L'ingegnosità del massacro

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Quando dico che a Gaza è in gioco la nostra umanità, mi riferisco a fatti come questo: non solo che per liberare quattro ostaggi si siano uccise più di duecento persone, ma che un episodio del genere sia presentato come un successo. Un'ecatombe, in cui forse hanno trovato la morte altri ostaggi, Netanyahu deve vendercela come la dimostrazione che la sua strategia sta funzionando; e noi compriamo. Basta accendere la tv per scoprire che il rapporto tra duecento civili palestinesi e quattro ostaggi israeliani è perfettamente ok. Sono cresciuto negli ultimi decenni del secolo scorso, di guerre ne ho viste parecchie, per fortuna quasi tutte su un video. Un cinismo del genere, un disprezzo così esibito per le vite dei "nemici", non me lo ricordo nemmeno nei giorni più oscuri della Guerra al Terrore. È un fatto nuovo, forse un'avvisaglia dei nuovi tempi che incombono, delle prossime guerre e delle prossime migrazioni e del razzismo che provocheranno, che stanno già provocando. Evidentemente non possiamo più permetterci di provare pietà per tutti; senz'altro non possiamo più provare pietà per i palestinesi. Così Netanyahu ci chiede di essere felici perché senza cedere a nessun compromesso è riuscito a liberarne quattro, e noi festeggiamo. Qualche mese fa era bastato un accordo temporaneo con Hamas per portarne a casa un centinaio, ma questo è meglio dimenticarselo. 

Da quel che ci è dato sapere, il commando che ha provato a liberare gli ostaggi israeliani è partito dal molo che gli USA avevano costruito per motivi umanitari, (la consegna di aiuti umanitari via nave, che ha funzionato poco e male). Lo stesso commando si sarebbe nascosto in un convoglio umanitario. Tutto questo, ci spiegano i commentatori israeliani, dimostra l'abilità dell'esercito israeliano, la sua irrefrenabile inventiva. Lo stesso Netanyahu in conferenza stampa ha lodato "l'ingegnosità e l'audacia" di Israele, e questo è persino buffo, dopo anni e anni in cui Netanyahu e colleghi non smettevano di lamentarsi del fatto che i combattenti palestinesi si mimetizzavano... tra i convogli umanitari e le strutture sanitarie. Questo non dovrebbe più stupirci: ormai abbiamo capito che la moralità di ogni azione dipende semplicemente dal sionismo di chi la compie. L'IDF è l'esercito più morale del mondo, quindi se camuffa un commando in un furgone umanitario, questa è "audacia"; se lo fanno i palestinesi è detestabile, slealissimo terrorismo. 

I quattro ostaggi, per ora, non hanno accennato a torture e molestie, e questo è in linea con quanto abbiamo appurato fin qui: non c'è una sola vittima delle torture e delle molestie dei miliziani palestinesi che sia sopravvissuta per parlarne in prima persona. Viceversa abbiamo testimonianze di palestinesi scarcerati dal campo di prigionia di Sde Teiman che affermano di essere stati sodomizzati. con bastoni e altri strumenti. 

Non so più dove ho letto che ogni accusa di un sionista è una confessione. Per mesi, mentre il conteggio delle vittime civili aumentava paurosamente, e le demolizioni rendevano chiara al mondo l'idea di un'operazione di pulizia etnica, hanno scelto di difendersi accusando i miliziani palestinesi di "stupro di massa". Non hanno mai trovato le prove, ma intanto includevano lo stupro tra le pratiche con cui interrogano i prigionieri. Per anni hanno accusato i palestinesi di usare scuole, ospedali e strutture assistenziali dell'UNRWA come basi militari: anche qui, non sono mai riusciti a dimostrarlo, mentre invece abbiamo numerose testimonianze che ci dicono che il commando che ha liberato gli ultimi ostaggi era nascosto in un convoglio umanitario. Per mesi hanno abusato della nostra pazienza lamentandosi perché qualche studente cantava "From the river to the sea", con evidente proposito genocida: e intanto sbandierano allegramente mappe e canzoni che prevedono l'annessione di tutti i Territori. Quando dico che a Gaza è in gioco la nostra umanità, mi riferisco a quell'enorme trappola in cui è caduta l'ideologia sionista: giustificare ogni errore, ogni crimine, postulando che il nemico prima o poi ne abbia fatto uno peggiore. Bastano pochi anni, lo abbiamo visto, per convincere la maggioranza di un popolo che qualsiasi nefandezza è giustificata, anzi necessaria. Abbiamo visto Israele cadere in questa trappola: che sia almeno monito per chi le sta intorno.   

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Quando i teologi cantavano

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9 giugno: Sant'Efrem il Siro, teologo e cantautore (306-372)

Nel quarto secolo, terminata la grande persecuzione dioclezianea, i cristiani tornano in superficie e per prima cosa si mettono a cantare. Potrebbe non esserci stato un altro periodo della storia dell'uomo in cui teologia e musica fossero tanto intrecciati; quasi tutti gli intellettuali del tempo non solo compongono inni, ma li usano per difendere le proprie teorie, e spesso li intonano direttamente nelle chiese in cui officiano i riti. Oggi li immaginiamo perlopiù mentre vergano pergamene o insegnano da un pulpito, ma nel IV secolo i dottori della chiesa componevano canzoni e le cantavano, col coro a rispondere. Cantava Ambrogio a Milano; cantava Diodoro ad Antiochia; ad Alessandria canta anche Ario, su musiche popolari che gli consentono di spargere le sue idee per le strade quando la Chiesa ufficiale gli volge le spalle. A Edessa, Siria (oggi Şanlıurfa, Turchia) andava forte un tale Armonio, figlio d'arte perché già il padre Gardesano a Nisibi aveva messo le sue idee gnostiche in musica; ma fu il successo di Armonio a stimolare il monaco Efrem a mettere in musica la sua dottrina.

