Il frate cancellato

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14 marzo: Beato Filippo Longo (XIII sec.), presidente delle suore clarisse


A Filippo Longo capitò di essere il settimo seguace di Francesco d'Assisi, quando era ancora una banda di mistici scalzi e potenzialmente sovversivi; poi di fare carriera prendendo ordini da un papa, e dirigendo un ordine femminile; e poi all'improvviso fu cancellato, come se non fosse mai esistito: al punto che è quasi per caso che conosciamo il suo nome oltre a un soprannome ("Longo") che gli deriverebbe dalla sua statura. Non sappiamo da dove venisse (comunque un posto qualsiasi, un borgo ai piedi del Subasio o di Rieti o del contado di Perugia, o di Teramo: nessuna città importante reclama Filippo Longo). 

Secondo Tommaso da Celano, primo biografo di Francesco, Filippo pur non avendo fatto studi particolari era un oratore particolarmente capace ("il Signore [gli] aveva toccato e purificato le labbra con il carbone ardente, così che parlava di Dio con mirabile dolcezza"). Forse è il motivo per cui Francesco lo portava con sé quando si reca a San Damiano a incontrare Chiara: affinché nessuno osasse sollevare il benché minimo sospetto su questi incontri, gli serviva un testimone convincente che potesse riferire i contenuti delle discussioni tra i due santi e garantirne l'ortodossia. 

In seguito Francesco parte per la Terrasanta e quando torna scopre che la predilezione di Filippo per Chiara e le sue consorelle si è trasformata in un vero e proprio incarico amministrativo: Filippo è diventato "primo Confessore, Visitatore, Correttore, e Presidente" delle suore che ancora non si chiamano clarisse ma monache di San Damiano. A conferirgli una tale autorità non poteva che essere stato il cardinale Ugolino dei Conti di Segni, il grande sponsor di Francesco e Chiara presso la curia di Roma. 

Francesco, che probabilmente senza Ugolino avrebbe rischiato più di un processo per eresia, questo tentativo neanche troppo velato di trasformare il suo movimento di poveri in un ordine gerarchico manovrato dalla curia non lo digeriva così bene. Lo si capisce da piccoli episodi come questo, riportato da Tommaso da Celano nella sua seconda biografia: appena scopre che Filippo ha fatto carriera come capo delle clarisse, lo destituisce immediatamente dichiarando: "I miei frati proprio per questo sono chiamati Minori, perché non presumano di diventare maggiori". Può darsi che semplicemente Francesco ritenesse Chiara e le sue sodali in grado di governarsi da sole. Filippo abbozza, ma Francesco è già malato e muore nel giro di qualche anno (1226); pochi mesi dopo Ugolino diventa papa Gregorio IX e rimette Filippo al suo posto di confessore e presidente delle clarisse. 

Sono gli anni in cui i francescani si dividono tra un'ala più oltranzista che vuole ritornare all'esempio del fondatore, e una maggioranza 'conventuale' ormai organizzata come un ordine religioso. Filippo dà la sensazione di essere uno dei tanti operatori di questa normalizzazione, ma come spesso accade c'è sempre qualcuno più normalizzatore di te che a un certo punto ti fa le scarpe e non è nemmeno escluso che a un certo punto Filippo sia caduto in disgrazia. Il suo nome viene citato tra i testimoni oculari consultati dai tre frati che nel 1246 stilano la "lettera di Greccio", un documento che accompagna una raccolta di testimonianze inedite su Francesco, finora ignorate dalle biografie. Questi tentativi di raffigurare un Francesco diverso da quello ufficiale vengono completamente fermati nel 1263, quando al Capitolo Generale di Pisa l'ordine francescano stabilisce di distruggere tutte le biografie del santo e sostituirle con l'unica omologata, la Legenda Maior compilata per l'occasione da Bonaventura di Bagnoregio, ministro generale dell'ordine. 

Bonaventura di Filippo Longo non fa menzione. Come se non fosse mai esistito: e se l'opera di cancellazione prevista dai francescani fosse stata completa, oggi non sapremmo nulla di lui. E in ogni caso non ne sappiamo molto. Secondo lo storico seicentesco Ludovico Jacobilli, specializzato in santi di Umbria e dintorni, i superiori lo avrebbero trasferito in Alvernia, dalle parti di Clermont-Ferrand, dove avrebbe continuato a stupire gli ascoltatori con le sue doti oratorie davvero innate, se anche il passaggio da Italia a Francia non le aveva appannate. Lo stesso Jacobilli ammette che altri cronisti lo danno per morto molto più vicino ad Assisi, ovvero a Perugia: e sepolto in uno dei convento di suore che dirigeva; il che forse era ammissibile prima di un'ulteriore normalizzazione degli ordini maschili e femminili: ma già ai tempi di Jacobilli risultava troppo difficile da accettare.

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Affogarne 60 per educarne un miliardo

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Non ci paga nessuno per discuterne, e quindi tanto vale essere franchi: riguardo ai migranti, non c'è un governo italiano che non abbia le mani insanguinate, perlomeno da Berlusconi in poi. Alcuni hanno avuto il relativo merito di trattare la situazione come una crisi umanitaria – il che non significa che non abbiano commesso negligenze imperdonabili. Altri hanno deliberatamente lasciato annegare migliaia di persone, mentre cercavano di coprire le loro responsabilità sviluppando teorie del complotto risibili (i "taxi del mare"); quello che è successo insomma a Cutro, e tra breve succederà altrove, non è niente di nuovo: possiamo dire che il governo Meloni ha dimostrato, nel frangente, una determinazione criminale, ma non diversa da quella mantenuta ad esempio ai tempi di Minniti. Quello che sorprende, nella tragedia di Cutro, quello che ci costringe a collegare i morti annegati al voto dello scorso settembre, è la specifica assurdità dell'episodio: non il fatto che siano morti, ma che siano morti a duecento metri dalla terraferma, a poche ore da un avviso di Frontex e mentre le imbarcazioni più adatte al soccorso restavano al molo. Tutto questo può anche essere successo a causa di una terribile coincidenza di eventi – vedremo cosa ne penserà la magistratura – ma non si può escludere che c'entri la profonda insipienza di alcuni elementi della catena di comando che fino a settembre magari facevano altro, anche se è difficile immaginare che altro fossero in grado di fare. 

