La stella a sei punte, e chi la fischia

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Quel minimo non dico di saggezza, ma di astuzia che avrei dovuto metter da parte in tanti anni che scrivo in pubblico, mi suggerisce di aspettare che sia la sera di questo 25 per scrivere qualcosa; perché anche se tira un'aria tremenda, come non si sentiva da vent'anni, può persino darsi che non succeda niente. O se lungo un corteo succede qualcosa, e qualcuno in strada ci rimane, dipenderà molto da che bandiera portava. Qualcuno qui si ricorderà di Genova, e di quanto sarebbero state diverse le cose se invece di cadere il ragazzo fosse caduto il poliziotto. Dunque sarebbe meglio aspettare, che non c'è nessuna fretta alla fine. Sì.

2015

Scrivo comunque qualcosa. Che al 25 aprile molti vadano per litigare è cosa nota, più o meno dallo spaventoso diluvio del 1994 (prima una festa antifascista non dava così fastidio, o forse un certo fastidio sentiva da solo la necessità di contenersi). Col tempo è inevitabile che anche un certo tipo di provocazione diventi parte della celebrazione: ad esempio almeno a Milano i fischi alle bandiere della Brigata Ebraica sono ormai parte della liturgia. Mi sembra di avere già annoiato qualche lettore sull'argomento: la Brigata Ebraica non fu propriamente un gruppo partigiano, ma un'unità delle forze armate britanniche che combatté in Italia nel 1944/1945, composta da circa 5000 volontari dell'Organizzazione Sionista Mondiale, perlopiù provenienti dalla Palestina Mandataria. Non tantissimi, ma molte bande partigiane erano anche più piccole. Che senso ha fischiarli? In Italia in quegli anni combatterono indiani e brasiliani e non credo che nessuno fischierebbe una bandiera indiana o brasiliana; ma non credo nemmeno che nessuno senta la necessità di sventolarla. Chi porta in corteo quella bandiera (molto simile a quella di Israele, al punto che è inevitabile confonderla), vuole ribadire il concetto che il sionismo è una forza antifascista, e collaborò alla liberazione dal nazifascismo. Il che è legittimo. Chi fischia quelle bandiere sta obiettando al concetto: il che è sempre stato altrettanto legittimo, vista la situazione dei Territori Occupati; e lo è molto di più quest'anno, dopo la tragedia di Gaza. 

Tutto questo è ormai da anni un gioco delle parti: chi viene con la bandiera della Brigata (o con la bandiera di Israele) si aspetta di essere fischiato, e ci tiene che i fischi vengano il più possibile amplificati in tv, e forse è questo è un po' più grave dei fischi: il modo in cui un'esperienza nobile come quella dei volontari sionisti contro il nazifascismo viene annualmente strumentalizzata da un po' di gente che vuole semplicemente litigare il 25 aprile; questo perenne impugnare Israele e il sionismo come un pretesto per polemiche che con Israele c'entrano poco o niente, e che finirebbero per danneggiarne la reputazione, se Netanyahu gliene avesse lasciata una. Alcuni sono radicali e vabbe', coi provocatori professionali è inutile discutere. Alcuni saranno ebrei e posso capire che la presenza sempre più massiccia di bandiere palestinesi li sgomenti. Ma questa è la situazione: ottant'anni fa il sionismo era un movimento che combatteva attivamente contro l'occupazione nazista, oggi è l'ideologia che ha trascinato Israele nella catastrofe morale di Gaza. 

In questi giorni chi non perde tempo a leggere i giornali italiani ha saputo che tutte ormai tutte le grandi nazioni europee (l'Italia no) hanno riaperto i finanziamenti all'UNRWA, visto che Israele non riesce in nessun modo a provare che si tratti di un'organizzazione terroristica; nel frattempo le stragi di civili proseguono, e l'IDF apre le fosse comuni alla ricerca dei cadaveri degli ostaggi che non ha mai dato l'impressione di rivolere vivi. Chi sventola una stella di David, oggi, volente o nolente, sta mettendo sotto il naso alla gente il simbolo di questo sionismo; non quello che diede il suo contributo contro la lotta nazifascista. I simboli non sono neutrali, una bandiera italiana nel 1848 non significava la stessa cosa che nel 1936 o nel 2024. Non è responsabilità di un comitato antisemita se oggi una bandiera israeliana, agli occhi di una discreta fetta della popolazione mondiale, rappresenta un governo e un esercito razzista e genocida. Una trappola è scattata, potremmo discutere a lungo su chi l'ha tesa a chi: ma è scattata, e oggi il sionismo è un'ideologia odiosa persino a diversi ebrei in tutto il mondo. E sarà così ancora per molto, per quanto tempo? Credo che dovremo attendere almeno una generazione: quella che oggi impugna le bandiere si è raccontata troppe bugie per poterle rinnegare. L'unica speranza è che non abbiano educato con troppa attenzione i loro figli.

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Antiabortisti, è primavera

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Anti abortisti, non siate così tristi, 
c'è tanta vita fuori, nei prati tanti fiori,
nei parchi tanti amori.
Ma che ci andate a fare,
nei consultori?

Scegliete la vita,
mangiatevi una pita, 
o un gelato, non è un peccato.

Ballate forte, sentite il ritmo, nella notte
Lasciate i dubbi, guardate in alto, toccate il cielo,
Ascoltate il cuore, splende il sorriso, è un nuovo giorno.
Muovete i passi, al suono dei tamburi, vibra l'amore.
Danze nel vento, girate in tondo, l'eco del tempo,
Celebrate la vita, tra note e risate, in ogni angolo.

Antiabortisti, non siate così tristi,
lasciate le polemiche, nessuno ama le prediche, 
là fuori il mondo è in fiore, provate a far l'amore,
se non ne siete esperti, beh
i consultori sono tutti aperti.
I consultori sono ancora aperti.
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Dodici lettere, la prima è A

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Stavo pensando di copiaincollare anch'io il monologo di Scurati; ma ho aspettato qualche ora e nel frattempo è rimbalzato in lungo e in largo. Anche se resta l'impressione che una volta in più il dibattito sia fuori fuoco, che si parli più del tentativo di censura (maldestro, come tutto quello che fa questo governo) che di quello che Scurati ci stava dicendo. 