Non sappiamo che musica fosse, perché non si sono tramandate forme di notazione comprensibili, ma può darsi che ci suonerebbe familiare, visto che Efrem componeva su arie della tradizione popolare, e la musica è un linguaggio più universale di quanto non si creda. Poi si sa come andavano le cose, non solo nel medioevo: quando si voleva salvare una bella canzone in siriaco, la si attribuiva a Efrem, per cui di lui ci sono arrivate centinaia di pagine in poesia e in prosa, dalle quali ricavare quelle davvero scritte da lui non è affatto facile. Questo è comunque un miracolo, se si considera quanto poco ci è rimasto di tutto il mondo che Efrem rappresentava. La sua lingua, il siriaco, che in quei secoli era una delle più parlate dai cristiani (e la più simile alla lingua di Gesù, l'aramaico occidentale), scomparve quasi del tutto dopo l'islamizzazione della regione, togliendoci gran parte della sensibilità necessaria ad apprezzare la musicalità e il ritmo delle composizioni di Efrem. La stessa comunità siriaco-cristiana cui apparteneva era già a rischio: se durante l'infanzia di Efrem l'impero Romano era ancora il nemico dei cristiani, la situazione si sarebbe ribaltata dopo il 310 quando i Romani divennero abbastanza rapidamente i difensori della fede cristiana contro la penetrazione persiana; il grande trauma della vita di Efrem è la conquista persiana di Nisibi, la sua città natale, dove (malgrado l'appellativo "monaco" suggerisca una vita appartata) Efrem viveva e predicava. Ai cristiani fu consentito di salvare la vita abbandonando la città. Efrem, che secondo i biografi avrebbe partecipato attivamente alla difesa durante l'ultimo assedio, in seguito si sarebbe trasferito con molti altri correligionari a Edessa, fondando un monastero; sarebbe morto nel 372, assistendo i malati di peste.
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Il santo dei ladri di bestiame

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8 giugno: San Medardo vescovo (VI secolo)

"S'il pleut à la Saint-Médard, il pleut quarante jours plus tard". La leggenda che associa San Medardo agli acquazzoni estivi prevede che il giovane aspirante santo incontri, all'età di dieci anni, un poveraccio disperato perché gli è morto il cavallo e non sa più come tirare il carretto o l'aratro. Decide quindi di donargli il suo, è una cosa che i santi fanno spesso, anche prima dell'introduzione delle stimmate avevano già le mani bucate; invece una cosa che fanno spesso i genitori dei santi è imbestialirsi quando scoprono che i figli stanno facendo i santi a spese loro. Il padre di Medardo, un nobile galloromano chiamato Nectar, quando scopre che suo figlio sta elargendo cavalli, esce immediatamente dal castello per andare a riprenderselo, e si porta il bambino con sé: ed è a questo punto che scoppia un violento acquazzone e Nectar, già completamente fradicio, si volta verso Medardo e si accorge che è completamente asciutto. Un'aquila lo sta riparando dalla pioggia battente; è un miracolo, un segno del cielo, insomma addio cavallo. I padri dei santi si devono rassegnare, magari sperando che col tempo i figli mettano la testa a posto, insomma quando toccherà a loro gestire il patrimonio la smetteranno di regalare cavalli a destra e a manca, o no? 

In effetti le leggende non riportano altri straordinari atti di prodigalità commessi da Medardo una volta cresciuto e ordinato sacerdote; un conto è regalare i cavalli del padre, un conto è intaccare il patrimonio della Chiesa. E tuttavia le leggende non nascondono un atteggiamento piuttosto eccentrico del santo nei confronti dei ladri. Quando Medardo ne scopre uno incastrato nei filari della vigna, lo perdona e lo lascia scappare, e questo fatto è registrato come "miracolo" benché ai nostri occhi contemporanei non risulti nulla di miracoloso, se non appunto la resistenza all'impulso di bastonare il ladro di frutta. Una cosa simile accade a un ladro di miele, che Medardo salva dalle api. Quando un altro furfante che nottetempo cercava di sottrarre una mucca viene tradito dal tintinnare delle campanelle, Medardo le fa tacere all'improvviso, dopo che avevano già svegliato tutto il vicinato: questo è già più simile a un miracolo, ma è un miracolo che serve a coprire la fuga del ladro di bestiame, che se ne va con la mucca di Medardo! Il quale è tradizionalmente considerato patrono dei prigionieri, di chi soffre di una malattia mentale o di semplice emicrania, degli agricoltori e dei birrai; ma a leggere storie del genere ci si domanda se per caso non sia anche il patrono ufficioso dei ladri. E se questo abbia a che fare con la sua popolarità in Francia, e con l'ascendente che ebbe Medardo su un ladro e assassino come re Clotario I.

In effetti il culto per Medardo comincia immediatamente dopo la sua morte (intorno alla metà del VI secolo), quando il re Clotario lo fa seppellire nella sua capitale, Soissons (oggi nell'Aisne), in un sito intorno al quale sorgerà una delle più importanti abbazie benedettine della Francia. Lo stesso Clotario si farà costruire la sua tomba lì accanto. Ma cosa aveva fatto Medardo, per meritare siffatti onori da parte di un re che aveva passato la vita a dar guerra a Visigoti, Burgundi, Turingi, nipoti, fratelli, figli? Lo aveva aiutato a sbarazzarsi di una moglie, Radegonda. 

No, non in modo cruento. Anzi, era stato forse uno dei pochi casi in cui Clotario era riuscito a risolvere un problema senza spargere sangue (era il tipo di re che quando un figlio si ribellava non condannava a morte soltanto lui, ma anche nuora e nipotini). Probabilmente Clotario non aveva mai amato Radegonda: l'aveva requisita come bottino di guerra in quanto figlia di un re di Turingia – quella volta che lui e un suo fratello avevano attraversato il fiume Unstrut sui cadaveri – e l'aveva sposata per le solite questioni politiche. Per le stesse questioni politiche gli era successo in seguito di far ammazzare un cognato; a quel punto Radegonda, rimasta senza parenti, era scappata, temendo per la sua stessa vita, e conoscendo i precedenti del marito è difficile darle torto. Clotario era un gangster; non è chiaro se aspirasse a unificare la Francia ammazzando tutti i parenti che ne possedevano una parte, o se l'unità della Francia fu semplicemente il risultato della sua propensione a uccidere tutti i parenti di cui poteva reclamare l'eredità. Presto o tardi avrebbe sentito la necessità di sposarsi con qualche altra principessa fornita di dote: tanto più che Radegonda non riusciva a dargli figli, almeno maschi. Così decise di scappare, e Dio fece crescere in un istante l'avena in un campo dove si era nascosta mentre le guardie di Clotario la cercavano. Trovò rifugio presso Medardo, che invece di riconsegnarla al re ebbe l'idea di nominarla diaconessa: Radegonda avrebbe trovato sollievo alle sue pene nella vita claustrale e fondato un monastero femminile a Potiers, una città assai distante dalle grinfie del marito. Invece di prendersela con Medardo, come alcuni temevano, Clotario ebbe da quel momento grande considerazione per lui e lo fece seppellire con tutti gli onori, poco prima di raggiungerlo. Aveva appena unificato la Francia, ma siccome la nuova moglie (che forse era una vecchia concubina) gli aveva dato cinque figli maschi, le guerre fratricide ripresero abbastanza presto. 