2/12/2022

Il fatto nuovo, insomma, non è che si lascino annegare i migranti: è da molti anni che lo facciamo. Ma non in modo così smaccato, non a così pochi metri dalle nostre spiagge: bisogna essere stupidi per ammazzarli così e a quanto pare lo siamo diventati. Siamo probabilmente passati dalla fase in cui i governanti raccontavano sciocchezze per giustificare i nostri crimini (il "pull factor"), alla fase in cui nuovi governanti, persino più ingenui dei precedenti, credono a quel tipo di sciocchezze. Vent'anni di giornaletti fascisti scritti da mestatori fatti passare per giornalisti controcorrente hanno creato quel tipo di politico che probabilmente crede davvero che gli aspiranti migranti s'informino prima di partire su che tipo di governo esiste in Italia: se c'è al governo la "sinistra immigrazionista" corrono subito a fare le valigie; se invece vince aa Meloni subito cominciano a passarsi la voce sui loro smartphone (visto che hanno tutti lo smartphone): eh no, quella è tosta, meglio restare sotto le macerie di un bombardamento o di un terremoto od ovunque ci troviamo. 

Siccome poi qualcuno recalcitra, siccome qualcuno ormai magari è già a metà strada e va dissuaso finché è in tempo, occorrono lezioni esemplari: in fondo una volta ammesso che possa esistere un pull factor, non si può che giungere alla conclusione che esso possa essere contrastato da un non-pull factor, ad esempio dalla notizia di una strage così vicina alle nostre coste. Un avviso a tutti i poveri del mondo: lasciateci perdere, siamo degli animali, potreste naufragare a cento metri dalle nostre spiagge e non faremmo nulla per salvarvi, è chiaro? Affogarne sessanta per educarne un miliardo, probabilmente ai piani alti la pensano così.

Cioè, "pensano" è una grossa parola. Non hanno la percezione della quantità, vivono in un mondo immaginario dai confini elastici. Scambiano l'Africa per un cortile, il Mediterraneo per un oceano, lo straniero è un alieno ostile che però ragiona esattamente come un lettore di Libero, se possiamo definirlo ragionare. Vogliono soluzioni semplici, il che richiede problemi semplici: la pressione demografica mondiale non lo è, e quindi smette di essere un problema, insieme alle cause che la determinano. Ci sono solo migliaia di persone che hanno voglia di venire da noi, ma se gli mostriamo che siamo degli animali spietati e incivili vedrai che la voglia gli passa.

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Tre cappuccini in Etiopia

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3 marzo: beati Liberato Weiss, Samuele Marzorati e Michele Pio Fasoli da Zerbo

Premesso che una svista può capitare a tutti, alla voce "Samuele Marzorati e Michele Pio Fasoli da Zerbo" del sito ufficiale del Dicastero delle Cause dei Santi si legge ciò:

"Lungo i secoli vi sono stati tanti tentativi dei missionari cattolici di poter penetrare nei territori a religione musulmana per poter portare il Vangelo anche lì, ma gli sforzi si sono dimostrati in buona parte inefficaci, vista la intolleranza religiosa che ha sempre distinto il sempre presente estremismo arabo".

Il... sempre presente estremismo arabo? 

È un testo tratto da una paginetta del sito Santiebeati, che a sua volta riprende la scheda di Antonio Borrelli, giornalista del Giornale. Quest'ultimo mentre la stilava doveva essersi distratto un poco: non solo perché mentre parlava di "estremismo arabo" si stava dimenticando quel millennio in cui ad esempio in Egitto gli arabi cristiani (copti) hanno convissuto coi musulmani; non solo perché "estremismo arabo" è proprio un'espressione che storicamente può avere un senso solo a partire dal secolo scorso, quando nasce appunto il nazionalismo arabo, ma soprattutto perché... né Samuele Marzorati né Michele Pio Fasoli sono stati martirizzati da arabi o da musulmani in generale

Il castello del negus Fasilides, nella fortezza di Fasil Ghebbi, a Gondar

A uccidere a pietrate i due frati cappuccini, assieme al confratello bavarese Liberat Weiss, sono stati gli etiopi, che con gli arabi non hanno etnicamente molto a che spartire (oserei dire che siamo più simili noi italiani, agli arabi, di loro) e soprattutto non sono musulmani: perlomeno quelli che hanno lapidato i tre frati erano cristiani, ancorché di confessione miafisita, come i copti egiziani e gran parte degli etiopi al tempo. Lo si legge nelle altre due schede dedicate ai frati da Santiebeati, e nell'omelia pronunciata da Papa Giovanni Paolo II e riportata sempre su Causesanti.va. 

All'inizio del Settecento la Congregazione De Propaganda Fide decide di riannodare i rapporti con i cristiani di Etiopia, completamente interrotti da qualche decennio. Forse ricevono persino un invito dall'ultimo dei grandi Negus della dinastia salomonide, Iyasu I il Grande, che stava cercando di aprire l'Etiopia al mondo, allacciando anche rapporti con la corte di Luigi XIV e la Compagnia delle Indie Occidentali. Detto questo, l'impero del Negus non è dietro l'angolo: la penetrazione coloniale europea inizierà 150 anni più tardi, la via del deserto è quasi del tutto sconosciuta ai bianchi e i cappuccini che si offrono volontari sanno benissimo che gli ultimi sei confratelli giunti in Etiopia erano stati martirizzati nel 1669. Quel che non possono sapere è che il viaggio sarà lentissimo, estenuante: i primi sei volontari (tra cui Liberat Weiss e il pavese Michele Pio) giungono nel gennaio del 1705 al Cairo dove si aggregano a una carovana che risale il corso del Nilo: direzione Gondar, capitale etiope. 

Nessun "estremista arabo" li ostacola, ma giunti all'altezza di Al Dabbah (Sudan), sono informati che Iyasu non è più imperatore: alla morte della sua concubina preferita si è ritirato a vita privata e un figlio, per essere sicuro di succedergli, lo ha fatto ammazzare. Ne deriva una guerra di successione che blocca il viaggio per tre anni. Alcuni frati, sfiduciati, cominciano a tornare indietro: il capospedizione, Giuseppe da Gerusalemme, si ammala di qualcosa (com'era frequentissimo tra gli europei prima della diffusione del chinino) e muore. Alla fine anche Michele e Liberati tornano al Cairo, dove però ricevono l'ordine di riprovare a raggiungere Gondar via mare, anche perché nel frattempo la situazione in Etiopia sembra essersi calmata. 

Ai due si aggrega il varesino Samuele Marzorati, reduce da un'esperienza missionaria non fortunata nell'isola di Socotra. I tre arrivano finalmente a Gondar nel 1711, dopo sette anni, giusto per scoprire che il nuovo re Yostos, per quanto ospitale, non intende autorizzarli a predicare una confessione religiosa diversa da quella miafisita. Probabilmente pesa ancora, nei confronti dei frati cappuccini, il ricordo delle guerre religiose del secolo precedente. Nel 1631 i gesuiti, dopo aver convertito il Negus Susenyot, avevano tentato la cattolicizzazione forzata di tutti i sudditi. Ne era seguita una guerra al termine della quale Susenyot, dopo aver massacrato in battaglia ottomila ribelli refrattari al cattolicesimo, aveva deciso di fare un passo indietro. Da lì in poi il cattolicesimo aveva perso gran parte del suo appeal in Etiopia: i frati che venivano da nord erano visti come sovvertitori di una tradizione millenaria, e in effetti lo erano. 

