Saturnino e il toro

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29 novembre – San Saturnino di Tolosa (III sec.), martire della tauromachia.

Quel che dico potrebbe non avere il minimo senso, ma la Francia, viaggiando, mi è sempre sembrata una grande frontiera. Probabilmente a causa di una secolare lotta tra la provincia e Parigi, (una lotta vinta da quest'ultima), le regioni francesi non possono opporre forti identità culturali a quella che si irradia dalla capitale: e quindi il loro modo di sentirsi distanti dalla capitale è rimarcare la loro vicinanza alle nazioni confinanti. Così per esempio la Provenza ci tiene molto più del necessario, a farti sentire a un passo dall'Italia; ma appena passi Marsiglia, ecco che dappertutto cominciano a spuntare raffigurazioni di tori; molti più tori di quelli che si vedranno una volta varcati i Pirenei. All'immagine di un toro è anche associato il santo più popolare della regione. Si chiama Saturnino, tipico nome pagano: ma come escludere la possibilità che derivi dalla contrazione di Sanctus Taurinus? Il nome del resto variava a seconda delle regioni: Atorne, Atournis, Sadourny, Satornis, Saturnin, Saunin, Sauny, Saurin, Savorgnan, Savournin, Sorlin, Somin, Urnel, Cenin, Zaormino. In Italia esisteva un Saturnino martire a Roma, con una leggenda completamente diversa, senonché sarebbe stato martirizzato anche lui il 29 novembre; mentre il Saturnino patrono di Cagliari ricorre il 30 ottobre: ma sappiamo che anche il Saturnino di Tolosa, nel medioevo, veniva festeggiato lo stesso giorno. I tolosani lo sostenevano contemporaneo degli apostoli, il che avrebbe fatto di Tolosa la prima città delle Gallie ad avere un vescovo cristiano. È più probabile che sia vissuto nel terzo secolo, comunque molto presto perché l'unico santo gallico più antico che conosciamo è Ireneo di Lione

Insomma di Saturnini potrebbero essercene stati diversi, per cui era facile confondersi; il tolosano si riconosceva perché nelle immagini era spesso accostato a un toro imbizzarrito. La sua leggenda più diffusa (Passio Saturnini), redatta nel V secolo, racconta che avrebbe suscitato le ire dei sacerdoti pagani perché ogni volta che passava davanti al tempio di Giove, i tori sacrificati non davano più responsi attendibili: con quello che doveva costare il sacrificio di un capo di bestiame. Perciò sobillarono una folla che lo sequestrò e cercò di obbligarlo a sacrificare un toro agli dei. Al suo rifiuto, lo legarono al collo dello stesso toro, che opportunamente pungolato lo avrebbe trascinato per tutta la città, uccidendolo. La leggenda è più originale e credibile di tante altre: non allunga il brodo con guarigioni miracolose, né evoca persecuzioni da parte delle autorità imperiali. È l'asciutta cronaca di un linciaggio, ma sembra anche alludere alle tauromachie che dovevano essere già popolari nelle Gallie. Non è un caso che Saturnino sia patrono anche di Pamplona, benché in città la festa dei tori sia dedicata a un altro santo, Fermino. Siccome in francese "Sernin", Saturnino, non suona così diverso da Fermin, può persino darsi che nell'alto medioevo si trattasse dello stesso santo. Da secoli però Saturnino viene considerato il vescovo gallico che battezzò Fermino. 

Gli storici chiamano inculturazione il procedimento con cui i cristiani inglobavano nelle loro tradizioni quelle pre-esistenti pagane, cambiandone il senso e modificandone la narrativa. La leggenda di Saturnino attesta almeno un tentativo di inculturazione della corrida. Tentativo magari lasciato a metà perché alla fine la plaza de toros non è che si prestasse molto al messaggio evangelico. È anche impreciso affermare che Saturnino sia il patrono delle corride, come si legge in molti siti, però tutti italiani: gli spagnoli gli preferiscono appunto Fermino, o Pietro Regalado, il francescano che a Valladolid ammansì miracolosamente un toro scappato dall'arena.

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Il santo che gridava al lupo, al lupo

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28 novembre: San Giacomo della Marca (1393-1476), predicatore e inquisitore

Museo Cerralbo, Madrid
Giacomo divenne santo perché da bambino non voleva più pascolare le pecore. Ai tempi si chiamava Domenico, e ai fratelli raccontava di aver visto un lupo. La cosa non doveva poi essere così improbabile, eppure non gli credevano: oppure credevano che dovesse cavarsela da solo. Invece una sera non tornò all'ovile, e dopo averlo cercato in lungo e in largo i fratelli lo trovarono a Offida, ospite di un prete suo parente che lo aveva messo a studiare. E siccome per lo studio sembrava portato, invece di bastonarlo un po' e riportarlo a casa, il fratello lo lasciò lì. Il che mi conforta nell'opinione che invece di portare i ragazzi delle medie a vedere le superiori, dovremmo mostrargli le miniere; e che l'unica vera utilità degli stage scuola-lavoro, oggi, sia quella di convincere gli studenti a rientrare a scuola, e organizzarsi per restarci il più possibile. Forse dovremmo mandarli a pascolare, tutti, una o due settimane in settembre, ora che tra l'altro i lupi sono tornati. Riscoprire il vero Don Milani, quello che lasciava scrivere ai suoi studenti allevatori "la scuola sarà sempre meglio della merda": e affinché non resti un vuoto aforisma, mandarli a spalare letame finché non implorano di memorizzare le coniugazioni. Oppure riportare in auge certe vetuste occupazioni industriali: la fresa, la mola, e persino le miniere, perché no? Certo, c'è il rischio che qualche studente preferisca vedersela coi lupi che con gli insegnanti: ma è una sfida che noi insegnanti dovremmo saper cogliere. 

Con Giacomo il lupo funzionò. Del resto ogni secolo ha gli ascensori sociali che può: nel quindicesimo un ragazzo marchigiano di umili origini e deciso a studiare non poteva probabilmente trovare di meglio che un saio francescano. Allievo del grande Bernardino da Siena, la star assoluta della predicazione tre-quattrocentesca, Giacomo si distinse presto non solo per l'arte oratoria ma anche per la determinazione con cui in coppia con l'inquisitore Giovanni da Capestrano cacciava e mandava al rogo i "fraticelli", ovvero i francescani estremisti, colpevoli di interpretare la Regola francescana in una versione oltranzista che probabilmente era quella più vicina all'originale, ma la meno gradita alle gerarchie temporali e spirituali. Questo non impediva loro di coltivare propositi vendicativi e criminali, visto che un paio di volte tentarono di farlo fuori; del primo attentato, avvenuto nel  1426, sappiamo anche il prezzo pattuito coi sicari: 200 ducati per ammazzare Giacomo, 500 per Giovanni.

