Monica (non molla mai)

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27 agosto - Santa Monica (331-387), madre e maestra di Sant'Agostino

Quell'ubriacona di tua madre. Di tutti i colpi bassi, quello che l'eretico Giuliano tentò con Agostino rimane memorabile. In mezzo a una lunga polemica sul peccato e la grazia, buttò lì quel dettaglio: tua madre beveva. L'hai scritto tu, no? In effetti era stato lo stesso Agostino ad aver raccontato l'aneddoto nelle Confessioni, con quel suo tipico gusto per le inezie e i peccatucci infantili che però rivelano la personalità più dei grandi gesti, che lo mette nel solco di Freud con quel millennio e mezzo d'anticipo: da bambina, quando i genitori la mandavano in cantina a prendere un'anfora di quello buono, Monica suggeva il vino di nascosto. Aveva iniziato per curiosità, vincendo la repulsione, per poi prenderci gusto - finché la tata non l'aveva presa di petto: uno choc. Il vino è dolce, ma non compensa la vergogna di una schiava che ti dà dell'ubriacona. Da lì in poi aveva smesso, quasi smesso di bere, e soprattutto di provare curiosità per i vizi di questo mondo. Per compiere una rinuncia simile suo figlio, il grande dottore della Chiesa, avrebbe dovuto aspettare i trentatré anni. Rispondendo a Giuliano, Agostino abbozzò qualcosa del tipo 'lascia stare mia madre, non ti ha fatto niente di male', quasi una finta, e poi il gancio sinistro: "Io al contrario tengo in onore i tuoi genitori come Cristiani cattolici e mi rallegro con essi che siano morti prima di vederti eretico".

Il figlio lo fa Alessandro Preziosi (poi invecchia e diventa Franco Nero).
Il figlio lo fa Alessandro Preziosi (poi invecchia e diventa Franco Nero).
Monica non avrebbe potuto morire prima di vedere Agostino santo. E però fu proprio Monica a scegliere di non battezzarlo da bambino; decisione di cui il santo la rimprovera anche da morta. Dietro a questa scelta c'era probabilmente una consapevolezza: Agostino non era pronto. Il battesimo dei primi secoli non era una semplice formalità: poteva trasformare un peccatore in un santo. Ma cosa succedeva se poi il santo si rimetteva a peccare? C'erano varie opinioni, ma Monica non se la sentiva di rischiare. Conosceva troppo bene suo figlio. Io succhiai il cristianesimo con il latte materno, racconta Agostino (e anche qui il freudiano va in estasi). Ma forse succhiò anche quella curiosità per il proibito che Monica aveva sentito nelle vene sin da bambina. La famosa battuta di Agostino - Dio dammi la santità, ma non subito - in fondo è farina sua. Figlio mio, sarai dottore, sarai santo, ma tra un po': adesso studia, bevi, divertiti. Basta che non mi porti in casa quella lì.

L'estasi di Ostia. Conversando riuscirono ad avere un'idea di Dio, poi lei si mise a letto e decise che poteva morire.
L'estasi di Ostia. Conversando riuscirono ad avere un'idea di Dio, poi lei si mise a letto e decise che poteva morire.
Monica, si è soliti dire, seguì Agostino dappertutto, anche quando lui fuggiva in Italia e la piantava in asso al porto di Cartagine con una scusa. Monica è l'unico vero amore della sua vita... Ecco, forse no. Monica è solo quella che ha vinto, e ha ottenuto che delle altre si cancellasse il nome. Ma non è sempre stata quella presenza silenziosa e sollecita che ci immaginiamo in un angolo del suo studio, a rosicchiare paternostri, o in cucina a preparare gli snack per i compagni di meditazione. Quando il giovane Agostino era tornato da Cartagine con una laurea, non l'aveva voluto ricevere. È perché si era convertito al manicheismo, dicono. Sì, certo, un figlio manicheo era senz'altro una sciagura (erano i grillini del tempo, avevano un'opinione su tutto ed era quasi sempre una sciocchezza). Ma c'è anche quel piccolo dettaglio che nel frattempo Agostino si era preso una concubina e ci aveva fatto un figlio.

Mah, vecchia così probabilmente non lo fu mai. Morì a 56 anni.
Mah, vecchia così probabilmente
non lo fu mai. Morì a 56 anni.
Quella concubina, di cui nelle Confessioni non si fa il nome, fu la vera avversaria di Santa Monica, per quindici lunghissimi anni. C'era anche lei quella sera che al porto Agostino disse: beh, mamma, devo aspettare un amico, partiamo domattina, tu nel frattempo va pure a rilassarti e pregare in quella chiesa laggiù. E mentre Monica venerava il suo San Cipriano, Agostino salpava in fretta e furia con figlio e concubina. Ce l'aveva fatta. Aveva troncato il cordone, a 29 anni. In Italia lo aspettava senz'altro una brillante carriera accademica.  Si sarebbe sposato, chissà, magari proprio con la madre di suo figlio.

In effetti non è chiaro il perché non si sia mai voluto sposare, anche quando la madre era ormai lontana. Questioni di status, dicono. Ma anche Agostino non era di estrazione nobile; il fatto che abbia succhiato fede e latte dal seno materno suggerisce che la famiglia non si potesse permettere di metterlo a balia (oppure è solo una bella frase da scrivere nella propria autobiografia). Forse i due si erano uniti, ma con un rito manicheo che in seguito Agostino preferì disconoscere. Forse, anche al di là del Mediterraneo, la minaccia di essere diseredato lo bloccava. Certo, Monica sognava per lui un matrimonio in salita. Lo pretendeva. Lui e il padre, l'irruente Patrizio, gli avevano garantito un'educazione di primo livello, un po' al di sopra delle proprie possibilità. Anche da vedova Monica non aveva smesso di svenarsi e credere nelle potenzialità del figlio. E lui finiva per intrupparsi con quei cialtroni dei manichei, si faceva incastrare da una di quelli, e scappava. Era intollerabile. Tempo un anno, e Monica lo aveva raggiunto al di qua del mare. A quel punto fu la concubina a far bagagli e tornare in Africa.

Nel frattempo Agostino aveva definitivamente troncato coi manichei, e forse aveva già conosciuto il suo padre spirituale, Ambrogio. Era pronto per convertirsi, quasi pronto, doveva soltanto... peccare un altro po'. Monica intanto si dava da fare a trovargli un buon partito, una ragazzina fresca che "piaceva a tutti", scrive (a tutti chi? alla madre, evidentemente). Era tuttavia un po' troppo giovane, e così in attesa che arrivasse all'età giusta, Agostino si prese una concubina di transizione. E la madre non gli disse niente. Pecca pure un altro po', tanto poi ti battezzi. Il problema dunque non era il peccato in sé. Pecca pure, ma non con quella. Cosa aveva quella di intollerabile? La fede manichea? Forse.

Un po' troppo pallida, però l'espressione secondo me è quella giusta.
 Un po' troppo pallida, però l'espressione
secondo me è quella giusta.
O forse Agostino la amava davvero. Forse era lei, non Mani, non Cicerone, l'unica vera contendente seria al cuore del ragazzo. Monica poteva chiudere gli occhi su qualsiasi bravata ed eresia passeggera, ma lei andava eliminata. "Quando mi fu strappata dal fianco", scrive, "il mio cuore ne fu profondamente lacerato e sanguinò a lungo".

"Essa partì per l'Africa, facendoti voto di non conoscere nessun altro uomo  e lasciando con me il figlio naturale avuto da lei".

E Monica, la vincitrice. Del resto "il figlio di tante lacrime non può andar perso" le aveva detto un maestro a Cartagine, esasperato dalle sue confidenze: vincerai tu, piangendo. Monica che piange, Monica che prega, Monica che combina matrimoni, Monica che durante le meditazioni serve gli aperitivi, poi il figlio le dice resta con noi, parlaci della sapienza, e lei snocciola due o tre banalità che però, osserva il figlio, sono esattamente il nucleo dell'insegnamento ciceroniano... Qualcun altro avrebbe dedotto che Cicerone è un filosofo superficiale, per Agostino era naturalmente il contrario. Tanti anni passati a studiare, per scoprire che sua madre in cucina ne sapeva di più.

Monica che non si dà per vinta mai. Monica che al figlio perdona tutto, quasi tutto, ma al termine di ogni avventura e infatuazione si fa sempre trovare a casa. Monica la berbera, a cui è facile assegnare le fattezze di una di quelle signore olivastre e minute che escono velate al pomeriggio, col figlio maschio in braccio anche a quattro anni. Monica non è un dottore della Chiesa, ma il sospetto è che più che suo figlio o Ambrogio il cristianesimo lo abbia rifondato lei. Una religione di mamme sollecite e soffocanti, che non ti mollano mai, finché rimbalzi di qua e di là nel mediterraneo. La mamma italiana, ma anche tunisina, che differenza fa. Puoi studiare, far carriera, e tutte le storie che vuoi: ma loro sono lì che ti aspettano al varco, al primo cedimento, col biberon pronto che non hanno mai smesso di riempire, di scaldare, dove scappi? dove credi di scappare? non c'è Roma, non c'è Milano, ovunque è Tagaste.
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Il santo a quattro zampe

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26 agosto - San Guinefort, cane, vittima del suo padrone (XIII secolo).

guinefort cartolina[2013] "Oggi è san bastardino", diceva l'anno scorso Luca Laurenti in uno spot contro l'abbandono dei cani in autostrada. È un gioco di parole abbastanza insulso; eppure per una bizzarra coincidenza il cosiddetto "esodo estivo" coincide più o meno con la Canicola latina, grosso modo il periodo tra il 24 luglio e il 26 agosto in cui Sirio, la stella più brillante del Cane Maggiore (e del firmamento) sorge nel cielo boreale appena prima dell'alba. L'associazione tra Sirio e il migliore amico dell'uomo è antichissima, o perlomeno si è diffusa in popoli e culture assai distanti: pellerossa nordamericani, cinesi, inuit. Anche per i latini "Canicula", cucciolotto, era un sinonimo di Sirio. In seguito divenne sinonimo di afa, siccità, vacanze al mare, abbandono degli animali domestici. Il cane è probabilmente il primo animale che abbiamo addomesticato, più o meno trentamila anni fa, dopo che per qualche tempo branchi di canidi avevano cominciato a vivere nei pressi degli insediamenti umani, offrendo un servizio di allarme contro le incursioni dei grossi predatori in cambio di qualche buon osso da rosicchiare: e magari davano una mano anche a scacciare topi e bisce. Nella grotta di Chauvet, dipartimento dell'Ardèche, Francia meridionale, ci sono tracce di un cane e di un bambino che camminano assieme 28.000 anni fa. Così è abbastanza appropriato che l'unico animale a essere stato venerato (abusivamente) come santo sia un cane: San Guinefort, un levriero vissuto plausibilmente nel XIII secolo a Villars-les-Dombes. Siamo ancora nella valle del Rodano, a non troppi chilometri dalla grotta di Chauvet; e anche stavolta accanto al cane c'è un bambino.

