Nulla per cui impiccarsi

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2. Strawberry Fields Forever (Lennon-McCartney; singolo del 1967; poi nella versione USA di Magical Mystery Tour).



Let me take you down”. Nell'autunno del 1966, ad Almeria, John Lennon era perplesso. Stava impersonando il soldato semplice Gripweed nel nuovo film di Richard Lester, How I Won the War; per esigenze di copione aveva dovuto tagliarsi i capelli, quel casco di protezione che più di ogni altra fino a quel momento aveva distinto i membri dei Beatles dalle persone normali. Lennon, che sul set riusciva a mantenere un atteggiamento professionale, fuori dal set si sentiva a disagio; la parte della persona normale non gli riusciva. Lontano dagli altri tre Beatles per la prima volta dall'inizio della vita adulta, scopriva di non riuscire a comunicare. "Nessuno penso che sia sulla mia onda", scrisse in una canzone. "Voglio dire, devo essere troppo alto, o troppo basso". L'onda sarebbe poi diventata un albero. Il cancello in ferro battuto della villa che aveva affittato gli ricordava quello del giardino della Stazione dell'Esercito della Salvezza dove sgattaiolava da bambino per giocare tra i rampicanti. La zia Mimi ovviamente glielo proibiva. "Non mi impiccheranno per questo", rispondeva. In effetti, non c'è nulla per cui essere impiccati (“Nothing to get hung about”). 

Per essere una canzone ispirata dall'Lsd, Strawberry Fields trattiene pochissime immagini: è notevole da questo punto di vista il contrasto con l'immaginario particolarmente vivido di quel super8 a colori che è Penny Lane. Anche i riferimenti alla Liverpool dell'infanzia, il Concetto unificante del disco a cui avevano iniziato a lavorare, non sono sviluppati: più che evocare Strawberry Fields, Lennon si limita a nominarla. Certo, quel "forever" sfoggia l'ambiguità del miglior Lennon: è un augurio a seppellirsi nella memoria dell'infanzia? O forse ci sta dicendo che tutta la vita adulta è un'illusione, e che da quel campo di giochi non è mai uscito? È bastato quell'ermetico "forever" a rendere un giardino di Liverpool uno dei luoghi più evocativi della cultura pop. John non fornisce ulteriori immagini, non gli servono. Siamo convinti che una canzone psichedelica debba essere visionaria. Vecchio luogo comune della cultura pop: dove ci sono allucinogeni, immaginiamo colori violenti, illusioni ottiche, geometrie frattali e qualche oggetto retrò completamente decontestualizzato. Anche Lennon più tardi avrebbe sentito la necessità di evocare un immaginario del genere, con Lucy in the Sky. Ma nel 1966, quando comincia a lavorare alla nuova canzone, Lennon più che una visione vuole esprimere una confusione. La canzone a un certo punto s'intitola It's Not Too Bad e il testo, più che ispirato dall'Lsd, sembra la trascrizione di un soliloquio: un esercizio di scrittura automatica. Il metodo era ancora quello di She Said She Said: sballarsi e poi prendere appunti. Ma ai tempi di She Said She Said era a una festa coi suoi amici, in una situazione protetta e sotto controllo: quando Peter Fonda aveva iniziato a delirare John si era trovato addirittura a interpretare un principio di realtà. Ora invece era solo coi suoi pensieri e i suoi pensieri non si ricombinavano. John Lennon era un personaggio pubblico apprezzato da giornalisti e pubblico per le sue risposte pronte. In Strawberry Fields si leva la maschera: finalmente può balbettare, confondersi, contraddirsi, e ne approfitta senza vergogna: "I think, er, no, I mean, er, yes, but it's all wrong that is I think I disagree". Già in passato aveva tentato di mimare il parlato, usare gli intercalari in funzione ritmica ("My baby buys her things, you know; she buys her diamond rings, you know"). Ora ne vuole fare lo stesso senso del suo discorso. È un'idea estremamente coraggiosa, vista la situazione. 




 “It's getting hard to be someone, but it all works out”. La situazione è la solita: la Emi vuole un disco nuovo. Almeno un singolo. Sono passati ormai sei mesi dall'ultima uscita pubblica: come può resistere il pubblico, e soprattutto come possono sopravvivere i discografici senza un nuovo prodotto dei Beatles? Rientrato a Londra, Lennon ritrova i colleghi e si sente subito a casa. La canzone però stenta a prendere forma. La Emi insiste. Si delineano, nell'occasione, i punti di forza che stavano facendo di Paul McCartney il leader in pectore del gruppo. Quando si tratta di produrre un singolo, Paul ha sempre un'idea abbastanza precisa di quello che vuole ottenere. Questo lo porterà a entrare in frizione con gli altri tre e persino con George Martin: ma è un vantaggio concreto rispetto a John, che non sa sempre esattamente cosa vuole, e quando lo sa non sempre riesce a spiegarlo. La canzone del resto parla proprio di questo: John non sa cosa vuole. "È facile vivere con gli occhi chiusi, fraintendendo tutto ciò che vedi". Significa che preferisce tenerli chiusi, come in I'm Only Sleeping, o che ha intenzione di aprirli? Anche stavolta ognuno può interpretare come preferisce. Lennon però non riusciva a decidersi. Voleva un disco che suonasse diverso da tutto quello che si era sentito fino a quel momento: ovvero? Voleva un pezzo avantgarde come Tomorrow Never Knows, ma avrebbe anche voluto dare al brano un'atmosfera soffusa. Alla fine com'è noto George Martin e Geoff Emerick cucirono assieme due versioni incise a velocità e chiavi diverse: qualcosa che oggi sarebbe difficile da realizzare con la tecnologia digitale, in un qualche modo riuscirono a farlo funzionare con forbici e nastro. Il risultato è un miracolo che desta ammirazione ancora oggi. Lennon non ne era soddisfatto. Ancora nel 1980 era convinto di avere subito un boicottaggio inconsapevole, da parte di Paul e George Martin. 

 “Always, no, sometimes think it's me”. Comunque alla fine il disco uscì, e ottenne tutta l'attenzione che si meritava. I Beatles avevano sempre cercato di sorprendere con qualcosa di nuovo, ma stavolta la sensazione di molti è che avessero nettamente esagerato: si erano fatti crescere i baffi, e nei filmati promozionali sfoggiavano costumi colorati che facevano a pugni con l'iconografia consolidata. Come previsto Penny Lane fu la canzone più programmata in radio e Strawberry la più discussa. Lo status di doppio lato A penalizzò la performance nella classifica inglese, impedendo ai Beatles di accedere al primo posto. Ma l'errore più grave che George Martin non smise di rimproverarsi fu la scelta di escludere i due brani usciti sul singolo dall'album in lavorazione. A quel punto il progetto di un viaggio sentimentale nella Liverpool dell'infanzia fu accantonato, anche se ne restano tracce disseminate in tutto Sgt. Pepper.
 

