse era riuscito davvero a convincere Attila a non scendere a Roma, nel 455 poté solo negoziare col re dei Vandali (Genserico) i termini del saccheggio. Leone insomma combatté per tutta la sua carriera, forse per tutta la vita: a volte vinse, a volte venne a patti. Un patriarca riottoso si poteva far deporre; un vescovo ribelle si poteva ridurre a più miti consigli; contro i ribelli, in generale, non è difficile prevalere: basta metterci la tigna, alzarsi ogni mattina qualche ora prima di loro e passarla a concepire nuovi sistemi per confutarli, per perseguitarli, per accerchiarli e far terra bruciata intorno a loro. I ribelli non sono il vero problema. Magari. In fondo sono persino simpatici, ci aiutano a tenere la barra, ci danno un motivo per alzarci prima la mattina, per dimostrare che hanno torto e noi ragione, i ribelli ci servono (quegli stronzi). I veri nemici invincibili non sono certamente loro, a un certo punto Leone dovette rendersene conto. E chi sono allora? (Continua sul Post).

Le abitudini.

Contro le abitudini anche Leone lottò invano. Il Papa che aveva fermato Attila e rovesciato un intero concilio, non riusciva nemmeno a evitare che i suoi fedeli si voltassero un attimo indietro a fare un inchino a un vecchio dio pagano, il Sole, quando entravano nella sua chiesa (la vecchia San Pietro, poi demolita per costruire la nuova).

“…alcuni cristiani prima di entrare nella basilica di San Pietro apostolo, dedicata all’unico Dio, vivo e vero, dopo aver salito la scalinata che porta all’atrio superiore, si volgono verso il sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto in parte per ignoranza e in parte per mentalità pagana”.

Leone sapeva bene che quegli inchini non erano neanche più un sussulto di paganesimo, ma qualcosa di ancora più labile e residuale: un’abitudine; ma non la tollerava. Non poteva. Se cominci ad accettare che i vecchi si voltino indietro, finirà che i giovani impareranno dai vecchi, e l’abitudine non finirà mai. “Anche se alcuni intendono venerare il Creatore della luce leggiadra, e non la luce stessa che è una creatura, devono astenersi da ogni apparenza di ossequio, perché chi ha lasciato il culto degli dei, qualora trovasse tra noi simile usanza, potrebbe praticare, come incensurabile, questo elemento delle vecchie credenze perché lo vedrebbe comune ai cristiani e agli infedeli”.

Alla fine però la spuntò, direte voi. Oggi i cristiani non si inchinano più al Sole nascente, vero? Sì, ma non fu l’ostinazione di Leone a superare il problema. Alla fine la Chiesa procedette nel solito modo: visto che la gente continuava a inchinarsi a oriente, da Leone in poi si mise a costruire le chiese con l’altare orientato verso il sole del mattino. Così l’inchino pagano sarebbe passato inosservato, e dopo un po’ nessuno si sarebbe accorto che era un residuo pagano. Ne costruirono per altri mille anni, quindi potrebbe essere capitato pure a voi, di inchinarvi senza accorgervene al dio Sole. Contro i priscillian e le loro scemenze new age si può trionfare. Sopra i manichei e il loro mondo in bianco e nero, si può stendere una passata di grigio in mille sfumature. Ma lottare contro le piccole abitudini quotidiane, quella è il combattimento che Leone stava perdendo, e forse lo perderemo anche noi. Quando crediamo che il vero nemico sia un antivaccinista o uno sciachimista, e non la persona qualunque che non riesce a differenziare i rifiuti, o a lasciare la macchina nel box lunedì mattina, che non riesce a modificare le sue abitudini. Il destino dell’uomo è nel suo nome, dicevano gli antichi, il che senz’altro fu vero per Leone Magno e sarebbe un grosso problema per me, se nel frattempo non avessi formulato un’ipotesi ancora peggiore: che il destino dell’uomo sia nelle sue abitudini.
Comments (1)

Trump resiste grazie ai borghi putridi

Permalink

Anche se ormai si è capito com'è andata (i Democratici si riprendono la Camera, i Repubblicani tengono il Senato), ci vorrà ancora qualche ora per conoscere tutti i numeri di queste elezioni USA di metà mandato. E anche quando gli ultimi seggi saranno stati assegnati (ballottaggi esclusi) servirà ancora un po' di tempo per avere i due dati che in Europa sarebbero i più importanti di tutti, ovvero: sul 100% dei cittadini USA che si sono recati alle urne, quanti hanno votato democratico, quanti hanno votato repubblicano? In fondo non dovrebbe essere difficile ottenere questo paio di numeri. Ma fate l'esperimento: provate ad andare in uno degli aggiornatissimi speciali on line che le testate anglosassoni più prestigiose hanno dedicato alle elezioni. In mezzo a tanti coloratissimi grafici e tabelle e mappe provate a cercare se c'è questo semplice dato: quanti elettori hanno scelto il partito di Trump, quanti hanno scelto l'altro. Non lo troverete.

Non troverete nemmeno la considerazione che sto per fare, e che credo dovrebbe essere condivisa da qualsiasi sincero democratico (e repubblicano): il sistema elettorale USA è profondamente iniquo, ed è solo in virtù della sua iniquità che un partito continua a governare il Paese e a esercitare il controllo su un ramo del Congresso, malgrado la maggioranza degli elettori abbia votato per un altro Presidente due anni fa e per un altro partito oggi. A questo punto, se si trattasse di un Paese dell'Europa continentale, la questione sarebbe chiusa: è abbastanza ovvio, da questa parte dell'oceano, associare a una maggioranza di elettori una maggioranza parlamentare e un esecutivo. Negli USA non è così e forse sarebbe il caso di cominciare a preoccuparsene di più. È vero, è la culla della democrazia moderna. Ma poi la democrazia è andata per il mondo, è cresciuta, ha imparato a fare di conto.

Negli USA invece è successo qualcosa, o forse è meglio dire che non è successo niente: si vota ancora come due secoli fa, quando ci si recava ai seggi in calesse. In apparenza tutto è più sofisticato: l'informazione, soprattutto, ha fatto passi da gigante e segue le campagne con un grande dispiego di mezzi, ipnotizzandoci con grafici luccicanti che, fateci caso, omettono le percentuali crude degli elettori. Tanto è un numero inutile: contano soltanto i seggi. Al Senato, soprattutto – e infatti i Repubblicani resistono lì. Al Senato ogni Stato esprime due seggi, che sia grande come la California, denso come il New Jersey o quasi disabitato, come l'Indiana. Ecco, prendiamo per esempio l'Indiana. A queste elezioni dovrebbero aver votato due milioni di cittadini, su quattro milioni e mezzo di elettori registrati e sei milioni di abitanti. Al repubblicano Mike Braun è quindi bastato poco più di un milione di voti per ottenere un seggio in Campidoglio, mentre al democratico Beto O'Rourke, che correva per i democratici in Texas, quattro milioni scarsi non sono stati sufficienti (Ted Cruz, il suo avversario repubblicano, ne ha presi appena duecentomila in più). Se l'affluenza fosse più alta (e in queste ultime elezioni sta aumentando), il sistema risulterebbe ancora più iniquo, dal momento che prevede che il mezzo milione di cittadini del Wyoming sia rappresentato a Washington da due senatori, esattamente come i quaranta milioni di cittadini della California. Neanche a farlo apposta, in Wyoming votano per lo più repubblicano, mentre in California la sfida era un derby tra candidati democratici. Il calcolo è abbastanza brutale: il voto di un elettore californiano al Senato vale ottanta volte meno di quello del Wyoming. Chi può avere concepito un sistema così iniquo? Nessuno.

