Con ansias en amores inflamada

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14 dicembre: San Giovanni della Croce, mistico ed erotico (1542-1591)

Attribuito a Zurbarán
Quando fu l'ora di morire, sul letto in cui agonizzava, Giovanni della Croce – già acclamato come santo dal popolo, ma trattato con diffidenza dai confratelli, che non forse non gli dedicavano le cure necessarie, avendo anch'essi magari fretta che in quanto santo si levasse al cielo e dai piedi – quando fu l'ora di morire, piagato da un'infezione acuta della pelle, nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, Giovanni della Croce chiese che gli leggessero il suo libro preferito, ovvero il Cantico dei Cantici. E qui dovrei mettere punto e rinunciare anche stavolta: non posso scrivere un pezzo su Giovanni della Croce, non posso pretendere di capirlo. Tra me e lui c'è un abisso, e in fondo a questo abisso c'è appunto il Cantico, che per Giovanni era la più sublime espressione della grazia di Dio. Per me invece è una collana di poesie erotiche, alcune anche piuttosto spinte. Capite che non può esserci dialogo. Giovanni della Croce, che pure fu un brillante studioso, a un certo punto scelse di leggere soltanto la Bibbia, e in mezzo a tanta verità biblica, tanta storia, tanto mistero, trovò normale fissarsi sulle pagine in cui un'amata dice al suo amato, tra le altre cose: "Corri sui monti profumati". Giovanni della Croce dedicò una parte della sua vita (peraltro piuttosto operosa, persino avventurosa) a sondare i mistici significati di un versetto del genere, che a me fa venire in mente soltanto un paio di posizioni sessuali, e ci tengo a precisare che non credo di avere ragione io, voglio dire, l'esegesi non è uno sport, nessuno tiene i punti; non è neanche un processo, nessuno impugna il martelletto. Anzi sono pronto a concedere che le interpretazioni di Giovanni della Croce siano molto più interessanti della mia, perlomeno meno banali. Ma non posso comunque condividerle, con tutta la mia buona volontà non riesco ad accettare che un grande poeta e mistico e filosofo abbia passato la vita a sgranare una collana di poesie erotiche scambiandole per gradini verso l'ascesi la beatitudine la grazia, mi sembra una barzelletta triste o un racconto di fantascienza in cui alla fine si scopre che il Libro su cui era stata fondata un'intera civiltà è un libro di barzellette di Pierino. 

La coscienza è un gioco di specchi. Se mi chiedo perché Giovanni per tutta la vita ha cercato di vedere Dio dove c'era una ragazzotta mora ma formosa, non posso che immaginarmi Giovanni, dall'altra parte dello specchio, che si chiede perché devo per forza vedere dappertutto ragazze more (ma formose). Perché pensi solo al sesso, mi chiede? (Ma sa già la risposta: è il demonio). No, Giovanni, sei tu che al sesso non vuoi pensarci, a causa di una pressione sociale che ti imponeva un innaturale regime di castità. Risponde: ma secondo te al sesso davvero non ci pensavo? Hai fatto caso che ho passato interi anni della mia vita in monasteri... femminili? Ad Avila per tre anni sono stato il padre spirituale di centotrenta monache. Le confessavo tutte, capisci, in fatto di donne credi davvero di saperne più di me? Credi di avere avuto amiche più complicate di Teresa d'Avila, o di Anna del Gesù? E soprattutto: credi di avere avuto una vita sessuale più realizzata della mia, soltanto perché accetti di farti ispirare dal demonio ogni volta che ne ha voglia, a causa di una pressione sociale che ti vuole perennemente irradiato da immagini intriganti; credi che la tua fregola pressoché costante sia un regime più vicino alla natura, o alla felicità? Perché magari ti sbagli, in fondo che ne sai. 

Va bene Giovanni, mi sbaglio. Ci sbagliamo tutti, prendiamo i nostri usi e costumi come pietra di paragone per giudicare quelli dei secoli passati, senza nemmeno verificare se siano usi e costumi replicabili, se non dipendano da parametri economici effimeri, che forse stanno già cambiando e potrebbe essere il motivo per cui siamo molto meno felici e realizzati di quanto dovremmo essere. Tu invece sei stato felice, o almeno vorresti tanto farmi credere in questo. Hai scelto la vita contemplativa, hai scoperto quanto fosse tortuosa, hai scoperto che persino nella voluttà di ricevere i sacramenti possono nascondersi la gola e la lussuria, che persino i digiunatori possono digiunare per vanità; hai scoperto con orrore tutto questo e proprio quando ti sembravi perso, in una notte oscura, con ansias en amores inflamada (o dichosa ventura) hai trovato la strada giusta, la via verso la grazia. Tutto giusto. Non credo a una parola, Giovanni. 