That is you can't, you know, tune in”.
Nel catalogo di Lennon, Strawberry ha una posizione centrale, per la quantità di riferimenti che rimandano al passato, e di spunti che proiettano verso il futuro. L'arpeggio che Paul suona all'inizio sul mellotron appena comprato è un parente lontanissimo di quel vecchio brano che suonava alle feste degli studenti per imitare i chansonnier: intorno al quale su istigazione di John, Paul aveva poi composto Michelle. Nel momento in cui la canzone sembra partire per davvero – a fatica, come un meccanismo che ci mette un po' a ingranare – mentre Lennon canta "to Strawberry field", l'accordo è di nuovo quel minore settima che Paul McCartney aveva scoperto in un brano di Joan Baez e aveva usato in I'll Get You, in attesa di trovare una canzone abbastanza evocativa. Nella seconda parte della strofa gli accordi diventano più semplici e in un qualche modo marziali, forse reminiscenti di qualche inno dell'Esercito della Salvezza che John ascoltava dalla casa della zia. È il momento in cui Strawberry diventa quasi la parodia di un inno religioso: la cadenza è IV-V-I (Re, Mi, La), con qualche incursione finale del Fa#- (VI). È una cadenza che i Beatles usavano sin dai tempi di I Want to Hold Your Hand, ma che nel 1967 diventerà un cliché del rock: Light My Fire, I Can See for Miles, la stessa All You Need Is Love. Pochi anni più tardi, diventerà il nucleo del ritornello di Imagine, che di Strawberry è quasi la versione semplificata: sulla progressione di "that is I think I disagree", Lennon canterà "and the world will beat as one". Nel frattempo, un po' le idee se le era chiarite.
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Ridurre i parlamentari per rendere più efficiente... la corruzione

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Questo referendum è ingiustificabile. Ovvero no, sappiamo tutti che serve per dare un contentino a un Movimento che si è fatto strada nell'elettorato impugnando uno storico piccone antisistema; è da anni che lo imbraccia davanti al parlamento (anche se nel frattempo ha mandato i suoi uomini dentro) e ora bisogna proprio che almeno un colpo lo dia, tanto peggio se si rompe qualcosa. Qualcuno è sinceramente convinto che potrebbe essere l'occasione per fare un restauro migliorativo, ma è gente senza cultura che quando ha provato a scrivere riforme costituzionali si è fatta ridere dietro e ancora non ha capito il perché, è fatta così, le potresti vendere un progetto chiavi in mano per un ponte ferroviario sullo Stretto di Messina (anzi qualcuno glielo ha già venduto) (e sta tuttora intascando le penali perché il cantiere non parte).

Capita così di leggere le più fantasiose giustificazioni, tutte belle documentate come se la politica fosse una scienza esatta – io per fortuna ho ancora un mestiere e poco tempo da dedicarci, così mi perdo tutti i link, ad esempio mi piacerebbe onestamente ritrovare il pezzo di un ingegnere convinto che con meno parlamentari si sarebbe ridotta la corruzione. Della serie, per ridurre le rapine in banca riduciamo gli sportelli. No in realtà era meno cretina di così, aveva trovato un paper basato sugli enti locali in Svezia (e già qui dovrebbe suonare un campanello d'allarme) che dimostrava che gli enti con più rappresentanti erano più corrotti. Mi domando se il caso non ricada nel solito paradosso: un ente risulta più corrotto se per esempio sono state sporte più denunce, se vi sono stati processi e soprattutto condanne per corruzione – ovvero se in quell'ente la corruzione è percepita come un problema dall'utenza e dalla magistratura. Un ente potrebbe anche risultare "non corrotto" perché nessuno ha più la volontà di denunciare e indagare. A parte questo, resta abbastanza ovvio che più sono i rappresentanti, più aumenta la possibilità che qualcuno si lasci corrompere. Ma questo deve automaticamente significare che basta ridurli per risolvere il problema? Basta rifletterci un attimo per accorgersi che potrebbe essere vero l'esatto contrario.

Cos'è la corruzione? Banalmente, si tratta di offrire un premio a un rappresentante affinché favorisca i miei affari particolari a scapito di quelli della collettività che rappresenta. Sotto un certo limite il fenomeno è perfettamente legale e prende il nome di lobbying. Corruzione e lobbying sono connaturate alla democrazia: il solo fatto che esistano rappresentanti a cui è delegata la facoltà legislatrice rende possibile e persino auspicabile che i cittadini si rivolgano a essi creando gruppi di pressione. Il punto rimane sempre lo stesso, sin dai tempi delle polis: come evitare che i cittadini più abbienti creino, grazie alle loro ricchezze, dei gruppi di pressione più convincenti? E sin dall'inizio la soluzione non fu diminuire i rappresentanti, ma aumentarli. Per il banale motivo che aumentando il personale, la corruzione diviene via via meno efficiente. 

Non si tratta di rendere impossibile la corruzione, ma di renderla troppo costosa e inefficace. Se voglio convincere un Consiglio a far passare la nuova cinta muraria attraverso i miei pascoli (in modo da difenderli e da farmi intascare un indennizzo), io posso offrire un agnello a ogni membro del consiglio – se fossero dieci membri mi potrebbero bastare sei agnelli; se fossero venti me ne servirebbero undici – se sono cinquecento è meglio lasciar perdere. Chi fosse realmente preoccupato dal fenomeno della corruzione dovrebbe chiedere di aumentare, e non ridurre il numero dei parlamentari. Viceversa, chi li vuole ridurre, magari è convinto in buona fede di combattere la corruzione, ma quel che ottiene realmente è di renderla più efficiente. Più che disincentivare la corruzione, per loro si tratta di mantenerla entro dimensioni ragionevoli, insomma di far spendere meno in bustarelle. 

Se poi sono gli stessi che cercano di spiegarti che questi rappresentanti devono essere poco pagati, e quindi più facilmente tentati dalle elargizioni, ecco, hai già capito il brodo culturale in cui hanno preso forma personaggi come Casaleggio: una piccola-media impresa che vorrebbe avere come controparte una piccola-media politica da lobbizzare con piccole-medie bustarelle. Io voto no. 

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Questo referendum è imbarazzante

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Questo referendum è imbarazzante. Imbarazzante è l'idea che gli italiani possano essere disturbati un fine settimana, a rischio di contrarre un virus tutt'altro che debellato; e che le scuole appena aperte debbano essere subito temporaneamente richiuse, semplicemente perché qualche anno fa un comico si mise a dire nelle piazze che i politici erano i nostri dipendenti e quindi bastava licenziarne un po' per ottenere una politica migliore; e la gente invece che riderci sopra ci fece un programma politico (cosa che credo stupì lui per primo). Questa idea, mi dispiace molto per chi la difende, è ottusa da tutti i punti di vista: da sinistra, da destra, di sopra, di sotto; non è neanche una questione ideologica, facciamo finta che invece di un parlamento di legislatori stessimo parlando di una fabbrica di gelato. Non sappiamo come funziona, ma sappiamo che ha 945 dipendenti. Quante possibilità ci sono che licenziando 345 dipendenti a caso il gelato migliori? Chi suggerisce un taglio del genere, di solito, non ha a cuore la qualità del gelato e non sta nemmeno pensando al risparmio. Vuole semplicemente trovare un sistema spiccio per mandare la fabbrica alla malora, forse è stato inviato dalla concorrenza. 

Quando qualche esperto cercherà di convincervi del contrario, cercate di capire di cosa esattamente è esperto, e se non è stato inviato da qualche tipo di concorrenza della democrazia parlamentare. Sgombriamo subito il campo dall'argomento più scemo: che il taglio di 300 rappresentanti comporti un risparmio. Anche volendo ipotizzare una produttività uguale a zero, ovvero ammettendo (e non concedendo) che i parlamentari durante il loro mandato non facciano niente, questo risparmio per le tasche dei contribuenti sarebbe irrisorio: più o meno un euro all'anno per ogni cittadino. Ma siccome qualcosa questi legislatori lo fanno, e persino i più ottusi tra i grillini se ne sono accorti, dobbiamo pensare che questo euro ci costerà un peggioramento della qualità della nostra legislazione. Non solo, ma una riduzione di un terzo del parlamento porterà necessariamente le attuali forze politiche a ridiscutere sulla legge elettorale e sull'assetto costituzionale, laddove le attuali forze politiche hanno già dimostrato in materia un'incompetenza che raggiunge e talvolta sorpassa la soglia dell'analfabetismo. Io non sono mai stato un feticista della "Costituzione più bella del mondo", ma lo sto diventando. Non sarà così bella ma mi ha salvato da Berlusconi al Quirinale, da Salvini a Palazzo Chigi e da qualche altro scenario da incubo. Abbiate pazienza se me la tengo ben stretta (continua).

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Arrenditi al vuoto. Sta splendendo.

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3. Tomorrow Never Knows (Lennon-McCartney, Revolver, 1966).