Inviato dal papa in Bosnia contro gli eretici bogomilli, e più tardi in Boemia (oggi repubblica Ceca), dove Jan Hus aveva fatto da poco scoccare la prima scintilla della riforma protestante, Giacomo che da bambino non aveva voluto difendere le sue pecore dal lupo, passò tutto il resto della sua lunga vita a difendere l'ortodossia cattolica: e malgrado questo corse lui stesso il rischio di passare per eretico, quando nel 1462 sostenne pubblicamente che il sangue versato da Cristo potesse essere oggetto di venerazione (quella che si deve ai santi) ma non di adorazione (quella che i cristiani devono riservare a Dio): per Giacomo il sangue, di cui si conservavano evidentemente alcune reliquie, si era separato dalla divinità durante la Passione. L'argomento riapriva una diatriba ormai secolare coi domenicani, che sostenevano l'esatto contrario, e Giacomo aveva avuto l'ardire di parlare del sangue di Cristo predicando ai bresciani, proprio mentre l'inquisitore lombardo era un domenicano, Giacomo Petri. Ne derivò una lunga contesa che terminò salomonicamente quando Pio II, convocati i due Giacomi a Roma, impose a entrambi il silenzio sull'argomento: per cui se mi chiedete oggi se per i cattolici il Sangue di Cristo sia adorabile o venerabile, onestamente non lo so, forse non è neanche più lecito esprimere un parere; per fortuna abbiamo altri problemi. Giacomo della Marca morì quindici anni dopo, quando aveva passato l'ottantina: coriaceo e longevo come molti suoi colleghi predicatori. Ma la polemica sul Sangue, che gli aveva amareggiato gli ultimi anni di vita, ne complicò probabilmente anche il percorso verso la canonizzazione, terminata soltanto nel 1726. Nel frattempo Giacomo era stato un po' dimenticato: i pittori preferivano popolare le Sacre Conversazioni di santi già canonizzati e al di sopra di ogni polemica, e quando finalmente poterono includere Giacomo, non sapevano bene come distinguerlo dagli altri predicatori francescani secchi e smunti, come Bernardino da Siena o Bernardino da Feltre. Alcuni, avendo sentito parlare della diatriba del Sangue, gli mettevano in mano un'ampollina, ma possiamo immaginare che i vescovi non apprezzassero l'idea: un Santo dovrebbe essere identificato dalle sue azioni, possibilmente miracolose, e non da polemiche censurate del Papa. Per cui a volte dall'ampolla spunta un serpente, il che alluderebbe a un altro attentato ai danni di Giacomo, ordito dai soliti terroristi fraticelli, da cui si sarebbe miracolosamente salvato. 

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"Qualcuno doveva avere calunniato Bibi N."

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Com'è noto, la Corte Penale Internazionale ("International Criminal Court"; di solito si abbrevia ICC) ha emanato un mandato di arresto nei confronti di Netanyahu (primo ministro d'Israele) e Gallant (ministro  della difesa). I primi effetti pratici non riguardano tanto Netanyahu – che attualmente rischia molto di più per le inchieste interne che lo riguardano – ma il cortocircuito psicologico di tanti osservatori che, avendo deciso anni fa di stare a fianco Israele sempre-e-comunque, ora devono spiegare al loro pubblico e a sé stessi che sono stati a fianco di un ricercato internazionale. 

Ognuno reagisce a seconda del proprio temperamento e delle proprie priorità, il che ci consente di assistere a svelamenti molto interessanti: il Washington Post ad esempio si permette di spiegare all'ICC su quali popoli debba indagare: sulla Russia sì, sul Sudan sì... su Israele no. Gli opinionisti italiani non si sentono altrettanto autorevoli; Paolo Mieli, proponendo di indagare solo a guerra finita, lascia intravedere la preoccupazione professionale di sapere prima chi ha vinto, perché mica si può saltare su un carro così, alla cieca, senza essere sicuri che sia quello del vincitore: sono loro che scrivono la Storia, e Mieli questo si considera, uno storico. Passando dalla generazione dei padri a quella dei figli, segnalo un Mattia Feltri in fase depressiva, che è pur sempre la penultima prima dell'accettazione del lutto: il diritto internazionale, ci spiega, è un'assurdità. Che uno dice, no, aspetta, e Norimberga? Mattia Feltri ci ha riflettuto, ed ebbene sì: fu assurda pure Norimberga. Niente ha senso, se ci pensi un attimo: se Netanyahu domani si facesse Gerusalemme ~ Tel Aviv contromano ai duecento all'ora, deviando occasionalmente per mettere sotto i pedoni, non avrebbe più senso nemmeno il codice stradale, né quello penale: nulla. Del resto se invece qualcosa avesse senso, qualcuno potrebbe accusarci di connivenza, di complicità, e quindi no: abbiamo controllato bene e nulla ha senso. Qualcuno doveva aver calunniato Bibi N., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.

Altrove siamo nella fase della contrattazione, o perlomeno questo è il senso che a volte mi sembra che abbia un certo tipo di garantismo: concedere senza troppo recedere; mostrarsi informati dei fatti senza trarne fastidiose conseguenze – sì, è vero, il mandato d'arresto c'è, ma non equivale a una sentenza di condanna, non capite la differenza? Ieri per esempio Guido Vitiello stigmatizzava l'"analfabetismo giuridico" dilagante, il che è buffo: non perché in effetti non ci siano parecchi analfabeti in giro, ma perché lo scriveva su una colonna del Foglio, lo stesso Foglio che in cima recava un altro scoop di Giulio Meotti sul complotto islamista che manovra la Corte Penale Internazionale. Ne ha pubblicati due in una settimana, e chissà quanti ancora ne pubblicherà, chissà che dossier corposo entro Natale – Meotti è uno che si dà da fare, ci ha una pagina di en.wikipedia grossa così (la maggior parte della pagina consiste in una lista di ebrei che secondo lui sono antisemiti, poi ci sono le accuse di plagio che un utente romano cercava disperatamente e invano di cancellare), ma insomma Meotti è l'alunno sgobbone, non ha tempo per disperarsi o mettere i puntini sulle i. Il problema è che dopo due articoli e una settimana di lavoro, non ha ancora ancora capito quale Corte sta dossierando. 

Il 23 novembre se l'è presa col giudice Nawaf Salam "amico dei regimi e odiatore d’Israele". "Nawaf Salam è il presidente della Corte penale internazionale. Nei suoi discorsi all'Onu, ha accusato le “organizzazioni ebraiche terroristiche”, dicendo che “per troppo tempo i criminali di guerra di Israele hanno beneficiato dell’impunità”". Allego lo screenshot, hai visto mai.


Ora, Meotti avrà le sue fonti. È un giornalista che scrive le stesse cose da vent'anni e più, e non scrive nient'altro; vuoi che non le sappia? Se ha delle prove per sostenere che un autorevole giudice con un importante incarico internazionale sia un "amico dei regimi" e "odiatore di Israele", chi sono io per smentirlo? Nessuno, e infatti non lo smentisco. Mi permetto di annotare soltanto, ecco, un minutissimo dettaglio: Nawaf Salam non è il presidente della Corte Penale Internazionale (ICC). Nawaf Salam non è nemmeno un giudice dell'ICC. Nawaf Salam ha un incarico presso un altro tribunale internazionale, completamente autonomo rispetto all'ICC: si chiama Corte Internazionale di Giustizia (International Court of Justice), e di solito si abbrevia con ICJ: anch'essa ha sede all'Aja, e anch'essa nei mesi scorsi si è pronunciata sul massacro di Gaza (intimando a Israele di evitare un plausibile genocidio), per cui non è così difficile confondersi, mettiamola così. Ma un esperto di Medio Oriente, su un giornale in teoria tanto autorevole, almeno il giorno dopo avrebbe dovuto ammettere e segnalare la svista. Invece ieri Meotti ha di nuovo confuso ICC e ICJ; si vede che proprio per lui sono la stessa cosa. Analfabetismo giuridico, perlappunto – insomma, a questo professionista hanno chiesto di montare a neve tutte le voci che trova contro una corte, e lui in una settimana non è riuscito nemmeno a capire di che corte si sta parlando, e nessuno della redazione lo corregge, compreso gli esperti di diritto, ma com'è che riuscite a farvi pagare, voialtri, e a proposito, chi vi paga? 

Ah già: io. Vi pago io.
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Berlinguer (non l'eroe di cui abbiamo bisogno)

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Prima di andare a vedere Berlinguer – la grande ambizione mi chiedevo come fossero riusciti a trovare materiale per due ore di film su un personaggio senza dubbio interessante ma, diciamolo, non esattamente cinegenico (un "grigio funzionario", anche in famiglia dunque lo chiamavano così). Quando è finito Berlinguer mi sono guardato intorno smarrito: ma come, tutto qui? E la marcia dei quarantamila, il referendum sulla scala mobile, la questione morale? Avete tagliato tantissime cose!