Scurati ci sta dicendo che Matteotti fu ucciso dai fascisti, e sembra scontato; che Mussolini ne fu il mandante, e crediamo che sia un dato acquisito; che fu complice attivo di tutto l'orrore nazista, e che la cricca al governo queste cose fa proprio fatica ad ammetterle. Il che lo stesso Scurati ha potuto dimostrare proprio in questa occasione; forse è dai tempi di Galileo che a uno scrittore italiano non riusciva così rapidamente un esperimento.  

Scurati scrive: "Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell'ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via". Questa cosa forse ormai è più curiosa che importante; ma resta parecchio curiosa. Pensate a quante cose aa Meloni ha dovuto rinnegare per montare sulla seggiola dov'è adesso. Parlava di uscire dall'Euro, e ora fa carte false per ottenere i fondi UE. Faceva l'occhiolino a Putin, e ora è sdraiata sulla linea della Nato. Poi, certo, su tante cose è coerente; ma il sospetto è che se i sondaggi le dicessero che gli italiani vogliono più forza lavoro dai Paesi in via di Sviluppo, lei andrebbe ad abbracciare i migranti sulle spiagge, è fatta così. Non dico che rinnegherebbe sua madre, o perlomeno non riesco a immaginare una situazione in cui rinnegare sua madre potrebbe darle un vantaggio. Di parole ne ha dette tante, tutti ne dicono tante, ma ce n'è una sola che non riesce a pronunciare anche se le converrebbe da tutti i punti di vista, e quella parola è A....

An.....

Antifa....

Niente, non ce la farà. Tizi apparentemente più scafati di lei ce la fecero; bisogna anche ammettere che sulla seggiola ci si è seduta lei, e non loro. 


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Dio è perfetto, quindi c'è

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21 aprile – Sant’Anselmo d’Aosta, dottore della Chiesa (1033-1109).

[2012] C’è un cosmonauta russo, uno dei primi, che è appena tornato dallo spazio. Per prima cosa lo portano da Krusciov, che gli chiede: “Compagno, tu che sei stato lassù, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c’è? Lo hai visto?” 

E il cosmonauta: “Compagno Segretario Krusciov, a te posso dirlo: sì, l’ho visto”. “Compagno, quello che tu dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello in cui crediamo”. “Compagno segretario, lo so, ma insomma, io l’ho visto”. “Va bene, lo hai visto, ma giura che non lo dirai a nessuno”. “Certo compagno, lo giuro”. 

Qualche tempo dopo, profittando del clima di generale distensione tra le due superpotenze, lo stesso cosmonauta viene invitato al Vaticano, dove ha un colloquio privato con il pontefice. Il Papa dunque gli mette subito un braccio dietro la spalla, e in un russo un po’ scolastico gli dice: “Figliolo, tu che sei stato nello spazio, beato te, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c’è? Lo hai visto?”

E il cosmonauta: “Santo Padre, a voi posso dirlo: no, non l’ho visto, Dio non c’è”.
“Figliolo, quello che dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello in cui crediamo...”
“E insomma Padre, cosa volete che vi dica: se non l’ho visto non l’ho visto”.
“Giura almeno che non lo dirai a nessuno”.
“Giuro”.

Non so chi sia l’inventore di questa storiella. Ricordo che la lessi su un libro di barzellette che circolava alle elementari, e non la capii: a volte è meglio così, la memoria si attacca meglio alle cose che non riesce a spiegarsi immediatamente. In seguito mi sono convinto che fosse un apologo famoso e l’ho cercato su internet, senza successo: così lo metto qui, alla voce Anselmo d’Aosta, che non è che c’entri molto, eppure.

La barzelletta mi piace per tanti motivi. È profondamente ambigua: dipinge un certo tipo di atei come una setta di credenti, anche loro con un sistema di dogmi che se ne frega delle eventuali prove empiriche. Però dice anche il contrario: i credenti sono come i materialisti più smaliziati, se ne fottono della verità. Ormai ci hanno montato un carrozzone intorno che deve andare avanti comunque, che Dio esista o no. Mi piace il fatto che il cosmonauta racconti due versioni, senza che ci sia modo di capire quale sia la vera: potrebbe anche avere mentito a Krusciov, e potrebbe avere detto la verità al Papa, per il gusto di deludere entrambi.

Però la barzelletta piace soltanto a me, non la racconta più nessuno da anni; a renderla datata è il riferimento alle prime missioni spaziali sovietiche. A nessuno verrebbe in mente di collegare un giro in orbita in una minuscola capsula alla ricerca di prove sull’esistenza di Dio. Peccheremmo di un'ingenuità non molto diversa da quella di Anselmo bambino, il quale, crescendo ad Aosta, aveva ipotizzato che Dio si trovasse sulla vetta di qualche montagna. Ma poi quelle montagne le aveva pure passate, era stato abate a Le Bec e arcivescovo a Canterbury; e noi abbiamo viaggiato ben più di lui. L’universo che abbiamo in mente, da cinquant’anni a questa parte, è infinitamente più vasto: Dio, se c’è, è un po’ più in là. Oppure, mi raccontavano a catechismo, Dio semplicemente non va cercato nello spazio astrale, Dio è “dentro di noi”, curiosa espressione che mi lasciava interdetto: se Dio fosse dentro di noi dovrebbe essere più piccolo. Ma Dio non può essere più piccolo di noi, vero Anselmo? 