Secondo i francesi, se piove oggi, piove per altri 40 giorni – a meno che non faccia bello a San Barnaba, che è l'11. E almeno di pioggia i francesi s'intendono. 

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Norberto il fulminato

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6 giugno: San Norberto di Magdeburgo, vescovo e predicatore (1080-1134)

Di Norberto si racconta che cambiò vita dopo essere stato colpito da un fulmine, non sulla strada di Damasco ma nei pressi di Magdeburgo, capoluogo della Sassonia centrale. Norberto a dire il vero era già un chierico importante, tanto che aveva accompagnato l'imperatore Enrico V a Roma per la sua incoronazione. Per cui agli agiografi non resta che immaginare che fosse già un sacerdote, sì, ma di quelli un po' mondani che pensano più agli intrighi di corte che alla cura delle anime. L'episodio del fulmine potrebbe persino alludere a un episodio più concreto: il provvedimento di scomunica con cui il papa Pasquale colpì l'imperatore, visto che quest'ultimo continuava a nominare vescovi come se fosse una sua prerogativa. Proprio nello stesso periodo Norberto si sgancia dalla corte imperiale e comincia a dedicarsi alla predicazione e alla vita cenobitica. 

L'idea del fulmine ovviamente ricalca la caduta di san Paolo, però è davvero una coincidenza singolare che una storia simile si racconti anche di Martin Lutero, che sarebbe nato 400 anni dopo, ma a pochi km di distanza da Magdeburgo, a Eisleben. Anche nel suo caso un fulmine lo avrebbe convinto ad abbandonare gli studi giuridici e a farsi monaco. Lutero entrò nel monastero agostiniano di Erfurt; Norberto, 400 anni prima, ne fonda uno in Piccardia, a Premontré. I suoi monaci, che saranno chiamati premostratensi, seguono la regola agostiniana ma ai doveri del monastero aggiungono la predicazione del Vangelo nelle campagne. In pratica sono l'anello di transizione tra il monachesimo contemplativo e gli ordini predicatori che si diffonderanno nel secolo successivo, domenicani e francescani. Lutero – anche lui grande predicatore – invece abolirà tutti gli ordini monastici, insomma un fulmine può darti anche la scossa, ma la direzione in cui schizzi via la scegli sempre tu.
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Bonifacio l'abbattitore

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5 giugno: san Bonifacio (675-754), evangelizzatore e taglialegna 


A un certo punto, non si sa bene quando, qualcuno ha messo in giro la voce che san Bonifacio/Winfred di Magonza sia l'inventore dell'albero di Natale. Lo avrebbe addobbato per la prima volta nel 724, "per spiegare alle popolazioni pagane il senso del Natale". Le candele accese sui rami simboleggerebbero "la discesa dello Spirito Santo sulla terra", discesa che a rigore si festeggerebbe più a Pentecoste che a Natale, insomma, è una storiella messa in giro da qualcuno non troppo esperto di queste cose – magari un protestante. Alla lontana richiama quegli espedienti di inculturazione che sono tipici dei pionieri dell'evangelizzazione, e qui forse giova ricordare che "pagano" deriva da "pagus", campagna: abbiamo cominciato a chiamare "pagani" i non cristiani quando ormai i centri urbani erano cristianizzati e i politeismi erano considerati superstizioni da contadini. Bonifacio, patrono di Germania e Olanda anche se era un benedettino nato in Inghilterra, ha appunto dedicato la sua vita all'evangelizzazione dei pagi: il papa Gregorio III, che lo aveva ribattezzato Bonifacio, lo aveva nominato vescovo di tutta la Germania, ma in concreto la zona in cui riusciva a esercitare le sue funzioni era quella intermedia tra Frisonia, Renania e Francia orientale, intorno alla sua sede di Magonza. Ora si sa che molti di questi evangelizzatori di massa non vanno per il sottile e hanno il battesimo facile, anche di fronte a popolazioni che ancora non capiscono la lingua delle preghiere: prima battezzare, dopo spiegare, magari tu non capirai ma tuo figlio sì. Ovviamente gli idoli pagani vanno distrutti, ma senza essere troppo drastici, specie nei confronti di elementi naturali che in effetti possono essere impossibili da rimuovere: ad esempio un monte è sacro a qualche dio? Mica si può distruggere il monte: ma ci si può mettere un santuario cristiano e nel giro di una generazione il dio è sostituito. Quanto all'albero di Natale, è ovvio che si trattava di un'usanza precristiana. Di giudaico-cristiano non ha veramente nulla, in Palestina i pini, quando ci sono, hanno tutt'altra forma. Quindi Bonifacio avrebbe potuto davvero prendere un'usanza pagana e riutilizzarla in senso cristiano: i missionari queste cose le hanno sempre fatte, e qualcuno senz'altro deve averlo fatto con gli alberi di Natale, visto sono sopravvissuti a duemila anni di cristianesimo. 