Più che degli sceneggiatori potrebbe essere colpa delle piattaforme, con la loro serialità televisiva, che col tempo ci toglie il gusto per la sintesi. La serialità è una droga; con il trucco della reiterazione fa sì che ci affezioniamo a qualsiasi personaggio, purché ben recitato. Due ore di Germano nei panni di Berlinguer mi sono sembrate poche, ne avrei volute almeno altre due; e pazienza se si sarebbe trattato di vederlo ingrigire, tossire e agonizzare, ne sentivo la necessità. Anche perché così la storia è veramente troppo schematica: giunto al vertice del suo partito (ma come ci è arrivato?), nel momento in cui rischia di vincere le elezioni (ma perché va così forte?) il Segretario Enrico Berlinguer teme che un simile successo possa stimolare una risposta autoritaria. L'esempio del golpe cileno lo spinge a tentare una strada diversa: un "compromesso storico" col principale partito di governo, la Democrazia Cristiana. Siamo nel momento più inerte della Guerra Fredda: la mossa di Berlinguer è allo stesso tempo obbligata e imprevista. Osteggiato sia da Est sia da Ovest, poco compreso dalla base operaia del partito, il progetto trova una sponda nel segretario DC Aldo Moro: ma proprio quando tra mille cautele ed esitazioni la trattativa sembra finalmente portare a qualcosa, Aldo Moro viene sequestrato e ucciso. Fine, e scusate gli spoiler.


Ora proviamo a dire cosa poteva esserci nel film, e non c'è. Alcune cose sono riassunte veramente per sommi capi: i movimenti extraparlamentari, di sinistra (una kefiah) e di destra (la bomba in piazza della Loggia). Gli industriali (un'intervista all'Agnelli vero, che sarebbe stato molto più intrigante se interpretato da un attore: ma gli autori non se la sono sentita). Altri personaggi sono completamente rimossi: i socialisti, ad esempio; in effetti avrebbero complicato il quadro. Ogni biografia è una semplificazione, lo sappiamo. Si tratta di capire se la semplificazione funziona, se fa di Berlinguer l'eroe di una tragedia che ci interessa e ci dice qualcosa. Gli sceneggiatori non si erano dati un compito facile: c'è qualcosa, nella figura di Berlinguer che respinge tuttora le semplificazioni, gli schematismi, le agiografie. I comunisti non credevano troppo nelle figure degli eroi, e Berlinguer non riteneva necessario diventarne uno. Persino i suoi discorsi, per quanto ben scritti, non ci hanno lasciato frasi particolarmente memorabili: erano tempi diversi, non era necessario conquistarsi i titoli di giornale con battute icastiche o spiritose. Si potrebbe dire più o meno lo stesso per Moro, riscattato però da una fine tragica che a Berlinguer non è stata concessa. Berlinguer si è spento gradualmente – ucciso forse dalla nicotina che s'insinua velenosa in tutte le sequenze – nel mentre che l'Italia cominciava un processo di deindustrializzazione che ha tolto al suo partito una delle principali ragioni d'essere. Questo il film non lo racconta, anzi lo riassume in una didascalia finale in cui viene spiegato che anche negli Ottanta, gli "anni del liberismo" [???] il partito di Berlinguer continuava a tener duro. Che è proprio un errore di prospettiva storica, ma a quel punto il film è finito. Prendiamo atto che agli autori la fine del PCI non interessava. Cosa gli interessava. 

Manca anche questa vignetta, che fu importante

Il compromesso storico. La "grande ambizione" del titolo è il compromesso storico. Un'idea che Berlinguer ha formulato nel 1973 e ha abbandonato nel 1979. Una grande occasione mancata? Forse: ma soprattutto la dimostrazione più evidente del fatto che l'Italia sia uno Stato a sovranità limitata. Alla fine non importa nemmeno se Moro sia stato sequestrato e ucciso per conto dei sovietici, degli americani o da schegge impazzite come (forse) erano le BR. Né importa più di tanto la famosa "linea della fermezza" che Berlinguer scelse di adottare nell'occasione e che il film non problematizza affatto. Era un problema di equilibrio mondiale: l'Italia non poteva uscire da un blocco (Berlinguer lo sapeva), il PCI non poteva uscire da un altro blocco (Berlinguer ci provò, rischiando molto), e in questo consisterebbe la tragedia rappresentata nel film. Che oltre a raccontarci qualche anno della vita di un leader politico, come sempre ci parla di noi: della nostra sovranità limitata (possiamo assumere posizioni che non siano atlantiche?), e delle nostre nostalgie: per un partito di massa e per un leader un po' carismatico. Ecco, la nostalgia.

Quando è finito il film, mi sono appunto chiesto cosa avevo visto per tutto il tempo. Non avevo visto gli attentati, non avevo visto i movimenti, non avevo visto né Saragat né Craxi, né Leone, né i confindustriali, né un vero dibattito sul caso Moro: e quindi? Avevo visto un congresso del PCUS, qualche frammento tratto da discorsi ben più lunghi e complessi e un po' di intimità famigliare nella casa di un leader di partito, ma a parte questo come hanno fatto a tenermi in sala per due ore? Temo che la risposta abbia troppo a che vedere con la nostalgia. Che forse è una molla che porta più spettatori nelle sale, ma da un punto di vista storico è davvero la sensazione meno utile in assoluto. Sempre questa idea che da qualche parte nel nostro passato ci sia stata un'età dell'oro a cui è seguita una caduta, a causa di un qualche errore commesso da un incauto mortale. Se Togliatti avesse criticato l'invasione in Ungheria. Se le BR non avessero ucciso Moro... Se, se, se.  

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O Gramellini è antisemita o...

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Qualche tempo fa ho affermato che la "Definizione operativa di antisemitismo" dell'IHRA è un pasticcio; oggi proverò con un esempio. Avrete sentito dell'albergatore trentino che si è rifiutato di ospitare una coppia di turisti israeliani: una forma di protesta senz'altro discutibile – tutte le forme di boicottaggio lo sono – e comunicata in modo maldestro: come spesso succede quando iniziative del genere vengono prese da singoli e non da collettivi. 

Buongiorno, vi informiamo che gli israeliani, in quanto responsabili di genocidio, non sono ospiti graditi nella nostra struttura. Pertanto, se vorrete cancellare la prenotazione, saremo lieti di garantirla gratuitamente.

Qualcuno ha accusato l'albergatore di antisemitismo. Vediamo. La definizione IHRA include diversi "esempi contemporanei di antisemitismo", almeno undici.

Incitare, sostenere o giustificare l’uccisione di ebrei o danni contro gli ebrei in nome di un’ideologia radicale o di una visione religiosa estremista. L'albergatore non fa nulla di tutto questo, e non ha nemmeno parlato di "ebrei".

Fare insinuazioni mendaci, disumanizzanti, demonizzanti o stereotipate degli ebrei come individui o del loro potere come collettività – per esempio, specialmente ma non esclusivamente, il mito del complotto ebraico mondiale o degli ebrei che controllano i mezzi di comunicazione, l’economia, il governo o altre istituzioni all’interno di una società. L'albergatore non ha fatto nessun tipo di insinuazione nei confronti degli ebrei. Non ne ha parlato. 

Accusare gli ebrei come popolo responsabile di reali o immaginari crimini commessi da un singolo ebreo o un gruppo di ebrei, o persino da azioni compiute da non ebrei. L'albergatore non ha accusato gli ebrei di nulla. Non ha parlato di ebrei.

Negare il fatto, la portata, i meccanismi (per esempio le camere a gas) o l’intenzione del genocidio del popolo ebraico per mano della Germania Nazionalsocialista e dei suoi seguaci e complici durante la Seconda Guerra Mondiale (l’Olocausto). L'albergatore non ha parlato di nazisti, Germania o seconda guerra mondiale (e nemmeno di ebrei).

Accusare gli ebrei come popolo o Israele come stato di essersi inventati l’Olocausto o di esagerarne i contenuti. L'albergatore non ha parlato dell'Olocausto (né degli ebrei "come popolo").

– Accusare i cittadini ebrei di essere più fedeli a Israele o a presunte priorità degli ebrei nel mondo che agli interessi della loro nazione. L'albergatore non  ha formulato nessuna accusa nei confronti di alcun cittadino ebreo. In generale non ha proprio parlato di ebrei.