Non è morire. Tutte le canzoni dei Beatles sono esperimenti. Alcuni cercavano di ricreare il passato, ma molti guardavano verso il futuro, indicavano la forma che la musica avrebbe potuto prendere di lì a un mese, a un anno, a un decennio. Presto o tardi si sono realizzate. Tutte.

Sono nato nell'anno 4 dalla Caduta, credo che a questo punto possa essere utile saperlo. Ne avevo sette quando morì Lennon: non ho ricordi. Per me i Beatles sono sempre stati parte del paesaggio, tanto che in molti casi è stato difficile distinguerli da tutto il resto. Tutto quello che loro avevano realizzato sfidando il mercato e il ridicolo, quando cominciai ad ascoltare dischi risultava abbastanza normale. Era normale urlare "aiuto" in un singolo di successo, invocare la morte o la mamma; non era così strano cambiare tempo o tonalità. Obladì Obladà era l'ennesimo ska bianco dalla melodia facile e un po' scema: e il fatto che fosse il primo era una curiosità da eruditi. Helter Skelter sembrava metallo pesante, ma in giro c'era metallo ben più pesante. Gli inserti barocchi ormai erano un luogo comune della disco music. Quando iniziai ad ascoltare i Beatles, diciamo nell'anno 20 dopo Sgt. Pepper, tutte le profezie si erano già realizzate.

Tranne una. Quel brano assurdo alla fine di Revolver, con la voce di Lennon che sembrava uscire dagli altoparlanti di una discarica invasa dai gabbiani (c'è un suono in Tomorrow che da ragazzino ero convinto fosse il campionamento di un gabbiano e non riesco a convincermi del contrario). Ecco, Tomorrow Never Knows era l'unica canzone che non somigliava ancora a niente. E non mi dispiaceva.

Suppongo sia il motivo per cui la troviamo così in alto. Tomorrow è l'unico brano che agli ascoltatori della mia generazione è stato concesso di ascoltare prima che anche il suo potenziale profetico si realizzasse. È stata l'unica dimostrazione in diretta di quella cosa che avevamo dovuto imparare su libri o su riviste, ovvero che le promesse dei Beatles presto o tardi si avverano. E Tomorrow, quando si avverò? Quando fu raggiunta dall'orizzonte degli eventi, quando smise di essere una canzone sul Domani e diventò, anche lei, una canzone sullo Ieri?

Penso che abbia avuto a che fare con l'affiorare della rave culture a metà anni Novanta: il momento in cui progetti come Chemical Brothers o Prodigy sono diventati improvvisamente mainstream. Così, proprio nel momento in cui i palchi dei festival inglesi gruppi come gli Oasis riproponevano una versione addomesticata dei Beatles, come le mascotte di una specie di parco a tema sulla Swinging London, nei club della stessa città l'ultima profezia lennoniana veniva dissigillata, interpretata, consumata. Verso la metà degli anni Novanta comporre musica nuova significava ricomporre loop e, sorpresa, i primi a immaginare la musica come un montaggio di loop erano stati proprio i Beatles durante le sessioni di Revolver – peraltro senza troppo crederci: era un ripiego rispetto all'idea originale di Lennon che avrebbe avuto un coro di migliaia di bonzi tibetani. Difficilmente avrebbe funzionato così bene.

Tomorrow Never Knows ha l'efficacia dei brani jungle più riusciti di trent'anni dopo, che però potevano contare su apparecchiature ormai digitali in grado di sovrapporre quantità illimitate di piste. Geoff Emerick e McCartney potevano contare soltanto su un registratore a quattro piste, e i nastri andavano montati a mano. Che non si sia trattato di un lavoro semplice lo dimostra anche solo il fatto che la grande stagione della sperimentazione coi loop e i nastri finisce qui: persino in brani in un brano ancora orgogliosamente avangarde come Strawberry Fields il loro impiego sarà meno appariscente. Da Sgt Pepper in poi i Beatles esploreranno altri territori, ma non torneranno più veramente su questi, che a noi posteri sembrano i più estremi. Che non bastasse semplicemente montare un po' di casino con due o tre trovate di scena e gridare all'avanguardia lo dimostra una prova di lavorazione ripresa su Anthology: senza i 'gabbiani' e soprattutto il groove allucinato di Ringo, Lennon può salmodiare tutte le profonde verità che vuole, il brano non decolla. Ringo non è campionato ma si comporta esattamente come se lo fosse: (davvero, quanto era intuitivo quel ragazzo?) Il suo groove è la versione drogata di Ticket to Ride: in Ticket Ringo fingeva di attardarsi a zoppicare, qui accelera all'improvviso accennando uno sgambetto. Lennon spulciando dal Libro Tibetano dei Morti ci chiede di rilassare la mente, ma la sua asserzione è messa in crisi già dall'arrangiamento. Come in She Said She Said, la sua primaria preoccupazione sembra essere garantirci che [drogarsi] non è morire: un po' troppo insistente per risultare convincente.

Tomorrow Never Knows è ancora un gran bell'ascolto, ma devo avvertire i più giovani che non suona più oltraggiosa come trent'anni fa: e chissà che razza di pugno nello stomaco doveva sembrare cinquant'anni prima. I Beatles non andarono più avanti di così: non in quella direzione, almeno. Anche la musica leggera, trent'anni dopo, sembrò suggerire questa sensazione: a fine anni Novanta anche i loop erano stati addomesticati. In seguito c'è stata ancora ottima musica ma nel giro di qualche anno i critici hanno cominciato a sentire la mancanza di qualcosa. Un'idea di suono nuova, qualcosa che non consistesse semplicemente nell'isolare e recuperare questo o quel dettaglio del passato. Sulle soglie degli anni Venti, la questione è rimasta aperta. Sembra che l'avvento della tecnologia digitale abbia reso tutto più semplice: comporre musica, arrangiarla, suonarla, apprezzarla... ma non inventarla. Siccome innovazione è semplicemente la manifestazione di un cambio di paradigma, un'ipotesi è che dal 1998 a oggi non sia cambiato nessun paradigma: i computer sono enormemente più potenti, ma sono ancora gli stessi computer. Le interfacce dei software per mixare le piste non sono nemmeno cambiate più di tanto. In compenso internet è diventato un archivio sterminato di ottima musica di un passato sempre più ingombrante; la nostalgia è diventata una commodity: chi si mette a comporre musica oggi non può più approfittare di quei vuoti di memoria che consentivano a Paul e John di creare nuova musica partendo da vecchi pezzi che non ricordavano di aver ascoltato. Se oggi un ragazzino si svegliasse con in mente una nuova Yesterday, Shazam entro colazione gliel'avrebbe già portata via. Sono tutte spiegazioni plausibili, al contrario di quella che propongo qui sotto.

Forse la musica è finita perché era tutta compresa nei Beatles. Come nel big bang, davvero. Ai miei tempi ormai rimaneva soltanto una stella da far esplodere: era Tomorrow Never Knows. Negli anni Novanta è andata anche lei, e ora? Ora magari con un po' di fortuna viviamo in un universo oscillante: tra un po' tutto collasserà e poi riesploderà di nuovo. Nel frattempo... Turn off your mind relax and float down stream.
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La scuola non era un parcheggio. Ieri.

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Se a questo punto vi sembra che tutti vogliano disperatamente tornare a scuola, tranne gli insegnanti, può darsi che siate stati male informati da mezzi di informazione che ormai funzionano (quel poco che funzionano) indicando il Nemico del Mese: ci sono stati i runner, i giovinastri in "movida", con l'estate sembrava che sarebbero tornati i classici migranti ma ormai è settembre ed era abbastanza naturale che toccasse a noi. In parte.


Se a questo punto vi sembra che tutti vogliano tornare a scuola tranne gli insegnanti, ecco, in parte succede anche perché gli insegnanti in quelle scuole ci sono già tornati, e hanno realizzato quello che la maggior parte degli studenti e dei genitori e dei giornalisti e dei loro committenti ancora non ha capito, ovvero: la scuola che comincerà a settembre, non è quella che abbiamo lasciato in marzo. 