Ma è difficile che sia stato Bonifacio. Lui in questa cosa dell'inculturazione non ci credeva così tanto: dai suoi scritti e dai suoi atti risulta un personaggio piuttosto intransigente, e poco conciliante con i rigurgiti di paganesimo che riscontrava intorno a lui. Quanto agli alberi pagani, preferiva tagliarli. Uno degli episodi più celebri della sua vita è appunto l'abbattimento della sacra quercia di Fritzlar, in Assia. La quercia era considerata proprietà di Thor, ragione per cui la popolazione accorsa ad assistere era curiosa di vedere se il monaco inglese sarebbe stato fulminato all'istante: probabilmente non ci credevano del tutto; ci credevano come noi crediamo all'oroscopo o alle previsioni del tempo, ma se poi il fulmine cadeva davvero, volevi perdertelo? Così accorsero in tanti, anche perché l'avvenimento era stato dovutamente pubblicizzato: in data tale il vescovo di Magonza abbatterà la Quercia. Nessuno provò a trattenerlo, probabilmente perché Bonifacio era il braccio spirituale del potere carolingio ed era scortato da guardie del maestro di palazzo. E non dovette nemmeno sudare troppo perché appena cominciò il lavoro con l'accetta, in luogo dei fulmini si alzò un gran vento che sradicò la pianta, il che provocò migliaia di conversioni spontanee. Col legname ricavato Bonifacio avrebbe poi eretto la chiesa di un nuovo monastero in loco. Secondo una leggenda più tarda, proprio dai resti dell'albero sarebbe germinato l'abete che Bonifacio avrebbe deciso di addobbare, e qui è chiaro che l'idea di associare al santo l'albero di Natale è un tentativo un po' maldestro di addolcire un personaggio spigoloso. Bonifacio non amava i compromessi, malsopportava sia la rozzezza dei pagani sia la scarsa dimestichezza dei cristiani con i principi e la lingua della loro stessa religione: a un certo punto fu censurato dallo stesso papa perché voleva considerare nulli i battesimi impartiti con formule sgrammaticate ("Baptizo te in nomine patria et filia et spiritu sancta"). Malgrado i monasteri fondati (tra cui Fulda), i concili organizzati, le diocesi disegnate, i popoli battezzati, le querce sacre abbattute, non fu mai veramente soddisfatto di quello che stava facendo e non smise mai di provarci, così che il martirio lo trovò a ottant'anni in un pagus della Frisonia, una domenica di Pentecoste, circondato da infedeli che pensavano di trovare nei suoi bauli preziosi gioielli e non libri sacri. Ai suoi compagni chiese di abbassare le armi, tanto "non possono uccidere la nostra anima": poi quando gli infedeli lo stavano ammazzando non riuscì a impedirsi di difendersi col libro che aveva in mano, il De bono mortis di Sant'Ambrogio. Oggi il codice, coi segni di un'arma da taglio e macchie di sangue, è conservato a Fulda.



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Quirino che chiese di affondare, anzi no

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4 giugno: San Quirino di Sciscia (Siszeck), martire (III-IV sec.)

By Berthold Werner, CC BY-SA 3.0

Se per un po' è sembrato che Internet potesse diventare la Biblioteca di Alessandria – l'archivio di tutte le cose che sappiamo o crediamo di sapere – ormai dobbiamo accettare che sia diventato la Biblioteca di Babele: un enorme corpus di testi che potrebbero persino avere senso, e forse un tempo l'avevano, ma poi è intervenuta una specie di Intelligenza Artificiale abbastanza intelligente per ricombinarli come se volessero dirci qualche cosa, ma non abbastanza per verificare se fosse qualcosa di vero. La maggior parte in ogni caso è pubblicità di cose che molto spesso nemmeno esistono; all'inizio servivano soltanto a infastidire il lettore e convincerlo a passare a una versione a pagamento di un servizio che non comunque non funziona più da anni. 

Di San Quirino comunque sopravvive ancora in qualche vecchia pagina web – ma di quelle vecchie davvero, con gli sfondi marmorizzati, le tabelle htm style e ancora le sottolineature blu sotto i link, ricordate? No, tutto questo ormai vi è più remoto di un manoscritto medievale, perché quelli li potete googlare, mentre il vecchio web degli anni Novanta ora dov'è, perduto come lacrime nella pioggia – ma dovevo parlare di San Quirino, ebbene, di lui sopravvive ancora in qualche vecchia pagina web la voce che lo riguardava su una versione del Martirologio Romano che non è quella attuale (edizione del 2004? del 2001?) Questa voce è così breve che la posso riportare senza troppa paura di annoiarvi:


In una versione più recente del Martirologio, sempre tra i santi del 4 giugno, si legge così:
A Szombathly in Pannonia, nell’odierna Ungheria, passione di san Quirino, vescovo di Siszeck e martire, che sotto l’imperatore Galerio, per la fede in Cristo fu precipitato nel fiume con una pietra legata al collo.

E dunque cos'è cambiato? come si sta evolvendo la martirologia ufficiale? Aumentano i riferimenti geografici: accanto a Siszeck di Croazia ora è menzionata anche Szombathly, oggi in Ungheria (l'antica Savaria, che tra l'altro rivendica anche i natali di Martino di Tours). Meno rilievo invece è dato agli aneddoti miracolosi, qui del tutto sacrificati, forse anche perché un santo che "impetrò Dio di affondare" può lasciare perplessa la sensibilità dei fedeli moderni: non si chiede mai a Dio di morire, anche quando si sta affogando già da parecchio tempo e tutto quello che si poteva fare per rendere testimonianza è stato fatto. Sarebbe eutanasia, e il cristiano moderno deve avere orrore per l'eutanasia, molto più di quanta probabilmente ne provava Prudenzio. Dal martirologio è poi sparito il riferimento a un omonimo Quirino di Tivoli, che si festeggia sempre il 4 giugno e da sempre è considerato lo stesso santo, le cui reliquie sarebbero arrivate a Tivoli da Szombathly già nel V secolo. Oggi riposano a San Giuseppe in Seregno, provincia di Monza e Brianza.

Se invece chiedo a Chat Gpt, lui mi risponde che:
Durante le persecuzioni dei cristiani sotto l'imperatore Galerio, Quirino fu arrestato e condannato a morte per la sua fede. Fu gettato nel fiume Raab (oggi il fiume Rába in Ungheria) con una pietra al collo e morì per annegamento.