A Liberat, Michele e Samuele viene chiesto di trasferirsi nel Tigré, dove per qualche tempo tirano a campare esercitando la professione medica. Liberat improvvisa anche un'attività di orafo: ma la permanenza dei tre in Etiopia dipende dalla benevolenza di un re dal trono vacillante. Nel 1716 si ammala: è ancora in agonia mentre in un'altra ala del palazzo viene incoronato il nuovo Negus, Dawit III. Quest'ultimo convoca i tre frati a Gondar e offre loro la possibilità di convertirsi al miafisitismo etiope... o di morire martiri. È il momento che aspettavano da anni: per i missionari il martirio è sempre un'opzione. Forse in certi casi è persino una liberazione, quando da anni vivi in un territorio ostile e sei educato a pensare che il tuo sangue versato potrebbe, in qualche modo, cambiare le cose per chi verrà dopo di te. Così davanti a una corte di sacerdoti etiopi, Liberat Michele e Samuele testimoniano la loro fede, senza trascurare di accusare i loro accusatori di eresia. La condanna a morte viene eseguita il 3 marzo, per lapidazione. Cristiani uccidono cristiani: non è la prima volta, non sarà l'ultima. Si racconta che un monaco abbia minacciato i presenti: chi non tira almeno cinque pietre è un nemico della Vergine Maria. Gli estremisti arabi, come si vede, non c'entrano molto.

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Amen, dissero le pietre

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2 marzo: San Luca Casali di Nicosia (IX secolo), che predicò alle pietre

Voi ogni tanto vi chiedete cosa lo fate a fare? Perché io più o meno tutti i giorni. Prima o poi inventeranno un arnese che sa farlo al vostro posto – se non l'hanno già inventato. Anche questi pezzi sul santo del mese, c'è sicuramente un algoritmo che sa già scriverli meglio. C'è un algoritmo per tutto ormai. L'unico di cui sento la mancanza, è l'algoritmo che legga quello che invece scrivo io. L'algoritmo che mi faccia i complimenti, l'algoritmo che mi voglia bene. Visto che di esseri umani ne passano sempre meno, e un bel giorno non ne passeranno più: già adesso, se togli quello che viene a litigare, a spacciare un link, quello che stava cercando tutt'altro ma Google non ha del tutto smesso di farlo passare da qui... rimane una manciata di persone, l'età media delle quali non mi lascia molte speranze. Poi ogni tanto boom! Un migliaio di accessi dalla Bassa Sassonia si riversa su una agiografia, una recensione di un Marvel del 2014 o un lato B di Battiato, non è chiaro perché succeda; forse ogni tanto a Google avanzano dei cookies e li nasconde sotto il primo tappeto che trova, che a volte è un post mio. Va' a sapere. E io qualche volta ci casco pure eh, mi domando: ma come mai stanno tutti leggendo il mio pezzo sul lato B di Battiato? Forse qualche pezzo grosso ne ha parlato? Ma pezzo grosso di che. No, sono tutti algoritmi ormai, e io a volte mi sento l'ultimo blogger sulla Terra, oppure Bernardino Lamis, che nella novella L'eresia catara impartisce la lezione della sua vita a una classe vuota, scambiando per alunni gli impermeabili che sgocciolano. E anche un po' Luca Casali di Nicosia.

Divenuto monaco in giovanissima età, e cieco nella vecchiaia, Luca Casali è ricordato soprattutto per un miracolo seguito a uno scherzo di cattivo gusto. Stava ritornando da una visita di parenti a Nicosia, che non è la capitale di Cipro ma il comune dell'entroterra siciliano, quando i confratelli che lo accompagnavano gli dissero, in fondo a una pietraia: ehi, la gente ha saputo che passavi ed è venuta a sentirti, non è che hai una predica pronta? Luca, commosso dalla considerazione in cui è tenuto dalla gente del posto, improvvisa lì per lì un sermone coi fiocchi: peccato non ci sia nessuno ad ascoltarlo, tranne i confratelli che si tengono il saio dal ridere. Ma il riso muta tosto in sbigottimento quando al termine del discorso, dopo che Luca ha impartito la benedizione, le pietre prorompono in un sonoro "Amen". 

È un caso davvero particolare – di solito i miracoli servono a guarire le persone, o a risolvere i loro problemi. Ma Luca Casali non smette di essere cieco. Per un attimo ha la sensazione di essere ancora utile. Ma è solo un'illusione, il miracolo è funzionale a un'illusione. La storia è senz'altro ispirata al passo in cui Gesù spiega che Dio può trasformare in figli di Abramo anche le pietre (Matteo 3,9; Luca 3,8). E però le pietre di San Luca dopo aver risposto restano pietre. Di questa storia dal retrogusto un po' aspro avrebbe potuto ricordarsi Luigi Pirandello, quando inventò il personaggio patetico di Bernardino Lamis. Non so se ci avete fatto caso, ma le prediche migliori le facciamo ai sassi e alle sedie vuote. Sarà che fanno silenzio, ci danno spazio, ci confortano con la fiducia che sembrano concederci, e a quel punto ci lasciamo andare e facciamo discorsi bellissimi, e i sassi se ne rendono conto, e se potessero applaudire lo farebbero – grazie, grazie, basta così per carità, siete troppo buoni. 
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Sono felice e poi sono preoccupato e poi boh

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È da tre giorni che sono contento. Ma poi ci penso su e mi preoccupo, per un istante mi spavento addirittura. Però sono contento lo stesso. Insomma a quanto pare sono vivo. Era da parecchio che non mi succedeva, mi ero anche un po' scordato. Elly Schlein è la nuova segretaria del Partito Democratico, e io sono contento, perché l'ho votata (è dal 2014 che la voto, a quanto pare). Ma ho anche paura, perché non me lo aspettavo. L'ho votata perché, sono un proporzionalista (una fede ancora minoritaria del Pd); per me ancora due giorni fa l'idea era a mostrare ai bonacciniani che esiste una sinistra del partito con un peso rilevante. Salta fuori che la sinistra pesa più di Bonaccini e soci: è una sorpresa per tutti, direi, e ci pone tutta una serie di problemi che almeno non sono i soliti problemi. Anche perché, per quanto possiamo festeggiare, dobbiamo sempre avere in mente l'obiettivo. 