– Negare agli ebrei il diritto dell’autodeterminazione, per esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo. L'albergatore non ha negato agli ebrei il diritto all'autodeterminazione (non ha proprio parlato di ebrei), né ha sostenuto che Israele sia un'espressione di razzismo.

Applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico. All'ottavo punto, fateci caso, la parola "ebrei" è scomparsa, e l'antisemitismo viene a indicare soltanto chi se la prende con "Israele". È il caso dell'albergatore? Se avesse usato "due pesi e due misure" – un cliché linguistico che è tipico della propaganda israeliana – se avesse richiesto a Israele "un comportamento non atteso da" / "non richiesto a nessun altro Stato democratico"... ecco, mettiamola così: se ogni "Stato democratico" si arrogasse il diritto a commettere almeno un genocidio, le critiche dell'albergatore dimostrerebbero questa volontà di applicare "due pesi e due misure". Qualcuno potrebbe obiettare che è andata proprio così: se gratti bene sotto ogni "Stato democratico" trovi un ex impero coloniale che qualche genocidio potrebbe averlo commesso. Non siamo forse ipocriti, a criticare Israele per cose non molto dissimili da quelle che gli italiani fecero in Libia o in Etiopia? (È una domanda retorica. No, non siamo ipocriti. La memoria dei genocidi passati non scusa i genocidi presenti). 

– Usare simboli e immagini associati all’antisemitismo classico (per esempio l’accusa del deicidio o della calunnia del sangue) per caratterizzare Israele o gli israeliani. Notate anche qui come la parola "ebrei" sia scomparsa del tutto: il problema qui è che qualcuno potrebbe prendersela con gli israeliani. E senz'altro se li chiamasse deicidi o usasse contro di loro "la calunnia del sangue", che non viene ulteriormente definita perché chi ha scritto queste righe dà per scontato che tutti la conoscono, starebbe attingendo a un repertorio antisemita, ma è comunque curioso il lapsus per cui queste dicerie sarebbero antisemite se rivolte agli "israeliani". E se qualcuno le rivolgesse agli ebrei non israeliani, non sarebbe ugualmente antisemita? Sembra ovvio, ma la "definizione" non lo dice: e non lo dice per il semplice motivo che è scritta male. Comunque l'albergatore "non ha usato simboli e immagini associate all'antisemitismo classico", andiamo avanti.

Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti. Il famoso reato di "Holocaust inversion" per cui molti sionisti vorrebbero le dimissioni dell'Albanese. Ne abbiamo parlato e ne riparleremo – qui in sostanza sono gli israeliani a chiedere per loro un peso e una misura diversi da tutte le altre nazioni, le cui politiche possono essere paragonate al nazismo, mentre ciò che fanno loro dovrebbe essere imparagonabile per definizione. Per ora ci è sufficiente notare che l'albergatore non ha fatto paragoni coi nazisti. 

Considerare gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele. Beh, diciamo che ci è andato vicino, considerando due turisti israeliani "collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele". Il che tra l'altro è nello spirito di qualsiasi boicottaggio. Ma i due turisti sono stati respinti in quanto israeliani, non in quanto ebrei. 

Insomma l'azione intrapresa dall'albergatore, per quanto criticabile, non sembra rientrare negli esempi contemplati dalla Definizione Operativa. È pur vero che la stessa Definizione ammette di non essere esaustiva, il che introduce un altro problema: quanti altri casi di antisemitismo possono sussistere, e a chi spetta identificarli? 

Forse a Gramellini?


Passiamo sopra il virgolettato assurdo ("ritenendoli responsabili": chi lo ha detto?), e il tentativo maldestrissimo di arruolare Primo Levi, che dal sionismo prese le distanze con una lucidità chiaroveggente. Gramellini è convinto che qualsiasi forma di boicottaggio nei confronti di Israele sia antisemitismo. Siccome ha bene in mente esempi di boicottaggio nei confronti di altri Paesi (la Russia), li liquida come poco seri: va bene, sarà stato cancellato un seminario su Dostoevskij, e che sarà, una barzelletta. No, non è una barzelletta: abbiamo rinunciato al turismo russo, abbiamo smesso di vendere i nostri prodotti ai russi, tuttora paghiamo bollette salate pur di comprare meno gas possibile dai russi. (E prima dei russi boicottavamo i sudafricani, ecc.) L'episodio dell'albergatore viene incluso in una serie di episodi che dimostrerebbero "un umore diffuso nella società civile che associa ogni ebreo alle azioni del governo d'Israele". Si tratta di una serie brevissima: due episodi appena, e molto circoscritti. Nel caso dell'albergatore, come abbiamo visto, non si può proprio dire che quest'ultimo abbia associato "ogni ebreo" alle azioni del governo di Israele: non se l'è presa coi due clienti in quanto "ebrei". Non ha proprio usato la parola. 

L'ha usata Gramellini.

E perché l'ha usata?

L'unico motivo che mi viene in mente è che Gramellini consideri gli ebrei "collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele", il che però per la Definizione Operativa è un evidente caso di antisemitismo. 

Ne conseguono due possibilità: o Gramellini è un pericoloso antisemita, o la Definizione Operativa è scritta così male che può essere usata contro chiunque. Scegliete voi, io ho fatto tardi. 
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La sottile striscia rossa

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L'ipotesi è che l'Emilia-Romagna, che il luogo comune vuole "rossa", sia molto più scalabile di quel che sembra. Anche da parte di una destra come quella che abbiamo oggi al governo: una destra eversiva, razzista, ma prima di ogni cosa maldestra. Persino questa destra, l'Emilia-Romagna potrebbe vincerla, se volesse. C'è un'emergenza climatica che spaventa i cittadini, una classe media che si percepisce impoverita, un settore industriale in corso di smantellamento, gli orfani del grillismo eroico risucchiati nelle sette novax, e ci sono tante macchie cupe sulla carta (Ferrara, l'Appennino), dove la destra vince già. Non sarebbe una passeggiata, ma nemmeno il K2. Se uno volesse.

L'ipotesi è che la destra non voglia. Questo spiegherebbe come mai in questi mesi sugli organi di stampa ho sentito più parlare della Liguria che della regione in cui mi sveglio tutte le mattine.  Ne abbiamo già parlato: le regioni sono l'angolo buio della politica e dell'informazione (non a caso quello in cui vengono riscontrati più episodi di corruzione). Troppo piccole per andare in prima pagina sui quotidiani nazionali, troppo grandi per suscitare interesse sui quotidiani locali. E se alcune regioni almeno hanno un'identità chiara, definita da una Storia comune e da confini geografici precisi (la Liguria, appunto), questo non è il caso dell'Emilia-Romagna, un'astrazione ottocentesca che nel 1970 si è data un ordinamento e un governo semplicemente perché da decenni era disegnata su una cartina. 