Wikipedia invece dice che fu gettato nel fiume Perint, che in effetti passa da Szombathly. E in generale credo più all'intelligenza umana di Wiki che a quella artificiale di ChatGpt, che prende spesso solenni cantonate. Ma tra un po' i collaboratori di Wiki cominceranno ad attingere sistematicamente informazioni da ChatGpt, causando referenze circolari che renderanno impossibile documentarsi di qualcosa su Internet. A questo punto non saprei nemmeno più dire se sia un problema. Cioè, capitemi, Internet è stata fantastica, ci ho vissuto per quanti anni, trenta? Il posto più interessante dove sia stato. Ma non era previsto che durasse per sempre, quello che la rendeva fantastica era proprio una serie di difetti strutturali che la condannavano a diventare col tempo la Babele inanimata che è adesso. Per fortuna che nel frattempo non abbiamo bruciato tutte le biblioteche. 
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Un beota a Trani

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2 giugno: San Nicola di Trani (XI secolo), il pellegrino beota


Anche Trani ha il suo san Nicola, meno conosciuto di quello di Bari (che è in effetti il santo più famoso di tutti, quello che porta i regali ai bambini la notte di Natale). Il Nicola di Bari fu vescovo in Licia e patrono dei naviganti; il Nicola di Trani invece era un beota, nel senso che proveniva anche lui da oriente ma nello specifico da un villaggio della Beozia, non troppo lontano dal Parnaso. 

Tra i Greci già in epoca classica era uso chiamare "beoti" gli stupidi, per via dell'antico pregiudizio dei nobili frequentatori delle acropoli nei confronti dei pastori e dei montanari. Ma anche tra questi ultimi Nicola era un caso limite: orfano di padre, pastore già a otto anni, non è chiaro se non abbia mai imparato a parlare o se le sue competenze lessicali si siano ridotte a causa di un trauma (una "visione") a un'unica invocazione: Kyrie Eleison, Signore Pietà. Il comportamento di Nicola rientra nella casistica dei "folli di Dio", tipici del cristianesimo orientale (anche se al tempo erano ormai anacronistici): emarginati dagli atteggiamenti eccentrici, che mettono alla prova la tolleranza che il Vangelo pretende dai suoi fedeli nei confronti dei poveri di spirito. Tollerare Nicola doveva essere una prova particolarmente ardua, perché all'ennesimo kyrieleison anche la madre lo caccia di casa (a dodici anni!) Per qualche tempo si rifugia nella grotta in cui prima viveva un'orsa che Nicola era riuscito a sloggiare brandendo un crocefisso, e magari anche in questo caso mitragliando kyrieleison. In seguito la madre si fa venire uno scrupolo e lo porta in un monastero, ma Nicola non è evidentemente tagliato per la vita cenobitica e in poco tempo riesce a farsi percuotere e rinchiudere. Tra i vari incidenti, notevole quella volta che durante una processione, mentre tutti chinano la testa al passaggio di un'icona della Madonna, lui va a inchinarsi davanti a un anziano ebreo che era rimasto seduto, forse un rabbino. Ma con le icone non si scherza, nella Grecia bizantina. Un'altra volta i monaci lo legano come un salame e lo buttano in mare, ma lui riesce a farsi liberare da un delfino, anche se non è chiaro come facciamo a sapere tutto questo, visto che quando arriva nel 1094 a Otranto, Nicola è tutto solo e l'unica cosa che sa dire è Kyrie Eleison. Il testimone oculare citato dalle agiografie, un compagno di eremitaggio chiamato Bartolomeo, non sembra conoscere molto della Beozia: probabilmente si è aggregato a Nicola solo dopo l'arrivo in Puglia. Tutto quello che sa, se lo sarebbe fatto raccontare da Nicola, che quindi qualche parola oltre a Kyrie Eleison avrebbe dovuto conoscerla: che poi con queste parole dicesse la verità, non possiamo saperlo: ma se cominciamo a dubitare delle fonti, possiamo anche smettere di raccontare vite dei santi. Invece andiamo avanti.    

Nicola era arrivato in Puglia perché desiderava visitare Roma, imbarcandosi con una comitiva di pellegrini che però lungo il viaggio avevano valutato l'opzione di buttarlo in mare. Anche in Puglia, l'accoglienza non è delle migliori. Nicola si fa strada mendicando nella parte più grecofona della regione recentemente conquistata dai Normanni, ma sia a Lecce che a Taranto viene frustato per ordine dei vescovi locali. Un minimo di rispetto il santo sembra ottenerlo dai bambini, ai quali dona dei frutti, ma questo dettaglio potrebbe anche essere il risultato di una contaminazione col Nicola più famoso, che è famoso proprio per i regali. Quando il 20 maggio Nicola arriva a Trani, nella parte latinofona della regione, trova per la prima volta un arcivescovo che lo tratta da cristiano e gli offre vitto e alloggio. Doveva essere talmente malato da ispirare finalmente più pietà che fastidio: muore dodici giorni dopo. Gli abitanti di Trani, che non hanno fatto in tempo a stancarsi dei suoi kyrieleison, imparano ad apprezzarlo per i miracoli. Il vescovo soprattutto coglie la palla al balzo: deve consacrare la cattedrale che era in cantiere già da parecchio, e un "Nicola" venuto dall'oriente sembra un segno del cielo. Quando scrive a papa Urbano II per chiedergli il permesso di canonizzarlo, è il 1097: sono passati appena dieci anni da quando i resti dell'altro San Nicola sono arrivati a Bari. Il papa acconsente, creando un precedente importante: comincia a farsi strada l'idea che i santi vengano proclamati dal vescovo di Roma. E Trani può invocare il suo San Nicola. Kyrie Eleison.

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Il santo nella porta

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1° giugno: Simeone di Siracusa (XI secolo), eremita e viaggiatore

A Treviri hanno la sensazione di vivere in una città antichissima – se ricordo bene c'è una targa in piazza che dice che è stata fondata mille anni prima di Roma. Questo è evidentemente impossibile, a quei tempi era tutta foresta; ma Treviri è l'ultima città sulla Mosella prima che il fiume si getti nel Reno, dopodiché cominciava la Germania vera e propria, che sarebbe rimasta foresta anche mille anni dopo: ai bordi di questo oceano verde, Treviri si sentiva una metropoli e fece il possibile per conservare quest'illusione. Certe rovine che in altre città facevano tristezza e venivano smantellate, con quel che costava cuocere mattoni nuovi nel medioevo, a Treviri in un qualche modo resistettero: compresa un'intera porta monumentale, la più grande testimonianza architettonica del periodo romano a nord delle Alpi. In parte il merito è anche di un santo, che andò ad abitarci quando ormai era un rudere. Si chiamava Simeone e veniva, di tutti i posti al mondo, da Siracusa. E prima di accamparsi nella Porta Nigra di Treviri era cresciuto a Costantinopoli, rapito in mare, naufragato ad Antiochia, aveva cercato di riscuotere un credito in Bretagna, ed era tornato in Terrasanta come guida turistica. 