Il principio che assegna due rappresentanti a ogni Stato si trova nel primo articolo della Costituzione del 1787, quando di Stati Uniti ce n'erano appena tredici, tutte ex colonie inglesi aggrappate sulla costa est. I firmatari non potevano sapere quanto sarebbe diventata grande e complessa l'Unione che tenevano a battesimo. Soprattutto non avrebbero potuto immaginare quanto grande sarebbe stato lo squilibrio tra le zone più urbanizzate e quelle che dopo 250 anni risultano ancora scarsamente popolate. Un principio comunque lo avevano ben chiaro, visto che lo avevano appena impugnato per scacciare gli inglesi: non c'è tassazione senza rappresentazione. I californiani pagano meno tasse degli abitanti del Wyoming? Di sicuro non ottanta volte in meno. Perché il loro voto deve valere così poco? Nel Regno Unito dell'Ottocento, anche a causa delle migrazioni interne causate dalla rivoluzione industriale, i distretti elettorali spopolati in cui bastavano poche centinaia di voti per ottenere un seggio a Westminster venivano chiamati Rotten boroughs, "borghi putridi". Il sistema era così iniquo che una riforma si rese inevitabile. Negli USA purtroppo sta succedendo l'opposto: invece di rendere più equo il meccanismo di rappresentanza al Senato, i legislatori approfittano della loro posizione per distorcere quello più proporzionale della Camera, attraverso il procedimento che già nell'Ottocento era stato battezzato Gerrymandering, (dal nome di un governatore del Massachussetts, Gerry, che aveva ridisegnato un distretto a forma di salamandra). Non sono stati soltanto i Repubblicani ad approfittare del diritto di poter ridisegnare i distretti a piacere, ma è soprattutto grazie a loro che qua e là in tutta l'Unione abbiamo distretti a forma di drago o di serpente. Il principio è sempre lo stesso: disseminare le comunità da cui ci si aspetta un voto omogeneo in tante diverse circoscrizioni dove il loro voto risulterà in minoranza. Il Gerrymandering è un fenomeno odioso, ma perfettamente legale, e in un qualche modo autorizzato dalla consuetudine: in fondo la stessa mappa dei Cinquanta Stati (alcuni piccoli e popolatissimi, altri grandi e disabitati) è a suo modo un Gerrymandering.

Il Gerrymandering è solo uno dei tanti fenomeni che di fatto limitano o distorcono il meccanismo elettorale USA. Rispetto ad altri forse ci interessa di più perché a un certo punto abbiamo pensato di importarlo in Italia – del resto si sa, gli americani ci piacciono con tutte le loro magagne. Una delle primissime bozze della riforma costituzionale Renzi-Boschi prevedeva che il Senato italiano diventasse una copia di quello federale americano, con due seggi per ogni regione (tranne la Val d'Aosta). Il risultato non sarebbe stato iniquo quanto quello di Washington, ma comunque il voto di un cittadino lombardo (ce ne sono dieci milioni) sarebbe stato trenta volte meno determinante di quello di un cittadino molisano (ce ne sono appena trecentomila). L'idea per fortuna tramontò abbastanza presto, ma è indicativo anche solo che qualche politico italiano ne abbia parlato come di una proposta ragionevole. La versione definitiva della riforma aveva riabbracciato l'idea che i seggi vanno assegnati in modo più proporzionale, ma anche a causa della necessità di riconoscere alle regioni a Statuto Speciale una quantità fissa di seggi, manteneva un rapporto assolutamente sbilanciato, al punto che il voto dell'elettore molisano sarebbe stato comunque cinque volte più determinante di quello dell'elettore ligure. Uno squilibrio senza senso, che penalizzava le regioni più popolate ed economicamente dinamiche senza un motivo chiaro che non fosse quello di imitare le istituzioni USA, se non nei loro pregi almeno nei difetti più evidenti. La riforma non è passata, probabilmente per altri motivi: ma prima o poi qualcuno tornerà a parlarne, e gli stessi Renzi e Boschi non è che si siano dati per vinti. Ecco, per quando succederà, meglio farsi un appunto: magari certe cose dagli americani le possiamo ancora copiare, ma il Gerrymandering per favore no. Molise e Val D'Aosta sono bellissime regioni che hanno diritto a essere rappresentate equamente, non borghi putridi.
Comments (9)

Quanto fascista sei? (no, adesso, seriamente).

Permalink

C'è stato un momento, almeno io me lo ricordo, in cui tutta l'internet italiana non discuteva della fine del fidanzamento di Salvini, e nemmeno delle opinioni di Calenda sui videogiochi. E di cosa discutevamo in quei giorni? Del fascistometro di Michela Murgia. Una simpatica trovata pubblicitaria che ha fatto arrabbiare molti lettori, difficile adesso ricordare il perché. Forse perché il fascismo è una cosa un po' più complessa. Ecco, probabilmente il motivo era quello. Sarà per questo che a un certo punto, mentre avevo molte altre cose da fare, mi sono ritrovato a concepire un fascistometro alternativo, molto più rispettoso della complessità del fenomeno. Eccolo qui, e spero che non vi spiaccia troppo. Tanto anche se vi spiace ci cascherete lo stesso. Si fa in un paio di minuti, giuro.

Clicca qui per accedere al test: Quanto fascista sei?
Comments (3)

Il ritorno di Tutti i Santi, o quasi

Permalink
Ognissanti non è un giorno come gli altri, su questa pagina. La rubrica sulla vita dei Santi, inizialmente snobbata dalla più parte dei lettori, col tempo si è conquistata la sua nicchia e oggi è uno dei principali motivi per cui qualcuno ancora si ritrova qui, o sulle mie pagine del Post. Io nel frattempo ho scritto altre cose che adesso non ha senso andarsi a rileggere; ma i santi tornano tutti gli anni, è il loro bello. Certo, avrei potuto scriverne meglio. No, sul serio, alcuni mi sono venuti davvero imbarazzanti. Altri così così. Altri persino molto belli, tranne quei due o tre errori che mi fanno vergognare. Insomma se avessi il tempo li rifarei da capo, ma questo si potrebbe dire per qualsiasi cosa.


(A proposito: io sto bene anche se qualcuno ha notato che qui non scrivo da due mesi. Ovviamente sono molto impegnato, ma altre volte che mi è capitato di essere molto impegnato scrivevo comunque come un matto, mentre stavolta no e non sono sicuro del perché. Stava diventando più faticoso che divertente e non è che ho smesso: non sono più riuscito a cominciare. C'entrerà anche il fatto che se invece mi vengono da scrivere due cazzate estemporanee c'è facebook, e tutto finisce lì).

Così, in attesa che mi passi questa specie di blocco che forse è semplicemente la maturità (la vecchiaia), ho pensato di usare il vecchio blog per riprendere i vecchi Santi e rifarli meglio.

Proprio così, mi spiace. Nelle prossime settimane – nei prossimi mesi – nei prossimi anni – sul blog ricompariranno Santi di cui si era già parlato. Non diventerà un blog di soli Santi: spero di avere altri argomenti; però ogni tanto ci saranno i Santi e a volte saranno i soliti Santi che potreste avere già letto. Alcuni pezzi saranno quasi uguali agli originali, tranne quei due o tre errori che vorrei non avere mai commesso. Altri saranno molto diversi, magari completamente diversi. Alcuni cominceranno uguali e poi diventeranno diversissimi, e il bello è che per saperlo vi toccherà rileggerli tutti da capo (ah ah ah). Alcuni scompariranno e nessuno ricorderà che siano mai esistiti, qualcuno in un commento si chiederà: ma che fine ha fatto quel pezzo su San Tale? Sssst, non è mai esistito San Tale, te lo sei sognato. Cancellerò anche molti riferimenti a Umberto Eco, non perché non siano pertinenti, ma perché senza accorgermene lo citavo in un pezzo su due ed è triste scoprirsi alla mia età ancora fanboy di Eco – meglio che fanboy di un sacco di altra gente, ma comunque. L'unica cosa sicura è che continueranno a essere pezzi poco seri, con un sacco di asserzioni buttate lì senza fonti.

Anche sul Post i pezzi saranno un po' rieditati, ma resteranno appesi al link che hanno adesso. Anzi alcuni finalmente si ripotranno leggere nella loro forma integrale, visto che a un certo punto c'è stato un pasticcio col codice e alcune pagine si sono nascoste (non perse). Così alla fine di questa opera di riscrittura avremo su questo blog due versioni di quasi tutti i brani, più la versione del Post che sarà diversa da entrambe. Insomma molto più casino di prima. Trovo la cosa irresistibilmente medievale e assai appropriata.