Un altro ricordo che ho delle elementari è un certo tipo di rissa verbale, abbastanza codificata, che si utilizzava molto nei primi anni, prima che prendesse il sopravvento la forma di comunicazione adulta, il turpiloquio. L’impossibilità di ricorrere a un patrimonio condiviso e comprensibile di parolacce stimolava la nostra creatività e ci costringeva a concepire combattimenti virtuali violentissimi, ancorché puramente verbali: per esempio se io dicevo “e io ti picchio con un bastone” tu mi rispondevi “e io allora ti picchio col martello”, il che mi dava l’aggancio per rispondere “e io ti picchio con due martelli”, ma a questo punto il dato numerico creava un’infinita possibilità di rilanci… senonché tu chiudevi la partita con la formula fissa “e io sempre uno più di te”. Molto prima che la maestra di matematica ci iniziasse al concetto di infinito, l’esigenza insopprimibile di insultarci ci aveva già portato a scoprire l’Infinito Più Uno, il sempre-uno-più-di-x. Non lo sapevamo, magari ci stavamo soltanto litigando per l'accesso a un pennarello, ma in quel momento avevamo evocato a giudice della nostra contesa il Dio del Proslogion di Anselmo, “Colui di cui non si può pensare il maggiore”.

Il ragionamento è abbastanza famoso: se penso a Dio come all’essere perfetto, esso non può esistere soltanto nel mio pensiero, perché non sarebbe più perfetto (sarebbe infatti più piccolo di me, contenuto nel mio cervellino). No: se è perfetto deve esistere al di fuori: quindi Dio c’è. Facile.

Un po’ troppo facile, effettivamente, e lo stesso Anselmo come pensatore si era dimostrato capace di ragionamenti ben più sottili. Ma qui si trattava di dover dimostrare l’esistenza di Dio a priori, senza osservazioni empiriche, proprio perché Dio viene prima di ogni altra cosa.

È questo, soprattutto, ad allontanarci da Anselmo. Almeno il cosmonauta della barzelletta aveva dovuto farsi sparare in orbita, guardarsi un po’ in giro, scansare la teiera di Russel. Per fare un razzo in grado di sottrarsi alla gravità ci sono voluti tre-quattro secoli di osservazioni, esperimenti, teorie, da Newton a Von Braun. Per capire come funziona il corpo umano abbiamo dovuto sezionarlo, osservarlo, inventare il microscopio, immaginare il dna a doppia elica, sperimentare muffe e altri farmaci, e tante cose ancora ci sfuggono. Anche solo per scoprire l’America abbiamo dovuto mandare centinaia di marinai, un sacco di navi, un sacco di soldi. E invece per scoprire l’esistenza di Dio bastava concentrarsi e ragionare – magari Anselmo non ha neanche buttato giù uno schema, uno schizzo, nel medioevo non credo che si facessero gli scarabocchi mentre ci si concentrava, con quel che veniva la pergamena all’oncia. Niente cannocchiali, niente microscopi, neanche un po’ di inchiostro, niente. Insomma, savio Anselmo, possibile che tu con il solo ausilio del tuo cervello abbia trovato dentro di te qualcosa che sta fuori? Non ti accorgi della contraddizione che non lo consente? Non hai letto Gaunilone?

Gaunilone era un monaco delle parti di Tours, famoso per aver attaccato Anselmo in un breve opuscolo dal nome bellissimo, Pro Insipiente (“Dalla parte dello scemo”). L’“insipiente”, lo scemo del titolo, è lo Stolto del Salmo 14, che dice in cuore suo: "Non c'è Dio". Anselmo aveva cercato di confutarlo a posteriori e a priori; Gaunilone al contrario non riteneva necessarie confutazioni: in Dio bisogna crederci e basta: che senso avrebbe, un atto di fede, se non facesse che confermare quello che già ci dice la ragione? Di Gaunilone sappiamo veramente poco, ma – potenza dei nomi propri – io me lo sono sempre immaginato come un monaco gaudente, gaio, garrulo, gargantuesco, anche belloccio, perché no, un ganimede, sempre col calice in mano, mentre scuote la testa e dice ad Anselmo: ma che ci credi sul serio, che basta pensare a una cosa perché essa esista? Allora io adesso mi metto a pensare furiosamente a un’isola ricca di ogni ben di Dio, e questa isola – puf – si mette a esistere? Ma Anselmo non si smonta, anzi aveva già previsto questa obiezione. Gaunilone, un conto è un’isola, un conto è Dio. Un’isola può essere un luogo pieno di virtù, con palme, bambù, eccetera... ma non è un luogo perfettissimo. Solo Dio è perfettissimo. E siccome è perfettissimo, esiste: se non esistesse, sarebbe meno che perfettissimo, vedi? Più facile di così.

La querelle tra Gaunilone e Anselmo è andata avanti per alcuni secoli, più o meno fino a Kant (gauniloniano di ferro) e Hegel (anselmista convinto). Alla fine della fiera è la solita eterna lotta tra tolemaici e copernicani: se pensi che dentro di te ci sia un’idea di Dio, un barlume di Dio, alla fine l’universo è ancora una cosa che gira intorno a te (con Dio motore immobile al di fuori). Se tutto quello che è razionale è reale, immagina pure un’isola, da qualche parte ci sarà. Nel frattempo i gauniloni hanno di che brindare: la scienza continua a ingrandire l’universo e a rimpicciolirne i suoi abitanti. Anselmo, per dire, non conosceva i batteri (e anche Hegel ne aveva un’idea assai vaga). Noi sappiamo di essere molto meno che un batterio davanti a un eventuale Dio: chissà che idee si fa il batterio di noi, ma decisamente noi esistiamo al di là delle sue idee batteriche su di noi. Però gli anselmiani non si rassegnano. Se esistono infiniti universi, esisterà anche quello con l’isola esatta precisa immaginata da Gaunilone. E quello in cui ti ho spaccato la testa col bastone.

“E in un altro universo io te l’ho spaccata col martello”.
“E in un altro io te l’ho spaccata con due martelli”.
“E io sempre uno più di te!”
“Ah, qui ti volevo! Pensi di avere esaurito gli universi? E allora senti questa: sempre due più di te!”
“E io sempre tre più di te”.
“E io sempre un miliardo più di te”.
“E io sempre un miliardo di miliardi più di te”.
“E io sempre un infinito più di…. eHI! Lo hai visto? Che cos’è stato?”
“Non so, sembrava un fulmine”.
“All’inizio. Ma poi è diventato piccolo piccolo”.
“Una scintilla”.
“Una lucciola”.
“Le lucciole non esistono”.
“Sì esistono una volta le ho viste”.
“Ma valà giura”.
“Giuro una volta che sono andato a rane nella burana con mio fratello”.
“Non ci credo che hai preso le rane”.
“No ma ho visto le lucciole”.
“Magari in un universo quella lucciola è Dio”
“Magari in questo universo”.
“Giura di non dirlo a nessuno”.
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La madonna spallonata

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 18 aprile: Madonna dell'Arco di Sant'Anastasia (NA).