Una vita del genere è il segno che il Medioevo ormai ha scollinato: prima dell'anno Mille non sarebbe stata possibile e anche ai tempi di Simeone era abbastanza straordinaria. Il mondo cominciava a rimpicciolirsi, al punto che persino a un monaco come lui, che aspirava probabilmente a una vita studiosa e tranquilla, capitava di frombolare da un punto all'altro del mondo conosciuto come una trottola. Se il primissimo viaggio di Simeone (a sette anni, da Siracusa a Costantinopoli) non era che la tipica traiettoria del bambino di buona famiglia che i genitori vogliono far studiare nella capitale – Siracusa era ancora grecofona, e controllata dai bizantini – il pellegrinaggio in Terrasanta compiuto al raggiungimento della maggiore età è uno dei pochi che Simeone sembra aver compiuto per sua libera scelta, anche se una volta arrivato nei luoghi santi (non ancora insanguinati dalle Crociate), Simeone sembra indeciso tra la vocazione all'eremitaggio in solitudine e l'ingresso in un monastero organizzato. Questa indecisione gli consente di guardarsi un po' intorno. Tra i luoghi in cui si ritira c'è il Giordano, una grotta vicino al Mar Rosso, la cima del Sinai. Forse è questa irrequietezza a suggerire ai confratelli che Simeone è l'uomo giusto per una missione quasi impossibile: andare a batter cassa presso un creditore del monastero, Riccardo II duca di Normandia. 

All'inizio del XI secolo i Normanni ormai è possibile trovarli un po' dappertutto, compreso in Italia meridionale dove combattono per il migliore offerente; ma Riccardo no, per trovare Riccardo bisogna proprio attraversare tutto il mondo conosciuto e chiedergli udienza in Normandia. Il viaggio di Simeone si complica subito: la nave in cui si era imbarcato viene assalita dai pirati. Il santo si salva tuffandosi e nuotando fino a riva; arriva a piedi ad Antiochia e qui fa la conoscenza con due illustri pellegrini che stanno tornando in Europa: un altro Riccardo, l'abate di Verdun, ed Eberwino abate di San Martino a Treviri, che anni più tardi scriverà la prima agiografia di Simeone. I tre rimangono compagni di strada fino a Belgrado, dove Simeone viene sequestrato e perde di vista gli altri due. Dopo una serie di vicende avventurose arriva a Roma, da cui può imbarcarsi per la Provenza, dopodiché non resta che attraversare tutta la Francia a piedi per raggiungere finalmente la corte del duca Riccardo II, ma non è così strano che quando finalmente arriva (ci ha messo più o meno cinque anni), il duca sia morto. E siccome gli eredi non sono intenzionati a ripagare nessun debito, Simeone si ritrova straniero in terra straniera, senza fondi per tornare nel monastero base. In un qualche modo riesce a contattare i due vecchi compagni di viaggio, Riccardo ed Eberwino, che gli trovano un ingaggio come guida turistica: accompagnerà Poppone, vescovo di Treviri, nel suo pellegrinaggio in Terrasanta. Presso Poppone, Simeone si trova bene che una volta raggiunta la meta tanto agognata, invece di rientrare nel suo monastero sul monte Sinai, decide di ritornare a Treviri col vescovo, che forse gli ha già promesso un eremo d'eccezione. Si tratta appunto della Porta Nigra, che agli abitanti del tempo doveva sembrare una montagna di pietra – nei primi tempi Simeone fu visto da alcuni come un misterioso stregone appollaiato tra le rovine. Poi col tempo la sua fama di santo si diffuse, e alla sua morte la Porta divenne l'ossatura di una delle chiese più grandi della città, con annesso convento. Lo era ancora al tempo di Napoleone, che fece demolire la chiesa per valorizzare l'originale romano.

Per quanto abbia svolto un ruolo cruciale nella preservazione dell'identità di Treviri, Simeone non ne è ovviamente il cittadino più famoso. Lo si è visto nel 2018, quando il comune, vincendo una certa titubanza, ha accettato il dono della Repubblica Popolare Cinese: una nuova statua di Karl Marx, che era nato a Treviri duecento anni prima. 
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Dante a scuola non è obbligatorio

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L'insegnante di una scuola media trevigiana ha esentato due studenti musulmani dallo studio della Divina Commedia. In una riga, la notizia è questa. Sembra inventata apposta per discuterne, a lungo, e invano, in attesa di qualche altro spunto altrettanto pruriginoso. Quel che segue è un tentativo di segnalare i rami secchi della discussione, quelli che non porteranno da nessuna parte e che, se potessi farlo, andrei personalmente a segare ovunque spunteranno, sui media e sulle piattaforme sociali. 

– La scuola media (secondaria di primo grado) è un luogo che tutti crediamo di conoscere e che invece nessuno sa com'è fatta. Non lo so nemmeno io che ci lavoro dentro, per via che ogni scuola riflette una situazione molto particolare, che cambia in fretta. Faccio fatica a capire cosa succede in altri corsi della mia stessa scuola, per cui non credo di poter farmi facilmente un'idea di quale sia la situazione che ha portato in un altro quartiere di un'altra città un insegnante a porsi il problema, a confrontarsi coi genitori e a prendere una determinata decisione. Prima di esprimere un giudizio dovrei come minimo parlarne con lui, sentire il suo parere – e possibilmente anche quello di altri osservatori diretti. I giornalisti dovrebbero fare questo, secondo me: andare a cercare insegnanti, studenti, genitori in grado di restituirci almeno un pezzo del contesto; invece salta fuori che dal tavolino di casa devono aizzare le vostre paure e suggerirvi che l'occidente è minacciato da fanatici che non vogliono leggere l'Inferno di Dante (e in compenso a quanto pare leggeranno qualche pagina in più del Decameron, non esattamente un testo di propaganda islamica). 