GuinefortLa storia, anzi leggenda, c'è stata tramandata da Stefano di Borbone, l'inquisitore domenicano che decise di stroncarne il culto. Un giorno il castellano tornando a casa non trova il figliolino nella culla, ma tracce di sangue dappertutto e soprattutto addosso al cane. Folle d'ira, lo trafigge con la spada: il levriero non offre resistenza al suo padrone, ma proprio mentre esala l'ultimo guaito il castellano ode il pianto flebile del neonato: è sotto il letto, illeso! E in mano ha... che schifo... una vipera morsicata. Dunque è andata così: una vipera voleva mordere il bambino, il prode levriero Guinefort aveva ingaggiato contro di lui una lotta sanguinosa, vincendola: ma poi era arrivato il padrone e non aveva capito niente, povero Guinefort. Il castellano lo seppellì con tutti gli onori, sotto un cespuglio al quale vennero presto attribuite guarigioni miracolose. Ai tempi dare una sepoltura di un certo rilievo a un animale domestico era più discutibile di oggi, e forse questo contribuì alla diffusione della storia. Che ha tutta l'aria di una leggenda, perché diciamolo: quanto sangue puoi perdere mentre ti azzuffi con una vipera? Mica ti stacca la carne a morsi. Magari fu tutta un'invenzione del castellano che voleva coprire la sua infamia: chissà, magari lo aveva trafitto perché voleva andare in villeggiatura in Borgogna e non sapeva a chi affidarlo. San Guinefort guariva le patologie infantili: chi aveva un bambino malato deponeva un ex voto presso l'antico cespuglio. L'inquisitore non ci mise molto a fiutare l'idolatria: fece sradicare il cespuglio, riesumare e bruciare i resti del levriero, chiudere il sito al pubblico. A chi vi si recava venivano requisite tutte le proprietà.

Ma in zona non smisero mai di invocare San Guinefort. Per evitare guai con l'inquisizione lo rivestirono di panni umani, approfittando dell'omonimia con altri santi Guineforti, tra i quali uno originario della Scozia e sepolto a Pavia. La Chiesa romana ribadì la sua condanna negli anni trenta del secolo scorso, il che significa che nel 1930 qualcuno ancora invocava il santo cane. La cui storia magari vi ricorda qualcosa, ma cosa? Pensateci bene...

Esatto, Beverly Hills Chihuahua 2! Bravi!
bhc2No, scherzo, e spero che vi sia venuto in mente prima Lilly e il Vagabondo: la sequenza del ratto. È una scena piuttosto violenta ed esplicita - come del resto tutto il film, il primo capolavoro disneyano del dopoguerra. Già al tempo la Disney si stava ponendo il problema di offrire a un pubblico spaccato in due (bambini e genitori) un prodotto leggibile su due livelli, e Lady and the Tramp rappresenta uno dei risultati più estremi. Il Ratto nella versione finale è veramente orrendo, lontano anni luce dall'immagine paffuta dei topi di cartoon dei tempi. Il Vagabondo, senza tanti complimenti, lo uccide.

Non è il primo personaggio disneyano che uccide un animale - chiedete a Bambi - ma il Vagabondo è un personaggio positivo. Ed è un maledetto sciupafemmine. Tutti si ricordano la scena iconica dello spaghetto, ma ce n'è un'altra formidabile in cui si svegliano insieme il mattino dopo nella tana di lui, ed è chiaro a ogni spettatore adulto (e anche a qualche bambino) che hanno passato la notte a fare sesso. Due personaggi dinsneyani! Sesso! Senza prima sposarsi! Anzi al primo appuntamento! Sesso con un vagabondo sciupafemmine e assassino! E Walt Disney diede il via libera a tutto ciò. Erano tempi diversi.

Lady and the Tramp

Ieri non sapevo come finire il pezzo e così me ne sono andato a letto. Mi ha svegliato un cane con un uggiolìo così triste e umano che l'ho subito riconosciuto. Qualche cagnetta dev'essere andata in calore, proprio nella notte della levata eliaca di Sirio - la festa di San Guinefort Cane, e dell'altro santo mezzo cane, Cristoforo. Io non è che me ne intenda molto di canidi, ho dato un'occhiata su internet e so che vanno in estro due volte all'anno (il lupo una volta sola), ma non so se ci vadano tutti proprio adesso. Però le classiche cagnare estive me le ricordo. Curiosamente mi davano noia anche da bambino, quando in fondo svegliarsi nel bel mezzo della notte non doveva essere un così grosso problema. Ma una volta c'era un bastardino disperato che continuava a uggiolare tutta notte, l'avrei ammazzato. Decisi di ammazzarlo davvero.

Era un botolo tranquillo, e siccome pensava solo al sesso, era facile avvicinarlo. Io e mio cugino gli allacciammo una corda al collo e lo portammo verso il fiume. Stavamo andando a buttare un cane nel fiume. Lo stavamo facendo davvero. Non avevamo mai ucciso qualcosa di più grosso di una mosca, e adesso avremmo ucciso un cane bastardo. Camminavamo a ritroso su una strada che avevano percorso i nostri progenitori trentamila anni fa, non lo sapevamo. Non sapevamo neanche che cosa tremenda fosse essere sessualmente eccitati tutto il tempo, non avere nient'altro in testa. Non potevamo provare nessuna solidarietà, era una settimana che guaiva tutte le notti, lo volevamo morto. Lui per la verità era abbastanza contento del diversivo, ci seguiva docilmente. Passammo l'argine, arrivammo in riva al fiume, lo slegammo e afferrammo per le zampe, lo buttammo giù.

Lui da principio ci rimase un po' male - mi ricordo la sua smorfia di canina sorpresa - ma poi zampettò nell'acqua stagna e arrivò dall'altra parte, scrollandosi e godendosi l'improvviso refrigerio. A fine luglio il Secchia era un rigagnolo, non lo avevamo calcolato. Non ci avresti annegato una biscia. "Guardalo, sta meglio di noi", disse mio cugino. Io mi misi a ridere, o forse no.

Forse ci misi qualche anno a riderci su. Stavo per ammazzare un cane, lo stavo facendo davvero. San Guinefort, se puoi perdonami. Proteggi i miei piccolini dalle bisce e dai topi e dalle cazzate che combina papà. Nelle lunghe notti di desiderio, che nessuno mai mi metta un cappio al collo e mi porti più in là di dove voglio andare. Non dico che non lo meriterei. Dico solo: pietà.
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Meglio meglio meglio meglio meglio meglio sììì

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6. Hey Jude (Lennon-McCartney, singolo del 1968).


Ehi Jude, non prendertela a male. Dopo il divorzio Cynthia Powell Lennon visse ancora per un po' nel villino a Weybridge con Julian, che nel 1967 aveva cinque anni: l'età di Please Please Me. Un giorno di giugno ricevettero una visita di Paul McCartney. "Io e Paul ogni tanto facevamo qualche giro assieme – più di quanto capitasse con papà. Eravamo molto amici e sembra che ci siano molte più foto di me e Paul che giochiamo assieme a quell'età, che foto di me e mio padre". Paul porta in dono una canzone per Julian – dice che gli è venuta in mente in macchina. Possiamo almanaccare su cosa Paul potrebbe avere ascoltato, durante quel tragitto in macchina – probabilmente nulla, ci vuole silenzio per immaginare una canzone. Oppure potrebbe essersi sintonizzato per un attimo su una frequenza che trasmetteva musica classica e catturato i primi secondi del Te Deum di John Ireland (malgrado il nome, è un compositore inglese del Novecento). Per poi cambiare stazione all'improvviso e incappare in un vecchio classico dei Drifters, Save the Last Dance For Me. O in Elvis Presley che cantava It's Now or Never, ovvero O Sole Mio. La canzone che Paul invece fa sentire a Cynthia e Julian sul pianoforte di casa si chiama Hey Jules ed è un invito a lasciarsi alle spalle un dolore. Probabilmente non contiene ancora il verso "the moment you let her under your skin", non molto adeguato al dramma di un bambino che sta vivendo la separazione dei genitori; sappiamo comunque che Cynthia si commuove. Julien scoprirà solo vent'anni più tardi che Paul McCartney ha scritto Hey Jude per lui. Sempre che sia così vero...

Prendi una canzone triste e falla migliore. Da altre testimonianze sappiamo in effetti che in quel periodo Paul sta facendo ascoltare questa canzone a tutti quelli che incontra. Durante un viaggio di lavoro gli capita di suonarla nel pub di paese nel Bedfordshire. La suona ai Bonzo Dog Band mentre sta lavorando al loro singolo (I'm the Urban Spaceman); ai futuri Badfinger nel primo giorno di prove. Bonzo e Badfinger sono della scuderia Apple, per cui non c'è il rischio che gli rubino il pezzo; ma a Paul capita di suonarlo anche durante una sessione dei Barron Knights, vecchi amici ma comunque concorrenti. Forse Paul voleva assicurarsi, come ai tempi di Yesterday, che la canzone non fosse già in circolazione. Oltre ai Drifters e all'attacco del Te Deum, nel bridge Paul riprende una progressione che aveva avuto modo di ammirare in un grande successo di qualche mese prima, A Whiter Shade of Pale dei Procul Harum – una progressione ripresa dalla cosiddetta Aria sulla IV corda di Bach, già adombrata da Lennon in A Day In the Life. È un buon bridge – in generale Bach non è uno che ti lascia a piedi – ma Paul sente che manca ancora qualcosa e aggiunge una breve frase da cantare all'unisono con gli strumenti: "Da da da da da, da da da..." Per la coda invece ha in mente un giro di tre accordi, su cui cantare un'altra breve frase in coro. Parte in Fa, cade un tono indietro (Mi bemolle), raggiunge il Si bemolle, ritorna in Fa. Quando il coro ripete il Na Na Na sul Mi bemolle, introduce una lieve dissonanza che si risolve trionfalmente col ritorno al punto di partenza ("so let it out and let it in"): è un trucco che a un bambino viene voglia di ripetere all'infinito. Paul sta cantando a quel bambino, o forse vuole essere quel bambino ("don't you know that it's just you"?) È un buon segno. Hey Jude diventa l'ennesima metacanzone: Paul prende un motivo vagamente triste, e lo trasforma qualcosa di migliore ("better, better, better, yeah!")