Com'è che oggi non crediamo più nei miracoli? Di solito si dà la colpa all'illuminismo, ma è stato parecchi secoli fa e in generale non diamo l'impressione di essere così illuminati. Potremmo persino avere perso la nostra fede per il motivo contrario: non perché siamo diventati troppo razionali, ma perché di miracoli in giro ce ne sono troppi, siamo assuefatti, prendi le madonne che piangono sangue. Una madonna che piange sangue una volta sola è un evento eccezionale, che fa sensazione e orrore. Oggi però c'è questa necessità di produrre tutto in serie, ed ecco che abbiamo più madonne che piangono, alcune anche a intervalli regolari, al punto che prima o poi raccogliere un po' di quel materiale ematico e analizzarlo diventa inevitabile – ma molto prima che arrivino i risultati delle analisi, è la nostra capacità di meravigliarci che è se n'è andata per sempre. Una volta non era così, una volta bastava una sola goccia di sangue su un'immagine sacra per causare sbigottimento generale e devozione secolare, Prendi la Madonna dell'Arco. Ma prendila con cautela. Non è veramente il caso di scherzare, con la Madonna dell'Arco di Sant'Anastasia (NA). C'è chi ci ha rimesso i piedi, e peggio.

Non sappiamo esattamente chi l'abbia dipinta, non prima del Quattrocento. Non doveva trattarsi di un grande artista ma forse è proprio l'asimmetria del volto della vergine ad avere ispirato la leggenda. Quanto alla macchia scura sulla guancia sinistra, ecco, lì avrebbe pianto dopo essere stata colpita da una palla, quando ancora non si trovava al centro di un santuario dedicato al proprio culto, ma un'umile immaginetta in un'edicola votiva sotto l'arcata di un antico acquedotto romano. Era il lunedì di pasquetta del 1450. Bisogna considerare che la pallonata non fu accidentale, ma inferta da un giocatore di pallamaglio infuriato per aver perso una partita a causa di un rimbalzo fortuito su un tiglio lì nei pressi. La pallamaglio è l'antenato comune del croquet e del golf, che avrebbe avuto origine a Napoli o perlomeno i napoletani ci credono molto, e si gioca perlopiù con palle di legno che possono probabilmente lasciare un segno su un muro, se vi sono lanciate contro con una certa forza. Possiamo insomma supporre che la macchia sia il risultato dell'ammaccatura del quadro, ma l'idea che la vergine si sia presa una pallonata sulla guancia fa impressione. Durante il processo-lampo si appurò che il colpevole aveva anche bestemmiato la vergine, motivo per cui sarebbe stato impiccato a quello stesso tiglio, il quale si sarebbe seccato nel giro di un giorno – questo dettaglio oggi viene interpretato da alcuni come una presa di distanza della Madonna da una punizione tanto brutale, ma nel Cinquecento probabilmente serviva a sottolineare l'empietà del condannato.

Ancora più cruento è il secondo miracolo, avvenuto 139 anni dopo, sempre a pasquetta. Nella piazza non si giocava più a pallamaglio, ma evidentemente doveva esserci mercato. Marco Cennamo vuole accendere un cero alla Madonna, che lo ha salvato da una brutta malattia agli occhi. Lo accompagna la moglie, Aurelia Del Prete, che però si è appena comprata un maialino e non lo può mica lasciare in giro, e poi insomma è Sant'Anastasia, mica Lourdes (che ancora non esiste), ci sono le bancarelle, nessuno si formalizza se ti presenti davanti alla Madonna con un porcellino in braccio. Il porcellino però scappa, Aurelia si mette a rincorrerlo per tutta la piazza bestemmiando, probabilmente la gente ride, Aurelia è conosciuta in paese come un tipo nervoso e nell'occasione dà di matto sul serio: quando il marito cerca di calmarla, gli prende il cero e lo calpesta. Ma cosa fai, le dice Marco, ma guarda che ci rimetti i piedi. Aurelia non ci sente, è troppo arrabbiata. Torna a casa, si mette a letto, i piedi le fanno male. Li perderà l'anno dopo, sempre a Pasquetta. Le si staccheranno dal resto del corpo, e sono ancora custoditi nel santuario. Una versione della leggenda però sostiene che prima dell'orribile miracolo Aurelia avesse portato una copia in cera dei suoi piedi alla Madonna, per ringraziarla di averla guarita da una brutta ferita: i piedi custoditi nel santuario potrebbero essere appunto quelli di cera, un bizzarro ex voto (ma neanche così bizzarro, se uno ha presente certi santuari) che avrebbe ispirato la macabra leggenda. Il senso resta chiaro: una pallonata può scappare, un maialino può farti arrabbiare, ma se insisti e bestemmi per il gusto di bestemmiare, la Madonna dell'Arco non ti perdona.

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Altri 100 minuti

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Arrivo tardi, ma lo voglio lasciare scritto: quello che ha fatto Alberto Nerazzini lunedì scorso, con la sua inchiesta sulle narcomafie di Roma e Velletri, è qualcosa di clamoroso e prezioso. Oltre a raccontarci una storia complicatissima che negli ultimi anni era scomparsa dietro l'orizzonte, è anche una lezione su come dovrebbe funzionare un'inchiesta televisiva, e su quanto funziona bene quando funziona. Tante cose che ormai diamo per scontate, che una volta sembravano tv d'assalto e adesso infastidiscono, Nerazzini si ricorda ancora andrebbero fatte. 

Disturbare i personaggi della storia per strada, o al telefono, ad esempio, è una pratica che di solito mi fa cambiare canale all'istante: colpa di Iene, di Striscia, di un'estetica che punta tutto sul mettere alla berlina il personaggio preso a bersaglio, e ti propone di trovare divertente il suo imbarazzo. Forse solo Nerazzini si ricorda che può servire a costruire un racconto a farci immedesimare in un personaggio: questo reporter che si aggira per Roma e dintorni a piedi o in automobile, con una giacca a righine che fa impazzire la videocamera. Non possiamo cambiare più canale, non fosse altro perché siamo preoccupati per lui. 