In ogni caso l'E-R è qua, alla mercé di chi la vuole: se la destra non la vuole, il sospetto è che abbia già calcolato che non le conviene. E soprattutto che le conviene il contrario: ricordiamoci che è una destra che vive di comunicazione, che non sa ragionare al di fuori dei racconti che produce o si fa produrre. Berlusconi almeno mentiva per salvare le sue aziende; la gang aa Meloni mente perché è il suo mestiere, sono stati selezionati sin dalla più giovane età tra quelli che la sapevano raccontare, e continuano a raccontarla, non sanno fare altro. In questo grande racconto, l'Emilia-Romagna è il ghetto rosso e tale deve restare, a dispetto di ogni dato che dicesse il contrario. Redimerla sarebbe faticoso: molto più conveniente isolarla e... punirla. Bloccare i fondi agli alluvionati, raccontarsi e raccontare che l'emergenza climatica non esiste, e i tifoni dall'Adriatico si potrebbero contenere se non ci fossero le zecche comuniste al governo. Se il pedocomplotto di Bibbiano ormai è un po' sfumato all'orizzonte, si può sempre raccontare e raccontarsi Bologna come se fosse la capitale di un sedizioso anarcosocialismo che andrebbe da Palazzo d'Accursio fino ai centri sociali – una sciocchezza che farebbe ridere qualsiasi bolognese, ma appunto: è un racconto per chi sta fuori, chi sta dentro non è contemplato. In compenso da fuori c'è chi recepisce al volo. L'altra sera Andrea Cangini, mentre testimoniava la sua solidarietà a un esercito genocida, ha spiegato che Elly Schlein "proviene dalla sinistra movimentista bolognese", che lui a quanto pare "conosce bene", ecco, questo tipo di sciocchezze che pescano ancora nel vecchio immaginario settantasettino. Elly Schlein è nata nel 1985: la "sinistra movimentista bolognese" al massimo l'ha conosciuta su RaiStoria. Ormai è quasi una forma di razzismo: se sei di Bologna come minimo in gioventù devi aver tirato una molotov, l'avranno deciso due o tre sceneggiatori alla Garbatella, e chi siamo noi per dire che le cose non stanno così? Non so quanto tempo aa Meloni abbia ancora a disposizione, ma lasciando il campo libero a lei e agli eredi prima o poi al posto dell'Emilia ci ritroveremmo la Striscia di Bologna, un territorio recintato e popolato esclusivamente da pericolosi terroristi. Viene quasi la tentazione di votarli. Sì.

Viene quasi voglia di portarli a forza all'ultimo piano di quei grattacieli, per vedere se a quel punto sbloccano gli aiuti ai romagnoli, o non preferiscono buttarsi di sotto. Chissà che un bagno di realtà non possa aiutarli a sbloccarsi. Ai grillini capitò la tegola del Covid; l'emergenza climatica è una pioggia di tegole e non dico che mi piacerebbe avere in quel momento una manica di guitti nella sala dei bottoni; ma almeno non sarebbero in giro a schiamazzare, a fomentare gli ignoranti come loro. Alla fine cosa gli resta? Erano filorussi, se lo sono dovuti dimenticare; erano contro l'euro, se lo tengono ben stretto. Ci avrebbero tolto le accise, si è visto; il premierato forse non è più così interessante, l'autonomia differenziata era uno scherzo; resta giusto il Ponte sullo Stretto, che ormai è folklore. Mi sbaglio sicuramente, a pensare che la realtà possa curare chi vive di menzogne; che possa estrarre amministratori decenti, anche solo persone decenti, da una classe dirigente di cartapesta. Mi piacerebbe, per una volta, che nel momento in cui bisognerà prendere soluzioni drastiche a problemi urgenti, a metterci la faccia fossero queste facce da – ma mi sbaglio sicuramente. Ci sono verità spiacevolissime già ben alte sopra l'orizzonte: chiunque può vederle e trarre terribili conclusioni. Forse chi ne è in grado ha già da tempo messo i remi in barca, forse le elezioni ormai sono soltanto un gioco per i poveri fessi che ci credono e si candidano. Non lo so. Domani andrò a votare, sceglierò quelli che mi sembrano più svegli. 

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Abbone e la Grande Delusione

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13 novembre: Sant'Abbone (945-1004), abate di Fleury alla vigilia della fine del mondo


In questo megalibro già caotico e farraginoso che è l'internet, pochi mesi prima che l'intelligenza artificiale lo riscriva da capo (magari più caotico di prima), Sant'Abbone di Fleury è conosciuto tra l'altro per aver composto "alcuni scritti di calcolo e di astronomia per confutare l'opinione di coloro che annunziavano la fine del mondo per l'anno mille". Ma sarà vero? Probabilmente no. 

Si tratta del classico fattoide da agiografia sbrigativa, un difetto tipico delle brevi biografie dei santi on line che molto spesso sono compilate da gente che ha fretta e non sa di cosa sta parlando, insomma stagisti che copiano. E se con gli anni è inevitabile che si copino a vicenda, bisogna dire che almeno il primo della catena sapeva cosa stava citando: nientemeno che la Bibliotheca Sanctorum, l'enciclopedia ufficiale dei santi pubblicata dall'Istituto Giovanni XXIII. Malgrado una fonte così autorevole, Abbone questi scritti per confutare i millenaristi non dovrebbe averli scritti. 

Per quel che ho capito, Abbone menziona i millenaristi soltanto in un breve passaggio del Liber Apologeticus. "Sul soggetto della fine del mondo ascoltai predicare al popolo, in una chiesa di Parigi, che alla fine dell'anno Mille sarebbe giunto l'Anticristo e che di lì a poco sarebbe seguito il Giudizio Universale. Ma io combattei con tutte le mie forze questa asserzione con l'aiuto del Vangelo, dell'Apocalisse e del libro di Daniele". Il problema della fine dei tempi non è una questione astronomica o matematica, ma si indaga con lo studio dei testi sacri. Non c'era dunque esigenza di mettersi a fare calcoli, che in una chiesa di Parigi magari avrebbero perplesso l'uditorio, ma che Abbone avrebbe comunque potuto fare: tra le altre cose fu un buon matematico, nella delicata epoca di transizione tra numeri romani e arabi. 

Come nota Georges Duby, se questo è tutto quello che Abbone aveva da dire sull'argomento (e queste parole le scriveva intorno al 998!) si può arguire che la paura del Mille non fosse questa grande ossessione collettiva. Qualche predicatore ne stava parlando a Parigi, tutto qui; è probabile che i millenaristi nel 998 fossero più rari degli sciachimisti oggi. Eppure è da questo cenno di Abbone che scaturirà, nei secoli successivi, la leggenda del panico dell'Anno Mille: quella così ben romanzata da Giosue Carducci nel primo discorso Dello svolgimento della letteratura nazionale

"E che stupore di gioia e che gridò salì al cielo dalle turbe raccolte in gruppi silenziosi intorno a' manieri feudali, accasciate e singhiozzanti nelle chiese tenebrose e ne' chiostri, sparse con pallidi volti e sommessi mormorii per le piazze e alla campagna, quando il sole, eterno fonte di luce e di vita, si levò trionfale la mattina dell'anno mille!" 

Carducci

...e così via. A questo Carducci, tra l'altro, credo si debba la fortuna dell'espressione "Mille e non più mille", che in questo discorso attribuisce a Gesù. La sua composizione è già cinematografica, somigliante più a un disaster movie che a un bozzetto di vita medievale: ci sono "turbe raccolte" intorno a oscuri castelli, che aspettano singhiozzando una catastrofe: e invece sorge il sole. Bella scena ma impossibile, che più che dell'Alto Medioevo definisce la sensibilità melodrammatica dell'autore. Per esempio: ai tempi i giorni si contavano dal crepuscolo, e quindi se le "turbe" si fossero davvero aspettate qualcosa allo scoccare del millennio, si sarebbero radunate prima del tramonto. Ma di che giorno, visto che in ogni città gli anni si contavano a partire da un giorno diverso? E a proposito, chi li contava? Il computo a partire dalla nascita di Cristo era ancora una curiosità degli eruditi. Ottocento e più anni dopo, a Carducci premeva soltanto introdurre il luogo comune sul Medioevo come epoca buia con un'immagine memorabile, e non c'è dubbio che ci sia riuscito. È un grande narratore, che forse stiamo un po' sottovalutando; però neanche i grandi narratori inventano una scena da zero; c'è sempre qualche suggestione nascosta nella loro memoria. E siccome non può trattarsi di una suggestione medievale – quando non esisteva la semplice idea di un evento "Fine del mondo" sincronizzato e attesa da più comunità nello stesso continente – non resta che immaginare che Carducci avesse in mente un episodio avvenuto molto più recentemente. Il discorso in questione, Carducci lo pronunciò nel 1860, appena insediatosi sulla cattedra di "Eloquenza italiana"; forse a quel punto nemmeno se lo ricordava, ma non è improbabile che avesse sentito parlare della Grande Delusione del 1844.