Fino a Hello Goodbye, Paul si era divertito a prendere canzoni semplici e aggiungere digressioni e abbellimenti, ottenendo oggetti pregiati ma che potevano risultare artefatti. Con Hey Jude il procedimento è capovolto: Paul parte da riferimenti colti, ma si dà da fare quanto possibile per occultarli, per semplificare il più possibile il quadro, rendendolo accessibile a tutti, praticabile da tutti. Tutti devono cantare Hey Jude, tutti devono sentire che la canzone parla di loro. A Whiter Shade of Pale comincia con un riff di organo che fa urlare "Bach" anche a chi non ha mai sentito un disco di musica classica. Con Hey Jude non ti succede: Paul non ha necessità di farsi bello coi riferimenti culturali, è passata la fase in cui ci teneva a mostrare che ascoltava Vivaldi. Di Bach non gli interessa la parrucca, ma quel senso di serenità che infonde la contemplazione degli ingranaggi musicali dell'universo, l'effetto che la musica barocca infonde all'ascoltatore. Hey Jude è la canzone della maturità: più che giusto che Paul si immagini di cantarla al figlio che non aveva avuto, ma John sì.


Un negozio distrutto durante la Notte dei cristalli,
10 novembre 1938 (OFF/AFP/Getty Images)

Tu sei stato fatto per trovarla. Strada facendo "Hey Jules" era diventato "Hey Jude" che secondo Paul, "suonava meglio". Ci si mette un po' a capire perché – Jude non è un nome molto usato, ma proprio per questo è più difficile associarlo a qualcuno. Addirittura può riferirsi a un uomo, "Jude", ma anche a una Judith. D'altro canto se un nome è poco usato un motivo c'è, e Paul senz'altro non rifletté abbastanza quando gli venne in mente di spennellare il nome del singolo in imminente uscita sulle vetrine della boutique Apple appena chiusa in Baker Street. La comunità ebraica protestò formalmente; qualcuno la infranse con una sassata, provvidenzialmente, prima che fossero scattate troppe foto. "Non avevo la minima idea che Jude volesse dire ebreo" spiegò poi Paul; eppure un po' di tedesco doveva masticarlo (ai tempi di Amburgo avrebbe potuto persino vedere qualche traccia di vernice sui vecchi intonachi, se a noi capita di vedere ancora il nero Credere Obbedire Combattere sotto la ritinteggiatura di su qualche muro storico). Una delle caratteristiche che rendono simili i due grandi singoli mccartneyani del 1968-69 è il riaffiorare di un immaginario cattolico che Paul aveva sepolto sotto tonnellate di rock'n'roll. Magari è una coincidenza, ma in Let It Be c'è una Madre Maria, mentre Hey Jude porta il nome del discepolo che tradì Gesù Cristo. Come Gesù, Paul deve accettare il tradimento, “secondo quanto stabilito”, Luca 22,22. Bisogna anche dire che ci sono due Giuda tra i discepoli: uno tradisce, l'altro è di buon cuore, tanto che viene soprannominato Taddeo o Lebbeo. È il patrono dei casi disperati. Gli è attribuita una Lettera del Nuovo Testamento, un invito alla Chiesa a non smarrire l'unità, a non disperdersi in sette, a non mollare la band per inseguire il miraggio di un idillio famigliare, (quest'ultima cosa me la sono appena inventata ma probabilmente tutta la lettera è apocrifa).

Allora qui ci sono Brian Jones, Yoko Ono, John Lennon e il figlio Julian, Eric Clapton e Roger Daltrey agli Internel Studios di Stonebridge Park, Wembley nel 1968 (Hulton Archive/Getty Images)

Ma non capisci che sei tu? A differenza di Martha, la cui canzone avrebbe potuto offendere qualche ragazza ignara di chiamarsi come il bobtail di Paul, o Julia, una canzone che indicava una persona precisa e unica al mondo (in realtà due persone), Jude deve essere chiunque. E in effetti, chiunque ci si è riconosciuto. Non solo Julian, ma persino il padre. Ancora nel 1980, John era convinto che Paul, "inconsciamente", stesse cantando a lui, di lui, per lui: "l'hai trovata, ora va' e prendila". Il buffo è che quando aveva provato a dirglielo, "Ehi, questo sono io", Paul aveva risposto: "no, sono io". È un momento delicato: John ha divorziato e sta con Yoko, Paul è stato lasciato pubblicamente da Jane Asher, ma non sta ancora uscendo con Linda. In quel periodo passa molto tempo con Francie Schwartz, l'aspirante scrittrice che Jane gli aveva trovato nel letto arrivando in Cavendish Avenue nel momento sbagliato, e che gli diede una mano a spennellare “Hey Jude” sulle vetrine. Paul a volte se la prende con se agli studi di Abbey Road, proprio come John fa con Yoko. E per un breve periodo, dormono tutti e quattro in Cavendish Avenue. Paul ha rotto con Jane, John con Cynthia. Entrambi sono un po' Giuda; nessuno dei due particolarmente Taddeo.

Perciò falla uscire e falla entrare. Paul è combattuto; vorrebbe andar d'accordo con tutti, andare a trovare Cynthia e Julian e ospitare John e Yoko, ma questa persona venuta dall'altra parte del mondo a portargli via il socio non può non spaventarlo. Secondo l'unica testimonianza di Francie Schwartz, un giorno Lennon trova un bigliettino di Paul che forse voleva essere divertente (“YOU AND YOUR JAP TART THINK YOU’RE HOT SHIT”) e invece lo manda nei matti: lui e Yoko faranno subito i bagagli. Lennon aveva la tendenza a ritenersi il centro dell'universo, ma bisogna ammettere che "you're waiting for someone to perform with" è uno di quei mccartneyismi disarmanti e rivelatori: chi fino a quel momento in una canzone aveva mai pensato di definire un rapporto a due come una "performance"? d'altro canto John si era appena messa con una performing artist. Paul in Yoko aveva riconosciuto qualcosa di cui fino a quel momento non sapeva nemmeno di avere bisogno: una compagna di vita e di lavoro. John l'aveva conosciuta – e a quel punto i Beatles per lui avevano perso gran parte del senso. Paul no, e forse per il bene del gruppo sarebbe stato meglio non conoscerla mai. Eppure a questo punto Paul sospettava di averne bisogno. Si trattava soltanto d'incontrarla: nel frattempo la canzone era pronta.
Oppure l'aveva già incontrata (qui nel 1967 a una conferenza stampa per Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band.
Non ti portare il mondo sulle spalle. Per uno dei soliti paradossi, la canzone che Paul voleva suonare nel modo più semplice possibile fu la prima che i Beatles registrarono su un'apparecchiatura a otto piste, ai Trident Studios. Il risultato fu un sovrappiù di agitazione di cui la band non aveva bisogno. Gli orchestrali furono particolarmente sgarbati, come non risultava succedesse ad Abbey Road. Stavolta la partitura era così semplice che forse risultò offensiva. Paul li esortava dicendo "li volete i soldi o no?" Per convincerli a battere le mani nel finale gli si dovette offrire uno straordinario. Paul ammette di essersi comportato da "boss" in quell'occasione. Del resto i Beatles erano un'industria: occorreva rassicurare la clientela affezionata e i potenziali investitori. L'ultimo singolo non era stato un successo eccezionale. La boutique era stata quasi uno scherzo, da un punto di vista beatle; un flop con un pessimo ritorno d'immagine da un punto di vista imprenditoriale. Il viaggio in India aveva fatto discutere; il divorzio di John fa discutere ancora oggi. Serviva un segnale potente e Paul sapeva bene che segnale gli si chiedeva: un singolo che rimettesse in chiaro chi era la band più importante del mondo. Dopo averla suonata in lungo e in largo a parenti e amici, Paul aveva chiarissima l'immagine che la canzone avrebbe avuto: e nella sua chiarissima immagine non era previsto un ruolo per la chitarra solista. Quando Harrison propose di entrare nella strofa con un contrappunto, Paul disse semplicemente di no e George, altrettanto semplicemente, se ne andò. I tentativi di Paul di salvare il gruppo lo stavano sgretolando dall'interno.

Better better better better better better aaaaah! La lunga coda di Hey Jude è un anti-jam: invece di sfrenare gli strumenti, tutto si ripete senza sensazionali variazioni. Solo le urla di Paul creano un diversivo, ma non sono nemmeno in evidenza. Una volta svanito l'effetto sorpresa, non ci sarebbe bisogno di proseguire: ma è come se la band non riuscisse a smettere. Ancora un altro giro, dai, che ci fa sentire bene. Dopo un po' dovrebbe sfumare. In effetti comincia a sfumare, ma è un trucco: va ancora avanti per due minuti, e in totale ne occupa quattro su sette (qualcuno ci ha voluto vedere la proporzione aurea). George Martin era perplesso: un singolo così lungo le radio non l'avrebbero suonato. "Lo suoneranno, se siamo noi". Qualcuno attribuisce a Hey Jude la responsabilità delle derive sinfoniche del rock anni '70, i dischi concepiti come lunghe suite quasi sempre strumentali. Hey Jude è un segno dei suoi tempi: c'è ancora qualcosa degli anni '50 (i Drifters), c'è quel gusto retrò della seconda metà degli anni '60 che aveva portato alla riscoperta delle progressioni barocche; c'è un'idea – lungamente accarezzata dai Beatles – di realizzare canzoni come mantra, mandala musicali senza inizio e senza fine. Un'idea che viene da oriente ma che Paul depura da ogni elemento esotico: un altro messaggio che vuole dare agli investitori è che le follie indiane sono finite.