– Una parte del contesto che ci sfugge, e che è cruciale, è il grado di alfabetizzazione degli studenti in questione. Ai giornalisti sembra sufficiente ricordare che sono musulmani, come se tutti gli studenti musulmani italiani (centinaia di migliaia) arrivassero allo stesso livello di conoscenza della lingua italiana nel medesimo momento: e invece no, abbiamo musulmani nati in Italia e perfettamente integrati già alla scuola primaria, abbiamo altri musulmani nati in Italia ma che non parlano italiano in casa, e altri appena arrivati che non parlano nemmeno la stessa lingua di altri musulmani nella stessa classe. L'Inferno è scritto in un italiano del Duecento che crea difficoltà anche agli italofoni laureati. Certo, puoi sostituirlo con una parafrasi. Se proprio t'interessa il contenuto, più della forma. Ma è da qualche secolo che abbiamo deciso esattamente il contrario: se togli il contenuto dalla forma, ti restano le elucubrazioni bassomedievali di un tizio che vagheggiava un Impero universale, che riteneva giusto che i non credenti fossero torturati per l'eternità, il cui poema consiste in una colossale lista dei Buoni e Cattivi stilata da lui, con tanto di premi per i buoni e torture per i Cattivi. Se proprio insisti a insegnare la Commedia a un ragazzino che non sa ancora bene l'italiano, devi semplificare di molto il messaggio, fino al punto che il messaggio potrebbe ridursi davvero a questo: se t'innamori vai all'inferno, se sei musulmano vai all'inferno, se mangi i tuoi figli vai all'inferno. A quel punto meglio leggere Boccaccio, davvero. O Baricco, e non lo dico da estimatore.

– Quello che ha fatto, l'insegnante aveva tutto il diritto di farlo. Dante alle medie non è obbligatorio; mi domando se lo sia mai stato. Ricorderemo ai lettori increduli, per l'ennesima volta, che "i programmi scolastici" non esistono; ove per "programmi scolastici" si voglia intendere un canone di testi e autori obbligatori nella scuola dell'obbligo. Non è che un canone italiano non esista, e non abbia contorni perfino troppo definiti (Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso, eccetera): ma non si è imposto per legge o circolare ministeriale. In caso contrario immaginatevi cosa starebbe succedendo oggi, con questo governo. 

– Non solo è possibile completare serenamente il primo ciclo di istruzione senza aver mai aperto una pagina di Dante, ma non è affatto escluso che sia meglio così: perlomeno se lo chiedi a un insegnante del secondo ciclo, in nove casi su dieci ti scongiurerà di lasciar perdere Dante, lasciar perdere Manzoni e tutta la Storia della letteratura; che insomma sarebbe meglio che a dodici anni i ragazzi imparassero l'italiano su testi più adatti alla loro età. È un punto di vista che sostanzialmente condivido, anche se poi nelle mie classi di solito apro Dante, persino Petrarca, persino Ariosto – ma sempre sentendomi un po' in colpa, come l'insegnante che preferisce parlare delle proprie passioni che delle cose che più appassionerebbero i ragazzi. Diciamo che per un'ora alla settimana preferisco parlare di cose che conosco e che frequento bene, piuttosto di cose che i ragazzi farebbero meglio a scoprire da soli. Diciamo anche che mi fido di me, della mia capacità di introdurre Dante senza correre il rischio che qualche ragazzino trattenga le informazioni sbagliate e racconti in casa che la terra è al centro dell'universo, e ancora più al centro c'è Lucifero che divora i peccatori. E che forse mi sbaglio, perché di ragazzini ne ho avuti tanti e mica tutti li ho capiti, mica tutti potevano capire me.

– Malgrado l'infosfera faccia il possibile per convincerci che ogni notizia sia davvero "nuova", per tenerci in un eterno presente in cui il nostro stile di vita è perennemente minacciato, perennemente sul punto di cedere a un'improvvisa avanzata islamica e/o woke, noi dell'opportunità di studiare Dante discutiamo da decenni e non sto esagerando: ho in archivio un pezzo del 2012, scritto meglio di questo perché era per l'Unita.it. Piccola curiosità: a quel tempo a sollecitare la discussione era Gherush 92, un "Comitato per i diritti umani" di evidente ispirazione ebraica: e infatti in quel caso la Commedia era definita un testo antisemita. Invece qualche mese fa, durante la campagna femminista #unite #rompiamoilsilenzio, due scrittrici pensarono che fosse il caso di denunciare "il sessismo, i pregiudizi di genere" nei manuali di Storia della letteratura, ma anche nella Storia della letteratura tout court, Commedia inclusa. Un intervento che al tempo mi lasciò perplesso, se non altro perché a ogni capoverso le stesse autrici sembravano pregare di non essere prese troppo sul serio: "Certo" scrivevano proprio dopo aver accusato Dante di sessismo, "la realtà dei testi e del loro contesto sarebbe più complicata di così, ma quello che rimane..." ecco, il problema è sempre questo: io posso anche provare a introdurre la Commedia ai dodicenni come l'oggetto complesso che è, ma cosa rimane?

– Ogni volta che qualcuno vi stuzzica un senso di indignazione minacciando la cancellazione della Commedia, fate questo test: trovate irritante un musulmano che non vuole studiare Dante? E se fossero gli ebrei di Gherush 92, vi irriterebbe ugualmente? E se fosse un collettivo di femministe? Il test potrebbe aiutarvi a capire il vostro contesto: cosa sareste disposti a rinunciare pur di salvare il fondamentale studio di Dante? Nel 90% dei casi temo si tratti della convivenza con la comunità islamica, una delle minoranze numericamente più importanti in Italia, che non ha rappresentanza giuridica e fiscale, i cui membri vengono trattati da ospiti temporanei benché spesso siano cresciuti qui e la Costituzione preveda che abbiano gli stessi diritti di Ernesto Galli della Loggia che crede che difendere l'Occidente e lo sterminio di Gaza sia la stessa cosa. Perché non abbiamo un simile fanatico musulmano a scrivere fanatismi analoghi su un'altra colonnina dello stesso quotidiano? Lo so che è una domanda retorica, ma vi rendete conto che un musulmano avrebbe lo stesso diritto costituzionale di GdL di intrattenerci con analoghe scemenze, che magari intercetterebbero un pubblico più vasto dei liberaloidi fulminati sulla via di Gerusalemme? Ce la fate ad accettare che i musulmani non sono ospiti ingrati; che hanno lo stesso diritto di vivere qui che avete voi, e che ci resteranno? 