La Grande Delusione del 1844 è uno degli episodi cruciali della storia religiosa degli USA: storia molto più intricata di quanto non si creda; non è nemmeno escluso che non possa essere veramente intrecciata con la fine del mondo – o più banalmente con la fine della nostra civiltà – perché le profezie, se uno insiste a crederci, possono davvero autoavverarsi. Così può darsi che il vero medioevo da cui Carducci attingesse le sue immagini non fosse quello europeo, ma gli USA suoi contemporanei dove una vasta comunità di protestanti si era veramente raccolta in attesa del Secondo Avvento di Gesù, in una data precisa: il 21 marzo del 1844. Venivano chiamati "milleriti", in quanto seguaci degli insegnamenti di William Miller, il quale leggendo l'ottavo capitolo del Libro di Daniele si era persuaso che il Secondo Avvento fosse imminente, e più probabilmente schedulato tra il 21/3/1843 e il 21/3/1844. Siccome in Daniele 8,14 il profeta sente un santo affermare "Ancora 2300 sere e mattine! Allora sarà fatta giustizia al santuario", Miller aveva arbitrariamente deciso che "sere e mattine" significava "anni solari", e aveva tentato di calcolare in che anno cadesse il 2300mo anniversario della profezia. Il che significava tra l'altro trovare una datazione al Libro di Daniele, uno dei più spuri e rimaneggiati di tutta la Bibbia: un collage di racconti e rivelazioni in tre lingue diverse. Miller comunque era convinto di esserci riuscito: e migliaia di persone gli avevano creduto. Né smisero di credergli all'alba del 21/3/1844, visto che a quel punto, avendo acquisito una miglior conoscenza dei calendari ebraici di duemila anni prima, Miller aveva spostato la data al 18 aprile. Quando anche il sole del 18 aprile fu tramontato, Miller ammise letteralmente il suo errore ai lettori della sua rivista ("I confess my error, and acknowledge my disappointment"), ma non smise di considerare il Secondo Avvento una questione di giorni o di mesi; il che del resto dovrebbe fare ogni buon cristiano dopo aver letto Matteo 25,13 ("Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno, né l'ora in cui il Figlio dell'uomo verrà"). 

Un altro predicatore, Samuel S. Snow, non ancora stanco di delusioni, in estate comunicò di avere calcolato che la Rivelazione andava attesa fino al 22 ottobre. Come potete facilmente immaginare, anche quest'ultima previsione fu disillusa, e qualcuno cominciò a spazientirsi. Tra i milleriti c'era chi aveva venduto tutte le proprietà, non potendo portarsele in cielo; probabilmente c'era anche chi aveva pensato di provvedere alla sussistenza della propria famiglia facendo debiti che dopo il Secondo Avvento nessuno avrebbe riscosso. A Ithaca nello Stato di New York, una chiesa millerita fu incendiata; a Lorraine, nell'Illinois, una congregazione fu attaccata da una folla armata di bastoni e coltelli. Un gruppetto di milleriti a Toronto fu cosparso di catrame e piume, simpatica usanza statunitense che il più dei lettori conoscono attraverso l'Huckleberry Finn di Mark Twain, ma che evidentemente si praticava anche in Canada. 

https://patrickmurfin.blogspot.com/2019/10/the-great-disappointmentnot-end-of.html

Il giovane Carducci immaginava l'alba dell'Anno Mille come un momento di gioia e liberazione dalle superstizioni; per i milleriti era stato un giorno terribile, in cui il mondo si era rifatto vivo alla finestra in tutti i suoi aspetti peggiori: violenze, beffe, debiti da pagare, rabbia e soprattutto delusione, una Grande Delusione. Ci si sarebbe aspettato, a questo punto, che scomparissero: ma non fu esattamente così. La maggior parte dei leader milleriti (Miller incluso), l'anno successivo si radunò ad Albany, non per aspettare un'ulteriore fine del mondo, ma per fondare un gruppo che attraverso successive fusioni sarebbe diventata la Chiesa Cristiana Avventista. Gli avventisti la pensano tuttora come Miller: il calcolo era sbagliato, ma l'attesa era giusta. Una corrente minoritaria, rappresentata dal pastore Hiram Edson non smise nemmeno di credere che il calcolo originale di Miller fosse esatto; e se era pur vero che nel 1844 sulla Terra non era successo niente di rilevante, non restava che concludere che il "santuario" di cui parlava Daniele 8,14 non fosse un oggetto terreno, ma celeste. I seguaci di Edson avrebbero fondato la Chiesa Avventista del Settimo Giorno, la trovate anche sul modulo dell'Otto per Mille. Dopo aver sbagliato le sue previsioni non una ma due volte, Miller non fu particolarmente screditato, e anzi il suo insegnamento è alla base di due o tre confessioni religiose con milioni di adepti. Ci si domanda se nel Medioevo gli sarebbe andata così grassa.  

Il caso Miller ha mostrato ai sociologi e agli psicologi cosa succede quando una comunità di credenti si trova nella condizione di poter verificare che la propria fede è costruita su assunzioni sbagliate. Nel passato non succedeva quasi mai: profeti e oracoli sapevano bene il rischio che correvano a offrire previsioni troppo precise. Prima del 1844 era lecito credere che "l'apparir del vero", come lo chiamava un poeta, sbaragliasse ogni illusione, e costringesse uomini e donne a prendere atto di una realtà oggettiva. Qualcuno qua e là ci crede ancora: prima o poi i grillini smetteranno di credere in Grillo, i renziani in Renzi: e a volte sono gli stessi che ricordano con nostalgia Berlusconi o Pannella. I novax dovranno pure accorgersi che i vaccini funzionano; chi ha votato Trump come può rivoltarlo di nuovo? Eh. 

Non so quanto il poeta se ne sarebbe rallegrato, ma "l'apparir del vero" a quanto pare non funziona: specie quando non mette in discussione le tue convinzioni individuali (quelle puoi metterle in dubbio ogni giorno), ma quelle del gruppo sociale di cui fai parte. Berlinguer non credeva più al Sole dell'Avvenire che gli avevano insegnato da bambino; il che non significa che potesse smantellare il PCI da un momento all'altro, senza nemmeno provare ad aggiungere qualche calcolo, a interpretare diversamente certe profezie. Tanta gente che un anno fa decise che avrebbe difeso Israele "sempre e comunque", al momento sta difendendo un genocidio e ha oggi a disposizione tutti gli elementi per rendersene conto; ma è troppo tardi, se il calcolo iniziale non era esatto non resta che raccontarsi una bugia; se la bugia svela gambe troppo corte, non resta che puntellarla con una bugia ancora più grande: finché l'insieme di tutte queste bugie ti allontana così tanto dalla realtà che non resta che salutarla da lontano, o denunciarla per antisemitismo. Alcune religioni nascono così. 

Forse tutte. Gli antichi ebrei, umiliati e deportati a Babilonia, si inventarono di essere stati scelti da Dio, di avere avuto un passato epico e un futuro luminoso. I cristiani non sapevano bene come reagire alla morte di Gesù Cristo e cominciarono a raccontarsi che sarebbe tornato. In effetti, la "fine del mondo" attesa nel medioevo e dai Milleriti non era l'evento catastrofico che ha preso forma nel nostro immaginario cinematografico. Era il ritorno di Gesù, che avrebbe giudicato i vivi e i morti e regnato secondo giustizia. Una cosa che tutti i cristiani dovrebbero aspettare con gioia e trepidazione, se non avessero qualcosa da nascondere. Vegliate, perché non sapete il giorno e l'ora.