Il momento in cui la fai entrare sottopelle. Il disco alla fine venne esattamente come doveva venire. Paul era così entusiasta che portò una copia provvisoria alla festa dei Rolling Stones per il lancio di Beggars' Banquet (secondo alcuni rovinandola). Quando i Beatles suonarono Hey Jude in uno studio televisivo, erano di nuovo tutti e quattro assieme: anche Ringo, dopo essersi preso due settimane di ferie, era di nuovo al suo posto. Lennon scherzava, scambiava con Paul cenni di intesa che tutti erano felici di vedere: prove tangibili che la canzone non gli dispiaceva e che i Beatles esistevano ancora. E allo stesso tempo era pur sempre John: dopo la breve presentazione di David Frost, un attimo prima che le telecamere stacchino per il break pubblicitario, lo sentiamo urlare fuori campo "IT'S NOW OR NEVER". Forse un riferimento alla rarità dell'evento (ora o mai più!), già sottolineata da Frost? (in effetti fu l'unica occasione per i telespettatori di vederli suonare assieme nel 1968 e nel 1969, anche se a parte Paul erano in playback). Oppure il presagio di un possibile scioglimento? Ma più semplicemente John aveva scoperto una delle fonti inconsce di Paul, e non resisteva all'impulso di rivelarla in diretta: se la prima parte del ritornello di Hey Jude ricorda il Te Deum di Ireland, la seconda parte suona molto simile a It's Now or Never, ovvero a O sole mio 

Il movimento che ti serve è sulla tua spalla. Mi è capitato spesso in questi mesi di esprimere riserve su tanti mccartneyismi: versi involuti, scritti alla svelta e mai più rivisti, che Paul non riusciva a nascondere sotto l'alibi del surrealismo come il più sfacciato compagno. Lo stesso Paul era consapevole di non avere sempre le migliori parole a portata di mano. Magari gli sarebbe servito un piccolo aiuto da parte di John, ma ecco: a John certi mccartneyismi piacevano. Forse lo rassicuravano sulla sua maggiore caratura di paroliere, o forse in certi casi riusciva a capire Paul molto meglio di Paul stesso, molto meglio di noi. "The movement you need is on your shoulder" è un mccartneyismo che Paul sentiva di dover cambiare ("suona come se avesse un pappagallo sulle spalla"), mentre per John era "il miglior verso della canzone". È anche possibile che scherzasse, o che volesse dirgli che il resto della canzone aveva persino meno senso. Il risultato fu che Paul mantenne il verso, e da quel momento, ogni volta che lo canta, dietro quella spalla sente John, e ogni volta si commuove. Non dovrebbe? Adesso lo sai che sono soltanto dei folli quelli che non lo fanno, rendendo il mondo un posto un po' più freddo.
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Bart, il più nudo di tutti

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24 agosto - San Bartolomeo Apostolo (primo secolo).

"Figlio del guerriero vittorioso, figlio di colui che ascolta, dall'anima semplice e pura".
[2012]. Avete mai conosciuto un Bart Simpson? Credo di sì. Ne conosciamo tutti uno. È un ragazzino a tratti svogliato, a tratti iperattivo, dal quale possiamo aspettarci azioni di efferata crudeltà e insospettabile eroismo. Se poi ha pure i capelli a spazzola e gira in skate, magari c'è capitato di chiamarlo Bartsimpson. C'è una possibilità non remota che un giorno, quando il cartone animato oggi più famoso al mondo sarà solo una curiosità per archivisti, bartsimpson resista come sostantivo - se ce l'hanno fatta mecenate e donchisciotte, perché no? Persino gianburrasca ha avuto una chance. Chi dice "casanova" quasi mai ha letto l'Histoire de ma vie; chi userà in una lingua del futuro "bartsimpson" per dire "bimbo iperattivo" non saprà nulla del vero Bart, della sua infanzia difficile, del tormentato rapporto col padre, il bullismo subito a scuola, le umiliazioni... bartsmpson non sarà più un discorso, ma solo una parola. E non ha nessuna importanza che questa parola conservi la traccia di secoli di discorsi.

"Bartolomeo" è un ibrido curioso. "Bar" è una particella aramaica che si usa per costruire il patronimico (vuole dire "figlio di"), mentre "Tolomeo", è un nome greco con una lunga storia che riassume tutta l'era ellenistica: è il nome del generale macedone che segue Alessandro il Grande in capo al mondo, per ritrovarsi alla fine in Egitto e fondare l'ultima dinastia dei faraoni. In realtà esiste anche il nome "Talmai" in ebraico e in aramaico, però non è da escludere la possibilità che il nome sia diventato popolare nell'area medio-orientale con la diffusione dell'ellenismo, quella forma antica di globalizzazione a cui gli ebrei avevano opposto il loro senso di appartenenza a una tradizione e a un unico Dio. Ai tempi di Gesù comunque ormai la lingua dei colonizzatori, il greco, era penetrata fino ai patronimici, fino a saldarsi con le particelle aramaiche. Quando compaiono nomi come "Bartolomeo", tu capisci che il melting pot ha funzionato. Quindi Bar-T è il "figlio di un guerriero" (quanti secoli di significato in quella misera T). Ed è "Simpson", ovvero figlio dei semplici - ma questa è l'etimologia più superficiale. In realtà "Simp-" è una corruzione dell'anglo "Simme", che può essere sia la versione nordica dell'ebraico "Simon" (colui che ascolta), sia una corruzione di Sigmund. In questo caso "Sig" starebbe per vittoria, "mund" per uomo, e Simpson significherebbe: figlio dell'uomo vittorioso. In una lingua impossibile, che mantenesse il ricordo di tutti significati transitati da ogni sillaba, "Bart" e "Simpson" sarebbero quasi sinonimi: figlio del guerriero, figlio del vincitore. Come due fratelli che ignorano di esserlo, pur vivendo a fianco da una vita. Solo dimenticandosi della loro origine possono funzionare assieme. E in effetti Matt Groening quel giorno non aveva la minima idea degli ingredienti che stava mescolando: scelse Bart forse perché anagramma di "brat", e "Simpson" era il cognome perfetto per una famiglia di sempliciotti. Inventare una parola significa strapparla a viva forza da un contesto, e darle un senso nuovo.

Insisto sul nome perché del San Bartolomeo evangelico non conosciamo molto di più. La sua popolarità passa dalla tradizione figurativa, grazie alla tradizione che lo vuole martirizzato in un modo che più spettacolare non si può: scuoiato vivo. Dove come e quando non si sa, o meglio, lo sanno tutti, ma nessuno va d'accordo: chi dice Armenia, chi India, ma il supplizio era tipico dei persiani, o dei Medi, insomma boh. Quel che importa agli artisti è che gli abbiano levato la pelle, perché un martire nudo, ancorché mutilato o abbrustolito, sono capaci di buttarlo giù tutti, ma uno scorticato, con la muscolatura in evidenza... come scriveva Alberto Savinio è "per gli scultori ciò che il Trillo del diavolo è per i violinisti": il pezzo di bravura, il puro virtuosismo. Anche se oggi il primo Bartolomeo che viene in mente a tutti è quello del Giudizio di Michelangelo, che mostra la roncola al Gesù trionfante con aria un po' recriminatoria, e non mostra tendini all'aria né budella a penzoloni, perché nel giorno del giudizio ci si presenta con tutte le membra a posto; d'altronde è noto che ai martiri gli organi mutilati rispuntano immediatamente, ad Agata i seni, a Giovanni Damasceno la mano e così via. Così il Bart in questione ha due pelli: quella scorticata nel martirio la tiene in mano, e tutti sappiamo che dovrebbe raffigurare Michelangelo scorticato dai suoi critici (oppure Pietro Aretino, oppure in realtà non ne sappiamo niente, salvo che prima e dopo il martirio Bart sembra aver cambiato di fisionomia: il che mi spinge ad avanzare una timida candidatura per il patrono dei sottoposti a interventi estetici).

Made by Marco d'A, bitches
Se però di Storia dell'arte vi intendete almeno un po' sapete che il vero San Bartolomeo per eccellenza, il pezzo di bravura, il tour de force, è quello scolpito da Marco d'Agrate, che sta all'interno del Duomo di Milano. Un bel martire tutto muscoli, che si passa la pellaccia scuoiata sulle pudenda e dietro il collo a mo' di asciugamano, un pugile che contempla la vittoria. Marco d'Agrate è vissuto nel Cinquecento, e non ha fatto tantissimo altro. Però ai suoi tempi la statua dello scorticato era considerata uno dei massimi capolavori della scultura mondiale. Lui stesso ne era consapevole, al punto da mettere nel piedistallo una firma che è un capolavoro di ambrosiana spacconeria (in un secolo, poi, in cui tanti Maestri assoluti non si firmavano nemmeno): NON PRAXITELES, SED MARC(VS) FINXIT AGRAT(ENSIS). Non so se ci siamo spiegati. No, non è Prassitele (lo scultore classico più celebre, il non plus ultra, oggi diremmo Michelangelo), non lo ha scolpito lui... ma Marco d'Agrate. Ed era così. Lo scorticato era la frontiera ultima della rappresentazione, in un periodo in cui sezionare i corpi continuava a essere una pratica a forte rischio di scomunica. Siamo tra Rinascimento e Maniera, e c'è ancora nell'aria l'idea che l'arte debba soprattutto raffigurare. Tutto. Il più fedelmente possibile. Nel Giudizio Michelangelo aveva denudato il cielo e la terra: cosa restava da fare? Levare la pelle. Marco doveva avere la sensazione di aver toccato il vertice  ultimo della sua arte: da una parte c'era Prassitele, dall'altra lui.