A quella torneremmo tutti volentieri. Ed è quella che ci state chiedendo da mesi di riaprire. La scuola con le campanelle e l'intervallo tutti assieme, le corse tra i banchi e la macchinetta delle merendine, le prof che ritirano i quaderni eccetera eccetera. Ecco: quando ci chiedete di riaprire le scuole, voi ci chiedete questo. Ci state chiedendo la Normalità. E fosse per noi figuratevi, non vedremmo l'ora di darvela. Ma indovinate: non dipende da noi. Né dal ministero, o dalla commissione, o dagli enti locali, tutte istituzioni e persone che senz'altro avrebbero potuto commettere meno errori e ingenuità – ma anche in quel caso, a settembre ci saremmo comunque trovati in una situazione non molto diversa da quella in cui ci troviamo adesso. 

Adesso tutti vogliono tornare alla Normalità, tutti sperano che la Normalità sia quella cosa che succede quando finalmente si potrà tornare a fare uscire i ragazzi da casa – il che è assolutamente naturale, se c'è una cosa che ho detestato in questi mesi è la retorica per cui la scuola non è un parcheggio. Allora io ci lavoro e garantisco che tutto è la scuola meno che un parcheggio, per il banale motivo che i bambini tutto sono meno che macchine ferme che dove le metti restano. È (era) un luogo estremamente dinamico, spesso caotico, dove succedono cose in continuazione e se fosse un settembre come un altro avrei davvero voglia di tornarci. 

Invece stamattina dovevo mettere del nastro adesivo per terra, che indicasse ai bidelli la posizione dei banchi che da qui in poi non si potranno più spostare. A questi banchi è previsto che i ragazzi restino seduti in media per cinque ore, con una breve interruzione che temo in molti casi non potranno che trascorrere in un corridoio contiguo, possibilmente senza incontrare i compagni di altre classi. Niente corse, niente cambi di banco, niente escursioni in biblioteca, niente macchinetta delle merendine, niente. Molti genitori ancora non si sono resi conto: molti ragazzi intuiscono ma preferiscono non pensarci; gli insegnanti ci stanno già sbattendo il naso (con la mascherina). Questa è la scuola che riapriremo tra due settimane. Questo è il parcheggio. 

E funzionerà? Studenti che hanno smesso di vivere l'ambiente-aula a marzo, tra due settimane dovranno abituarsi a restare seduti per cinque ore. Magari ce la faranno – non sarebbe la prima volta che mi stupiscono. Ma a occhio sarà molto faticoso per loro. E certo, anche per noi. (Noi poi diventeremo anche categoria a rischio, ma questo è un altro discorso ancora).
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Il sole si è fermato?

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1° settembre - San Giosuè, sterminatore di popoli immaginari (molti secoli prima di Cristo)

John Martin
[2012]. Ecco un personaggio biblico che ormai nessuno pretende di considerare come realmente esistito. Giosuè è il generalissimo ebraico che dopo la morte di Mosè porta il popolo di Dio attraverso il Giordano nella Terra di Canaan. Ivi, in luogo del latte e del miele promesso, gli Israeliti trovano altri popoli stanziali, con città fortificate e fiorenti. La cosa non scompone per nulla Giosuè, che nei primi anni si dedica con metodo e dedizione al genocidio, attaccando e sterminando una città alla volta, un popolo alla volta: prima Gerico, poi Ai, poi gli Amorrei... Lui del resto non fa che obbedire agli ordini: è Dio che vota quei popoli allo sterminio, e a differenza di Mosè e di altri patriarchi Giosuè non tentenna, non ha ripensamenti, né psicologia: è l'uomo giusto per fare il deserto e chiamarlo pace. Non si può nemmeno dire che ci provi gusto a passare a fil di spada, per esempio, ogni essere che trova nella città di Gerico, "dall'uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino il bue, l'ariete e l'asino" (si salva solo la prostituta che ha fatto la spia). Sta solo eseguendo gli ordini. Più un grigio burocrate che un valente condottiero: d'altro canto i suoi biografi mettono in chiaro più volte che Giosuè, senza l'intervento di Dio, non avrebbe vinto nemmeno una scaramuccia. È il Signore degli Eserciti a far cadere le mura di Gerico, previo prolungato squillo di trombe, ed è sempre Lui a bombardare gli Amorrei a Gabaon con una grandinata di pietre che ammazza più nemici "di quanti ne uccidessero gli Israeliti con la spada". In linea di massima, queste guerre le vince il Signore: alle truppe di Giosuè viene chiesto di fare un atto di presenza, ma soprattutto le pulizie dopo che la battaglia è vinta. Questo tuttavia può richiedere molte ore, in un'epoca arcaica in cui tutto si doveva comunque interrompere al calare del sole; al punto che almeno nel caso della battaglia di Gabaon, Giosuè chiede e ottiene una proroga straordinaria, uno stop del sole per almeno una giornata - il tempo necessario per inseguire gli Amorrei e terminare un'operazione di massacro che sennò chissà quanto si sarebbe trascinata nel tempo.
Allora, quando il Signore mise gli Amorrei nelle mani degli Israeliti, Giosuè disse al Signore sotto gli occhi di Israele:
«Sole, fèrmati in Gàbaon
e tu, luna, sulla valle di Aialon».
Si fermò il sole
e la luna rimase immobile
finché il popolo non si vendicò dei nemici.
Questo famigerato passo è probabilmente l'unico della Bibbia dove si parla un po' di astronomia. Mi chiedo a volte se sia esistito un antico popolo, con una mitologia complessa e stratificata, altrettanto disinteressato ai moti degli astri e dei pianeti, alle costellazioni eccetera. Giusto una piccola cosmogonia nelle prime pagine, e poi più nulla. Forse era un modo da differenziarsi dai dominatori babilonesi, loro sì fissati con le stelle. Questa sostanziale indifferenza nei confronti del cielo fu paradossalmente un vantaggio nel momento in cui la Bibbia entrò nel mainstream dell'Impero Romano, gareggiando coi testi scritti di altre religioni: i testi manichei, quelli gnostici, mitraici, eccetera. Rispetto agli altri libri sacri, la Bibbia si conciliava meglio con la scienza ufficiale aristotelica, per il semplice motivo che di astronomia non si parlava: Agostino mollò i manichei perché il cosmo che descrivevano era ridicolo rispetto a quello progettato da Aristotele. I cristiani non avevano questo problema: purché il sole girasse intorno alla terra, tutto il resto si poteva organizzare come dicevano i filosofi greci.

Ma insomma nella Bibbia di solito si parla d'altro. E anche nel passo del libro di Giosuè, in fondo, di che si parla? Di massimi sistemi? Non è che Giosuè dica semplicemente "fermati o sole" come noi diciamo tutti i giorni "il sole è sorto", o "è tramontato", senza per questo voler negare il sistema copernicano? Siamo sicuri che Giosuè, guerriero e uomo di fede, ci tenga a farci sapere che il sole gira intorno alla terra?