Per secoli nei conventi un frate a turno ha intrattenuto a pranzo i confratelli leggendo le agiografie sanguinolente di Iacopo da Varazze. Questo blog quasi per caso si è ritrovato a fare la stessa cosa. Voi che ci capitate in pausa pranzo (o in attesa di un autobus – o dello stimolo giusto al gabinetto) avete la rara opportunità di sentirvi parte di una conversazione millenaria! Prego, è un piacere (nei prossimi giorni qui sotto rimetterò anche a posto il cestino della questua).

(A tutti quelli che hanno chiesto di farci un libro: ci si è provato, anche più di una volta: ma anche se non ci fosse la crisi dell'editoria, la crisi economica, la crisi climatica... temo che sarebbe comunque colpa mia: mi sono scelto uno degli argomenti meno pubblicabili in Italia e l'ho sviluppato nel modo più frammentario possibile. Tanta carta risparmiata, mettiamola così).
Comments (9)

Non è una scuola per insegnanti (maschi)

Permalink
"Scusami, sto cercando una maestra".
È un cattivo segno quando i genitori la prima volta ti danno del tu. Non è mancanza di rispetto. È proprio che non hanno capito che mestiere stai facendo. 
"Ci sono io".
"Sì, ma cercavo una maestra".
"Beh io insegno qui".
In questi casi la giacca può fare la differenza. Senza giacca è possibile che ti prendano per un bidello. Con la giacca puoi passare anche per un vicepreside. Ma un maestro no, non pensano mai al maestro.
"Ah, mi scusi, non avevo capito".
È una questione di istanti: alla sorpresa subentra il sospetto. D'accordo, ho davanti un insegnante di sesso maschile. Cos'è andato storto con lui? Perché non è da qualche parte a fare un lavoro meglio pagato? Che errori ha commesso? Che peccati sta scontando? Forse semplicemente non aveva abbastanza ambizione.

È difficile essere insegnanti di sesso maschile? Probabilmente non quanto essere ingegneri di sesso femminile. O vigili del fuoco di sesso femminile. O insomma avere il sesso femminile, in generale, in tutti i luoghi di lavoro dove è minoritario e cioè praticamente dappertutto tranne che a scuola e forse in qualche infermeria. Questo è più vero nelle scuole italiane che in quelle di altri Paesi; più nelle scuole primarie che nelle secondarie (all'università, man mano che aumenta il prestigio e il salario, il rapporto si inverte). È una di quelle disparità intorno alle quali ancora oggi è costruita la nostra società. Anche nei più avanzati Paesi al mondo, ci si aspetta ancora che la donna trascorra mediamente più tempo dell'uomo in casa e coi figli: l'insegnamento è un mestiere che lo consente. Certo, con l'aumento del benessere aumenta la fluidità: una donna può permettersi di dedicarsi alla carriera mentre il marito si accontenta di fare un mestiere che gli piace e che gli consente di gestirsi qualche pomeriggio coi figli. Proprio per questo è allarmante il fatto che nei prossimi anni in Europa il gap tra insegnanti maschi e femmine aumenterà. Evidentemente la società si sta irrigidendo, e la scuola non può che rifletterlo. Per esempio, quando i maestri australiani ammettono di avere difficoltà con il contatto fisico, è chiaro che sono vittima di uno stereotipo di genere: nessuno si spaventa se una maestra tocca un bambino, perché con un collega maschio dovrebbe essere diverso? Allo stesso tempo lo stereotipo si basa su un senso comune confermato da dati statistici: la maggior parte dei sex-offenders risultano essere di sesso maschile, e spesso gli individui con tendenze pedofile scelgono una professione che consenta loro di lavorare a contatto coi bambiniCerto, se ci fossero più insegnanti maschi, il sospetto si diraderebbe (ma aumenterebbe anche la possibilità che un maestro risulti davvero un sex-offender). Negli Stati Uniti i maestri elementari non hanno smesso di essere una rarità, ma stanno diventando una rarità ricercata: pare infatti che a parità di condizioni, ottengano mediamente risultati migliori delle colleghe. Ma se questo accade è proprio perché insegnare, per un uomo, è ancora uno stigma sociale, un potenziale disonore che dissuade dall'intraprendere la professione chiunque non sia fortemente motivato. I maestri, insomma, sarebbero buoni proprio perché sono rari: il che significa che diventeranno sempre meno buoni man mano che aumentano e forse ci accorgeremo di aver ottenuto l'uguaglianza quando cominceremo a trovarne di scarsi (continua su TheVision).

x
Comments

I pazzi e il Pendolo

Permalink
Tutto questo non potevamo aspettarcelo: ai posteri cercheremo di spiegarla così. Complottisti al governo, antivaccinisti alla sanità; sottosegretari che non credono alle missioni lunari. Si discute se possa presiedere la Rai un giornalista che ha diffuso notizie sul satanismo di Hilary Clinton. Tutta questa paranoia non l'abbiamo vista arrivare: come avremmo potuto? È troppo irrazionale, e tutto quello che è irrazionale non dovrebbe essere reale. Ai posteri cercheremo di spiegarla così, ma non è detto che ci cascheranno: ma certo che potevate aspettarvelo. Ci sarebbe bastato guardare meglio in giro, studiare con più attenzione i fenomeni, anche soltanto leggere i libri giusti. Ce n'era uno che prevedeva tutto questo con trent'anni d'anticipo, e non era un saggio di antropologia o di sociologia, macché: un romanzo. Un best-seller, addirittura – certo, non il più leggibile dei best-seller.
Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest'opera...
Si chiamava Il pendolo di Foucault, e trent'anni esatti fa era l'argomento più caldo dell'estate (bisogna dire che era un'estate dolce e pigra, Gimme Five di Jovanotti duellava con Nick Kamen in cima alle classifiche, Craxi aveva finalmente acconsentito a un governo De Mita che sarebbe durato un altro anno, gli Europei di calcio erano già finiti da un mese e le olimpiadi di Seoul sarebbero iniziate soltanto in settembre). In quell'agosto sostanzialmente tranquillo, sulla stampa italiana cominciarono ad apparire recensioni non autorizzate del secondo romanzo di Umberto Eco, che sarebbe uscito soltanto in autunno. Tutto questo malgrado le proteste dell'autore e del suo editore, Bompiani, che poi sarebbero stati accusati di avere occultamente orchestrato la fuga di notizie per vendere ancora più copie. Non che ne avessero la minima necessità: il primo romanzo di Eco, Il nome della rosa, era appena uscito dalle classifiche italiane di vendita dopo otto anni. Tradotto in più di 40 lingue, si stima che abbia venduto più di trenta milioni di copie: nel dicembre di quello stesso 1988 il film di Jean-Jacques Annaud con Sean Connery sarebbe stato visto su Rai1 da 17 milioni di telespettatori, il pubblico di una partita della nazionale.

"Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto"
[seguono centinaia di pagine sui templari].

Nel 1988 insomma Umberto Eco dava l'impressione di poter piazzare milioni di copie persino di un trattato di cabala babilonese. A qualcuno il Pendolo sembrò esattamente questo: un gioco esageratamente intellettualistico. A chi si aspettava un altro godibile giallo medievale, stavolta Eco infliggeva un labirinto narrativo articolato non solo nello spazio (Gerusalemme, Parigi, Milano, le Langhe) ma nel tempo (dal processo dei Templari agli intrighi massonici dell'Ottocento, dalla Resistenza al '68 alla Milano-da-bere contemporanea), affidato a due voci narranti – addirittura scritto in due font diversi.

Eppure il Pendolo, a rileggerlo trent'anni dopo, non sembra così complicato. C'è da dire che nel frattempo il best-seller postmoderno, il genere che Eco stava collaudando, è diventato un prodotto editoriale codificato: il citazionismo spinto e l'uso sistematico dei flashback non sorprendono più. Ma il sospetto è che già nel 1988 Eco li stesse usando soprattutto per mettere alla prova il lettore (come aveva dichiarato nelle Postille al Nome della rosa): gran parte delle difficoltà si concentrano nei primi capitoli. Proprio il più faticoso, il delirio iniziale di Casaubon al Conservatoire des Arts et Métiers, fu scelto per essere pubblicato in anteprima dall'Espresso. Più che a promuoversi, Eco sembrava deciso a sacrificare parte del pubblico che aveva conquistato. Poteva permetterselo (continua su TheVision).



Il Pendolo scalò immediatamente le classifiche, divivendo i critici (memorabile la stroncatura di Salman Rushdie) e spaventando molti lettori.