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[Raimo non ha mai detto] Valditara cialtrone

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Oltre a manifestare la mia (scontata) solidarietà per il mio collega Christian Raimo, faccio presente che tuttora, cercando per esempio "Christian Raimo ministro Valditara" su un motore di ricerca, è molto facile trovare contenuti che sono diffamatori sia nei confronti di Raimo, sia nei confronti del ministro. E non sono siti amatoriali. C'è per esempio un articolo dell'Ansa titolato così:

Raimo sospeso per 3 mesi dalla scuola, disse 'Valditara cialtrone'


Raimo non ha mai definito Valditara un cialtrone. C'è anche scritto che Raimo avesse rivolto al ministro parole pesanti, "cialtrone, lurido, repressivo e pericoloso". Raimo non ha rivolto queste parole al ministro, che sono peraltro virgolettate in un modo scorretto (e indegno dell'autorevolezza dell'Ansa). Aveva affermato: “Dentro la sua ideologia c’è tutto il peggio: la cialtronaggine, la recrudescenza dell’umiliazione, il classismo, il sessismo. Se è vero che non è lui l’avversario, è vero che è lui il fronte del palco di quel mondo che ci è avverso, e quindi va colpito lì, come si colpisce la Morte nera in Star Wars”.

Su Repubblica c'è scritto che disse: “Bersaglio da colpire”. Anche questo virgolettato è scorretto, e notate che forse sarebbe bastato virgolettare "va colpito lì, come si colpisce la Morte nera in Star Wars" per metterlo nei guai. Ma credo che ormai Repubblica non virgoletti correttamente proprio per partito preso.
 
Su Open c'è scritto:

Definì il ministro Valditara «lurido e cialtrone»


Giudicate voi se l'intervento di Raimo – estemporaneo, senz'altro sopra le righe – si possa riassumere così. 

Potrei andare avanti, ma ho già accostato un paio di volte "Valditara" a "cialtrone" (l'ho fatto riportando organi di stampa, da cui prendo assolutamente le distanze), e quindi mi dico soddisfatto. Uno è considerato da sempre autorevole, l'altro lo era fino a qualche anno fa; il terzo doveva essere la nuova frontiera dell'informazione on line. Scrivono tutti che Raimo diede a Valditara del cialtrone, e io non posso che obiettare che no, Raimo non ha definito Valditara cialtrone. Tutto qui, e se verranno gli ispettori, mi troveranno con talmente tanta burocrazia inevasa che il blog sarà l'ultimo dei miei problemi.

Questa battaglia quotidiana contro la realtà, questa necessità di deformare qualsiasi cosa per cui ad esempio uno scontro tra tifoserie diventa una notte dei cristalli; questa necessità primaria di identificare in ogni fatto diverso l'angolazione che potrà portarci un vantaggio politico anche minimo, tutta questa schifezza bispensante, mi fa solo cercare di essere migliore: più attento al dettaglio, più preciso, più corretto, più gentile. In linea di massima credo che alla fine la realtà ci metta un po', ma vinca: è talmente dura. Ma se anche non vincesse, se questi a cui assistiamo non fossero che le manifestazioni di un nuovo paradigma, di qualche nuova religione in grado di imporre una nuova lettura della realtà (una lettura della realtà in cui gente come me e Raimo passeremo per eretici attentatori alla virtù dei giovinetti), ebbene io sono contento di essere stato dalla sua parte, e questa contentezza non potete togliermela. Tutto il resto forse sì, vabbe', nel caso pazienza.
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Agrippino, il patrono di scorta

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9 novembre: Sant'Agrippino, co-patrono di Napoli, ma ce ne sono altri 46...

Una cosa che ho scoperto di San Gennaro – sì, lo so, dovrei parlare di Agrippino, oggi è la festa di Agrippino – ma una cosa che ho scoperto da qualche tempo su San Gennaro è che i francesi che entrarono nella Napoli insorta del 1799 lo arruolarono letteralmente nella rivoluzione, blandendo o minacciando il vescovo in carica affinché il  sangue nell'ampollina si liquefacesse: per quanto rappresentanti di una civiltà laica, illuministica, diciamo pure anticlericale, una volta arrivati a Napoli i francesi fecero questa mossa già postmoderna di calare il berretto frigio sull'aureola del santo più popolare in città. Di lì a poco anche il Vesuvio eruttò: senza dubbio una coincidenza, ma è dal Seicento che la popolarità di Gennaro è legata all'attività del vulcano. I cronisti dicono che l'eruzione fu presa come un buon auspicio, il che è curioso: perlomeno io nella situazione avrei pensato l'esatto contrario. Perché sono il solito pessimista, oppure so già che quando i francesi se ne andarono, in città piombarono i sanfedisti, l'esercito contadino organizzato dal cardinale Ruffo: arrestarono i giacobini e riportarono sul trono Ferdinando Borbone, che si rimangiò immediatamente la costituzione e tutte le concessioni liberali. Non solo, ma si permise qualcosa di inaudito: siccome anche San Gennaro era stato rivoluzionario, gli revocò il patronato della città. Al suo posto fu proclamato patrono di Napoli Sant'Antonio Abate (che patrono rimase fino all'eruzione del 1831), il che è una vera ingiustizia, se non altro nei confronti degli altri 46 copatroni che da secoli facevano la scorta al santo più popolare. Prendi ad esempio Sant'Agrippino. Non se lo meritava lui, il patronato? Tutti quei secoli passati all'ombra di Gennaro non erano dunque serviti a niente?

Agrippino è uno dei tanti santi che non ce l'ha fatta. Quelli di cui non parla più nessuno, sapete come funziona, no? Ogni volta che leggete di una storia di successo, dovete calcolare centinaia di altre storie che quel successo l'hanno mancato, di poco o di tanto. Uno su mille ce la fa – e noi di solito conosciamo la sua storia, non quella degli altri 999. Gli anglofoni lo chiamano survivor bias, pregiudizio del sopravvissuto. Agrippino fino a un certo punto aveva tutte le carte in regola per diventare un grande santo. Nessuno ha mai capito in che secolo sia vissuto, ma in una delle più antiche liste dei vescovi partenopei, era contato come sesto: e se dei primi cinque si sapeva pochissimo, di Agrippino si ricordavano alcuni miracoli, e soprattutto si conosceva il luogo dove era stato sepolto: le catacombe di Capodimonte. Anche se molto presto cominciarono a essere chiamate Catacombe di San Gennaro, è intorno ai resti di Agrippino che il complesso cimiteriale aveva preso forma. Gennaro inoltre è pur sempre un forestiero, a differenza di Agrippino non fu mai vescovo di Napoli. Avrebbe svolto il suo ministero a Benevento, per poi essere martirizzato a Pozzuoli e sepolto inizialmente nell'Agro Marciano. Sarebbe stato un vescovo-duca di Napoli, Giovanni I, a portare le spoglie di Gennaro nelle catacombe che forse al tempo si chiamavano di Agrippino. 

Una volta arrivato, Gennaro comincia inesorabilmente a eclissare il collega più anziano e più local, tanto che nel IX secolo nei pressi della catacomba sorge un monastero dedicato soltanto a lui. Agrippino non si rassegna, e nel secolo successivo lo stesso monastero viene chiamato "di San Gennaro e Sant'Agrippino". A questo punto i due santi, vissuti in città diverse e in periodi diversi, sembrano poter diventare una di quelle strane coppie di santi protettori della città, come Pietro e Paolo a Roma (un lontano ricordo dei mitologici dioscuri). I due compaiono assieme per esempio nella raccolta dei Miracoli di Sant'Agrippino, composta più o meno in questo periodo. Nel frattempo i loro resti erano stati traslati nella nuova cattedrale, assieme ai resti di altri protettori che si accumulavano man mano che la città aumentava la sua prominenza. Di Agrippino si smise di parlare, e del resto anche Gennaro conobbe una relativa eclissi della sua popolarità, più o meno fino al 1389, quando una cronaca registra per la prima volta la cerimonia delle ampolline. Di Agrippino non si conservavano reliquie altrettanto suggestive: anzi non si custodiva più nulla perché dopo due o tre traslazioni il corpo era scomparso. Solo nel 1774 venne rinvenuta un'urna di marmo contenente "reliquie incerte", sull'etichetta è scritto così, "che si pensa siano il corpo di Sant'Agrippino". 