Nicolò Malinconico

Galileo, per esempio, era sicuro del contrario. Fu proprio questa sua sicumera a cacciarlo definitivamente nei guai. Di questi guai noi di solito conosciamo una versione molto semplificata, che abbiamo preso per buona a scuola. Riassumendo: Galileo riteneva che la terra girasse intorno al sole (sistema copernicano); i preti però pensavano che questo contraddicesse la Bibbia, almeno in quel versetto dove Giosuè ferma il sole, e così si arrivò al processo e all'abiura. Le cose sono un po' più complicate. In un gioco di specchi piuttosto barocco, scopriamo che i preti in questione, tutt'altro che oscurantisti inchiodati alla Verità rivelata in un versetto, giocarono la modernissima carta del relativismo: avrebbero voluto che Galileo considerasse la teoria copernicana una teoria, non la realtà dimostrata delle cose. Mentre a Galileo, il famoso Galileo-inventore-del-metodo-scientifico, tutto questo relativismo infastidiva: lui riteneva di aver dimostrato che la terra gira e il sole è fermo e punto. Quel che è peggio, è che la prova definitiva esibita da Galileo (il moto delle maree) era una solenne cantonata. Non solo, ma così come gli avversari clericali di Galileo erano tutt'altro che digiuni di scienza, lo stesso Galileo ci teneva a mostrarsi uomo di religione. Non aveva nessuna intenzione di contraddire la Bibbia: viceversa, scrivendo al suo amico benedettino Benedetto Castelli, nel 1613, prova a dimostrare che è proprio la Bibbia a dargli ragione; che il miracolo di Gabeon è incompatibile col sistema tolomaico-aristotelico. Secondo Tolomeo infatti il moto del sole da levante a ponente è solo apparente: a muoversi davvero è il cielo più lontano, il Primo Mobile; se fosse stato esperto di queste cose, Giosuè avrebbe dovuto chiedere di fermare il Primo Mobile, non il sole; anzi, se avesse fermato il sole all'interno del sistema tolomaico, il giorno si sarebbe accorciato un po'. Al contrario, nel sistema copernicano il sole, pur essendo al centro dell'universo, continua a girare su sé stesso (Galileo lo aveva notato osservando le macchie solari), e quindi può essere fermato da Dio, se Giosuè glielo chiede: in che modo poi fermando la rotazione del sole il giorno di luce si allunghi sulla terra, io non l'ho capito, ma Galileo mentre lo spiega sembra molto sicuro di sé, come sempre. Non dico che questo sia un buon motivo per processarlo, minacciarlo di torture, forzarlo all'abiura e mandarlo agli arresti domiciliari; però le cose sono più complicate di come a scuola, per forza di cose, le impariamo.
Galileo al Sant'Uffizio
Che Galileo non fosse un campione di diplomazia, è cosa che riconoscevano anche i suoi sostenitori. Chiamare "Simplicio" il difensore ottuso della dottrina aristotelica, nel Dialogo sopra i massimi sistemi, e mettergli in bocca nel finale le opinioni del Papa Urbano VIII, fu un capolavoro di imprudenza che ancora oggi lascia sbalorditi. "S'infuoca nelle sue openioni, ci ha estrema passione dentro, et poca fortezza et prudenza a saperla vincere", riferiva Guicciardini a Cosimo II Medici. Quando Galileo scriveva a Castelli che "se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de' suoi interpreti ed espositori", non si accorgeva che nella foga di scagionare la Bibbia finiva per scaricare la responsabilità proprio sugli "interpreti ed espositori", ovvero i preti. I quali preti poi, avevano ben più che un versetto biblico da difendere: in ballo c'era quell'edificio aristotelico che aveva retto per tutto il medioevo, e restava il sistema ufficiale insegnato nelle università.

C'è un'altra abiura di cui conserviamo una storia eccessivamente semplice: quelle famose scuse che Giovanni Paolo II avrebbe fatto a Galileo, per conto della Chiesa. Anche qui, la storia è ben più complessa. Basti pensare che la Commissione pontificia per esaminare la questione ci lavorò per 13 anni, un periodo di tempo più che sufficiente per trovare un sistema per salvare i cavoli copernicani e la capra ecclesiastica. E infatti le conclusioni del 1992 individuarono un concorso di colpa: da una parte gli inquisitori non erano stati nell'occasione molto "lungimiranti". Ma la sua parte di colpa ce l'aveva anche quel Galileo, che invece di attendere "prove irrefutabili" aveva preteso di imporre la sua verità. Alla fine sono i vecchi argomenti di Feyerabend. Questi però voleva far notare come il presunto metodo sperimentale di Galileo sia una ricostruzione a posteriori: anche Galileo aveva i suoi pregiudizi, le sue osservazioni e i suoi esperimenti non gli impedivano di intestardirsi su ipotesi errate, come quella sulle maree, o sulle comete. Questo discorso, nelle mani di Ratzinger, diventa una specie di jolly relativista che la Chiesa si riserva di giocare quando le è comodo: di sicuro non quando si parla di Trinità o di Immacolata Concezione o di vita che comincia dal concepimento. Siccome la scienza è fondata sul dubbio, della scienza si può dubitare; dei dogmi di fede no, quelli sono valori non negoziabili e punto. A uno scienziato, Galileo, che si era permesso di spiegare ai preti come si legge la Bibbia, fa da contrappunto un collegio ecclesiastico che pretende di spiegare a Galileo e ai suoi seguaci il metodo scientifico. Chi dei due ci fa la figura meno peggiore? Beh, Galileo aveva i suoi difetti. Ma ai suoi avversari mica faceva i processi; non li condannava, non li teneva agli arresti domiciliari. Il dettaglio, almeno per quanto mi riguarda, è decisivo.
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Facce nere e teste dure

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Ogni tanto mi riviene voglia di scrivere un pezzo sulla blackface – poi mi trattengo, mi dico: aspetta l'occasione all'altezza. Non farti stimolare dall'ultima scemenza. Il problema è che la blackface è una scemenza, per definizione – o la fai consapevolmente, e allora sei scemo, oppure ci caschi senza saperlo, e allora ormai sei scemo lo stesso. Poi ci sono certi choc culturali impensabili prima dei Social Network, ad esempio Diet Prada che scopre le caramelle tabù. Ma il più delle volte si tratta semplicemente di un equivoco idiota a proposito di un idiota che non capisce un equivoco, e qui non credo ci sia bisogno di spiegare a che Ministro dell'Interno sto pensando.


Dettaglio imbarazzante: quando si parla di Blackface provo sempre una punta di immotivato orgoglio. Credo di essere stato uno dei primi ad averne parlato in Italia in un dibattito mainstream, o forse non era proprio mainstream ma insomma era sul Post, e io non ero un sociologo o un antropologo ma semplicemente un blogger. È successo qualche anno fa: sembrano secoli. La cosa più buffa, o comunque interessante, è che non evocai il concetto di Blackface per spiegarlo, ma perché mi serviva un esempio di come funzionava il modello della tolleranza in Nordamerica, e perché il nostro è completamente diverso. Cioè nel 2015 se mi capitava di parlare di Blackface era per spiegare quanto diversi da noi fossero gli americani, e in che modo la loro diversità (che non capivamo) avrebbe potuto fornirci un esempio diverso per capire la situazione in cui ci eravamo cacciati con... le vignette su Maometto. Ve le ricordate le vignette su Maometto? Una volta non si parlava d'altro, giuro. Fino all'anno scorso su questo blog c'erano più pezzi sulle vignette antimaomettane che sulle canzoni dei Beatles, l'avreste detto mai.

Un'immagine di Tom e Jerry censurata dai network tv USA. 
(La prima volta che la usai per corredare un pezzo, trovavo la cosa piuttosto assurda: adesso no, non faccio più nessuna fatica a capire quanto quei labbroni e quelle treccine possano risultare offensivi). 

Faccio un breve riassunto per chi è nato nel frattempo: negli anni Zero si sviluppò un dibattito giornalistico sull'opportunità o no di disegnare il profeta dell'Islam, e in particolare in vignette satiriche. Questo in una situazione in cui la comunità islamica (sempre più importante in Europa) insisteva abbastanza compattamente sul fatto che raffigurare il volto di Maometto, anche in situazioni non satiriche, fosse blasfemo e offensivo. Il che portò alcuni difensori della libertà di parola e di stampa su posizioni islamofobe, e molti islamofobi a diventare improvvisamente difensori della libertà di parola e di stampa. Fu insomma una delle occasioni in cui prese forma, anche in Europa, quel blocco libertario di destra che negli USA è poi diventata la base del consenso di Trump. Dal canto loro gli integralisti islamici non persero l'occasione per accreditare l'immagine più oscurantista della loro religione: la rivista satirica Charlie Hebdo fu vittima di due attentati; nel secondo la redazione fu massacrata. Ovviamente la stampa europea rispose ribadendo il principio della libertà di stampa e di espressione, mentre dagli USA arrivavano reazioni molto più sfumate: non era affatto impossibile, dall'altra parte dell'Atlantico affermare che i vignettisti francesi se la fossero cercata. Un approccio del genere – cercavo di spiegare – dipendeva dal modo in cui in Nordamerica le minoranze avevano lottato per trovare un modus vivendi, anzi convivendi. E a questo punto mi veniva spontaneo fare l'esempio del Blackface, in quanto tabù arbitrario, imposto da una minoranza e accettato come tale:

Quella che spesso chiamiamo “l’ossessione del politically correct” (incoraggiati in questo dagli stessi americani, che per primi ne vedono i parossismi), è una mentalità che muove da secoli di continue rinegoziazioni tra tribù (wasp, cattolici, afroamericani, latinos). Negli USA, come noto, tingersi il volto di nero per fingersi afroamericano è considerato un gesto razzista, non necessariamente sanzionabile ma universalmente esecrato. Le ragioni per cui si è arrivati alla codifica di questa specie di tabù sono complesse a affascinanti, ma interessano fino a un certo punto: l’importante è che a un certo punto una comunità etnica definita ha isolato un simbolo (il blackface) e ha piantato un paletto: questa cosa ci offende. Magari non sarà vietata dalla legge, ma se voi ci offendete noi boicotteremo i vostri prodotti, i vostri programmi, e non voteremo per voi.

Col senno del poi forse davo troppo per scontato che qui da noi si sapesse di cosa stavo parlando; negli anni successivi ho perso il conto (giuro, ho perso il conto) degli episodi in cui qualche vip italiano è cascato nel tranello. Tre o quattro volte anche solo Dolce e Gabbana. Oggi forse ormai si è capito cos'è la blackface, ma ho il sospetto che si sia soltanto ingrandito un equivoco. Sempre più persone hanno capito che si tratta di una situazione che è percepita come offensiva da una minoranza. Quel che sfugge, e continua a sfuggire, è l'aspetto arbitrario del fenomeno. Non è che la blackface non abbia una storia (così come il divieto di raffigurare il volto del Profeta), ma il motivo per cui è diventata un tabù è che una comunità ha scelto di individuarla come tale, puntando una bandiera su un terreno semiotico e avvertendo le altre comunità: da qui non arretreremo. La tolleranza americana è la prosecuzione della guerra razziale sul campo delle immagini e dei simboli: ogni tabù è una prova di forza. Il fatto che qualche italiano si stia vergognando per i fotomontaggi di un ministro degli Esteri molto abbronzato può sembrare un equivoco, anzi lo è, ma è anche la dimostrazione che la comunità afroamericana è riuscita a esportare i suoi tabù persino in uno dei Paesi europei dove si capisce meno l'inglese. Sarei tentato di usare il vecchio termine "imperialismo culturale", non fosse per un dubbio: ma se sono così forti, gli afroamericani, com'è che non riescono a impedire di farsi sparare per strada? (Magari continua).
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Nessuno è stato salvato

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4. Eleanor Rigby (Lennon-McCartney, Revolver, 1966).

Tutta questa gente sola, da dove salta fuori? A 29 anni Siddartha Gautama (in seguito conosciuto come Buddha, l'Illuminato), decise che avrebbe dato un'occhiata fuori dal suo giardino. Quando suo padre, il raja, lo seppe, fu colto da una grande tristezza, e dal presagio che ogni profezia si sarebbe avverata. Comunque mandò una pattuglia a ripulire le strade che il figlio avrebbe esplorato, con l'incarico di far sparire qualsiasi segno di corruzione fisica, malattia o vecchiezza: di radunare una claque di giovani ben vestiti e sorridenti, e di spargere petali di fiori. Tutto vano, giacché gli dei avevano deciso altrimenti: non aveva fatto che poche miglia in cocchio fuori dal recinto regale, che Siddartha si imbatté in un essere mostruoso, al punto da chiedere al conducente: "ma chi è quest'uomo con capelli bianchi e la mano aggrappata a un bastone, gli occhi nascosti dietro le rughe? È nato così o gli è successo un incidente?" Siddartha in effetti era cresciuto in un un palazzo separato dal mondo, un luogo di serenità e lusso dove non erano ammesse malattie e vecchiaia. Gli amici e i servi a cui capitava di ammalarsi o invecchiare venivano sostituiti nottetempo con amici e servi più giovani e sani, e così Siddartha Gautama era arrivato ben oltre la porta della giovinezza senza conoscere la malattia, la vecchiezza e la morte. Praticamente una rockstar.

Le quattro cose che vide Buddha nelle sue gite al di fuori dal recinto paterno:
un anziano, un malato, un cadavere e un asceta.
(Affresco in un tempio in Laos)

A 23 anni, Paul McCartney è il re di Londra, e Londra nel 1966 è la capitale del mondo giovanile. Di mestiere produce felicità, perciò intorno a sé può avere solo persone realizzate e felici. Se non sembri abbastanza realizzato e felice guardati in giro, prendi una pillola, fuma qualcosa: ridi. I suoi amici sono giovani, felici e realizzati e scrivono canzoni allegre e a volte un po' stonate ma ok. La sua ragazza è giovane, felice e realizzata gli fa ascoltare sempre cose nuove, ad esempio Vivaldi, forte questo Vivaldi. Ovunque va, trova giovani e giovanissimi emozionati dalla sola idea di condividere un po' di ossigeno con lui. Sembra un sogno, forse lo è, un recinto magico, l'illusione escogitata da un padre geloso per allontanare il più possibile la maturità, la sofferenza, la morte. Ma è tutto vano: Eleanor Rigby raccoglie il riso in una chiesa dove c'è stato un matrimonio. Da dove viene? Chi le ha permesso di entrare nel mondo di Paul? È comparsa per miracolo, come l'anziano creato dagli dei per perturbare la serenità di Siddartha Gautama.

Eleanor Rigby è la prima canzone in cui i Beatles ammettono la vecchiaia, e ne parlano col tono scandalizzato di chi un attimo prima nemmeno la prevedeva: tutta questa gente sola, ma a chi appartiene? In seguito Paul comincerà a premere per incidere quelle che John definiva "granny songs", canzoni della nonna: brani che trattano gli anziani con condiscendenza, se non rispetto. When I'm 64 è la prima: nel 1966 Paul l'aveva già composta ma non pensava di poterla incidere. Eleanor Rigby non è una granny song, tutto il contrario: lo smagliante arrangiamento vivaldiano non tragga in inganno. Paul ricorre agli archi per aumentare lo straniamento, farci sentire ancora di più la distanza con le tre scene che descrive. L'ottetto d'archi orchestrato con sicurezza da George Martin è come una cornice pregiata: all'interno un dramma in tre atti di squallore, solitudine e morte. L'atteggiamento condiscendente, crepuscolare che più spesso associamo a Paul qui è rovesciato con una spietatezza che ce lo fa rimpiangere. Non c'è nulla di commiserevole e crepuscolare nel raccogliere riso alla fine di un matrimonio: è un gesto squallido, racconta in un solo gesto una realtà di solitudine, invidia, miseria e disagio mentale. Per chi correggi i tuoi sermoni, padre McKenzie? Nessuno ti può ascoltare, nessuno sarà salvato. La vecchiaia è un peccato originale. Per chi rammendi i tuoi calzini?

L'inconscio è una bestia terribile. Dopo aver composto il primo quadretto, Paul non riusciva a venire a capo del secondo. Una voce interiore continuava a sussurrargli: "Father McCartney". E benché l'idea di mettere letteralmente il padre in una canzone sulla solitudine e la morte lo lasciasse perplesso, la voce continuava a insistere. Anche John Lennon, diabolico, trovava che "Father McCartney suonasse molto bene". Ringo aveva proposto di aggiungere "darning his socks", e Paul aveva accettato senza forse ricordare che dopo la morte di sua madre Jim McCartney aveva imparato, tra le altre cose, a cucire. "Ma che gli importa" (“What does he care”) è una frase che da adolescente Paul deve avere ripetuto milioni di volte, mentre il padre obiettava sull'acconciatura da teddy boy o sul taglio dei pantaloni. Alla fine l'unico sistema per togliere il nome del padre dal quadro fu cercarne uno simile sul dizionario: come incollare un volto su quello già disegnato. Jim McCartney aveva già quarant'anni quando Paul nacque; durante l'adolescenza doveva essergli sembrato molto più anziano e fuori dal tempo di quanto non fossero i genitori dei suoi amici; e anche più solo. Eleanor Rigby è una canzone insolitamente amara per Paul McCartney, cantata su un registro che esprime meno tristezza che sdegno. La vecchiaia è uno scandalo che Siddartha-Paul tollera a malincuore, qualcosa che non dovrebbe essere consentito. Eleanor non lascia nulla di sé, se non tracce di terra sporca che il padre McKenzie scuote dalle mani.
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Il santo che perse la testa (a causa di una ragazzina!)