Se Il nome della rosa inghiottiva il lettore in un universo compatto, un medioevo ricostruito in laboratorio, Il Pendolo disorientava, accostando pagine autobiografiche ai divertissement eruditi alla Diario minimo. Era un testo scoppiettante, che attirava e respingeva, e verso il finale non resisteva alla tentazione di ammazzare qualche protagonista in scena come certi feuilleton ottocenteschi tanto amati dall’autore. La trama ruotava intorno a un gruppo di intellettuali che, per interesse anche economico, cominciano a frequentare il mondo dell’occultismo, fino a venire risucchiati in un apparente complotto universale che – come nel Nome – si rivela poi solo un grande equivoco. Nel Pendolo, Eco usciva dal suo confortevole Medioevo per cimentarsi con la contemporaneità, arrivando a prestare alcuni ricordi d’infanzia a uno dei protagonisti, Jacopo Belbo. Spesso i protagonisti dei thriller sono versioni idealizzate dei loro autori, uomini tutti d’un pezzo. Nel Pendolo tutto il contrario: Belbo è un Eco che non ce l’ha fatta, che non è riuscito a diventare uno scrittore e non se ne dà pace. Una cultura enciclopedica non lo riscatta dalla mediocrità, anzi sembra fornirgli strumenti più affilati per torturarsi. Troppo giovane per la Resistenza, troppo maturo per la Contestazione, Belbo mentre confida i suoi sogni di riscatto eroico al suo personal computer, continua a compromettersi col sistema; tra le sue mansioni di collaboratore editoriale c’è quella di selezionare i gonzi, gli autori di manoscritti da attirare nella truffaldina ragnatela escogitata dal diabolico editore Garamond. Personaggi ancora più mediocri di lui, poeti da strapazzo ed eruditi della domenica, impiegati e funzionari con un sogno di gloria nel cassetto: chi avrebbe mai pensato che sarebbero legione, movimento, forza di governo? Eco nel 1988 ci stava pensando.





Il pensiero complottista, ci spiegava, farà seguaci non soltanto tra i poveri di spirito, ma anche tra gli intellettuali come Belbo, sedotti anche per un solo istante da un Piano che spieghi ogni mistero e giustifichi ogni fallimento. È una lezione sulla quale forse non abbiamo ancora riflettuto abbastanza, oggi, mentre insistiamo a interpretare il trionfo dei movimenti complottisti e xenofobi come un problema di analfabetismo funzionale (eppure il partito più votato dai laureati è il M5S). L’avversario che ci additava trent’anni fa non era l’ignoranza, ma erano la frustrazione, l’insoddisfazione, l’incapacità di rassegnarsi alla mediocrità. Lo avrebbe ribadito sette anni più tardi in quella famosa lezione alla Columbia che oggi si ritrova in libreria sotto il titolo Il fascismo eterno: “L’ Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici sia stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo in cui i vecchi proletari stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il Fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio”.

Sfogliando manoscritti alla ricerca di gonzi da spennare, Belbo aveva scoperto alcuni temi ricorrenti: l’occultismo, i misteri del passato, i soliti Templari (“Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto”). Nel 1988 forse era presto per capire che Il Pendolo metteva a fuoco con precisione chirurgica la transizione tra anni Settanta e Ottanta, il momento in cui in certe piccole librerie di Milano i saggi sui templari avevano rimpiazzato quelli sul marxismo. L’irrazionalismo di uno Zolla o di un Cioran poteva apparire ancora un fenomeno di nicchia, una nuvola pittoresca e inoffensiva che veniva a stemperare gli incubi ideologici degli anni di piombo. L’impegno con cui Eco si dedicava a smontarlo e sbeffeggiarlo poteva sembrare eccessivo; un voler tirare alle zanzare col cannone. Nel 1988 c’erano cose che ci preoccupavano di più, anche se oggi è difficile ricordare cosa.



Quando nel 2003 le librerie furono infestate da un thriller fanta-storico, Il Codice Da Vinci di Dan Brown, qualcuno si ricordò che l’idea di un Gesù fondatore della stirpe dei Merovingi non era poi così nuova. Ne aveva parlato per esempio Eco; ma la circostanza è un po’ più bizzarra. La trama del Codice era stata anticipata in una pagina del Pendolo in cui i tre protagonisti si divertivano a interpretare le frasi emesse da un computer in sequenza casuale. Lo stesso Eco avrebbe più volte definito Dan Brown come un suo personaggio; e in effetti, il suo stile un po’ meccanico ricorda quello di un computer che si sforza di imitare gli scrittori in carne e ossa. Al di là delle coincidenze abbastanza facili da spiegare (sia Eco che Brown attingevano la loro mitologia da testi precedenti), quel che sorprende è che sia Il Pendolo a funzionare come una parodia del Codice, benché sia uscito quindici anni prima. Una parodia che non solo mette in luce l’ingenuità del complottismo alla Dan Brown, ma ne preannuncia persino il successo. Attenzione, voleva dirci il Pendolo: questa roba sembra ridicola, inoffensiva, ma funziona.

Torniamo a oggi. Quando è crollato il ponte Morandi, nel giro di poche ore su internet sono fiorite le prime ipotesi complottiste sulla “demolizione programmata”. È la prassi, dall’undici settembre in poi; dietro non c’è nessuna mente diabolica, né un’epidemia di analfabetismo di ritorno: solo l’umana esigenza di inserire ogni tragedia in un Piano che la giustifichi e ne dia la colpa a qualcun altro. È un fenomeno interessante, inquietante e ancora abbastanza oscuro: dovremmo analizzarlo meglio, forse avremmo dovuto cominciare a studiarlo per tempo: ma in fondo chi se lo sarebbe aspettato che queste buffonate sarebbero diventate così importanti? Ai posteri cercheremo di spiegarla così. E se siamo fortunati, magari i posteri non avranno letto quello strano romanzo in cui Umberto Eco ci metteva in guardia, ormai trent’anni fa.
Comments (6)

Novità in libreria! (settembre 2018)

Permalink
Un'altra estate è andata, autunno è alle porte, le vetrine delle librerie sostituiscono i best-seller cartonati da leggere in spiaggia con... cosa? Secondo gli esperti del mercato in autunno la leggibilità passa in secondo piano; le classifiche di vendita premiano altri parametri. Ecco una breve incursione tra le più interessanti uscite del mese.


DJ CONTENTO: I canti e altre poesie di Giacomo Leopardi, Copycut editrice.

Si fa ancora chiamare Dj, ma i tempi di CRISTO-MIA-ZIA! sono ormai un ricordo lontano. Contento non è più il bimbominchia spiritato che movimentava la scena dei primi anni Zero copia-incollando pagine dei classici della letteratura senza neanche darsi la pena di leggerli. L'importante era il groove, amava ripetere mentre mescolava versi di Carducci alle memorie di Natalia Ginzburg; e per un po' le classifiche dei download gli diedero ragione. Chi avrebbe mai immaginato che Contento negli anni diventasse uno degli autori più interessanti della sua generazione? A partire da Le Satire di Montale ma anche un po' di Giovenale (2011), Contento ha iniziato a usare sempre meno forbici e sempre più colla - digitale, s'intende - scivolando più o meno consapevolmente dalla poetica del Remix a quella dadaista dell'Objét Trouvé, centrata in pieno con la sua opera più conosciuta, Le città invisibili di Italo Calvino. Se il successivo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni pativa forse di un'eccessiva lunghezza, coi Canti e altre poesie di Giacomo Leopardi Contento ci offre forse il vertice della sua produzione. È straordinario come il suo copia-incolla riesca a trasformare composizioni ormai consunte da secoli di uggiosa consuetudine scolastica in qualcosa di nuovo: A SilviaIl Sabato del Villaggio, perfino L'Infinito, grazie all'intervento minimale di Contento, brillano di una luce contemporanea che finalmente ce le fa apprezzare, regalandoci tutte quelle sensazioni che simulavamo al liceo per fare buona impressione sull'insegnante. Ormai è settembre, credo di potermi sbilanciare: I canti e altre poesie di Giacomo Leopardi di Dj Contento è il miglior libro italiano del 2018.

ALEX BHUPAL: Gli abissi fluviali, edizioni Adelfi.