Come i detective delle storie seriali, ha un suo stile, il suo modo di appoggiare battute che può fare solo lui ("eh, ma dipende da quale Porsche...") e che forse serve un po' di abitudine per capire. Come quei detective, alla fine fa rapporto a un superiore, trova una soluzione decente a un mistero, sipario. Nella vita vera sarebbe promosso, diventerebbe famoso, tutti i canali se lo disputerebbero: ma purtroppo siamo nella tv italiana. Lunedì c'è un'altra puntata e io spero di trovarlo di nuovo, per più tempo possibile. 

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Il santo col falcastro in testa

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6 aprile: San Pietro da Verona (1205-1252), martire patrono degli inquisitori

Forse perché non potevano vantare un fondatore carismatico come altri Ordini, i domenicani sembrano essere quelli che hanno più puntato sulla riconoscibilità, sia collettiva (il loro saio bianconero è un vero e proprio brand), sia individuale: quando ne incontri uno su una pala d'altare, lo indovini praticamente sempre. Se ha le ali, per esempio, è San Vincenzo Ferrer (5 aprile); se ha il rosario è San Domenico stesso; ma il più riconoscibile di tutti è senz'altro San Pietro da Verona – non capita a tutti i santi, di morire con un falcetto conficcato in testa. I domenicani ne vanno giustamente fieri, al punto da aver conservato la stessa arma del delitto (il cui nome più preciso sembra essere "falcastro").

L'agguato di cui Pietro fu vittima, nel bosco di Seveso, è uno dei fatti di cronaca più noto del XIII secolo, anche perché le circostanze in cui fu commesso permisero all'ordine domenicano il controllo completo sulla narrazione della vicenda. Non solo il compagno di Pietro, Domenico, sopravvisse per qualche ora alle ferite riportate, il che gli consentì di rendere testimonianza dell'accaduto: ma a fare sensazione fu soprattutto il pentimento dei due sicari. Uno dei due, Albertino Porro, si pentì ancora prima dell'agguato e corse a dare l'allarme; mentre Pietro da Balsamo, che materialmente fessurò il cranio di Pietro da Verona con una lama (tecnicamente un falcastro) e ne trafisse il petto con un pugnale, fuggito dal carcere di Milano, si lasciò ritrovare in un convento di Forlì, preferendo probabilmente alla giustizia secolare quella dei domenicani che in cambio di un solenne pentimento lo convertirono (e rinchiusero a vita) (ma una volta morto lo venerarono come beato: si festeggia il 28 aprile).


L'assassino raccontò di non essere che un povero contadino che aveva accettato denaro dai catari lombardi per far fuori il loro nemico numero uno. I domenicani decisero di credergli, e ottennero rapidamente l'incriminazione del capo della comunità milanese: anche lui al processo penale preferì la conversione e il perdono dei domenicani. Contro i catari, Pietro da Verona usava soprattutto le armi della persuasione, come raccomandato dal maestro Domenico di Guzman: e però sia a Firenze che in Lombardia, dopo il passaggio di Pietro tra catari e cattolici erano scoppiate battaglie che si erano concluse, di solito, con la violenta affermazione di questi ultimi. Pietro per altro era probabilmente considerato un traditore dai catari, visto che lui stesso raccontava di essere nato da genitori aderenti a quella fede.


È molto raro che un inquisitore, invece di ammazzare qualcun altro, muoia per difendere il proprio credo: non sorprende perciò che Pietro da Verona sia stato proclamato il patrono della categoria, anche se era appena stato nominato inquisitore dal papa (solo per questo, temo, non aveva ancora fatto in tempo a bruciare nessuno). È probabile che molte notizie intorno a Pietro siano state ricostruite dopo il suo martirio, che in mano ai domenicani divenne una straordinaria arma propagandistica: per esempio 
che a Firenze abbia fondato la prima opera assistenziale, (la Misericordia) e sia stato il padre spirituale dei sette fondatori dell'ordine dei Servi di Maria; che abbia diffuso il rosario in Italia – responsabilità che altri riconducono al maestro Domenico, ma probabilmente il rosario si recitava già. Che "Credo" sia stata sia la sua prima parola da fanciullo, sia la prima preghiera che imparò a memoria a sette anni (magari per infastidire i genitori eretici), sia l'ultima che avrebbe sussurrato agonizzante. Un dettaglio toccante che però i pittori non sapevano come dipingere: finché qualcuno non si inventò la scena di Pietro morente che scrive "Credo" sul suolo con un dito intinto nel sangue. Per quanto nei secoli successivi i pittori si siano adoperati a dipingere domenicani col falcastro in testa, forse il ritratto più toccante lo dipinse il confratello Beato Angelico, senza falcastro ma con la ferita esposta, e il dito a chiudere le labbra, come se dicesse: io per difendere le cose che dicevo mi sono fatto ammazzare; tu pensaci un attimo, prima di dare aria ai denti.
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Israele uccide chi vuole, quando vuole, ovunque vuole; e dovremmo smetterla di farci domande

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Sembra successo tutto in un giorno, che per qualche perverso motivo è stato il primo aprile 2024.

Fino a tutto il marzo di quest'anno potevamo ancora essere convinti che:

– I giornalisti avessero ogni diritto di documentare quello che avviene in un teatro di guerra. 

– I volontari delle ONG che portano aiuti nelle zone di guerra – col consenso delle forze belligeranti – fossero tutelati, prima ancora che da qualche codicillo internazionale, da un principio di buon senso e di umanità.

– I messaggeri fossero sacri. Lo sono da millenni; è un principio che nell'era contemporanea è stato formalizzato nella definizione di immunità diplomatica. Gli ambasciatori risiedono in sedi extraterritoriali che anche nelle fasi più cruente di una guerra o di un bombardamento non sono mai stati obiettivi militari. 