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29 agosto - San Giovanni decollato (1-30 ca.)

Infanzie devastate da materiale audiovisivo discutibile.
[2013]. Giovanni Battista è l'unico santo di cui festeggiamo sia il compleanno (24 giugno) che il martirio (oggi). Io per la verità da bambino pensavo che il Giovanni Decollato fosse un santo omonimo che avevano ammazzato buttandolo dalla finestra.

Invece Giovanni, come tutti sanno, fu decollato nel senso che gli staccarono la testa dal collo: un supplizio violento ma che esprimeva una considerazione per lo status della vittima; la crocifissione invece era una cosa da schiavi. A metterlo a morte fu Erode Antipa, tetrarca della Galilea satellite di Roma. Su questo le fonti concordano. Purtroppo le "fonti" sono i vangeli e l'ebreo romanizzato Giuseppe Flavio. Quest'ultimo dovrebbe essere un po' più affidabile, ma le sue Antiquitates Judaicae sono state interpolate per secoli, da copisti cristiani anche in buona fede, a cui sembrava impossibile che un cronista ebreo del primo secolo si facesse sfuggire notizie su Giovanni Battista e Gesù Cristo - così le aggiungevano loro, toh, ecco, adesso sì che è un testo completo. Quindi non è sicuro che Flavio abbia mai veramente scritto qualcosa su Gesù o Giovanni. Senz'altro non erano al centro del suo interesse: lui parla di politica, guerre, dinastie, e poi ogni tanto ci sono questi predicatori che fanno un po' casino, ma niente su cui valga la pena di imbastire un capitolo. Nelle Antiquitates si accenna a Giovanni come "un uomo buono che esortava i Giudei a una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo". Questo sarebbe bastato al sospettoso re per incarcerarlo e, in un secondo momento, farlo ammazzare.
Un'eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero. Erode, perciò, decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene.
Condannato a morte perché parlava bene. Non che non sia plausibile, da quelle parti, almeno in quel periodo, però è veramente troppo vago. Cosa avrebbe detto il battista di così pericoloso per l'ordine costituito? I vangeli di Marco e Matteo ci forniscono un'ipotesi ragionevole: Giovanni avrebbe protestato contro il matrimonio di Erode con Erodiade. "Non ti è lecito tenerla". E in effetti prima di stare con Erode, Erodiade era stata sposata col di lui fratello, che aveva litigato col padre Erode il grande e si era trasferito a Roma. Inoltre era figlia di un altro fratello di Erode, il maggiore, Aristobulo; anche lui caduto in disgrazia presso Erode il grande e fatto ammazzare. E se tutto questo vi pare un po' incestuoso, considerate che la mamma di Erodiade era una cugina di Aristobulo. L'endogamia della famiglia erodiana era tipica di altre dinastie regali del Medio Oriente, dai faraoni in poi, ma non degli ebrei. E in effetti gli Erodi erano ebrei sui generis: venivano da una regione di confine (l'Idumea), e malgrado Erode il grande avesse sposato una principessa di stirpe maccabea, molti sudditi li consideravano ebrei posticci, pedine dell'imperialismo romano. Criticare un tetrarca per i suoi costumi incestuosi poteva, insomma, avere un significato politico.

Miley Cirus scostati, questo è un lavoro per Brigid Mary Bazlen.
Infanzie che volevano vedere un film su Gesù al cinema parrocchiale, messe davanti alle anche di Brigid Mary Bazlen.
Un altro motivo per diffidare dei resoconti evangelici è che quando si voltano indietro a ricordare il martirio di Giovanni, la buttano in fiaba. Marco e Matteo sono due scrittori asciutti, ma entrambi all'improvviso sembrano voler abbassare le luci e atteggiarsi a Shahrzad, tutta un'atmosfera da corte orientale che non c'entra niente con quel che viene prima e dopo, miracoli e prediche per strade polverose. I dettagli sono universalmente noti: Erode che imprigiona Giovanni ma lo teme, Erodiade che invece lo vuole morto e per ottenerne la testa manda avanti la figlia Salomè, la danza dei sette veli, chiedimi tutto quel che vuoi, eccetera. Tutto sembra modellato sulla storia biblica di Ester, la moglie ebrea di Assuero scià di Persia. Durante un banchetto, accecato dalla sua bellezza, Assuero (Serse?) le promette che le regalerà qualunque cosa lei chieda, qualunque: anche metà del suo impero. Ester si accontenta di far ammazzare il nemico del suo popolo, l'antisemita ministro Aman, che aveva già preparato un pogrom per il mattino seguente. (Anche Erodoto attribuisce un aneddoto del genere a Serse il grande, ma la moglie nel suo caso si limita a chiedere la testa dell'amante).

Maud Allan, la prima Salomè in scena.
Maud Allan, la prima Salomè in scena
Ester però è un personaggio assolutamente positivo, l'eroica patriota che mentre si trucca e si tira da urlo per lobbizzare il marito non cessa di pregare per le sorti del suo popolo minacciato nella sua stessa esistenza. L'Erodiade dei vangeli viceversa è una malvagia principessa orientale, disposta a usare la figlia come un'esca per manovrare gli impulsi incestuosi del marito. La danza dei sette veli, che Oscar Wilde voleva far ballare a Sarah Bernhardt, ma poi il testo fu accusato di blasfemia e lei strappò il contratto, nei vangeli non c'è. Non è chiaro da che punto in poi qualcuno decise che Salomè dovesse togliersi sette veli. Potrebbe essere un'antica reminiscenza di Ishtar, la dea babilonese dell'amore e della fertilità che quando va sottoterra a trovare la dea avversaria Ereshkigal deve passare sette cancelli e togliersi sette vestiti - finché non resta nuda. Ma del mito è rimasto soltanto un motivo narrativo, riutilizzato in chiave romanzesca. Quello che Erode Antipa promette a Salomè, che Serse prometteva alle sue mogli, è il cosiddetto "don contraignant": una promessa in bianco che impegna un sovrano a fare qualunque cosa, compresa ovviamente qualcosa di cui il sovrano si pentirà immediatamente. Diventerà un motivo tipico della letteratura cavalleresca, soprattutto nel ciclo bretone, dove spesso i cavalieri sono costretti a fare cose molto stupide perché l'hanno promesso senza saperlo. Salomè, lo sappiamo tutti, chiede la testa di Giovanni su un piatto d'argento, e su tutto è questo dettaglio di decadente cinismo a farci sentire a miglia di distanza dal resto dei vangeli. Erode è sconvolto: anche in catene il profeta gli fa paura, da martire poi sarà sicuramente foriero di sciagure, ma ha promesso: e ogni promessa è un debito. Verrà sconfitto in guerra, morirà in esilio. Anche di Salomè si raccontano morti orribili, in cui di solito le capita di perdere la testa, ad esempio incastrandosi in un lago ghiacciato. Quanto a Giovanni, darà vita a una importante produzione di teschi reliquia: ce n'è una a Roma (ma la mascella è a Viterbo), una a Istanbul, a Monaco di Baviera, a Damasco, ce n'era anche una poco lontano, ad Antiochia, un'altra ad Amiens bottino della quarta crociata, una a Kent. Di ossa e frammenti d'ossa ce n'è praticamente dappertutto.