Per la stagione autunno-inverno le edizioni Adelfi ripropongono un classico: la copertina lillà scuro, impreziosita da un'illustrazione. che attinge al catalogo un po' abusato (ma di pubblico dominio) delle avanguardie storiche. Il prezzo, come sempre, è la caratteristica più interessante del prodotto. Le Adelfi si sono imposte negli ultimi anni come l'alternativa di fascia bassa all'Adelphi – una volta sistemate sulla mensola sembrano identiche, benché costino meno della metà. Il contenuto boh, ho provato a sfogliarne un paio di pagine ma si scollavano, ho la sensazione che sia un manuale di ittiologia copiato da internet e impaginato in un Baskerville molto aggraziato. Insomma il libro ideale per dare un senso a quella mensola in alto che non sapete come riempire, o da portare su una panchina quando si vuole far colpo sulla tizia con gli occhiali che passa tutti i pomeriggi a pisciare il cane.





E. L. JAMES: Cinquanta sfumature di viola, c'è scritto Mondadori ma è un fake.

La trilogia sado-soft di E. L. James è già oggi uno dei testi più parodiati di tutti i tempi. Cinquanta sfumature di viola va più in là della semplice presa in giro, collocandosi a metà tra 'geniale operazione situazionista' e 'abominevole truffa'. Sotto lo pseudonimo "E. L. James" stavolta si nasconde un collettivo di femministe dall'umorismo molto discutibile, che si aggirano per le migliori librerie italiane sistemando il loro volume (assolutamente simile ai tre ufficiali) in posizioni strategiche. Le sprovvedute lettrici che si porteranno a casa Cinquanta sfumature di viola convinte di leggere il quarto episodio della saga, resteranno fortemente scioccate: la trama del romanzo prevede infatti che Anastasia, rapita da un misterioso nemico del marito, sia orribilmente torturata dalla prima all'ultima pagina, mentre attende fiduciosa l'arrivo di Grey - solo per scoprire che quest'ultimo in realtà si sta godendo lo spettacolo via webcam. Facendo tesoro della lezione del Sade più narrativo e meno teorico, il collettivo E. L. James non chiude mai uno spiraglio di speranza sull'ingenua protagonista, riuscendo a mantenere l'attenzione del lettore orripilato fino al ributtante finale che non vi anticipo perché, mio dio, poveri criceti. E questa è roba che smerciano alle ragazzine. Un'amica di mia nipote l'altro giorno per sbaglio ha iniziato a leggerlo, adesso non esce più di casa e la notte urla i criceti i criceti. Le librerie dovrebbero essere chiuse, tutte, con gli scrittori dentro.
Comments (1)

Il maschio a un bivio

Permalink
In questi giorni mi piacerebbe scrivere qualche riga di solidarietà ad Asia Argento che non suonasse come un rimprovero o una presa in giro, ma mi sto rendendo conto che è difficile. Cioè io almeno non ne sono capace. Nel frattempo ho ritrovato un pezzo scritto a proposito di #MeToo in una fase di mezza primavera in cui succedeva di tutto, e soprattutto sembrava succedere tutto a persone che, come Asia Argento, avrebbero dovuto essere dalla parte giusta della cosiddetta barricata: Eric Schneiderman, Junot Diaz, Aziz Ansari... Non è mai stato (giustamente) pubblicato, però contiene uno spunto interessante che forse qualcun altro avrà evidenziato: tutte le vittime illustri di #MeToo, produttori, attori e registi (Asia Argento inclusa, a questo punto), sono di estrazione progressista: a scandalizzare non è tanto la condotta sessuale (Trump può fare di peggio senza soffrire grossi contraccolpi di immagine), ma il fatto che questa condotta sessuale smentisca la regole di condotta della società progressista: come se più che un problema di molestie fosse un problema di coerenza. A questo punto una via di salvezza potrebbe essere uscire dal progressismo. Perlomeno immaginavo che qualche maschio potesse essere tentato (ma perché le donne no in fondo). Vabbe', comunque eccolo qui, tenerlo in bozza all'infinito non ha senso. 



Sono un maschio etero, meglio avvertire subito. È senz'altro un privilegio, e allo stesso tempo c'è poco da andare orgogliosi. Molti degli anni teoricamente più proficui per lo studio e il lavoro, li passiamo a pensare ossessivamente a come riprodurci: a escogitare tecniche, trappole, trabocchetti che in 99 casi su 100 non funzionano – ma quella volta su cento, ce la racconteremo per il resto della vita. Sarà l'istinto, l'evoluzione, la pressione sociale; in ogni caso è frustrazione, è fatica, a un certo punto ti domandi se ne uscirai mai. Alcuni non ne escono mai. Da qualche anno ho deciso che ne sono fuori: ormai ritengo di essere in grado di discutere con persone di sesso diverso senza fare la ruota o mostrare un petto più rosso del mio collega. Addirittura lo scorso inverno avevo voglia di dire la mia sul movimento #MeToo, che trovavo positivo per tanti motivi e discutibile per altri motivi. Questo probabilmente mi avrebbe portato a confrontarmi con interlocutrici di un sesso diverso dal mio, ma ero convinto di poter gestire la cosa in modo adulto e senza far valere la mia oggettiva, e odiosa, posizione di privilegio.

Ma poi ho sentito in sottofondo una vocina che mi diceva Stanne fuori, e all'inizio non capivo. La voce dello stesso istinto che mi aveva messo in tanti guai a vent'anni, ora mi pregava di mantenere un basso profilo. Come se avessi avuto qualcosa da perdere. Ci ho messo dei mesi a capire. Mesi in cui è successo di tutto, almeno negli USA. Guardiamo anche solo all'ultima settimana: il magistrato Eric Schneiderman si è dimesso dalla carica di procuratore (attorney) generale dello Stato di New York. Quattro donne che hanno avuto relazioni con lui lo accusano di molestie (abusi fisici non consensuali). Schneiderman durante i rapporti le avrebbe spesso picchiate e insultate: circostanze non del tutto negate dal magistrato, che però sostiene che si trattava soltanto di role-playing consensuale. Insomma abbiamo un procuratore che picchia le amanti, quella più scura di pelle la chiama "schiava", magari è convinto che ci stiano per gioco e invece è abuso di potere. Non sarebbe una notizia così dirompente, se Schneiderman non fosse il magistrato che in ottobre aprì l'inchiesta su Harvey Weinstein. Anche prima che scoppiasse #MeToo, si considerava ed era considerato un paladino dei diritti delle donne. Per dire che cosa assurda che è il maschio (etero): in pubblico difendi le donne e in privato chiedi il permesso di picchiarle, o ti illudi di averlo ottenuto. All'apparenza sei il boss, c'è gente che nell'intimità è disposta a inginocchiarsi davanti a te; in pratica in qualsiasi momento possono decidere il gioco non è più consensuale e merita di essere divulgato ai giornali. E tu lo sai: non sei un novellino. Ma ci caschi lo stesso. Essere maschi è assurdo.

In questa stessa settimana è caduto in disgrazia anche Junot Díaz, l'acclamato autore di La breve favolosa vita di Oscar Wao, accusato di cattiva condotta da un gruppo di colleghe. Díaz in almeno un caso avrebbe cercato di baciare una giovane scrittrice che non voleva saperne, ma nella maggior parte dei casi più che di molestie si tratterebbe di abusi verbali: a leggere le interviste, l'impressione è che sia uno che si infervora rapidamente. Appena lo contrari su un punto, spiega Carmen Maria Machado, la patina di progressismo casca a terra e rivela il solito bullo misogino. Anche in questo caso, la notizia in sé sarebbe minuscola: c'è uno scrittore che si comporta male con chi non è lesta a fargli i complimenti. Ciò che la rende eccezionale è che da quello scrittore ci si aspetta una particolare sensibilità perché è il celebrato rappresentante di una minoranza, e soprattutto ha appena raccontato di essere stato vittima di una violenza sessuale a otto anni. Anche quest'ultimo dettaglio ora assume una luce diversa: alcune delle sue accusatrici suggeriscono che Díaz potrebbe avere deciso di rendere nota una circostanza così drammatica per mettersi al riparo dalle accuse che riteneva imminenti.