Poi è arrivato il primo aprile, Netanyahu ha annunciato che Al Jazeera non avrà più diritto di operare in Israele (e nei territori che Israele evidentemente occupa), nel mentre che l'esercito israeliano bombardava una sede diplomatica iraniana a Damasco e prendeva di mira, uccidendoli, sette cooperatori internazionali a cui aveva dato il permesso di circolare nella Striscia di Gaza. E a questa organizzazione che prende di mira i giornalisti, prende di mira i cooperatori internazionali, prende di mira i diplomatici, e non lo nega, anzi ormai lo rivendica come suo specifico diritto, noi cosa diremo? La accuseremo di terrorismo, visto che ci terrorizza? La pregheremo di non proseguire quello che un tribunale internazionale ha più volte in questi mesi definito un genocidio? Nel frattempo l'amministrazione Biden le venderà qualche altro jet di guerra di ultima generazione; armi forse un po' esagerate finché l'obiettivo è desertificare la Striscia; ma la speranza ormai evidente è che scoppi presto una guerra diretta con l'Iran; del resto se bombardi un'ambasciata non è che serva un esperto decifratore di messaggi. 

E se sembra un po' esagerato aggiungere che domani potrebbe accadere a voi, a me, a noi, a chiunque muova un dito a favore di qualcuno che Israele considera suo nemico, mettiamola semplicemente così: è già successo. L'IDF ha ucciso Saifeddin Issam Ayad Abutaha, ha ucciso Zomi Frankcom; ha ucciso Damian Sobol, Jacob Flickinger, John Chapman, Jim Henderson e James Kirby. Ha ucciso Rachel Corrie e centinaia di giornalisti: lo ha evidentemente fatto per avvertire noi e chiunque altro voglia mettere il naso nel massacro dei palestinesi, e questo avvertimento noi lo abbiamo ricevuto forte e chiaro; altrettanto forte e chiaro sentiamo la necessità di ritrasmetterlo, non per un sussulto di coraggio ma perché magari qualcuno intorno a noi non si è ancora reso conto, non si è ancora spaventato abbastanza. 

Tutto questo somiglia sempre più all'inizio di una fine. La fine di un certo diritto internazionale, come ci eravamo illusi che funzionasse perlomeno da Yalta in poi; un ordine internazionale basato sull'idea, forse illusoria, forse consolatoria – che le guerre fossero uno stato di eccezione, e che la pace fosse l'equilibrio a cui le nazioni cercavano di tendere. Che tutto ciò dovesse infrangersi, di tutti i luoghi al mondo, proprio a pochi chilometri da Gerusalemme, è un'evidenza carica di una sinistra ironia.
E allo stesso tempo tutto questo non sembra avere un vero senso storico; tutto intorno l'umanità si evolve vorticosamente, le stagioni e i paesaggi cambiano, miliardi di persone nascono e diventano adulte in un mondo che di Gerusalemme si infischia e se ne infischierà sempre più. Persino quello tra Nato e Ucraina, dal punto di vista di cinesi e indiani, è un conflitto poco più che regionale, tra vecchie superpotenze rancorose; chissà cosa ne pensano di quel vecchio contenzioso su una piccola città del Medio Oriente che si trascina ormai da duemila anni. 

Non è vero che stiamo impazzendo tutti per Gerusalemme: in primis sta succedendo agli americani, e non da ieri. Può darsi che Israele alla fine non sia che una concrezione esotica dei loro sogni, delle loro aspirazioni bibliche e messianiche; la conseguenza estrema di un certo modo di concepire la politica come prosecuzione della guerra tra comunità organizzate in gruppi di pressione. Tutto questo che a tanti anche in Europa sembrava un modello, da Tocqueville in poi (ma anche Tocqueville forse andava letto con più attenzione) a un certo punto ha prodotto Bush, ha prodotto Fox News, ha prodotto l'ultrasionismo contemporaneo, ha prodotto Trump. Può persino darsi che abbia prodotto la stessa guerra in Ucraina, che una diplomazia più saggia avrebbe potuto evitare? Non lo so. Quel che so è che è ingiusto prendersela con gli israeliani per quello che fanno, e che possono fare semplicemente perché qualcuno lo consente a loro e soltanto a loro: chi altro potrebbe sognare di prendere di mira ambasciate, volontari e giornalisti, e farla franca. Va a finire che davvero il vecchio Bob ci aveva azzeccato, con quella canzone neanche troppo ispirata: Israele è solo il bullo del quartiere. Dietro a ogni bullo – Bob questo non ce lo diceva – c'è un boss che lascia fare, finché un giorno forse si stancherà, o non si troverà invischiato in guai ben più grandi. Quel giorno, ammesso arrivi, non è stato il primo aprile.
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Tajani e il bambino nel forno

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Stavo appunto riflettendo, senza molto costrutto, sul disastro di Gaza e a cosa posso paragonarlo, per cercare di spiegarlo a me stesso e agli altri; e a come, guardando i volti rapiti dei volontari israeliani che sembrano divertirsi un mondo mentre trasformano una città in un cumulo di macerie che nessuno forse avrà più la capacità di smaltire, mi sia affiorata alle labbra la parola: Pogrom. Un improvviso sussulto di violenza, nei confronti di una minoranza percepita come ostile; dove la diffidenza secolare improvvisamente viene portata a combustione: e la scintilla è molto spesso la propaganda. 

Volantini che additano i nemici dello Zar o della Rivoluzione; leggende nere su bambini scomparsi, dati per sgozzati a scopo alimentare; uno potrebbe anche osservare che non c'era bisogno di raccontare cose del genere per sobillare gli israeliani contro Hamas; eppure le leggende sono state raccontate lo stesso, e qualche effetto lo hanno sortito. Stavo riflettendo su questo, e su quanto bisognerà insistere, in futuro, sulla nuvola di disinformazione che si abbatté su di noi nell'autunno 2023: storie incredibili e francamente poco plausibili, spacciate per vere da testate prestigiose e persone esperte e intelligenti. Ora che ormai nessuno le riprende, bisognerà ricordare che per settimane e mesi sono state ripetute con foga sempre maggiore, e hanno offerto a chi era sul campo una scusa e un'ispirazione per commettere crimini di guerra.