HO BACIATO LA TUA BOCCA, IOKANAAN. HO BACIATO LA TUA BOCCA.
HO BACIATO LA TUA
BOCCA, JOKAHAN.
Si parlava di Oscar Wilde. La sua Salomè, la fanciulla assetata di sangue di martire, è uno dei suoi personaggi più memorabili. Per darle forma scelse il francese, che amava ma non maneggiava alla perfezione. Quanto alla traduzione in inglese, si affidò all'amico del cuore, Lord Alfred Douglas, che ne aveva recensito con tanto entusiasmo l'originale nel 1891, ai tempi del loro primo incontro. C'era solo il piccolo problema che Douglas non era un bravo traduttore, la sua versione era disastrosa. Wilde non sapeva come dirglielo senza offenderlo, l'altro del resto decise di offendersi comunque, è colpa tua che in francese non ti spieghi bene ecc. ecc.. Beardsley, l'illustratore (a cui si deve gran parte del successo), racconta di un traffico incessante di fattorini e telegrammi, non c'erano ancora gli sms per litigare ma nella scena letteraria decadentista ne esisteva già la necessità. Alla fine la traduzione fu rifatta, forse da Wilde forse no; il nome di Douglas fu tolto dalla copertina, ma all'interno una dedica di Wilde lo accreditava come traduttore. Douglas apprezzò, in fondo è volgare il nome in copertina, la dedica invece fa fine. L'anno dopo il padre di Douglas riuscì a far sbattere Wilde in carcere: era ancora rinchiuso quando finalmente Salomè debuttava a Parigi, senza la Bernhardt. Wilde a Douglas voleva bene, questo non si discute: ma così bene da affidargli il suo libro, il suo nome? Chiedimi qualunque cosa, qualunque cosa, la testa del mio superego su un piatto d'argento, eccola: ma non di tradurmi un libro, per favore, no, quello no; è mio, c'è il mio nome sopra, potrebbe sopravvivermi, e tu scusami sei tanto carino ma tradurre è roba da professionisti. Io gli avrei risposto così. Ma io non ho mai amato Lord Douglas, evidentemente.
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Alcuni per sempre, non per il meglio

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5. In My Life (Lennon-McCartney, Rubber Soul, 1965).

1965 © David Bailey
There are places I remember. Comincia tutto così. La fase intermedia dell'epopea beatle, quella che va da Rubber Soul a Sgt. Pepper, la preferita dai critici. In My Life è il brano che in un qualche modo la inaugura: il primo in cui Lennon si guarda indietro ammette di avere un passato, ricordi, rimpianti. Due anni dopo, Sgt Pepper sarà ancora un tentativo di ambientare canzoni e personaggi in quei "posti", in un paesaggio sentimentale. Ma tutto era iniziato con In My Life, e In My Life all'inizio non era che uno scartafaccio di Lennon, una lunga lista di "posti" e nomi e circostanze, che non aveva le caratteristiche per diventare una canzone e non lo sarebbe diventata, senza l'intervento di Paul.

L'episodio ricorda da lontano quello raccontato da Dylan a proposito del testo di Like a Rolling Stone, che all'inizio era uno sfogo di pagine e pagine, trasformatosi in canzone attraverso un severo procedimento di sottrazione. In My Life è forse il caso più eclatante in cui le testimonianze dei due autori divergono: Lennon la reclamava come quasi completamente sua; McCartney ritiene di avere operato un intervento decisivo, ma afferma anche di essersi ispirato a Smokey Robinson, ovvero a uno degli autori più seminali per John. Quindi il John di In My Life potrebbe essere uno dei più estremi travestimenti di Paul. Il caso è così controverso che due anni fa un pool di ricercatori della Stanford University ha usato proprio In My Life per testare un metodo statistico di attribuzione, basato sulla frequenza con cui determinati stilemi musicali ricorrono nella produzione di Lennon e in quella di McCartney: la conclusione dell'esperimento è che ci sono 18 possibilità su mille che il brano sia stato scritto da Paul. Caso risolto? No, perché appunto, se Paul avesse voluto scrivere un brano alla John avrebbe proprio imitato gli stilemi che i computer della Stanford sono stati educati a riconoscere.

Quel che è sicuro è che il risultato finale è completamente de-liverpoolizzato: è un brano che parla di ricordi, ma non ricorda niente. Sostiene di rammentare dei "luoghi", ma non spiega quali siano. Ci sono persone vive e altre morte, ma non ha intenzione di presentarcele. Tutto l'immaginario audio-visivo che costituirà il fascino di Penny Lane, qui resta fuori del quadro. Al centro del quadro, un Lennon insolitamente eloquente ci intrattiene con un discorso che rasenta il grado zero della poesia: nessuna immagine insolita, anzi, nessuna immagine: una riflessione che viene spontaneo tradurre in prosa. Ci sono posti che mi ricordo, nella mia vita, anche se alcuni sono cambiati. Alcuni per sempre, non per il meglio: altri sono andati e altri sono rimasti. Ogni posto ha avuto un suo momento con persone e con cose che posso ricordare. Alcuni sono morti, altri sono vivi: nella mia vita li ho amati tutti. È chiaro che qui in fase di scrittura è intervenuta una forte censura, ma non dobbiamo per forza dare la colpa a Paul. John ha sempre privilegiato l'ambiguità, e fino all'incontro con Yoko Ono ha sempre evitato di appesantire le canzoni con riferimenti troppo personali. Si considerava pur sempre un "professional songwriter", uno che non scrive per fare spettacolo dei propri sentimenti, ma per descrivere quelli di tutti.

Anche in questo risiede la grandezza di In My Life: un brano che scarta l'opzione autoreferenziale ma aiuta ognuno di noi a riconciliarsi col proprio passato. È un brano che possiamo ascoltare nel momento in cui decidiamo di dedicarci alle persone che non ci sono più, o ai posti che sono cambiati. Sin dall'inizio ci accoglie con un riff elegante ma pacato. È scritto in un inglese basilare, che capiamo al primo ascolto e possiamo ripetere come se fosse nostro. Non parla di niente in particolare e parla di tutti noi. Inoltre è una canzone double-face, possiamo vestirla in due modi e ci sarà comoda ugualmente. Se ci soffermiamo sulla prima strofa, abbiamo deciso di vestire i panni del nostalgico. Se passiamo alla seconda, riveliamo una più matura e serena disponibilità ad affrontare presente e futuro: di tutti questi amici e amanti, non ce n'è uno che si possa paragonare a te. E tutte queste memorie perdono significato, se penso all'amore come a qualcosa di nuovo. E benché sappia che non perderò mai l'affetto per le persone e le cose che sono venute prima [che razza di paraculo!], e non smetterò mai di pensare a loro... nella mia vita, io amo più te. Così alla fine tra il crepuscolarismo di McCartney e il futurismo di Lennon, è il secondo a vincere. Anche se abbiamo la sensazione – più facile da condividere che da spiegare – che questo fosse uno dei casi in cui si erano scambiati le parti: che John avesse più voglia di ricordare e Paul più spinta a guardare avanti. Non cambia molto in fin dei conti: erano ancora quasi la stessa persona, quando John cantava In My Life.

Mi sarebbe piaciuto finire così, ma mancava un cenno sull'assolo di pianoforte accelerato, che per i tempi era un esperimento pionieristico in due direzioni speculari: quella avanguardistica (George Martin incidendo il pianoforte sul nastro rallentato s'inventa uno strumento) e quella classicheggiante, anzi baroccheggiante. Il problema è che così si rovina l'effetto finale... d'altro canto non succede un po' la stessa cosa anche con la canzone? Non introduce in un brano misurato, che vuole dire una cosa sulla memoria con le parole più semplici a disposizione, un dettaglio barocco completamente straniante, gratuito? Non è l'elemento dissonante che ti fa dubitare della sincerità di tutto l'insieme? No, evidentemente no, evidentemente a tutti piace In My Life proprio così com'è.
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