Avvenire

Queste primarie la Schlein le ha vinte con seicentomila voti scarsi (il suo rivale ne ha presi ottantamila in meno). Alle prossime elezioni il Pd deve prendere almeno sette milioni di voti. La Schlein può arrivarci? Devo essere sincero: per quanto io l'abbia votata, per quanto mi ispiri una genuina simpatia, fino a domenica pensavo di no. L'ho trovata, forse la trovo ancora, un personaggio molto divisivo, un bersaglio ideale per gli hater professionisti e dilettanti – prendete quello che hanno scritto e memato su Rosy Bindi e Boldrini e moltiplicatelo per "bisessuale", "origini ebraiche", "Svizzera". Trovavo che facesse un buon contrappunto all'emilianocentricità di Bonaccini, ma se diventa la componente più importante del Pd, non rischia di ridimensionarlo? È probabile, ma d'altro canto forse stiamo prendendo il problema dal corno sbagliato. 

Oltre al fatto che la Schlein ha vinto, occorre notare che Bonaccini ha perso. Di poco: ma avrebbe dovuto vincere di molto. Sembrava una candidatura molto più solida, invece non lo era. La sua strategia per arrivare a quei sette milioni era lineare, e non molto diversa da quella che ha funzionato con aa Meloni lo scorso settembre: aspettare. Aa Meloni ha aspettato vent'anni – che Berlusconi invecchiasse, che Salvini si bruciasse – finché davvero doveva toccare a lei, a destra non c'era più nessuno possibile (del resto guardate con che ministri si ritrova). Sull'altra sponda, Bonaccini è sempre sembrato ispirato a un analogo attendismo. Lui stesso sembra essere arrivato a capire di avere delle chance per esclusione: bruciato Bersani, bruciato Renzi, restavano i presidenti di regione. Puglia fuori, Campania improponibile, Lazio è durato tre anni, a chi tocca adesso? Oddio, ma tocca a me

In controluce il solito errore di prospettiva degli esponenti del Pd, convinti di poter disporre dell'identità del partito senza preoccuparsi – come tutti gli altri politici, al giorno d'oggi – di registrare i nomi e i simboli; tutto il contrario, il Pd per Veltroni doveva essere un partito leggero ma già al tempo si dava per scontato che sarebbe stato il partito di Veltroni: si aprivano le primarie ai non tesserati dando per scontato che avrebbero plebiscitato Veltroni, ma poi si restava perplessi quando un sacco di sconosciuti entravano per votare, comprese persone non esattamente, come dire, bianche. Ma in un qualche modo le due classi dirigenti che si erano fuse nel Pd erano convinte che il partito sarebbe rimasto cosa loro per sempre, e più in generale che uno dei due poli della politica italiana sarebbe stato occupato da loro: un diritto di prelazione basato sull'anzianità. Ne erano talmente convinti che hanno lasciate aperte le primarie ai non iscritti, malgrado fosse chiaro ormai da dieci anni e più che si trattava di una sciocchezza. 

Altri si sarebbero preoccupati di individuare un blocco sociale di riferimento, ma Veltroni voleva piacere a tutti e i successori avevano paura di dispiacere troppo a qualcuno; altri si sarebbero preoccupati di mantenere un'egemonia culturale, ma in quel reparto a un certo punto è entrato Franceschini che si è baloccato con le sue piattaforme finché ha potuto. Bonaccini ha continuato a dare per scontato uno zoccolo duro di lettori dell'Unità, anche se nel frattempo l'Unità è fallita tre volte; la Schlein non è che potesse contare su chissà che mediatico fuoco di fila, eppure un po' di passaparola le è bastato per spostare il baricentro di un partito la cui massima aspirazione ormai era rappresentare il buongoverno di alcune regioni d'Italia: neanche tante. 

La Schlein in compenso ha tutto quello che serve per apparire la segretaria del partito delle ZTL, il famoso partito metropolitano che non riesce a ripartire dalle periferie. A proposito: chi vi dice che le elezioni si vincono nelle periferie, quasi sempre non sa di cosa sta parlando, è convinto che sia un sinonimo di "provincia". Non è che le periferie non siano importanti, ho molti amici periferici, però quanti milioni di italiani ci vivono? In provincia più della metà, fine della questione. In provincia, molto più che in periferia, il blocco sociale che si riconosce naa Meloni è definito con una certa chiarezza: si tratta della piccola-media impresa. Questo spiega l'importanza che assumono a ridosso delle elezioni questioni tutto sommato non cruciali, come l'obbligo del pos o il tetto del contante. Ma anche il reddito di cittadinanza che impedisce ai poveri ristoratori di sottopagare i camerieri, le rivendicazioni dei balneari, il miraggio della flat tax, e una serie di argomenti che persino aa Meloni non osava più toccare, ma i suoi elettori continuavano a crederci: l'uscita dall'Euro, l'antivaccinismo. La piccola-media impresa non è necessariamente fascista: vota per chi le promette di lasciarla in pace, quindi adesso vota Meloni, prima Salvini, qualcuno ha provato Renzi, ha preso anche una breve sbandata per Grillo; in sostanza chiunque le prometta che c'è ancora qualche margine in un mondo globalizzato che presto o tardi lo rimuoverà. Sotto sotto la Piccola Impresa Italiana lo sa, che non è equipaggiata per fronteggiare l'emergenza climatica, la nuova guerra fredda che allontanerà forse per sempre gli oligarchi orientali dai nostri alberghi e dalle nostre boutique, la smaterializzazione dei servizi, la globalizzazione logistica di Amazon, eccetera. Non sono scemi: sono soltanto disperati e quando si è disperati si sale su qualsiasi barcone. 

Ora questo stasera mi preoccupa: non solo la piccola media impresa non troverà motivi per votare la Schlein, ma in lei può individuare facilmente un nemico di classe. La borghese metropolitana che non vuole usare contante, non capisce perché non si possano raddoppiare le licenze dei taxi, e magari vuole tassare chi ha un patrimonio, una seconda casa, una barchetta. Con Bonaccini sarebbe stato diverso? Sì, se Bonaccini avesse dimostrato un carisma che queste primarie non hanno rilevato. Per come stanno le cose, forse questo Pd non ci deve nemmeno provare, e concentrare invece le sue energie sulle classi sociali che da questo Pd si aspettano di essere rappresentate: lavoratori dipendenti, giovani, minoranze. Tutto qua, e Calenda e Conte raccatteranno il resto. Qualcuno se ne andrà – qualcuno se ne sta già andando, ma è un partito aperto, non c'è nemmeno una porta da sbattere. Un'altra scissione sarebbe ridicola, con tutti i partitini che ci sono già, e forse a Bonaccini e co. conviene interpretare l'opposizione ragionevole, il ruolo interpretato con tanto successo da Giorgetti nella Lega. 