Sarà complicato dover riferire di leggende come quella del bambino cotto dai miliziani nel forno a micro-onde, pregando gli interlocutori di credere che è successo davvero – non che un bambino sia stato cotto dai miliziani, ma che fior di giornalisti opinionisti e ufficiali dell'esercito ci abbia voluto credere; e mentre penso a queste cose nell'altra stanza è rimasta accesa una tv, e sento il ministro Tajani spiegare a Bruno Vespa che i miliziani di Hamas hanno messo un bambino vivo nel forno. "Avrà visto le immagini". Con Vespa che risponde: lo so, lo so (qui al minuto 14). Eppure le immagini non le ha viste nessuno. Non ci sono. È una storia messa in giro dai primi soccorritori, che però non hanno mai fornito prove.

 Il poeta Refaat Alareer è stato preso di mira e ucciso, con la sua famiglia.

Ora, questo è curioso. Continuo a imbattermi in persone che sostengono di avere "visto le immagini". Su twitter più o meno un mese fa, una tizia aveva visto un miliziano estrarre il feto da una vittima sbudellata, benché l'episodio fosse stato denunciato come falso mesi prima dalla stessa stampa israeliana. Hanno filmato gli stupri! dicono. Lo hanno fatto i miliziani per vantarsi, e li hanno visti tutti. E quindi i video dove sono? Boh, però li hanno visti tutti. Viene il sospetto che qualcosa, tra sette e otto ottobre, sia stato veramente trasmesso. Immagini di repertorio, o fiction spacciata per vera a un pubblico sotto choc. Ma forse semplicemente basta saper usare le parole giuste, mentre in primo piano scorrono fotogrammi che la memoria ricombina a suo piacimento. 

Sia come sia, ormai è primavera. L'Onu ha chiesto un Cessate il Fuoco e per la prima volta gli USA si sono astenuti. Ma ancora per il nostro Ministro degli esteri, Hamas è l'organizzazione che mette i bambini nel forno. C'è un repertorio di vecchie leggende e nuove fake news che ha convinto soldati e civili della necessità di sconfiggere un nemico disumano, a ogni costo. Ora che il disastro si è compiuto, dovranno continuare a crederci, o smettere di credere in sé stessi.  La seconda opzione è più difficile e dolorosa; la prima comporta una fuga dalla realtà che non può portare molto lontano.

Un giorno potrebbero raccontare ai vostri figli che il Nemico sta stuprando e mangiando le sue vittime; e questi racconti avranno una funzione istigatrice e una funzione descrittiva. Serviranno a giustificare i crimini di guerra e offriranno qualche spunto fantastico su come commetterne. Magari Vespa non ci sarà più (anche se ormai ne dubito), ma ce ne sarà un altro. L'unico antidoto che riesco a immaginare è lo studio del passato, delle leggende e delle evidenze. E un po' di senso morale, certo.

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Un beato, un poliedro

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27 marzo: Beato Francesco Faà di Bruno (1825-1888), poliedro

Torino è una gabbia cartesiana di viali a guardia di una selva di follie. Alcune si vedono da lontano; altre necessitano di un occhio più attento. Ad esempio in San Donato c'è un campanile sgargiante che è il più alto della città, ma da vicino rischi di passare senza notarlo perché è sottilissimo – la base quadrata è di 5,5 metri per 5,5. Che razza di architetto può averlo disegnato? In effetti non si trattava esattamente di un architetto perché a Edoardo Arborio Mella subentrò a un certo punto lo stesso committente, il poliedrico Francesco Faà di Bruno. Quest'ultimo non aveva una particolare esperienza in fatto di chiese o campanili; in compenso fu ufficiale dell'esercito, matematico, cartografo, astronomo, inventore, benefattore e prete. E probabilmente mi sto scordando qualcosa. 

Provo da capo: Francesco da Paola Virginio Secondo Maria Faà di Bruno nasce ad Alessandria nel 1825, dodicesimo figlio di Lodovico Faà, marchese di Bruno, e di Carolina Sappa de' Milanesi, la quale morì quando FdB aveva appena nove anni. Cinque dei suoi fratelli, ben prima di lui, avevano scelto la vita ecclesiastica: una percentuale ragionevole per una delle più blasonate famiglie di proprietari terrieri del Basso Piemonte. Francesco invece è avviato alla carriera militare, come il fratello maggiore Enrico (che, in qualità di capitano di vascello, affonderà nella battaglia di Lissa). Si diploma all'Accademia di Torino nel 1846, appena in tempo per partecipare alla Prima Guerra d'Indipendenza. Durante l'assedio di Peschiera ha l'occasione di disegnare una carta dettagliata della regione del Mincio. Alla battaglia di Novara è ferito a una gamba e decorato, e benché scrivendo a un fratello si schermisca ("Non ho fatto niente di più straordinario del mio dovere") qualche indizio ci lascia supporre che l'esperienza della battaglia lo abbia segnato profondamente. Alla fine della guerra il nuovo re, Vittorio Emanuele II, lascia intendere la volontà di nominarlo precettore dei suoi figli Umberto e Amedeo. Non è chiaro quanto fosse vincolante la proposta, ma FdB la prende così sul serio da trasferirsi a Parigi per diplomarsi almeno in matematica alla Sorbona. Quando si ripresenta a corte, due anni dopo, con una license in Scienze Matematiche, scopre che l'incarico è sfumato: come mai? Secondo Giuseppe Palazzini, autore della voce "Faà di Bruno" della Bibliotheca Sanctorum, a causa del "settarismo di alcuni consiglieri dei re" che non lo consideravano adatto in quanto "cattolico fervente". Nel piccolo regno anche la scelta di un precettore reale poteva essere interpretata come un segnale politico, e in effetti FdB era tornato a Torino in un momento particolarmente delicato: il baricentro del parlamento si stava spostando dall'asse liberal-clericale di D'Azeglio al centrosinistra del connubio Cavour-Rattazzi. FdB non ha ancora debuttato nell'agone politico, ma quando lo farà (1857) si candiderà con i Cattolici Conservatori, gli antagonisti sconfitti dal nuovo astro del Regno: il conte di Cavour. Prima però si congeda dall'esercito. La pagina di Wiki racconta che FdB sarebbe stato sfidato a duello da un ufficiale torinese che lo aveva offeso, sostenendo che non era stato in grado di laurearsi. FdB avrebbe rifiutato di battersi (sempre in quanto "fervente cattolico"), ma avrebbe risposto alla sfida tornando alla Sorbona e completando brillantemente gli studi. Raccontato in questi termini, l'episodio non ha senso: chiunque abbia letto due o tre romanzi ottocenteschi sa che al massimo sarebbe stato l'offeso, ovvero FdB, a domandare soddisfazione; né il Dizionario biografico Treccani né la Bibliotheca Sanctorum riferiscono di questo duello. 