Nel frattempo il collega è ormai diventato una celebrità assoluta: il tesoro accumulato dai fedeli rivaleggia con quello della corona inglese, e ad Agrippino non ci pensa più nessuno. Ma non è detta l'ultima parola: è già successo, nel corso dei secoli, che un santo ormai sconosciuto tornasse sulla bocca di tutti. Di solito basta risolvere un grosso problema, un'epidemia o una calamità naturale: possibilmente non un vulcano, ormai è chiaro che se i napoletani si salvassero da un'eruzione, ringrazierebbero Gennaro e non lui: il vulcano ormai è preso. Ma Napoli è una città generosa di sciagure: c'è il bradisismo, le epidemie, e chissà cosa ci riserva nei prossimi anni il riscaldamento globale. La sensazione è che ci sarà lavoro per tutti e 47 i protettori, e una speranza per Agrippino.  

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Quattro santi incoronati (anzi 13)

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8 novembre – Quattro Santi Incoronati

Nanni di Banco
ftg Donatello
I Quattro Santi Incoronati in realtà sono otto. Pensavo di cominciare il pezzo così, è quel tipo di incipit che risveglia la curiosità del lettore – o almeno infastidisce la sua naturale propensione all'ordine logico, per cui in una buona percentuale di casi si metterà a leggere nella speranza di trovare una soluzione all'inghippo. Ma sono andato a controllare, e mi sono accorto che non sono otto: sono tredici. E l'inghippo è così complesso che tuttora non sono convinto di averlo risolto; forse mi diventerà chiaro mentre ne scrivo. 

Quello dei QSI è il classico caso in cui una leggenda ispira un monumento (in questo caso una chiesa del VI secolo a Roma, sul colle Celio) ma poi viene dimenticata, al punto che qualcuno, di solito un monaco, ritiene necessario inventarne un'altra che spieghi la natura del monumento stesso. E fin qui la matassa non sarebbe così difficile da sbrogliare. Ma in diversi casi, nel giro di qualche secolo, interviene un ulteriore monaco che conosce sia la prima leggenda sia la seconda: e invece di sceglierne una ed eliminare l'altra... cerca di fonderle in una sola. È l'incubo dei filologi moderni: lo scrivano pasticcione, creativo, volenteroso. Come sarebbe tutto molto più semplice se i monaci medievali fossero stati gli aridi copiatori che tutti credono. Magari. E invece no: interpretavano, cercavano di migliorare i testi che avevano sotto mano, li mescolavano ad altri testi... un caos. 

I primi cenni sicuri a una basilica dedicata ai Quattro Incoronati dovrebbero risalire al VI secolo. Nessun cronista sente la necessità di spiegare perché, oltre a essere quattro, dovrebbero essere incoronati; ovvero, la corona è un simbolo associato sin dai primi secoli al martirio, per cui forse all'inizio si trattava di un semplice sinonimo per "martiri". Ma non è affatto chiaro, e in linea di massima nessun altro martire è definito ufficialmente "incoronato". La Passio che per prima racconta la loro storia è molto dibattuta: qualcuno la fa risalire addirittura al IV secolo, ma la più parte degli esperti propende per una datazione più tarda (VI o VII) che rende plausibile l'intervento di uno scrivano pasticcione. Costui ci racconta di quattro scalpellini vissuti a Sirmio, in Pannonia (oggi pianura ungherese), straordinariamente bravi nel loro mestiere e per questo invidiati dai colleghi. Questi, avendoli osservati mentre si facevano il segno della croce, deducono trattarsi di quattro stregoni in grado di fare apparire magicamente dalla pietra qualsiasi cosa. I quattro artisti (chiamati Claudio, Castorio, Simproniano e Nicostrato), si difendono dichiarando la loro fede cristiana, e causando la conversione di alcuni colleghi, tra cui un Simplicio che si farà battezzare da Cirillo, già vescovo di Alessandria, condannato ai lavori forzati nella stessa cava di marmo. Nel frattempo la loro abilità ha attirato l'attenzione dell'imperatore Diocleziano, il quale li mette alla prova commissionando loro una serie di raffigurazioni: troni, vittorie, corone, amorini, il sole sul suo carro: non sembra esserci un limite alle capacità di questi quattro scultori. E invece un limite c'è, e Diocleziano lo scopre quando chiede ai quattro di modellare una statua del dio Esculapio; i quattro (che ormai con Simplicio sono cinque) non possono obbedire e dichiarano, col loro rifiuto, di essere cristiani. La leggenda sembra contenere un'eco remota della polemica iconoclastica, perché di solito i santi vengono processati per non aver voluto sacrificare agli dei; solo i Quattro Coronati si rifiutano di ritrarli. 

Diocleziano non è quel tipo di imperatore che si faccia sfuggire l'opportunità di uccidere dei cristiani; a malincuore, perché si trattava di ottime maestranze, consegna i Quattro più uno a un magistrato che non perde tempo a condannarli a morte: cinque casse piombate vengono rovesciate nel Danubio. Nicomede, loro discepolo, ne recupererà i corpi. A questo punto l'autore della Passio avrebbe dovuto inventarsi qualche complicata e miracolosa vicenda attraverso cui i resti dei Quattro (più Simplicio) sarebbero giunti a Roma; e invece no: decide di aggiungere una postilla alla storia che la rende molto più tortuosa, e lascia intendere la necessità di giustificare una tradizione diversa, secondo la quale i Quattro del colle Celio sarebbero soldati romani. Ma com'è possibile, se sono annegati in cinque casse piombate sul Danubio? La leggenda prevede che l'anno successivo Diocleziano faccia erigere un tempio a Esculapio a Roma. Durante l'inaugurazione è previsto che i legionari facciano un sacrificio al dio, ma quattro sottufficiali (corniculari) si rifiutano, rivelando così il loro cristianesimo. Diocleziano li fa flagellare a morte proprio nell'anniversario del martirio dei Quattro scalpellini pannonici; san Sebastiano ne recupera i corpi e li fa seppellire al terzo miglio della via Labicana. Il papa Milziade stabilisce che vengano venerati come martiri, e siccome nessuno conosceva i loro nomi, li ribattezza post mortem coi nomi dei quattro scalpellini morti nello stesso giorno: Claudio, Nicostrato, Simproniano e Castorio. Ed ecco spiegato perché i Quattro Coronati sono cinque scultori, ma anche quattro legionari, per un totale di nove martiri.

Senonché, ce ne sono altri quattro: Secondo, Carpoforo, Vittorino e Severiano. Questi ultimi compaiono un un'altra Passio (dedicata a San Sebastiano), e si trovano già raffigurati nelle decorazioni delle catacombe di Albano, risalenti al V secolo. Si tratterebbe di quattro legionari martirizzati sempre da Diocleziano, e sempre per non aver voluto sacrificare ad Esculapio; ma sulla via Appia. Può darsi che si tratti di una leggenda successiva, ma anche di quella originale, che lo scrivano pasticcione avrebbe rielaborato a modo suo.

Il successo dei Quattro Incoronati dipende soprattutto dal fatto che, in quanto scalpellini, in molte zone d'Europa diventano protettori di scultori, intagliatori e artisti in generale: e come tali molto spesso soggetti di ritratti scolpiti e dipinti, anche per orgoglio corporativo. Il sospetto è che parte del mistero intorno ai QSI non dipenda dall'incrostarsi di leggende diverse, ma sia stato in parte alimentato dagli operatori della categoria, che più di altre era gelosa dei propri segreti professionali. Addirittura i Quattro – talvolta raffigurati con scalpello, cazzuola o altri strumenti del mestiere – vengono reclamati come fondatori e protettori della massoneria, perlomeno dalla loggia inglese dei Quatuor Coronati

Una leggenda più suggestiva che credibile è quella riportata da Giorgio Vasari su Nanni di Banco, l'autore del gruppo marmoreo dei Quattro Coronati in una delle nicchie della chiesa fiorentina di Orsanmichele. Nanni, dopo aver sbagliato le misure delle statue, avrebbe potuto contare sull'aiuto del maestro Donatello, che gliele avrebbe scorciate e ravvicinate in cambio di una cena. Peccato che le due statue riaccostate facciano parte di un unico blocco di marmo. 

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