Se alla fine semplicemente ci troveremo un partito socialdemocratico al 15%, avremo almeno conquistato il diritto di votare per un partito socialdemocratico, che in tutte le altre nazioni d'Europa è garantito e non si capisce perché invece in Italia no. È il partito che può vincere alle prossime elezioni? Dipende molto da quanto aa Meloni avrà deluso – che succeda è sicuro, ma se delude troppo rischia di sgonfiarsi subito e sollecitare l'ennesimo governo tecnico; se invece delude poco ce la potremmo tenere pure dopo il '28? Non ne ho idea. Sono sempre quello che domenica sera era convinto che avrebbe vinto Bonaccini. Invece ha vinto la Schlein e le dico, in bocca al lupo (ma si può dire? Non lo so). Non credevo che vincesse, ma ho votato per lei. Ho votato per lei, ma non ero sicuro che fosse il candidato più adatto. Comunque ha vinto, e ora sarà bersagliata a 360°. Mi stava già simpatica prima, nei prossimi mesi non credo che riuscirò a essere oggettivo nei suoi confronti. Non è paternalismo: la stessa reazione l'ebbi con Bersani. Spero che le vada meglio. Lo spero per tutti noi. 

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Il samurai nell'inferno di Unzen

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28 febbraio: martiri dell'inferno di Unzen (28/2/1627)

https://peterlamphotography.com
/2018/03/24/the-hells-of-unzen/
I resoconti dei martiri del Kirishitan – il cristianesimo giapponese – sono spesso raccapriccianti. O forse è la mia sensazione? Sono talmente assuefatto ai racconti occidentali di fanciulle mutilate e date in pasto alle belve che non ci trovo ormai niente di strano, mentre le crocifissioni di massa praticate dai giapponesi nel Seicento mi sgomentano. Se qualche martire da noi è mai stato davvero gettato nella bocca di un vulcano, è stato così tanti secoli fa che non ho difficoltà a considerarla una leggenda: ma che sia successa la stessa cosa appena 400 anni fa a Unzen Jigoku (un piccolo vulcano vomitante acque sulfuree e corrosive, spesso tradotto "inferno dell'Unzen") mi ispira un genuino orrore. 

Mi piacerebbe essere sicuro che i testimoni abbiano esagerato: documentare la persecuzione anticristiana dello shogunato era oggettivamente difficile; e siccome oggi la memoria interrotta del Kirishitan è soprattutto una questione turistica, preferisco coltivare il sospetto che una certa insistenza sulla crudeltà dei boia e sull'eroismo delle vittime sia quello che il pubblico internazionale vuole sentirsi raccontare: il Giappone piace estremo. Altrimenti non è facile capire le ragioni di una crudeltà che sorpassava la necessità di eliminare il culto che lo shogunato percepiva come un fattore di disgregazione e di apertura al mondo esterno (si sbagliava?)

Il 28 febbraio del 1627 il samurai Paolo Uchibori viene condotto con altri 14 cristiani presso il vulcano. Il giorno prima Uchibori è stato costretto a vedere i suoi figli morire annegati, dopo che le guardie dello shogun avevano loro mozzato le dita delle mani, una alla volta. Quando il primo dei prigionieri, a comando, salta dentro il vulcano, Paolo ammonisce gli altri: fatevi spingere, un buon cristiano non deve dare l'impressione di suicidarsi. Il rifiuto del suicidio rituale è il tratto che forse più distingueva i samurai cristiani, anche quando combattevano al servizio dello Shogun. 

Paolo viene soppresso per ultimo, nel modo più doloroso: viene infatti calato nel fango ardente a testa in giù. Per tre volte viene risollevato dallo stagno tossico, per verificare se non ha deciso di pentirsi; per tre volte ripete: Sia gloria al santissimo sacramento. Amen. L'ipotesi estrema è che il cristianesimo portato nell'arcipelago da francescani e gesuiti, con le sue cupe storie di martiri, abbia risvegliato una inclinazione alla violenza che nell'arcipelago era stata mitigata da altre culture (il buddismo?)

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Un angelo chiamato Gabriele

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27 febbraio: San Gabriele dell'Addolorata (1838-1862)

Se me la sentissi di scherzare sulla vita di un ragazzo tisico morto a 24 anni, potrei chiamare Gabriele dell'Addolorata il poster boy dei passionisti, e in effetti l'ho appena fatto. 

L'episodio che ho in mente è l'incontro di Gemma Galgani coi padri passionisti, mezzo secolo dopo la morte di Gabriele: Gemma ha appena undici anni ed è reduce da un'esperienza non esaltante in un convento di visitandine. Se decide di fidarsi dei Padri, è perché riconosce il loro abito; l'ha visto nelle illustrazioni del libro che le ha regalato la maestra e da cui non si è separata nei giorni più dolorosi della malattia: la biografia di San Gabriele. 

I Padri sono persone autorevoli, adulte: ispirano deferenza e Gemma ci metterà un po' a trovare un confessore con cui aprirsi. Gabriele invece è un ragazzo, dal volto e dal nome angelico, che porta lo stesso abito e reca un messaggio neanche troppo implicito: morire giovani non è così male, si arriva in paradiso in forma e là si può stare in compagnia. 

Gabriele diventerà l'amico immaginario di Gemma: il suo angelo custode e il visitatore notturno più assiduo (più di Gesù e del diavolo); quello con cui può scherzare e che la può bonariamente minacciare. L'Ottocento è stato il secolo della tubercolosi, una malattia che con vari nomi ci perseguitava dalla preistoria, ma che nel secolo romantico diventa una specie di status symbol. Le donne tisiche ispirano poesie e romanzi, da Leopardi a Dumas figlio; quelle sane si truccano per sembrare un po' più smorte, fragili e sexy. 

La tubercolosi porta anche nei calendari cattolici qualche bambino (Domenico Savio, il ragazzo-manifesto dei Salesiani) e bei ragazzi come Gabriele (al secolo Francesco Possenti, nato ad Assisi, entrato nei passionisti a 18 anni dopo aver sentito una chiamata della Madonna e dopo perso la sorella maggiore a causa del colera).  La tbc insomma nell'Ottocento contribuisce a svecchiare l'immagine del paradiso e a trasformarlo in un posto più desiderabile per altri giovani destinati a morti precoci, almeno fino alla scoperta degli antibiotici, all'invenzione dello pneumotorace, all'introduzione dei vaccini. E ciononostante le fiction sentimentali coi ragazzini malati continuano a funzionare. Nel frattempo la tbc non smette di impensierirci, tanto più che alcune varianti risultano resistenti agli antibiotici.