– Chi parla di cancel culture, nel 90% dei casi esagera. Non siamo negli USA, non stiamo togliendo Dante dalle biblioteche scolastiche – e anche negli USA, non stanno tutti togliendo Mark Twain dalle biblioteche scolastiche. Chi sollecita a turno queste discussioni non vuole cancellare: vuole modificare il contesto che per amor di polemica finge di ignorare. Gerush 92 non voleva impedirci di studiare Dante, ma chiedeva al ministero di "inserire i necessari commenti e chiarimenti", come se nei manuali non ci fossero già: in controluce si stava proponendo come autorità in grado di suggerire questi "commenti": stava lottando per conquistare una visibilità e un'autorità. Le femministe non smettono di ricordarci che non vogliono cancellare Dante o Ariosto: ma vogliono dettare le condizioni; non solo denunciare il contesto, ma metterci sopra una bandierina. "La cancel culture si propaga attraverso prove di forza. Si individua un obiettivo e si martella finché l'obiettivo diventa indifendibile. Non ha così tanta importanza cosa abbia realmente detto o fatto l'obiettivo".

– L'unico ramo probabilmente non secco di questa discussione è la domanda che lascia in sospeso. I musulmani non vogliono leggere Dante? Ok, non è che abbiano tutti i torti. Gli ebrei trovano Dante antisemita? Eh, dagli torto. Le femministe lo trovano discutibile? Hanno decine di motivi per farlo. E noi? Perché pensiamo che valga ancora la pena di leggerlo, a scuola e altrove? Io risposte qua e là ne ho già date: ovviamente riguardano me, e al massimo i miei poveri studenti. Ognuno deve trovare le sue. 

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Il santo che perse la testa (e la raccolse)

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23 maggio: Santo Desiderio di Langres (terzo secolo), che perse la testa e la raccolse.

Desiderio è uno dei santi cefalofori, ovvero "portatori di testa": quei martiri che, una volta decapitati, raccolgono il capo con le mani e lo conservano per qualche tempo, di solito per portarlo nel luogo della sepoltura. Di santi così ce n'è parecchi: quando un secolo fa il folklorista Émile Nourry provò a contarli, ne trovò 134 soltanto nella letteratura agiografica di ambito francese. E per quanto non manchino esempi italiani (Emidio d'Ascoli, Donnino di Fidenza, Giusto di Novalesa), il cefaloforo più famoso è senz'altro Dionigi, vescovo di Parigi, decapitato a Montmartre, che con la testa in mano arrivò fino all'isola di Saint Denis. In questo e in altri casi, la leggenda può servire a conciliare due storie ambientate in luoghi diversi; a spiegare come mai certe ossa si trovavano in un certo luogo piuttosto che in un altro; e a ribadire che dovevano restare per sempre lì.

Il caso di Desiderio sembra ricalcato su quello del vescovo parigino: nato a Bavari, che oggi è un municipio di Genova ma ai tempi era tutta campagna, Desiderio avrebbe fatto carriera a Langres, citta della Gallia lugdunense (la Francia orientale), diventandone il vescovo. Come tale gli spettava l'incombenza di cercare di trattare con il re vandalo che stava invadendo la Gallia, ma la trattativa non avrebbe avuto il successo sperato, e Desiderio sarebbe stato decapitato fuori dalle mura di Langres. Lui però intendeva essere sepolto dentro le mura, e quindi la leggenda ci racconta che raccolse la testa e rientrò, attraverso una fessura nella roccia che si aprì in quel momento (e che a Langres sarebbe tuttora esposta ai fedeli, anche se su internet non trovo niente).

La leggenda è poco attendibile, per una serie di motivi: ad esempio nel III secolo i Vandali erano già bellicosi sì, ma a centinaia di miglia più a est, sul Danubio; il loro supposto re, Croco, era in realtà re di altre tribù che effettivamente invasero la Gallia ma un po' più tardi; e infine è molto improbabile che un vescovo possa raccogliere la propria testa dopo la decapitazione. Siccome poi questo dettaglio è assente da una prima leggenda composta da un certo Varnacario nel VII secolo, il sospetto è che in questo come in altri casi la cefaloforia abbia un'origine per così dire didascalica, ovvero che si tratti di una storia nata per commentare un'immagine in cui il vescovo era ritratto con la testa in grembo: il che fino a un certo punto non significava che l'avesse raccolta davvero, ma che la mostrava ai fedeli e a Dio come segno del suo martirio, allo stesso modo in cui in certe raffigurazioni medievali e moderne i martiri esibiscono le loro mutilazioni, Lucia gli occhi, Agata i seni, Bartolomeo la pellaccia, eccetera: da questo punto di vista è coerente che un decapitato mostri la propria testa, anche se i più famosi (San Paolo, San Giovanni decollato) non lo fanno.

Queste raffigurazioni hanno un certo successo, più di pubblico che di critica, nel senso che nessun maestro del colore ha mai dipinto un cefaloforo interessante: è piuttosto quel tipo di immagine bizzarra che andava forte tra le guglie delle cattedrali gotiche, dove la gente cercava i mostri. A un certo punto qualche predicatore o guida turistica medievale deve aver cominciato a intrattenere i turisti/fedeli dando un significato storico a quella che in origine era un'immagine simbolica: non è un santo che mostra il suo martirio a Dio, ovvero sì, ma è anche un santo che davvero resse la sua testa in mano dopo che gliel'avevano tagliata.

Altre ipotesi sulla cefaloforia cercano di ricollegarla a miti precristiani, il che sarà pur vero per almeno qualche caso su centinaia; magari in Irlanda, dove le tribù celtiche avevano la sinistra fama di cacciatori di teste. Ma di teste tagliate che piangono e sussurrano ce n'è in tutte le mitologie, al punto che già Aristotele, nel suo trattato di zoologia (De partibus animalium) si sentiva in dovere di debunkare l'idea che una testa umana potesse continuare a parlare dopo essere stata mozzata – come pure si leggeva nell'Iliade, e nel mito di Orfeo. Probabilmente all'origine c'è un'immagine traumatica, uno shock ancestrale: una testa appena tagliata è soggetta a spasmi muscolari che danno l'impressione che sia ancora cosciente: le palpebre non si chiudono subito, e l'aria che entra dal foro della laringe può far vibrare le corde vocali e dare l'impressione che la testa voglia ancora dire qualcosa. E non è escluso che per qualche istante la testa voglia davvero dire qualcosa. Per tre, quattro secondi massimo. Poi basta.
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