Nel frattempo a Stoccolma sta succedendo qualcosa di veramente nuovo – pare che quest'anno non sarà consegnato il premio Nobel alla letteratura. La spiegazione vulgata su diverse testate è abbastanza incongrua: un fotografo, nemmeno un giurato dell'Accademia, ma un marito di una giurata, avrebbe palpato diverse donne, tra cui una principessa. Fatto grave e increscioso, ma insomma non si capisce perché a pagarne le conseguenze dovrebbe essere la comunità letteraria mondiale che da più di mezzo secolo considera il Nobel il premio più prestigioso. In effetti a dare un'occhiata più da vicino si scopre che la situazione è molto più complessa, e che tra gli accademici è scoppiata una tipica faida accademica. Veramente niente di nuovo sotto il sole, e infatti un litigio per determinare quale organizzazione debba consegnare il premio non sarebbe una grande notizia. Un fotografo che palpa le principesse funziona molto meglio. Specie qui da noi, dove torme di opinionisti non vedono l'ora che l'ondata del #MeToo si ritiri per beccare qualche vongola lasciata dalla risacca: lo vedete che le femministe esagerano, adesso per colpa loro non si consegna nemmeno più il Nobel eccetera eccetera.

C'è un'ultima notizia che mi piacerebbe dare, ovvero che nella settimana in cui i magistrati in prima linea contro le molestie si dimettono perché accusati di molestie, e gli scrittori sensibili si dimostrano insensibili, la popolarità di un presidente degli Stati Uniti che paga per far tacere un'escort è ai minimi storici. Ma non è così: anzi sembra proprio che anche l'ultimo scandalo sessuale non abbia avuto nessun influsso sul gradimento espresso dai cittadini USA per Donald Trump. Conta molto di più un'esternazione sulla Corea o sull'Iran o sull'opportunità di armare gli insegnanti. Questo paradosso per cui l'elettorato repubblicano più bacchettone è disposto a perdonare a Trump qualsiasi disavventura extraconiugale non può stupire noi italiani: vent'anni di Berlusconi dovrebbero averci insegnato almeno che i conservatori sanno essere molto tolleranti nei confronti delle abitudini sessuali dei loro leader. Ma anche se fossimo americani a questo punto ci saremmo messi il cuore in pace: Trump è quello che prima delle elezioni spiegava che le donne vanno afferrate "by the pussy": gli americani lo sapevano e l'hanno votato così.

Un'escort in più o in meno non cambierà la sua immagine: se c'è qualcuno che può pensare di uscire indenne dall'ondata rivoluzionaria del #MeToo è proprio Trump. Non il procuratore Eric Schneiderman, che pure aveva cercato di metterlo sotto inchiesta; non l'Accademia di Stoccolma, faro del progressismo mondiale; non Junot Díaz, scrittore ispanoamericano vittima di abusi. Non Woody Allen, icona della New York intellettuale, su cui continuerà a pendere un sospetto orribile (benché giuridicamente inconsistente); non Louis CK, che prima di masturbarsi di fronte alle sue sottoposte chiedeva il permesso, illudendosi che non si trattasse di abuso di potere; non Aziz Ansari, attore e regista che ha dato la voce a una generazione di asiatici-americani che lottano contro gli stereotipi razziali, ma una sera ha sbagliato a versare il vino a una ragazza e si è ritrovato alla berlina sulle testate di tutto il mondo. Non fossero stati tutti a loro modo personaggi-simbolo, le loro piccole o grandi miserie non avrebbero interessato così tanti lettori e lettrici. Alcune di queste miserie sono reati, altre fantasie; non sta a me stabilirlo, per fortuna. Non sta a me nemmeno giudicare #MeToo, che come tutte le rivoluzioni non è un pranzo di gala: c'è chi la cavalca con le migliori intenzioni e chi ne approfitta, e a volte l'astuzia e il cinismo dei secondi è più efficace delle buone intenzioni dei primi. Io sono solo un maschio etero di fronte a un bivio, come tutti: posso scegliere di restare un maschio etero progressista, perché in un certo senso lo ero già, anche se gli standard si stanno facendo sempre più esigenti. Alcune tecniche che ho messo in pratica negli anni in cui riprodursi era un pensiero fisso e insopprimibile, da qualche anno in qua anche in Italia sono sanzionate dal codice penale. Se scelgo il progresso, sarò al sicuro dall'ondata? No. Ho comunque fatto degli errori, a vent'anni si è molto stupidi – nulla di eccezionale, ma sufficiente a farmi perdere la faccia – e chi li ha subiti ha tutto il diritto di rinfacciarmeli. Ma c'è un'altra strada.

La strada che ritorna indietro. Se scegli il progresso, ti esponi al giudizio delle tue contemporanee: ma se lo rifiuti? Se ti opponi al femminismo, se irridi il politically correct, perché dovrebbero prendersela con te? È come se scomparissi dal loro radar. #MeToo è una rivoluzione tutta interna al fronte progressista. I tuoi giochini sadomaso diventano notizie solo se sei un magistrato in prima linea contro i femminicidi. I tuoi incidenti relazionali sono interessanti soltanto se fai parte della tribù che rispetta le donne come esseri umani. Ma c'è un'altra tribù che continua a trattarle male, e non è così sfigata come tribù, dopotutto: negli USA elegge persino i presidenti. Quindi scegli: dove ti divertirai di più? Dove rischi di meno?

Essere maschi è assurdo. Forse lo è sempre stato, ma l'evoluzione della società non gioca a nostro favore. Certi istinti nel medio-lungo termine diventeranno più fastidi che vantaggi, come i denti del giudizio. Non ha più molto senso fare la ruota ma ci piace ancora farla. Molte femmine ci trovano fastidiosi e ridicoli e non si vergognano più a farcelo sapere. Ora la scelta è la seguente: sopprimere l'istinto che ci spinge a gonfiare il petto ed esporre i bargigli, oppure scegliere un pollaio meno progressista. Io una scelta del genere l'ho fatta tanti anni fa. Non fu nemmeno una scelta: le ragazze che mi interessavano erano tutte nella tribù a sinistra. Certo, avrei dovuto imparare una serie di buone maniere, e proprio nel momento in cui un istinto evolutivo mi spingeva a spargere più seme possibile: era una condizione lacerante, ma era comunque chiaro che ne valeva la pena. Ma se avessi vent'anni oggi? Dove mi guiderebbe il, il cuore?
Comments (6)

Questo pezzo ti farà incazzare (se sei contrario al crocefisso a scuola)

Permalink
Questo pezzo [è uscito ieri su TheVision] ti farà incazzare. Se ti consideri un laico; se malsopporti le ingerenze della Chiesa cattolica nella società italiana, e in particolare nella scuola; se ti sei indignato la scorsa settimana, quando Salvini ha buttato lì di rendere obbligatori i crocefissi "ben visibili" in tutti i luoghi pubblici, scuole incluse, questo pezzo non ti farà passare l'indignazione, anzi.


Come se ce ne fosse bisogno – lo sai quanto mi piacerebbe, per una volta, scrivere un pezzo che ti desse ragione? Che le immagini religiose devono essere tolte da tutti i luoghi pubblici e in particolare dagli edifici scolastici, dove turbano senz'altro la sensibilità degli alunni che non si sentono cattolici, e che da un simbolo del genere possono ricevere il messaggio peggiore, ovvero quello identitario (in Italia veneriamo il crocefisso e se non ti va bene l'Italia non è il posto tuo)? I crocefissi dovrebbero essere tolti, anzi non dovevano nemmeno essere appesi, e Salvini è un sovranista che soffia sul fuoco dell'intolleranza mentre tira a campare mediaticamente: i rincari alla benzina non può evitarli, il crocefisso può appenderlo, anzi in molti casi non c'è neanche bisogno, è già lì. Tutto ciò ha perfettamente senso, ma non è quello che scriverò in questo pezzo che ti farà arrabbiare (come se ce ne fosse bisogno).

In questo pezzo magari scriverò che Salvini è un sovranista, certo, che soffia sul fuoco dell'intolleranza, sì, e che se ora tu prendi fuoco dall'indignazione stai assolutamente facendo il suo gioco. È quello su cui contava: infiammare un po' di progressisti laici, metterli contro i cattolici: proprio nel momento in cui l'argomento del giorno sono, come ogni estate, i profughi sui barconi; e proprio nel momento allo schieramento allarmista-xenofobo che chiede respingimenti a oltranza, se ne contrappone uno pietista che va dalla sinistra progressista laica ai cattolici e a Papa Bergoglio.