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Costanzo ha una responsabilità

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La scorsa settimana Rihanna ha fatto quello show al Superbowl, l'avrete vista no? Poi l'altro ieri è scomparso Maurizio Costanzo – nei confronti del quale mi dichiaro neutrale, non sono mai riuscito a trovare niente di interessante in quello che faceva che comunque non ho mai visto per più di dieci minuti senza cambiare canale. Può darsi che questa sostanziale immunità ai talk notturni fiume sia una menomazione, eppure ho il sospetto che se in Italia ci fossero stati più menomati come me Vittorio Sgarbi avrebbe fatto il... il... (scusate lo stallo, ma non riesco a trovargli un solo mestiere onesto, giuro, è da tre minuti che ci provo e qualsiasi uniforme o camice gli metto addosso non c'è niente da fare, nella mia testa lo cacciano a pedate il secondo giorno e/o finisce al gabbio, no ma grazie Maurizio Costanzo).

Beh certo, qui avrei potuto mettere una foto di Costanzo.

La coincidenza di questi due eventi totalmente irrelati – Rihanna pregna, Costanzo defunto – mi ha riattivato un ricordo abbastanza remoto, non saprei dire in che anno fossimo, ma doveva essere l'anno Uno da Umbrella, ve la ricordate Umbrella? Vi ricordate che per tre mesi non si era sentito altro, ed era il momento in cui le canzoni si cominciavano a sentire anche al telefono, e da tutti i telefoni si sentiva Umbrella? Era lievemente pervasiva, ecco. Io ero al ristorante con gente di un certo spessore intellettuale,  e a un certo punto uno di loro si lascia sfuggire che Maria De Filippi era un genio.

Io lo giuro, al ristorante sono una persona molto più conciliante che qua sopra, epperò questa cosa di chiamare X un genio non la sopporto, perché alla fine cos'è un genio? Per prima cosa è una persona più brava di me, e questo già mi mette in una cattiva disposizione d'animo. Anche per evitare questa cosa milito da anni in una corrente di pensiero che si rifiuta di considerare la "genialità", di solito prendiamo i geni del passato, li passiamo al microscopio finché non scopriamo che erano semplicemente le persone giuste nel momento giusto, gran parte delle loro innovazioni in realtà le avevano scopiazzate, altre non funzionavano ecc. ecc. Nel caso di Maria De Filippi, però che microscopio vuoi usare? Cos'è che avrebbe inventato che non sia una copia cheap di qualcosa che era già bruttino in partenza?

Io insomma obiettai che un genio forse sarebbe stato in grado di fare una televisione più interessante di un'infinita diretta dal salone di una parrucchiera (ero ancora sotto choc da quella volta che un dentista mi aveva ricevuto al pomeriggio e alzando la poltrona verso il soffitto mi ero ritrovato immobilizzato davanti a un televisore che mandava Uomini e Donne, io cercavo di concentrarmi sul dolore che stavo provando mentre mi trapanava il dente, ma niente da fare, Uomini e Donne a metà pomeriggio, vi rendete conto). 

Comunque questo tizio, cominciate a immaginarvi il tipo, l'accento metropolitano con qualche sprezzatura da fuorisede e gli anglismi da laureando in scienze della comunicazione, riuscite a vederli i baffetti? Insomma questo tizio a spiegare che invece no, era proprio quello il suo genio, questo lungo protrarsi della diretta pomeridiana, "la tv come flusso" deve avere detto così, e io obiettavo che vabbene il flusso, ma se non riesci neanche ada annunciare i break pubblicitari e il regista esasperato ti stacca a metà discorso forse non rispetti il mezzo che stai usando, quel minimo di sintassi che ti impone la tv commerciale. A quel punto lui comincia a sospettare che io sia l'astruso intellettuale nella torre d'avorio e che non capisca il popolo, perché è quello che fa Maria, no? dare la voce al popolo – io obietto che per quanta ne avevo visto io, la tv defilippiana non era poi così rispettosa del popolo, anzi piuttosto paternalista/maternalista nei confronti di una plebe messa davanti a un obiettivo talvolta davvero parecchio cinico, e non era un caso che piaccia a diversi intellettuali autopercepiti che almeno una volta alla settimana devono sincerarsi di essere migliori di qualche poveraccio. 

Ma lui a quel punto non mi sentiva più, aveva capito tutto di me, evidentemente passavo le mie serate a leggere l'epopea di Gilgamesh in lingua originale e non capivo le necessità della gente, di fare televisione da sola, di specchiarsi, di capirsi, io ci provavo anche a obiettare che lo specchio comunque è sempre qualche borghese romano che lo tiene in mano, che proprio perché la tv è una cornice c'è sempre qualcuno che decide cosa mostrare e cosa no, e che quel qualcuno ha immense responsabilità: può decidere di occupare il palinsesto con cose belle ed educative o con "flussi" di chiacchiere e fotoromanzi; che l'abbassamento del livello culturale era un fatto, la Mediaset aveva precise responsabilità, la Fascino aveva la sua parte di responsabilità, è inutile nascondersi dietro i flussi e dietro gli specchi quando il risultato è che dopo un po' tutto diventa lo stesso pastone sonnacchioso, nel quale anche qualche intellettuale certo ogni tanto ama indulgere... e a quel punto mi ero reso conto che dalla televisione si sentiva Rihanna. Ma dov'ero rimasto?

Ah sì, dicevo, anche l'intellettuale ogni tanto ama indulgere in questo pastone sonnacchioso, ma col cinismo del privilegiato che tra Rihanna e Mozart ogni tanto legittimamente preferisce Rihanna, e però in casa ha tutto il Mozart che vuole e può cambiare programmazione appena vuole, mentre il "popolo", se tu stai nella stanza dei bottoni e decidi di programmare soltanto Rihanna, non avrà scelta e ascolterà soltanto Rihanna, e a quel punto lui mi disse, a me intellettuale eburneo, disse:

– Chi è Rihanna?

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Abbiamo visto primarie peggiori

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Ogni volta che sento qualcuno lamentarsi che queste Primarie PD sono noiose, che seguono un copione risaputo, che non c'è più quella vitalità di un tempo... ogni volta che sento questa cosa, mi domando se il tizio si ricorda qual è stata l'ultima primaria del PD, e per chi ha votato. Cioè, posso capire che una sfida tra un presidente di regione e la sua ex vice presidente possa apparire un gioco delle parti: ma ve lo ricordate chi c'era a giocare quattro anni fa? Probabilmente no, vi sblocco il ricordo: Zingaretti, Martina, Giacchetti. Almeno di solito su tre candidati c'è qualcuno che gioca per vincere: nel 2019 neanche Zingaretti sembrava molto eccitato all'idea. Per male che vada, chi vincerà stavolta (ovvero Bonaccini) il PD lo governerà davvero, almeno fino alle prossime legislative: è da dieci anni che si prepara. 