Oggi la gente che entra in Duomo gli passa davanti senza fermarsi. Non è cambiato semplicemente il gusto, ma la stessa idea di arte. La tendenza era già chiara quando passò Stendhal: al cicerone che gli faceva notare il capolavoro, lo scrittore arricciò il naso: ma che ci fa questa volgarità? Non starebbe meglio in un anfiteatro di anatomia? Sono passati tre secoli, e scienza e arte hanno preso due strade diverse. Raffigurare scrupolosamente il corpo umano non è più l'obiettivo degli artisti, i modellini anatomici vengono prodotti in serie, San Bartolomeo rimane lì per inerzia, ma i turisti preferiscono la madonnina placcata oro.
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Rosa l'autoreclusa

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23 agosto - Santa Rosa da Lima, vergine (1586-1617)

Il volto di Santa Rosa, ricostruito dal grafico Cícero Moraes
a partire dal cranio, custodito in un convento di Lima., via Wiki.

[2016]. Isabel da Lima, decima di tredici figli, ribattezzata "Rosa" per la tenerezza dell'incarnato che in America Latina più che altrove era indizio di origini europee e quindi di bellezza e nobiltà (anche se secondo un'agiografia fu proprio una serva india a chiamarla così) (secondo un'altra fu il vescovo che la cresimò) (chi le ha contate dice che in giro ci sono 400 agiografie diverse di Santa Rosa patrona di Lima) (e comunque il cambio di nome fu ratificato da una visione mariana) Isabel da Lima, dicevo, a vent'anni si fece costruire una casetta nel cortile di famiglia e non volle più uscirne.

Da bambina aveva letto di Caterina da Siena, che volendo restare sola con Dio, invece di entrare in un convento era rimasta a casa coi suoi: Isabel scelse di seguirne le orme. Caterina da Siena morì di digiuni e anche Rosa non arrivò a compiere 32 anni. È patrona di Filippine, India, Perù, Spilamberto (MO), giardinieri e fioristi: ma voi vi preoccupate del burqini.

(No a voi del burqini non frega più niente, forse non sapete neanche di cosa si tratta) (è in sostanza una muta per nuotare, come quelle che indossano molti surfisti nei mari più freddi, ma siccome è pensata per un pubblico musulmano che vuole andare in spiaggia senza spogliarsi, ha preso questo nome che francamente ripensandoci è agghiacciante: burqa+bikini=burqini) (nel 2016, quando mi misi a scrivere questo pezzo, da più di due settimane non si parlava d'altro, che nostalgia) (vi ricordate di quando negli aeroporti avevamo paura dei bagagli e non della gente).

No, avete ragione. Il burqini è senz'altro un argomento più fresco. Cosa importa se da una parete vi pende ancora un calendario affollato di nomi di vergini anoressiche che spesso sfidarono l'autorità famigliare per autorecludersi a vita: ieri era ieri, oggi è oggi, e dalla Storia non s'impara mai niente. In questi giorni leggo molto discorsi che cominciano per "noi" o per "loro". Noi siamo quelli liberi di stare in ispiaggia come vogliamo. Noi il velo ce lo siamo tolto, salvo le nostre suore che però lo sono per libera scelta, mentre chi si infila un burqini no. Tra parentesi: voi l'avete mai vista davvero una bagnante in burqini? Io due o tre in Francia o in Turchia. In nessuno dei casi era accompagnata da un maschio barbuto e arcigno che la sorvegliava. Ok, tre episodi non fanno statistica. Ma insomma ho il sospetto che molti siano convinti che il meccanismo della prevaricazione funzioni sempre nel modo più banale: se qualcuno le costringe a portare un velo, noi le obblighiamo a togliersi il velo e saranno libere. Però se fossimo entrati con la forza nella casa di Isabel, se avessimo scardinato la porta della sua cella, lei non sarebbe uscita. Nessuno l'aveva rinchiusa con la forza: nessuno riusciva a farla uscire. Per Isabel la libertà era dentro la cella, la gioia era recitare maratone di rosari e strimpellare laude alla chitarra: evadere sarebbe stata una costrizione. Nel Giappone di oggi il fenomeno degli adolescenti che rifiutano di uscire di casa si chiama hikikomori.

chitarra
Ah vabbe' ma si era portata la chitarra. Anch'io probabilmente sono rimasto tappato in casa qualche anno con la chitarra (poi per fortuna hanno inventato l'internet).
D'accordo, Isabel-Rosa era una vittima dei tempi, del patriarcato, ecc.. Ma come la maggior parte delle vittime, aveva interiorizzato la propria condizione. Era stata condannata dalla società prima ancora che nascesse, ma il carcere se l'era fatto costruire su misura.

A me piace che nelle spiagge ci siano persone molto diverse da me. La spiaggia è il luogo in cui ho imparato da bambino che esistono gli stranieri, esistono i mutilati e infinite altre forme di diversità. Ultimamente vedo molti tatuaggi, una forma di creatività per la quale ho una repulsione fortissima, pre-razionale, chi può mi perdoni. Se avessi passato gli ultimi vent'anni in coma, e se al risveglio mi avessero raccontato che il Pessimo Gusto è salito al potere e costringe la gente a tatuarsi contro la propria volontà, ci crederei: voglio dire, per crederci mi basta andare fare due passi in ispiaggia. Se poi qualcuno mi dicesse: no, guarda che queste frasette motivazionali o queste cornicette da diario delle medie me li sono iniettati sottopelle a mie spese, è stata una mia libera decisione che ho deciso di difendere finché campo, io scrollerei la testa: è quel che ti costringono a credere, dai. Sei solo una vittima, anche se non hai il coraggio di ammetterlo. Se una persona mi dice che si mette il velo per libera scelta, sono libero di non crederci. Ma se invece di manifestare il mio scetticismo le strappo il velo, o le ordino di non presentarsi più in ispiaggia o a scuola, cosa ottengo? Isabel, ti ordino di uscire dal convento.

Io credo che molte donne che si bagnano in burqini non sappiano cosa si perdono. Cosa posso fare per convincerle a cambiare idea e costumi? Se le vieto di bagnarsi, in un colpo solo avrò ammesso che il loro abbigliamento mi fa paura, e che la *nostra* spiaggia non le vuole. Se ne staranno in casa, magari si radicalizzeranno, non un gran risultato. Se invece la tollero, le do la possibilità di passare un po' di tempo con tanta altra gente che ha costumi diversi dai suoi. Questo non le cambierà necessariamente idea, però io non sottovaluterei l'effetto che ti può fare una spiaggia libera e aperta a tutti, che ti accoglie e non ti giudica. Certo, sappiamo che in altri Paesi (quelli sulla frontiera della radicalizzazione) l'introduzione del burqini ottiene l'effetto opposto. Tre anni fa ce n'era un paio, poi quindici, e ora chi non si copre da capo a piedi preferisce stare a casa. È il rischio che corri se credi nella tolleranza.

Universitarie a Kabul negli anni Ottanta - quando in città c'erano, uhm, i filosovietici e Reagan, ehm, sosteneva i mujahidin di Bin Laden.
Universitarie a Kabul negli anni Ottanta - quando in città governavano, uhm, i filosovietici, e Reagan, ehm, sosteneva i mujahidin di Bin Laden.
Avete mai discusso con una donna che porta il velo – esclusa vostra nonna? (La mia lo metteva sempre per uscire di casa, salvo che lo chiamava "foulard") (non lo metteva per una questione religiosa, o per tranquillizzare suo marito che, per quel che mi ricordo, era l'uomo più tranquillo e buono del mondo) (lo metteva perché era una signora sposata e quello era il costume. Era la Bassa, era il 1980) (quando pubblicate le foto delle studentesse di Kabul a capo scoperto negli stessi anni, che sono in effetti molto interessanti, ricordate che l'Afganistan è molto grande e che la condizione delle donne sposate nelle regioni montuose era probabilmente molto diversa). A causa della mia professione io ho un approccio piuttosto particolare all'Islam femminile, insomma, ne discuto soltanto con studentesse minorenni, un campione abbastanza bizzarro. Intorno al velo c'è un equivoco strano: siccome a noi occidentali evoca il monacato, diamo per scontato che le ragazze si velino per una questione di umiltà (in certi casi è davvero così).

Poi in seconda le vediamo contemporaneamente imparare a sistemarsi un nijab elegante e fare i primi esperimenti col rossetto, e rimaniamo interdetti (giuro, io ho visto preadolescenti in pantaloni di pelle e nijab). Non ci viene in mente che l'indumento, prima ancora dell'Islam e del patriarcato, rappresenti il passaggio all'età adulta – e che quindi una tredicenne lo possa sbandierare con orgoglio. Tengo alle mie radici! Credo nel mio Dio! Ma soprattutto, raga, ho avuto il ciclo. Io a tredici anni ho fatto cose più cretine. Per farmi notare? Anche. Per sentirmi diverso? Mi sono sempre sentito diverso. Mi sembrava che qualcosa o qualcuno mi spingesse fuori dal mucchio, mi obbligasse a trovare una mia identità. Leggevo libri, bevevo cose, giravo di notte, scrivevo cose orrende sui muri, pregavo e adoravo il mio Dio. Se mi ritrovassi davanti, mi prenderei certo a schiaffoni. Prenderei tutti a schiaffoni: chi si copre il capo e chi vuole abolire i copricapi; scorticherei i tatuatori nelle pubbliche piazze. Ma siccome non posso prendermela con me stesso, siccome con quel tredicenne cretino devo convivere, non posso nemmeno prendersela con gli altri. Per me la tolleranza è questo. Non è detto che funzioni. Le crociate, per contro, si è visto molto bene che non funzionano.

Rosa da Lima era considerata la prima santa sudamericana, finché non attecchì la leggenda di Juan Diego Cuauhtlatoatzin, l'atzeco che avrebbe fotografato la Madonna della Guadalupe.
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Tu sai se ci credo e come

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7. Something (Harrison, Abbey Road, 1969).

Quando si parla di Something risulta inevitabile citare Frank Sinatra, che la incise due volte e la considerava "una delle migliori canzoni degli ultimi 50 anni". Una volta, con inconsapevole malignità, la definì la migliore canzone di Lennon e McCartney, il che è buffo ma non del tutto falso: avrebbe mai potuto scrivere e incidere Something, George Harrison, senza l'esempio dei due colleghi e la sfida che gli ponevano?