In questi momenti da qualche parte è come se suonasse un arrugginito campanello d'allarme, lampeggiasse una vecchia lucetta rossa non ancora del tutto opacizzata dagli anni: ALLARME CATTOCOMUNISMO! In questi momenti, da vent'anni chi è a destra tira fuori lo strumento d'emergenza: il crocefisso. Non è davvero un trucco originale, Salvini l'ha imparato da Berlusconi che ha avuto i suoi buoni maestri. Brandisci per una mezza giornata il crocefisso ed ecco fatto, lo schieramento avverso implode, i laici si incazzano perché non l'hanno ancora tolto dalle pareti delle scuole, i cattolici fanno presente che la figuretta di un morto appeso coi chiodi è un'immagine di pace, di tolleranza, addirittura se lo guardi bene un crocefisso è un abbraccio, no? Beh insomma il poveraccio hanno dovuto inchiodarlo perché tenesse le braccia così, comunque certo, ogni simbolo può rappresentare qualsiasi cosa. È un simbolo di morte, è un simbolo di vita, è il figlio di Dio, è un ebreo morto ammazzato, eccetera. Nel nostro caso diventa soprattutto il simbolo dell'inimicizia perenne tra cattolici e laici: i primi l'hanno messo a parete, i secondi non saranno soddisfatti finché dalle stesse pareti non sarà schiodato. L'inimicizia in realtà ha ragioni storiche ben più profonde, e muove da visioni della vita forse davvero inconciliabili (su aborto e su eutanasia un accordo non ci sarà mai): però il crocefisso s'impugna più comodamente, specie d'estate.

Questo pezzo ti farà incazzare perché ti vorrebbe suggerirti, caro laico, di non cascarci. Ci sono ottimi motivi per litigare coi cattolici; il crocefisso non è solo il meno interessante; è anche l'unico in cui leggi e sentenze ti danno torto. In effetti, quando Salvini chiede di appendere un Cristo alla parete di una scuola pubblica, non fa che chiedere che sia applicata una legge dello Stato. È vero, si tratta di due Regi Decreti, roba degli anni Venti. È vero, i medesimi decreti impongono di esporre a fianco del crocefisso l'effigie di Sua Maestà il Re, il che ci potrebbe indurre a ritenerli superati dalla prassi. Ma pare che non funzioni così con le leggi, e non lo sto dicendo io: lo hanno scritto, in diverse sentenze, il Tar del Veneto, la Corte Costituzionale e il Consiglio di Stato. Che altro si può fare, a questo punto? Denunciare lo Stato Italiano alla Corte europea dei diritti dell'uomo perché espone un simbolo religioso in un luogo pubblico frequentato da minori? Due genitori di Abano Terme, Massimo Albertin e Soile Lautsi, nello scorso decennio ci hanno provato, e in primo grado la corte di Strasburgo ha pure dato loro ragione. A quel punto però, cos'è successo? il capo del governo, Berlusconi si è fatto fotografare con un cristone enorme in mano, ha annunciato che lo Stato avrebbe fatto ricorso, subito appoggiato da alcuni esponenti del principale partito di opposizione (si chiamava PD) e dall'autorevole parere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; alla fine il ricorso si fece e... il crocefisso lo vinse. (Continua su TheVision).


Se quindi stai pensando che sia ora di condurre una battaglia di laicità su tutti i fronti per staccare un simbolo confessionale da pareti laiche, questo pezzo ti farà incazzare perché ti rivelerà che la battaglia è già stata combattuta, e persa: persa al Tar, persa alla Consulta, persa al Consiglio di Stato, persa a Strasburgo. Questa è la dimostrazione che esiste un fronte pro-crocefisso che dalla destra identitaria arriva fino alla sinistra. Grazie alla pur ammirevole testardaggine di Albertin e Lautsi c’è una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che non riconosce l’esistenza di “elementi che attestino l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo religioso sui muri delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni.” Ti fa incazzare? T’avevo avvertito.

Potrai chiederti come mai, caro lettore incazzato, in quasi ottant’anni di Repubblica, nessun laico ha mai voluto affrontare la questione con la determinazione dei due genitori di Abano. C’è gente che si è fatta arrestare per ottenere il diritto all’aborto, che ha lottato per il divorzio, o l’eutanasia. Insomma di battaglie ne hanno fatte, i laici italiani: perché il crocefisso no? Domanda interessante. 

La risposta provvisoria che mi sono dato è che il crocefisso è un simbolo, e la maggior parte dei laici italiani ha sempre pensato (a torto o a ragione) che i simboli fossero obiettivi secondari, sovrastrutture. Ciò che contava veramente era la lotta per il controllo dei mezzi di produzione, le riforme agrarie, il diritto allo sciopero: cose del genere. Anzi, forse in certi casi ci si poteva pure mettere d’accordo coi cattolici, lasciar loro i simboli e ottenere in cambio qualche concessione. Non sto dicendo che sia stato un buon affare, però le cose sono andate così. Lo stesso Mussolini, ex-socialista ateista e mangiapreti, quando si è ritrovato al potere è sceso a patti col Vaticano e, in cambio di un quartierino Oltretevere e un’ora di cattolicesimo in tutte le scuole del Regno, ha ottenuto il sostegno di tutte le parrocchie d’Italia.

Questo pezzo ti farà incazzare perché ti porrà la questione più o meno come se la deve essere posta Mussolini: se ci tengono davvero così tanto, a quei due legnetti, se li tengano. Vale la pena, per due legnetti, litigare con una parte cospicua del Paese? C’è il rischio di saldare una destra reazionaria, per la quale il crocefisso è un simbolo d’identità, con un centro moderato e solidale, per il quale rappresenta invece la pietà. A Salvini certo non dispiacerebbe, a noi tocca inventarci qualcosa di diverso.

Io un’idea ce l’avrei: se i cattolici e gli identitari ci tengono tanto al crocefisso, adottiamolo anche noi. Facciamolo nostro, tanto quanto è loro: i simboli sono di tutti, non c’è nessun marchio registrato. Portiamolo in giro per i cortei, gay pride inclusi. Raccontiamo che il Cristo in Croce è un simbolo di apertura al diverso, di pace, di democrazia, di qualunque cosa. D’altronde, è cristiano ma anche ebreo, e questo è certo; ma è anche un po’ musulmano (artificioso, ma plausibile) e buddista, jainista e indù, che tanto quelli riciclano tutto. E anche laico, perché no: dopotutto, quando gli chiesero se bisognava pagare i tributi a Cesare, Gesù rispose “Date a Cesare quel che è di Cesare”, senza chiedere esenzioni fiscali. E se anche non lo avesse detto non importa, non è che bisogna per forza citare i vangeli. Facciamo quello che fecero i cristiani coi simboli pagani: quelli che non riuscivano a distruggere, li assorbivano. Trasformarono sorgenti sacre in sorgenti miracolose, templi a Iside in battisteri, rune solari in crocefissi. Il Dio Sole vinceva le tenebre tre giorni dopo il solstizio d’inverno e loro decisero, senza preoccuparsi di consultare i vangeli, che anche Gesù era nato proprio quel 25 dicembre: che straordinaria coincidenza. Insomma, se il crocefisso non ci piace, facciamocelo piacere. Evitiamo che sia usato per isolarci, mescoliamo le acque, tentiamo un’infiltrazione.

È solo una proposta, e probabilmente ti ha fatto incazzare. Va bene così. Incazzati con me, magari ti servirà a trovare una soluzione al problema, qualcosa che fin qui non era ancora venuto in mente a nessuno.
Comments (5)

Perché la paghetta agli insegnanti non ha funzionato?

Permalink
[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Sono giorni convulsi in libreria. Molti stanno per partire per le vacanze, molti non chiuderanno le valigie soddisfatti se prima non saranno riusciti a infilarci venti chili di volumi freschi di stampa, da consumare sotto l'ombrellone. Ma non è questo il vero motivo per cui c'è una coda alla cassa. In nove casi su dieci la fila ha preso forma dietro un acquirente che ha chiesto se può pagare con la Carta Del Docente.