Allargando lo sguardo, non è difficile rilevare che le Primarie PD sono sempre state un gioco delle parti, tra correnti che sondavano il loro peso ma sapevano già in anticipo chi avrebbe vinto: più una trovata pubblicitaria che una consultazione reale; e del resto le inventò Walter Veltroni, che delle primarie americane aveva un'idea romantica e abbastanza superficiale e voleva cavalcare una specie di onda plebiscitaria che s'infranse sui primi scogli. Chi rimpiange eccitanti testa-a-testa non sta ricordando bene; o forse ricorda le ruggenti consultazioni del 2012, che però furono primarie di coalizione, non di partito (partecipò anche Vendola, un anno prima che il Fatto Quotidiano lo facesse fuori perché ormai intralciava l'egemonia grillina). Persino in quel caso, comunque, la vittoria di Bersani era abbastanza prevedibile, e la sfida con Renzi serviva soprattutto a creare interesse. Funzionò abbastanza bene – anche a dimostrare l'insopportabilità dei renziani a chi aveva occhi per vederla. Le primarie a quel punto richiamavano ancora ai gazebo e nelle sedi PD più di due milioni di persone; domani c'è il grosso rischio di non superare il milione. L'alto tasso di astensione alle ultime consultazioni regionali è un grosso segnale di allarme: non è una semplice disaffezione al voto, c'è proprio un problema di informazione. La gente non è detto che lo sappia, che domani si vota per un partito che apre i seggi a chiunque voglia partecipare (dopodiché si lamentano se qualcuno ne approfitta, un vecchio controsenso a cui ormai mi sono rassegnato). I giornali ne parlano poco e comunque la gente non li legge più, in tv le primarie non riescono ad attirare l'attenzione, sui social la sensazione è che preferiamo parlare di qualsiasi altra cosa – gli hamburger di grilli, ovviamente, e poi di colpo un mattino sono tutti impazziti perché c'è una casa editrice inglese che cambia i testi di Roald Dahl: nota che non siamo in Inghilterra e non siamo neanche dell'età più adatta per apprezzare il pur gradevole Dahl, ma insomma questi sono i problemi che ci tengono attaccati allo smàrfono, altro che il PD. Ah, e poi c'è la guerra. E il lago di Garda è abbastanza a secco, i fascisti menano gli studenti e il ministro se la prende con la preside che se ne lamenta: anche queste cose, pur non interessanti quanto i grilli negli hamburger, attirano più l'attenzione che il dibattito nel PD. 

Ovviamente la responsabilità è del PD – un partito che sin dall'inizio ha scommesso su due assunti non dimostrabili e anzi abbastanza discutibili: che (1) l'Italia sarebbe diventata una democrazia bipolare, anzi bipartitica, perché... perché in America è così e l'America è fighissima e (2) che uno di questi poli sarebbe sempre stato il PD. Questo secondo punto all'inizio sembrava ovvio persino a me, perché insomma, se metti assieme quel che resta della Democrazia Cristiana e del Partito che fu Comunista Italiano, è chiaro che il primo partito magari non lo ottieni, ma il secondo almeno sì. Invece salta fuori che la rendita di posizione, in politica, non conta così tanto. Magari nelle regioni sì, ma chi ci va più a votare alle regionali? Per rimanere il Secondo Polo (quello che poi dovrebbe rivaleggiare col Primo), serviva mantenere un presidio culturale, e Veltroni di questa cosa avrebbe pur dovuto essere consapevole, ma nella pratica si stancò subito; chi venne dopo di lui dovette scontrarsi col fatto che mancavano sempre i soldi. Succede nelle migliori famiglie, ma in questo caso succedeva in un partito che lottava per abolire i finanziamenti ai partiti, e se questo non è segarsi il ramo sotto il sedere io non so cos'altro lo è. In un qualche modo i dirigenti pd hanno sempre dato per scontato che metà dell'Italia si sarebbe interessata di loro, compresi i giornali di area progressista che a un certo punto però sono stati comprati da famiglie con altri interessi. È una logica circolare: noi rappresentiamo una fetta importante dell'opinione pubblica, quindi una fetta importante dell'opinione pubblica continuerà a parlare di noi anche se non li possiamo pagare, non riusciamo più a mettere gente brava in Rai e non abbiamo i soldi per i manifesti. Queste primarie potrebbero dimostrare che invece no, non funziona così: la visibilità si paga. Certo, contendenti un po' più interessanti avrebbero aiutato, e lo dico con dispiacere, perché Elly Schlein ci ha provato; io ovviamente voterò per lei. Più che una contrapposizione, quella con Bonaccini mi sembra la delimitazione di un campo nel quale le due principali anime progressiste nei prossimi anni dovranno ricominciare a parlarsi: un dialogo che tra renziani e bersaniani non c'era e di sicuro non c'era tra zingarettiani e... Martina? Chi rappresentava Martina? Onestamente non ricordo. Insomma, per quanto sia messo male il PD, il peggio potrebbe essere passato.


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Un anno di guerra e non stiamo vincendo

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Per una diabolica coincidenza, il giorno in cui la guerra ha compiuto un anno è lo stesso in cui mi è arrivata la bolletta del gas di dicembre e gennaio; che straordinaria occasione per scrivere un pezzo in cui dettagliavo quanto era costata a me, proprio a me in quanto consumatore, la sciagurata invasione russa dell'Ucraina. Ebbene salta fuori che rispetto a un anno fa ho risparmiato più di cento euro. L'invasione non diventa meno sciagurata ma insomma, se da qualche parte su un social qualcuno vi attacca un pippone sul fatto che l'Europa stia sbagliando tutto, e che il suo appoggio all'Ucraina gli costerà salatissimo in gas, ebbene, è probabilmente vecchio materiale riciclato da gente che non ha molto interesse a scrivere cose nuove, magari non gliele pagano più. 

Un anno e qualche giorno fa, non dico che rimpianga quel periodo, ma l'idea di una guerra in Europa con più di trecentomila morti mi sarebbe sembrata un brutto film distopico. Da allora, come tutti, mi sono assuefatto all'idea e sono tra quelli che ormai sulle notizie dall'Ucraina non cliccano nemmeno. È sempre stato abbastanza difficile trovare notizie oggettive su una guerra, e stavolta mi pare lo sia ancora di più. Probabilmente è anche una questione di percezione; trent'anni fa mi sembrava di poter isolare con più precisione fatti e opinioni, ma trent'anni fa mi bevevo anche quello che scriveva Zucconi. Internet da una parte mi ha reso più critico ed esigente; dall'altra ha compresso lo spazio per un'informazione di qualità: ormai non mi fido più nemmeno dei Pulitzer e nel frattempo i giornali italiani sono un bivacco di stagisti analfabeti. 