Vabbe' ma era ovvio, dai.

A Parigi FdB compone non una ma due tesi: una sulla teoria algebrica dell'eliminazione, l'altra sulla meccanica celeste. In entrambi i casi il suo relatore è Augustin-Louis Cauchy, pioniere del calcolo differenziale, ma anche grande filantropo: in pratica l'esempio vivente di come la mentalità scientifica si potesse coniugare con la sensibilità sociale (e un orientamento politico clericale-reazionario).  Nell’armonia delle leggi della fisica e della matematica, FdB riconosce"un'ombra delle perfezioni di Dio". "Il vero ricercatore, purché oggettivo, non può non riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose regolarità matematiche su cui si regge l’universo, una provvida e onnipotente sapienza”.

Un'altra passione di FdB, la musica, lo porta a confrontarsi con una categoria umana che forse la vita militare e la matematica non gli avevano dato molte possibilità di incontrare: le donne. FdB scrive inni religiosi e ama suonarli all'organo. Le pie donne che frequentano le messe domenicali sono il suo pubblico e le sue interpreti: per loro apre una scuola parrocchiale di canto. Molte sono domestiche di umile estrazione, che il giorno di festa non sanno come occupare il tempo al riparo dalle tentazioni. Per risolvere questo specifico problema FdB istituirà l'Opera della Domenica, scegliendo di dedicarsi a loro, così come Giovanni Bosco aveva scelto gli spazzacamini e Giuseppe Cottolengo gli infermi. Il che ovviamente non significa che abbandoni gli studi scientifici: nel 1855 pubblica un articolo in cui compare una formula che ancora oggi prende il suo strano nome, "Formula di Faà di Bruno". Nel '56 comincia a insegnare matematica all'Università di Torino (proseguirà per più di vent'anni, senza mai diventare ordinario), mentre tiene corsi popolari di astronomia. Quando scoppia la Seconda Guerra d'Indipendenza, le mappe del Mincio che aveva disegnato dieci anni prima si rivelano utilissime agli eserciti sardi e francesi: non è una sorpresa che venga invitato a insegnare topografia, geodesia e trigonometria alla Scuola di applicazione del corpo di stato maggiore. Nel frattempo inventa tra le altre cose una sveglia meccanica, un barometro a mercurio e uno scrittoio per non vedenti, ispiratogli da una sorella ipovedente.

Nel 1859 FdB fonda l'Opera di Santa Zita, un complesso assistenziale dedicato alle donne non sposate. All'inizio è soprattutto un centro per la formazione e lo smistamento delle giovani domestiche, ma offrendo la propria disponibilità a una categoria che al tempo era socialmente invisibile, fatalmente FdB scoperchia un mondo di problemi ai quali s'ingegna a trovare soluzioni: un istituto per le donne "intellettivamente non molto dotate", impiegate in una lavanderia di sua progettazione; un pensionato per donne non sposate o come si soleva dire allora, di “civil condizione”; una classe di magistero per allieve maestre, un liceo, la biblioteca circolante gestita da donne, la tipografia con cui poteva pubblicarsi in casa i canzonieri e i saggi di teologia, e in Via della Consolata un'istituzione top secret: una casa di preservazione per le ragazze madri. Tutto un mondo di donne per cui nel 1864 FdB decise di costruire un tempio a sue spese nel quartiere San Donato: la chiesa di Santa Maria del Suffragio, dove le Suore Minime (ordine fondato ovviamente da FdB) avrebbero pregato per l'anima dei morti nelle battaglie, che nel mondo degli uomini proseguivano copiose. E con la chiesa, FdB disegnò il campanile. Non esattamente una torre campanaria, ma due torri, una sopra l'altra: in mezzo, trentadue colonne di ghisa tinte di azzurro cielo, che amplificano il suono delle campane. Più in alto, un osservatorio astronomico e l'orologio più alto della città. Un'ipotesi è che volesse regalare a tutti gli operai del quartiere uno strumento che avrebbe consentito loro di arrivare puntuali al lavoro e non farsi fregare sulla lunghezza dei turni; e in effetti il campanile segna le ore su tutti i quattro i lati. Nemmeno è escluso che Faà di Bruno, scienziato e filantropo cattolico, subisse un inconfessabile spirito di competizione nei confronti dell'altra folle costruzione che in quegli anni stava sfidando il cielo sotto Torino, e che ne rappresentava l'anima più laica: la Mole. Lo stesso architetto Alessandro Antonelli, interrogato come esperto dalla Commissione Edilizia del comune avrebbe definito il campanile l'opera di un genio – però questa cosa la scrive la Stampa, non esattamente la Legenda Aurea, ecco. C'è da dire che fin qui il campanile ha retto i rovesci temporaleschi molto meglio della Mole, senza mai riportare danni significativi.

In un qualche modo il campanile è anche il ritratto di FdB, un poliedro che è una sintesi assurda di razionalità e spericolata fantasia. Amico di don Bosco, su sua istigazione e con l'approvazione di Pio IX Faà di Bruno sarebbe diventato sacerdote a ben 51 anni – per morire poco prima di compierne 63, il 27 marzo del 1888: è sepolto nella chiesa da lui disegnata, dove pregano le suore dell'ordine da lui fondato e dove lui stesso diceva messa, vicino al liceo dove insegnava la sua matematica. 

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