In linea di massima tenderei a fidarmi del vecchio Frank, che da Cole Porter in poi ne ha cantate davvero tante. Neppure lui tuttavia è riuscito dove i più grandi interpreti hanno fallito, ovvero a imporre la sua Something su quella dei Beatles. Nessuno ce l'ha fatta – e ci hanno provato in tanti. Yesterday sta sul Guiness dei Primati come canzone più interpretata, e anche Something si difende molto bene. Ma le versioni più ascoltate restano quelle originali. Forse per qualche anno la With a Little Help di Joe Cocker è rimasta competitiva rispetto a quella cantata da Ringo. Ma sulla distanza i Beatles vincono sempre.

Se qualcuno avrebbe potuto farcela però era proprio Sinatra. Non solo era il cantante più famoso del mondo (scusa Elvis), ma aveva scelto un brano un po' meno beatlesiano di altri: un brano che lo stesso Harrison per molto tempo non credeva adatto ai Quattro. A differenza di While My Guitar, che era già praticamente pronta all'inizio dei lavori del Disco Bianco, Something ebbe un'incubazione più lunga. Harrison cominciò a sentirsela in testa durante le sessioni del Disco Bianco, e per qualche tempo sperimentò l'angoscia provata da McCartney con Yesterday: la canzone era già troppo ben formata per non essere già stata composta e suonata da qualcuno. In ogni caso, non sarebbe stato facile proporla agli altri Tre: in un primo momento Harrison pensava piuttosto di scrivere un brano per il suo protetto, Jackie Lomax. In seguito la propose a Joe Cocker. Ma ancora nel gennaio del 1969, quando si rivede con gli altri tre nei Twickenham Studios, il brano non è finito. George rimane bloccato per mesi sul verso "attracts me like..." (Lennon a un certo punto gli suggerisce; "a cauliflower": mi attira come un cavolfiore. Harrison ci ride sopra ma alla fine conserva la rima: "no other lover").

Forse è un segno di quanto credesse nella canzone, di una certa ritrosia a lasciarla andare del tutto. Una volta incise le canzoni, non ci puoi più fare niente: se una parola non ti piace, non c'è più modo di cambiarla. George lo scoprì proprio quando in concerto tentò di cambiare le parole di Something: non si può più, la gente protesta. E anche le note, se non sono proprio quelle giuste, una volta incise non ci sarà niente da fare: la gente vorrà sentire quelle. A George dava noia il fraseggio del basso di Paul, la sua solita smania per occupare tutto lo spazio che si sarebbe potuto lasciare al silenzio. Troppo tardi, nella testa di ogni beatleomane Something è perfetta così, con quel basso ingombrante.

A chi insisteva a chiedergli se la canzone fosse dedicata alla moglie Pattie, Harrison rispondeva: stavo pensando a Ray Charles. Dopo il breve riff introduttivo che sembra voler mettere a fuoco un'immagine, la strofa di Something si muove intorno allo stesso gioco sperimentato con successo in While My Guitar, la linea di basso discendente; si ferma per un intervallo drammatico "I don't want to leave her now, You know I believe and now" e poi cambia chiave, di nuovo con un basso discendente: "You're asking me, will my love grow?" Qui c'è quel salto di tempo che Harrison aveva già chiaro nel demo, che testimonia la stessa insofferenza nei confronti della forma canzone occidentale espressa in Here Comes the Sun: George ha voglia di venire al dunque. La seconda strofa è dedicata al suo migliore assolo: se la chitarra di Clapton in While My Guitar gemeva, in Something la chitarra di Harrison si anima, discute, si domanda che senso ha innamorarsi e infine si abbandona al sentimento, un attimo prima di riassestarsi la cravatta e riprendere il riff con cui si era presentata all'inizio.
Harrison riprende a cantare e se volessimo cominciare ad annoiarci, questo è il momento: ormai abbiamo sentito strofa, bridge e assolo, si sa che per convenzione le canzoni devono andare avanti ancora almeno per un altro bridge, anche se ormai quello che si doveva sentire si è sentito. Non abbiamo fatto in tempo a formulare questo pensiero che abbiamo di nuovo il riff davanti: ci saluta e ci congeda, la canzone è finita.


George ci ha risparmiato il secondo bridge: un piccolo regalo per aver creduto in lui. Forse ci ha lasciato insoddisfatti, ma forse è il motivo per cui stiamo già per rimetterci ad ascoltare Something. Un brano che forse condivide con Yesterday l'archetipo di partenza (Georgia On My Mind), ma sembra lasciato volutamente incompleto, con fessure e irregolarità che la fanno sembrare più fragile di quanto non sia davvero. Il motivo per cui poi per cinquant'anni tutti hanno riprovato a inciderla, e nessuno è riuscito a fare di meglio del fragile George forse risiede in questo: subiscono tutti la tentazione di correggerla, di stabilizzarla, di trasformarla in uno standard. Il che ha perfettamente senso e forse era anche l'intenzione iniziale di George, quando pensava di farla incidere a qualcun altro. Ma ciò che rende unica Something è proprio "il modo in cui si muove", quel tipo di bellezza che trae forza dalle sue imperfezioni. Come il sorriso di Pattie Boyd, con quella fessura tra i grandi incisivi centrali.
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Con tutti questi errori, di sicuro stiamo imparando

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8. While My Guitar Gently Weeps (George Harrison, The Beatles, 1968).

Con tutti gli errori che facciamo, di sicuro stiamo imparando tantissimo. Tutto il narcisismo e la competitività di cui erano capaci non avevano mai impedito a Paul McCartney e John Lennon di riconoscere una buona canzone del rivale, quando la sentivano. Era una questione di priorità: difendere la propria individualità creativa veniva molto dopo l'opportunità di incidere buone canzoni (e guadagnarci). Il più critico dei due, Lennon, non aveva nulla da eccepire al fatto che McCartney incidesse cose smaccatamente mccartneyane come Michelle o Hey Jude. Purché fossero buone canzoni. E allora com'è possibile che né John né Paul non si siano accorti subito di che bomba George Harrison stava per sganciare? Non ci sono scusanti: la versione incisa e Esher all'inizio dei lavori è già completa in sé: più svelta, ma molto più vicina al risultato finale di altri abbozzi proposti dai colleghi. Sembra già molto promettente. Ma una volta arrivati ad Abbey Road, George scoprì che gli altri due non la stavano prendendo seriamente. Non riusciva a coinvolgerli, non ci credevano. Cosa impediva di riconoscere in While My Guitar un pezzo forte dell'album in lavorazione? Cosa non riuscivano a sentire, che a noi invece risulta così evidente? 

While My Guitar segna il ritorno di Harrison alla strumentazione occidentale, dopo un'avventura indiana che lo aveva coinvolto sempre più intensamente dalla fine del 1965 fino al soggiorno di Rikikesh, nel resort di Maharishi. Non è escluso che le cattive vibrazioni sperimentate in quell'occasione possano aver indotto Harrison a rivolgere di nuovo il volto a ovest, ma bisogna aggiungere che Harrison non smise mai di praticare la meditazione, né di collaborare con Ravi Shankar: tracce della sua esperienza indiana rimarranno iscritte indelebilmente nel suo stile chitarristico. Harrison smise di portare il sitar nei dischi dei Beatles perché ormai lo stava prendendo troppo sul serio, e tutta quella serietà non si adeguava all'universo giocoso dei Beatles. La decisione di rimettersi a scrivere pezzi rock per una rock'n'roll band avrebbe complicato un equilibrio sempre più fragile. John e Paul avevano sempre incoraggiato e appoggiato le sue sperimentazioni. Ai suoi raga e ai suoi mantra avevano ritagliato un ghetto dorato in Sgt Pepper. Un George che si rimetteva a scrivere pezzi rock invece suscitava diffidenze. Eppure George non faceva che rielaborare gli stessi stimoli che Paul e John avevano avuto durante il soggiorno indiano. Anche lui come loro si era trovato un po' più spesso del solito con una chitarra in braccio e ne aveva approfittato per arricchire il suo stile di fingerpicking. La strofa di While My Guitar è un esempio di scuola di descending bassline, il trucco semplice e potente intorno al quale McCartney aveva scritto Michelle (una vaga traccia dello stesso trucco si trova nel bridge di un brano proposto da George Harrison ai colleghi addirittura nel 1964, You Know What To Do). Anche Lennon aveva portato un brano acustico costruito intorno a una linea di basso discendente, Cry Baby Cry. In italiano di solito traduciamo "cry" e "weep" con lo stesso verbo, ma "cry" si usa per i pianti molesti che ci svegliano nel cuore della notte, "weep" per i singhiozzi sommessi. "Gently cry" non avrebbe senso: "gently weep" fu un'espressione che George trovò aprendo una pagina di libro a caso, come fosse un I-Ching. Qualcun altro a quel punto si sarebbe calato in un personaggio che piange, ma George non amava fare spettacolo dei suoi sentimenti: a piangere dolcemente sarebbe stata la chitarra: un'ottima idea per una metacanzone (e anche una strategia per rimettere in primo piano il suo strumento). 


La strofa di While My Guitar, nelle sue versioni acustiche, ricorda ancora irresistibilmente The House Of the Rising Sun: la discesa del basso, un capotasto alla volta, è un'analogia musicale alla discesa del protagonista nel vizio e nella perdizione. È una suggestione a cui lo stesso Harrison non riesce a sottrarsi: in While My Guitar riaffiora la sua vena moralistica, pur disturbata da un gusto un po' importuno per i giochi di parole "I looked on the floor and I note it needs s-weeping". Così come John è il maestro della prima persona (nel senso che parla quasi sempre di sé) e Paul della terza (si inventa sempre personaggi), George della seconda (si sta sempre rivolgendo a qualcuno, molto spesso in tono polemico). È un atteggiamento che esplode nella strofa, che pure abbina a una melodia molto più conciliante una serie di sentenze senza appello: nessuno ti ha spiegato come distendere il tuo amore, sei stato pervertito, allontanato, invertito, venduto e comprato, non so il perché ma è andata così. La musica sembra molto più tollerante di quanto non ci autorizza a pensare il testo: lo stesso George non era sempre il moralista introverso che rischiava di rappresentare in pubblico. Una volta constatato il boicottaggio più o meno consapevole dei colleghi, avrebbe potuto chiudersi a riccio e cominciare a pensare a una carriera solista che appariva ormai inevitabile, o destinare While My Guitar a qualche altro artista della scuderia che stava allevando in seno alla Apple. Ebbe un'idea migliore: invitò Eric Clapton alle prove, gli cedette l'assolo di chitarra piangente che avrebbe dovuto essere il fulcro del brano. Bastò questo a scuotere dal torpore Lennon e soprattutto McCartney, che alla fine ebbe una buona idea per l'introduzione, quel tasto di pianoforte che suona come la campana del destino. 