Questo può essere uno dei motivi per cui un sacco di gente si rifugia nel complottismo: trova un tizio tipo Giorgio Bianchi che almeno sembra saper scrivere (e crede a quel che scrive) e magari gli sfugge il dettaglio che si tratta di un cronista embedded dell'esercito russo. Il complottismo è anche il risultato di una deriva ideologica che indubbiamente conduce in un mondo di matti, ma se uno vuole conservare un minimo di atteggiamento critico nei confronti della Nato, quanti altri mondi gli restano? Ti ritrovi in una strana terra di nessuno dove Berlusconi dice più o meno le cose di Travaglio, qualcuno è ancora in para dura per il green pass o perché nel marzo 2020 gli è stato interdetto un transito nel parchetto, e questo sembra veramente tormentarlo più di una possibile escalation nucleare a mille km da qui. Sono anche terrorizzati dagli hamburger di grilli, dio sa il perché. Probabilmente qualche content factory ha deciso che quest'anno il malcontento di una determinata fascia sociale si deve sfogare contro gli hamburger di insetti, Greta Thunberg dev'essere passata di moda e un po' mi dispiace.  

Ma insomma in mezzo a questi matti mi ritrovo anch'io e non posso dire di trovarmi bene – per dirne una: vado ancora in giro con la mascherina. Berlusconi non lo sopporto dal 1984; Travaglio, se ci pensate, non mi è mai stato molto congeniale; insomma cosa ci faccio qui? Banalmente, sono un pacifista. So bene che certe guerre sono inevitabili, ma ho una forte diffidenza verso chiunque le trova giuste, e le fa combattere agli altri. Detesto sinceramente l'imperialismo russo, ma non ho simpatia per quello atlantico; posso provare ammirazione per la resistenza patriottica degli ucraini, ma l'ammirazione non m'impedisce di vedere gli interessi occidentali in ballo. 


L'invasione russa, un anno fa, mi ha sorpreso; ma poi ho fatto i compiti e ho scoperto che era un'evoluzione non così imprevedibile di un braccio di ferro più che decennale. A chi mi spiega che le cose sono molto semplici, e che per spiegarle basta una lavagnetta con i Buoni e i Cattivi (anzi gli Invasori e gli Invasi), rispondo che sì, in effetti possiamo accontentarci di questa narrazione, se siamo persone semplici; non è un modo del tutto sbagliato di descrivere la cosa e forse è quello che userei con un bambino di otto anni; già a nove sarebbe lui a non accontentarsi più. Sarei tentato di aggiungere che nulla mi spaventa più di questa gente che a cinquant'anni improvvisamente decide che vuole di nuovo pensarla come a otto, vuole i cattivi che invadono e i buoni che si difendono e soprattutto che vincono, a prezzo di enormi sacrifici (loro): ma non è vero, mi spaventa molto di più l'incidente nucleare, che più passa il tempo più diventa probabile. Anche solo un'altra Chernobyl, ma con mezza Italia impazzita perché se gli dici che non possono più mangiare verdure a foglia larga come nel 1986 loro si metterebbero a divorare lattuga a colazione, nessuno può dirgli cosa devono fare! Oggi niente lattuga e domani i grilli, vi rendete conto? I grilli!

Sono pacifista, dicevo: lo sono sempre stato. Ogni volta che scoppiava una guerra la trovavo ingiusta e prevedevo che non sarebbe finita bene, e non c'è previsione più facile: nessuna guerra finisce bene. Ho anche avuto la fortuna di poter studiare, e questo spiega alcune mie idiosincrasie – ad esempio, ogni volta che sentivo dire che la Russia poteva essere sconfitta rapidamente, sentivo salirmi un brivido dietro la schiena, sarà che mi hanno fatto leggere Rigoni Stern? Tolstoj? Littel? Maledetta scuola gentiliana. Ma insomma la Russia è piena di fosse e le fosse sono piene di gente a cui qualcuno aveva raccontato che si può fare, è un gigante dai piedi d'argilla, una bella offensiva in primavera e via che si va. Bisogna anche ammettere che nessuno si immagina più di entrare a Mosca con la cavalleria: il sogno che va per la maggiore è la fuga di Putin, una rivoluzione colorata, dopodiché tutti amici come prima, salvo che prima non eravamo amici e da un punto di vista economico e geopolitico non ci sono le condizioni perché lo diventiamo. È per questo che si combatte? Il Regime change? Lo ribadisco: se funzionasse sarei il primo a essere contento. Per quanto sia un'idea profondamente neocon; per quanto non abbia funzionato dall'Iraq in poi; per quanto abbia riso in faccia per vent'anni a chi lo propugnava, se stavolta funzionasse non avrei pudore a festeggiare. Non posso fare a meno di notare che fin qui non ha funzionato e viceversa, potrebbe aver contribuito a cementare un regime che comunque non coincide con la permanenza al potere di un singolo uomo (caduto Putin potrebbe arrivarne uno peggiore, e meno esperto).

Sono pacifista ma so benissimo che a questo punto la pace è molto complicata. Sta arrivando la primavera ed entrambi gli eserciti hanno controffensive lungamente programmate. I giornali poi ci diranno che la controffensiva russa ha deluso le aspettative dei generali mentre quella ucraina è stata rapida e sorprendente – non dico che non sarà vero, ma in ogni caso ci diranno così, perché è quello che dicono i giornali italiani in questi casi, nel 2023 come nel 1942. In ogni caso la guerra potrebbe durare ancora a lungo, come tutte le guerre che passano in quella zona. Uno dei motivi per cui i negoziati vanno a rilento è che un cessate il fuoco, a questo punto, sembrerebbe una sconfitta per entrambi. Che i russi stiano perdendo lo avete sentito dire da più parti e non credo sia necessario ripetere il perché: all'inizio Putin pensava di arrivare a Kiev, persino da Kherson ha dovuto sgomberare, ecc. Molto più difficile risulta ammettere che anche gli ucraini non stanno vincendo: che malgrado gli sforzi e il prezzo pagato in vite umane (un prezzo che nessuno quantifica con precisione, ma supera senz'altro i centomila) il territorio difeso dall'esercito ucraino è oggi meno esteso che un anno fa. A Mariupol ci sono i russi: è vero, non è quello che si aspettavano; inoltre per prenderla hanno dovuto ridurla in un deserto di macerie. Ma la regione chiave dell'industria estrattiva ucraina è occupata dai russi, che la difendono più saldamente oggi che un anno fa – magari tra un mese sarà tutto diverso, ma oggi per quanto ci è dato vedere la situazione è questa. Abbiamo sostenuto gli ucraini con armi e aiuti; abbiamo ospitato i loro profughi e li abbiamo incitati a combattere: hanno combattuto e hanno perso terreno, e non siamo sicuri che lo recupereranno mai. Dopodiché bando al disfattismo, poteva andarci peggio, le bollette non sono così salate, ai produttori di armi si starà svuotando qualche magazzino, forza Ucraina. 

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