Il cassiere trattiene un sospiro. La Carta Del Docente, certamente, si accomodi. Ma a quel punto il cliente, un prof sulla cinquantina, deve: estrarre il cellulare, entrare nell'app che stampa i buoni, procedere con l'autenticazione, lagnarsi perché in quella libreria il cellulare non prende (fenomeno interessante e ancora poco studiato: molte librerie italiane sono angoli ciechi della rete satellitare. Forse perché sorgono in edifici storici; forse tonnellate di fogli pressati filtrano le radiazioni in modi che la scienza ancora non conosce; forse l'elettromagnetismo ci sta dando un ultimatum: o me o i libri di Cazzullo). A quel punto di solito il cassiere invita il docente a spegnere e riaccendere, o fare due passi in strada, in certi casi l'app riparte. Ma stavolta no, stavolta è proprio giù il server del Ministero. Passa un commesso, ammette che è due giorni che è così. Da quando i sindacati hanno consigliato gli insegnanti di spendere tutto il bonus il prima possibile o almeno entro il 31 agosto.

Non è il caso di farsi prendere dal panico. L'allarme dei sindacati è rientrato in poche ore, il ministero ha già fatto sapere che i soldi non spesi in agosto saranno riaccreditati, come l'anno scorso, in autunno. Salvo imprevisti, gli insegnanti avranno i loro 500 euro a disposizione anche nel 2018/19. Eppure c'è stato un momento, forse solo una mezza giornata, in cui la Carta del Docente se l'è vista brutta. A fine giugno, i senatori 5Stelle della Commissione Cultura avevano messo nero su bianco che il Bonus era una mancia elettorale, una "misura estemporanea e demagogica che non ha alcun effetto positivo a lungo termine", uno "spreco di risorse preziose". In quel momento magari la priorità era marcare la differenza con la passata gestione. In seguito potrebbero essere maturate altre considerazioni. Il M5S è un po' in affanno in questa prima fase del governo Conte; gli insegnanti sono un segmento delicato del loro successo elettorale; molti venivano dal PD e potrebbero tornare all'ovile: meglio non tagliar loro la paghetta. Il guaio delle mance elettorali è che si trasformano quasi subito in privilegi acquisiti. Elargirle è facile, ma non ti fa necessariamente vincere le elezioni. Tagliarle è più difficile e te le fa perdere di sicuro. E così anche l'anno prossimo avremo code a fine luglio in libreria, ai botteghini del cinema, del teatro, ovunque il prof potrebbe pagare con il Bonus, se solo riuscisse ad autenticarsi, se solo ci fosse rete nel locale, se solo il server ministeriale non fosse appena andato giù...

È difficile criticare la Carta del Docente. Se sei un insegnante (io lo sono), dai la sensazione di sputare nel piatto dove ti hanno offerto il dessert. Con tutti i problemi che ci sono al mondo. C'è un nuovo governo che chiude i porti ai naufraghi e io ancora me la prendo perché Renzi mi allungava 500 euro all'anno per il cinema e i libri. Mi rendo conto. Credo comunque che occorra parlarne, proprio perché qualcosa qui è andato storto davvero. Gli insegnanti erano per il PD di Renzi un settore strategico – almeno quelli a tempo indeterminato. A un certo punto doveva aver calcolato di averli tutti dalla sua parte. Prima gli 80 euro al mese, poi il bonus cultura: non parliamo di fumose riforme o vacui discorsi sulla dignità e l'autorevolezza e blablablà: parliamo di contanti in busta. Gli altri chiacchieravano, Renzi sborsava cash. Certo, di tutto questo ai precari non arrivava nulla, ma gli insegnanti di ruolo avrebbero dovuto erigere altari a Renzi nelle scuole di ogni ordine e grado, di fianco a tutte le macchinette del caffè. Se non è successo, vale la pena di chiedersi il perché. Riuscire a farsi detestare dalle persone a cui aumenti la paga è un'impresa notevole, che merita un approfondimento. In attesa di studi seri, tutto quel che posso fare è contribuire con qualche ipotesi, qualche sensazione captata tra la sala insegnanti e la libreria.


La prima sensazione che riesco a captare, forte e chiara, è l'odio profondo per la maledetta app... (continua su TheVision).

La prima sensazione che ricevo, forte e chiara, è l’odio profondo per la maledetta app che si pianta proprio nel momento in cui ti serve, che dimentica la password, che ti trasforma in un analfabeta digitale davanti a tutti quando sei davanti alla cassa e vorresti soltanto fuggire il più lontano possibile col tuo malloppo di cultura. In realtà il software del Ministero non è così male, il problema è a monte: i docenti di ruolo italiani sono i più anziani d’Europa. Metà di loro ha passato i cinquanta, e da parecchio. Li avete presente, i cinquantenni con gli smartphone, sì? Anche se la procedura della carta del docente fosse la più semplice del mondo (e non lo è), è chiaro che per loro sarà comunque faticosa. Non dovrebbe essere impossibile: dopotutto è gente che nel giro di cinque anni è passata senza troppi patemi dal registro cartaceo a quello digitale. Tant’è che poi la maggior parte di loro ce l’ha fatta: ormai portano anche il tablet in classe – molti lo hanno comprato proprio grazie al bonus. Con un po’ di sforzo, di tempo, e una rete wifi decente, ecco spuntare dallo smartphone il voucher richiesto; parte di questo tempo se ne va anche a imprecare contro Renzi, che poteva semplicemente accreditarci 500 euro: in fondo cosa sono 500 euro per un dipendente pubblico? Quaranta euro al mese.

Una paghetta, insomma. Non a caso l’altra categoria a cui il governo Renzi decise di erogarla erano i diciottenni. Ora, se all’improvviso regali 500 euro a un diciottenne, il minimo che tu possa aspettarti è un po’ di umana gratitudine (attenderai invano, ma è un altro discorso). Ma se eroghi gli stessi 500 euro a un tuo dipendente – uno che magari aspetta da anni il rinnovo del contratto – lui può anche sentirsi preso in giro. La paghetta, che a 18 anni è una gran cosa, a 55 è un’umiliazione. In generale l’adulto è convinto di sapere gestire i propri soldi, senza bisogno che il governo controlli che li spenda in libri e teatro anziché in dolciumi e balocchi. Questo a mio parere è stato il vero errore: trattare gli insegnanti come i loro eterni avversari, i ragazzini. Del resto, questo tipo di bonus voleva essere anche un sostegno all’industria culturale. A inventarlo e proporlo a Renzi fu Marco Lodoli, uno scrittore/insegnante – un caso abbastanza frequente di conflitto d’interessi: chi al mattino insegna e la sera scrive forse non può evitare di pensare che il mondo sarebbe migliore se i colleghi che al mattino insegnano, la sera leggessero i suoi libri.

In controluce s’intuisce una concezione un po’ antica della classe docente: non una categoria professionale che deve adeguarsi a determinati standard e meritare il rispetto dei datori di lavoro e degli utenti, ma una casta di spiriti eletti. Un po’ frustrati dalle incombenze mattiniere, celebrano la loro identità leggendo libri, andando al cinema o in teatro e facendo tutte quelle cose che dovrebbero elevare gli intellettuali. Ma gli insegnanti oggi non sono più così. Non sono giovani, è vero, ma neanche avanzi di scuola crociana: senza scomodare il famigerato ’68, molte cose sono cambiate negli ultimi decenni. Insegnare è faticoso, prende tempo, non è che te ne avanzi così tanto per fare la clacque in un teatro che senza i tuoi biglietti chiuderebbe, o per leggere libri che non hanno a che vedere con il tuo aggiornamento professionale. Noi docenti non siamo il serbatoio di riserva di spettatori e lettori che salverà l’industria culturale italiana. O forse sì, ma non ci piace essere considerati il parco buoi dell’editoria. Siamo adulti, abbiamo le nostre esigenze, senz’altro ci piace leggere libri e qualche volta ci viene pure voglia di frequentare luoghi affascinanti e desueti come il cinema o il teatro. Non è che quaranta euro al mese di voucher ci facciano schifo, ma forse chi pensava di comprarci così, ci ha un po’ sottovalutato.
Comments
See Older Posts ...