Un'altra impronta indelebile di Paul è il fraseggio del basso nella strofa, un prestito doo-wop quasi parodistico che lascia un senso di straniamento: altrettanto parodistica suona la sua breve scala ascendente tra strofa e ritornello, da addebitare alla sua fobia per il vuoto, l'ossessione per non lasciare mai nascosto nessun collegamento tra due accordi. A Harrison probabilmente non piaceva (la si sente molto meno in qualsiasi sua versione successiva). Eppure è uno degli elementi più beatlesiani del brano: ci aiuta a ricordarci che malgrado Clapton stia suonando uno dei suoi assoli migliori siamo ancora in un brano dei Beatles, in uno scherzo, in una festa. Non tutti si stanno divertendo: qualcuno in sottofondo sta singhiozzando... ma è ancora una festa.
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Il dottor Miele e il prof Golia

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20 agosto - San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), mistico antipatico

[2013]. L'estate sta finendo, l'autostima è sotto i livelli di guardia? Il mistico Bernardo di Chiaravalle ci può aiutare. Nel suo trattato De diligendo Deo, Bernardo ci spiega come raggiungere il più puro amore per noi stessi, attraverso un lungo percorso che può prendere la vita intera. Dunque: in un primo momento noi ci amiamo, perché il nostro amore non può avere altri obiettivi, visto che conosciamo soltanto noi stessi; o meglio, crediamo di conoscerci. Ma presto ci rendiamo conto di non essere autosufficienti, e allora cominciamo a rivolgere il nostro amore a chi ci ha creato e ci sostenta, ovvero Dio. È il Secondo Stadio: amiamo Dio perché ne abbiamo bisogno, allo stesso modo in cui amiamo la mamma perché è un'estensione della tetta che ci nutre, egoismo puro. Ma è comunque amore, un punto di partenza. E nel frattempo cominciamo a ridimensionare il nostro ego, a renderci conto di quanto siamo piccoli, e così arriviamo al Terzo Stadio - quello a cui ragionevolmente possiamo puntare noi miseri peccatori: l'amore di Dio per Dio. Cioè non amiamo più Dio per i doni che ci fa, ma amiamo Dio perché è bellissimo in quanto Dio. E qui si fermano praticamente tutti, ammette Bernardo di Chiaravalle: il quarto stadio forse non è per i viventi. Comunque, se volete provarci, lo stadio finale prevede l'amore per sé stessi attraverso Dio. Sì, nel quarto stadio Bernardo ama Bernardo, perché è una creatura di Dio, e ciò che fa Dio non può essere che meraviglioso, sublime, cioè guarda Bernardo: non è bellissimo?

Ah, è così che ripassi la metafisica, eh?
Ah, è così che ripassi la metafisica?
In realtà è difficile da dire. Di lui ci rimane solo un po' di testa, gelosamente custodita nella cattedrale di Troyes. Il resto del corpo è stato spazzato via durante la Rivoluzione, succede. Era più facile che succedesse a Bernardo che ad altri, perché Bernardo, tanto venerato già in vita, tra tanti carismi non aveva quello della simpatia. Il tempo, in altri casi tanto equanime, non gli ha reso un buon servizio. Oggi lo si ricorda soprattutto per la famosa disputa con Pietro Abelardo, il filosofo più in voga dei suoi tempi (lui modestamente si definiva l'unico filosofo dei suoi tempi, e forse aveva ragione). Una contesa che ha un enorme valore simbolico: filosofia contro fede, scolastica contro misticismo... ma che in realtà verteva su argomenti teologici piuttosto tecnici: la solita Trinità, che Abelardo pretendeva di poter spiegare con qualche strumento filosofico, mentre Bernardo si contentava di ammirarla come un mistero della fede. Una vera e propria disputa, come ci piace immaginarla, non ci fu: Abelardo e Bernardo non si trovarono mai uno di fronte all'altro davanti a un pubblico. Come andò veramente al concilio di Sens non è ben chiaro - ognuna delle due fazioni cerca di tirare l'acqua al suo mulino - ma pare che prima dell'arrivo dell'avversario Bernardo si fosse già lavorato la giuria ecclesiastica, falsificando alcune tesi di Abelardo per accentuare l'odore di eresia. Un caso di straw man argument direttamente dal dodicesimo secolo. Il filosofo, avvertito della trappola in cui stava per ficcarsi, decise di marcar visita e annunciò che intendeva fare appello a Roma, dove sperava di avere ancora degli amici. Non doveva averne abbastanza, perché fu condannato quando era ancora in viaggio.

Abelardo trovò rifugio presso il monastero di Cluny, dove l'abate Pietro il Venerabile intercedette per lui: passò l'ultimo anno della sua vita agli arresti domiciliari, ma poteva ancora insegnare. Aveva una sessantina d'anni, vissuti intensamente. Con Eloisa non si vedeva da più di venti. Però si scrivevano ancora. Anche lui, malgrado tanto filosofare e disputare, è più famoso per aver sedotto una studentessa diciassettenne, da cui ebbe un figlio, e che poi sposò, ma che alla fine decise di spedire in convento; e soprattutto perché a quel punto lo zio di Eloisa assoldò una gang che nottetempo entrò nel suo alloggio e lo evirò. Sembra incredibile che tutto questo sia successo nello stesso secolo in cui Bernardo passa il tempo a invocare crociate, identificare eretici e ammirare Dio, o sé stesso per mezzo di Dio. Ma ad Abelardo erano successe tante altre disgraziate avventure; persino la condanna per eresia non era una novità, ne aveva già subita una con conseguente rito di abiura. Forse a Sens non andò perché era stanco di perdere sempre, contro gente che per di più non se lo meritava. Forse perché era indiscutibilmente il più bravo coi concetti, Abelardo non aveva mai accettato che le dispute si vincono soprattutto con la politica.
No, lui non ammise mai una cosa così imbarazzante.

Bernardo, per contro, negli anni Quaranta era sulla cresta dell'onda; leader dei cistercensi (benedettini integralisti), pope-maker, boccuccia melliflua e mani ancora pulite dal sangue delle crociate di cui si sarebbero sporcate in seguito. Ci fu chi lo accusò, senza mezzi termini, di aver voluto vincere facile. Benché in una lettera al Papa chiami il suo avversario "Golia", nel senso di gigante gonfio di sé, è difficile immaginarlo nel ruolo di giovane Davide armato solo di un'umile fionda. "Hai trovato Abelardo come bersaglio della tua freccia, per vomitare contro di lui tutta la tua acidità, per spazzarlo via dalla terra dei vivi... eri infiammato contro Abelardo non dallo zelo della correzione, ma dal desiderio di vendetta" (Berengario di Poitiers). Forse più che al vecchio Abelardo, troppo orgoglioso per non farsi mazzolare periodicamente da qualche inquisitore, Bernardo temeva i suoi studenti (che dal termine "Golia", forse iniziarono a essere definiti "goliardi"). Loro sì erano ancora in grado di seminare guai per mezza Europa: come quell'Arnaldo di Brescia che qualche anno dopo avrebbe teorizzato un papato privo di potere temporale, senza fermarsi alla teoria, ma profittando di una vacanza papale per fondare un libero comune a Roma. Erano tempi duri per la cristianità, come sempre d'altronde: scismi in ogni dove, papi e antipapi, che costringevano l'umile Bernardo a uscire periodicamente dal monastero che aveva fondato, a riconquistare il cuore e l'anima dei fedeli, con prediche ben calibrate ed effetti speciali (=miracoli). La gente lo amava, metteva in giro voci ancora più grosse di quanto fosse autorizzato: le api han fatto il nido nella sua bocca, la Madonna stessa lo ha allattato a distanza, ecc. ecc. Ma non andava sempre così bene. In vari centri della Linguadoca i catari, ormai maggioritari, lo buggeravano sistematicamente. Altri santi, come Domenico o Antonio, li affronteranno con più pazienza, mostrando anche una certa ammirazione per la coerenza e la serietà degli avversari. Bernardo no, a un certo punto lasciò scritto che andavano tutti sterminati, tanto non ascoltavano: erano in cattiva fede. Bernardo era già nella tomba da una decina d'anni quando il massacro dei catari cominciò. Più dirette sono le sue responsabilità nel grande flop della seconda crociata in Palestina

Fu papa Eugenio III a metterlo nei guai. All'indomani della sua consacrazione, l'umilissimo Bernardo gli scriveva ricordandogli che prima di essere papa era stato un cistercense ordinato a Chiaravalle, insomma una sua creazione: e sapete cosa si dice in giro Santità? "Che non siete voi a essere papa, ma io e ovunque, chi ha qualche problema si rivolge a me". Benissimo, ma anche Eugenio aveva un problema: Edessa (bastione crociato in Assiria) era caduta, Gerusalemme rischiava di tornare ai Saraceni in tempi brevi. Sarebbe stato uno smacco per tutta la cristianità occidentale; viceversa, una seconda crociata (a mezzo secolo dalla prima) avrebbe fortificato il prestigio della Chiesa romana e dato sfogo a un sacco di nobili riottosi. Bernardo era sensibile all'argomento: aveva già indirizzato i fondatori dell'ordine dei templari con un libretto in cui ammetteva che ammazzare i saraceni poteva essere seccante, erano anche loro creature del buon Dio. Tuttavia, non essendo desiderosi di convertirsi, ma viceversa propensi a minacciare i pellegrini nella loro stessa esistenza, non restava che farli fuori, con qualche attacco preventivo mirato. Era la teoria del "malicidio": uccidere è male, ma uccidere il male non è così male, con la quale si poteva anche giustificare a posteriori il massacro di Gerusalemme del 1099, più un'altra dozzina di spedizioni crociate nei secoli a venire. Da bravo intellettuale neocon dei suoi tempi, Bernardo si mise al servizio della propaganda crociata con la consueta dedizione: dopo le prediche gli ascoltatori gli strappavano lembi del saio, non potevano aspettare che morisse per averne una reliquia.


I'll never look into your eyes, again.
I'll never look into your eyes, again.
Per la Seconda Crociata si smossero anche le teste coronate, che non si erano fatte vedere durante la Prima: un imperatore e un Luigi di Francia, il settimo. Non servì a niente, anzi, il flop fu ancora più eclatante e Bernardo (rimasto in Francia) ne subì il contraccolpo. Scrisse che i crociati erano stati puniti per i loro peccati, e si disse disponibile a partire in testa a una terza spedizione: un bluff che nessuno gli vide mai. Cominciava ad avere un'età, anche lui. Morì a 64 anni nella sua abbazia; fu santificato vent'anni dopo; nel 1830 proclamato dottore della Chiesa. Pio XII gli dedicò una delle sue numerose encicliche, Doctor mellifluus, il dottore al gusto miele. Nella sua bocca melliflua Dante infila la preghiera a Maria, "figlia del tuo figlio", all'inizio dell'ultimo canto della Commedia. In cielo insomma il suo astro non tramonta.

Su questa terra, mah. C'è rimasta solo un po' di testa a Troyes, snobbata dai turisti. Abelardo ed Eloisa invece sono seppelliti assieme al Père-Lachaise, sì, quello di Jim Morrison. La gloria del mondo gira così.
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Così ho acceso un fuoco

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9. Norwegian Wood (This Bird Has Flown) (Lennon-McCartney, Rubber Soul, 1965).

“Una volta ho avuto una ragazza, o forse dovrei dire che è lei che ha avuto me”. Norwegian Wood è una delle canzoni che hanno più diviso il fronte degli ermeneuti beatle. Il dibattito, per semplificare, verte su due punti che Lennon ha lasciato volutamente ambigui: il letto e il fuoco, l'adulterio e il crimine. Per una delle due scuole di pensiero, John viene attirato da una fan nel suo appartamento (i mobili in "legno norvegese" erano un classico degli appartamenti degli studenti), parlano fino alle due, poi lei decide di andare a letto. Lui protesta: non sono mica venuto qui per dormire nella vasca da bagno! Nella vasca o sul divano, in ogni caso quando si sveglia la ragazza è volata via come un'allodola, e allora per vendicarsi il protagonista dà fuoco all'appartamento. Il tutto raccontato con calma, con un sitar già ipnotico in sottofondo (è la sua prima apparizione in un brano beatle). Buono, eh, questo legno norvegese?


La seconda scuola di pensiero è meno drastica. John probabilmente riesce ad accedere al letto della ragazza; l'adulterio viene consumato; qualche ora più tardi si sveglia da solo (lei glielo aveva ben detto che lavorava al mattino), e si accende una sigaretta (o magari riattizza il fuoco in un camino). Buono questo legno norvegese. Ognuno è libero di scegliere la sua versione: l'ambiguità è programmatica. Il testo è costruito con un'astuzia che eleva improvvisamente John Lennon al rango di grande narratore e poeta: la frase allusiva che incornicia la storia ("isn't it good, Norwegian wood"?), il dettaglio del protagonista che si guarda intorno e non trova una sedia, una piccola delusione che ci prepara alla delusione più grande, adombrata ma non esplicitata. Con buona pace di chi preferisce il suo materiale surrealista o lisergico, o le sue pose da profeta/rivoluzionario, Norwegian Wood rimane uno dei suoi testi meglio congegnati. Fa sorridere il pensiero che un autore tanto devoto alla sincerità abbia dato il meglio di sé quando cercava un trucco per raccontare una sveltina senza che la moglie se ne accorgesse (o sentisse la necessità di accorgersene).

Lennon vuole vantarsi di avere una vita sessuale avventurosa, ma vuole anche darci la possibilità di credere che si tratti di una storia tutta matta su un tizio che dà fuoco ai mobili compatibili. Forse quel che gli premeva dissimulare non era tanto l'adulterio, quanto la sua iniziativa. Non sono stato io a farmela, è stata lei che si è fatta me: mi ha attratto con l'inganno, ha lasciato che le ore passassero, poi ha detto che se ne andava a letto e a quel punto non c'era altra possibilità, neanche un divano! Non potevo mica dormire nella vasca da bagno, no? L'inversione dei ruoli nel rapporto amoroso era un suo pallino sin dagli esordi: vedi in It Won't Be Long il fidanzato-casalingo che si strugge nell'attesa che l'amata faccia ritorno. Negli anni ruggenti della Beatlemania, passando da un letto d'albergo a un aeroplano a uno stadio a un altro letto d'albergo, il dubbio deve averli attraversati: sono io che mi sto facendo questa ragazza, sono io che sto approfittando della sua sconfinata ammirazione? O è lei che sta approfittando della mia ingenua golosità di giovane rockstar, è lei che sta prendendo appunti per la storia che racconterà alle amiche? Si sa che ogni storia è una storia a sé. Ma dopo Drive My Car in Norwegian Wood troviamo di nuovo una ragazza che prende l'iniziativa.

Il motivo per cui la seconda interpretazione risulta più credibile dipende soprattutto dalla musica, non drammatica ma evocativa, che suggerisce l'incanto di quegli incontri fortuiti che durano poche ore e ci lasciano un ricordo vivido per la vita. Certo, possiamo anche immaginare un Lennon completamente schizzato che aspira a pieni polmoni il profumo del legno mentre brucia, Norvegia, brucia! Ma la musica ce lo descrive più facilmente mentre fissa un soffitto di una cameretta sconosciuta, confuso tra i soprammobili e i trofei di una ragazza che in quel momento sta già pensando a qualcos'altro. Sono stato io ad averla, o è stata lei? E chi lo sa. Comunque niente male, questo legno norvegese.

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Gli ho detto Sì. Sì. Sì.

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10. She Loves You (Lennon-McCartney, singolo del 1963).

Pensavi di aver perso il tuo amore? Al quarto singolo, i Beatles sono già una macchina da guerra. Non fanno prigionieri, non hanno pietà di nessuno. In particolare non hanno pietà delle ragazzine. I loro brani sono bombe in un senso non metaforico: si propagano attraverso onde sonore, e interagiscono col sistema endocrino delle adolescenti causando svenimenti, orgasmi, crisi nervose. Li coordina un ingegnere spietato, Mr George Martin: è lui il responsabile di alcuni accorgimenti decisivi, ad esempio l'idea sfacciata di cominciare col ritornello, di modo che ormai non c'è più nessun preavviso, i Beatles come le V2: un attimo prima la ragazzina sta cercando una frequenza sulla radio, un attimo dopo She Loves You Yeah Yeah Yeah è a terra in un pozzo di lacrime e altri liquidi. Ma i veri geni del male sono i due giovani membri dello staff creativo, John Lennon e Paul McCartney: immaginateli mentre incrociano le chitarre e riflettono sul loro prossimo diabolico piano. Magari si stanno chiedendo: cosa possiamo cantare ancora che stracci il cuore a un adolescente? Quali sono le parole che a quindici anni ti avrebbero reso il ragazzo / la ragazza più felice del mondo? Qual è la frase che ti avrebbe alzato tre metri da terra, che ti avrebbe fatto vedere miliardi di colori in un film in bianco e nero? Esiste una formula del genere? Pensiamoci bene.
"Ti amo"?
"No, è troppo impegnativa a quell'età".
"Dici?"
"A sedici anni? Chi è che riesce a guardarti negli occhi mentre ti dice..."
"Aspetta. Cos'hai detto?"
"Che a quell'età nessuno ti dice Ti amo negli occhi. Al massimo..."
"Te lo mandano a dire".
"Già, ti mandano un amico"
"O un'amica. Oddio".
"Stai pensando anche tu?"
"Sì".
"...quello che sto pensando io?"
"Sìììì".
"Lei ti ama?"
"Sìììì".
"Dillo di nuovo".
"Sì".
"Lei ti ama".
"Sì. Sì. Sì".
"Lei ti ama".
"Sì. Sì. Sì, Sììììììììììì".


She Loves You (Yeah, Yeah Yeah) è una bomba. Suona anche un po' come una bomba, qualche manopola quel giorno ad Abbey Road non era girata nel verso giusto, i suoni sono smarmellati in un muro del suono accidentale ma comunque efficace, caldo: ti dà la sensazione di sentirla su una vecchia radio anche se stai ascoltando la versione rimasterizzata su un Hi-fi. Non ti dà il tempo di ragionare: è una ragazza che nel parcheggio della scuola sbuca dal nulla e ti avverte che la sua amica è ancora innamorata di te. Sì. Sì. Sì. Pensavi di averla persa, ma ieri l'ho vista e mi ha spiegato cosa devo dire, dunque, ha detto che ti ama, e questo non può essere un male; anzi, dovresti esserne felice, no? Lo sai che dipende da te, io trovo che sarebbe giusto. L'orgoglio può far male anche a te, dai, scusati con lei, perché lei... ti ama. Sì cazzo sì, mi ama. Nulla è perduto, tutto ancora possibile. Tra qualche anno saremo tutti un po' più grandi, anche i Beatles non potranno evitarlo. Scusarsi diventerà sempre più difficile, e i rapporti un casino: bisognerà imparare a discutere, a vivere accanto, un inferno. Loro continueranno a fare il possibile per procurarti la tua dose di dopamina. Ti canteranno che tutto quello di cui hai bisogno e l'amore; di prendere una canzone triste e farne un inno alla gioia; ti ricorderanno che dopo la notte il sole risorge sempre. Ma la gioia pura, svergognata, di quel mattino che in un parcheggio ti hanno avvisato che Lei Ti Ama, Sì, Sì, Sì, quella tutti gli strumenti esotici al mondo e tutte le tonalità più bizzarre non l'avrebbero potuta replicare. Con un amore del genere, dovresti essere felice. Se non siete esplosi in quel momento, non c'è probabilmente nulla al mondo che possa farvi esplodere. Magari è persino un vantaggio: in tal caso buon per voi.
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