Tu eri nato per scrivere poesie d'amore, e in un altro secolo lo avresti fatto, magari tra un'impresa cavalleresca e l'altra. Ma siamo nel Cinquecento, i prezzi in Castiglia non fanno che salire e nessuno capisce come mai, proprio adesso che sta arrivando tanto oro dalle Americhe... tuo padre si è declassato per sposare una tessitrice, gli affari vanno male, tu sei portato per gli studi e in breve tempo la carriera ecclesiastica diventa l'unica praticabile per un secondogenito studioso senza amici in paradiso. Entri in un monastero carmelitano, e a 25 anni incontri Teresa D'Avila, che ha il doppio dei tuoi anni e vuole riportare le carmelitane ai vecchi costumi ascetici di un tempo. Certi monasteri ormai sono alberghi per le signorine di buona famiglia che le buone famiglie non vogliono accasare; non è senz'altro così che si diventa santi e anche tu sei d'accordo, ma appunto, tu hai vent'anni e lei cinquanta: non ti viene in mente che dovendosi trovare un direttore spirituale per il suo nuovo monastero, non abbia scelto te perché eri così giovane e malleabile? Dietro a tante mistiche di successo, c'è un padre spirituale che invece di prenderle per matte si segna le visioni e comincia a sparger voce che c'è una santa in città; con te e Teresa sembra successo l'opposto. Cerchi di riformare i carmelitani come lei ha fatto col ramo femminile, ma siamo nel Cinquecento e questa parola, "riforma", è la più pericolosa che si possa usare in Spagna. I pezzi grossi dell'ordine ti perseguitano; finisci in cella un paio di volte, e lì non digiuni più per la vanità di digiunare, ma perché proprio da mangiare te ne danno punto o poco; non ti frusti più per lussuria, ma sono gli altri a frustarti perché non ritratti determinati punti di dottrina; non preghi più per la vanità di pregare, ma perché sei solo in una stanza oscura. E ritrovi Dio, di questo sei convinto. Sicuramente ritrovi la poesia, perché non hai nemmeno carta per scrivere i tuoi pensieri, e non ti resta che compitarli a memoria, puntellandoti con rime e prosodia. Scrivi poesie d'amore talmente pure che l'oggetto dell'amore è secondario; potrebbe essere Dio come una ragazza come qualsiasi altra cosa. In pratica riscrivi il Cantico dei Cantici, e forse lo scrivi anche meglio dell'originale, perché non c'è dubbio che tu sia un grande poeta, Giovanni, un sorso d'acqua limpida prima che tutto diventi tortuoso e barocco. E quando sarai di nuovo libero, quando le tue amiche monache ti chiederanno cosa significano quelle stanze così chiare a chiunque abbia amato un poco, tu farai proprio come gli esegeti medievali dei Cantici, e diventerai l'interprete anagogico delle tue poesie erotiche. Cosa dire. 

Non lo so, Giovanni, forse c'era una strada più dritta, ma ognuno trova quella che può; senz'altro la tua non l'hai scelta per pigrizia, o perché fosse la più praticata ai tuoi tempi. Non posso dire lo stesso di me, e quindi ti ammiro. Credo che la coscienza sia poco più di un labirinto di specchi; credo che per un po' sei riuscito a fare così buio nella tua anima da illuderti di averli superati, e quando finalmente hai sentito di nuovo qualcosa, hai pensato che fosse Dio, e sei stato davvero felice. Perché no. Se è successo, sono contento per te. Ma non riesco a immaginare che quel volto benigno che finalmente ti perdonava, e ti riconosceva, e asciugava le tue lacrime, non fosse che l'ennesimo specchio. Mi dispiace, non ho abbastanza immaginazione. O è il demonio, perché no.

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Glorifichiamo i bombardamenti, sola fonte del diritto

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Onesto Ernesto Galli Della Loggia, 

ho letto il suo ultimo editoriale sulla fine dell'Occidente, e devo confessare di esserne stato sopraffatto al punto che per me è davvero difficile sbrigliare il nodo di emozioni che la lettura ha suscitato. Indignazione per le cose che ha scritto (in pratica l'Occidente starebbe declinando perché non accetta che in guerra i civili debbano morire) orrore per ciò che l'articolo sottende, ovvero che chi non si rassegna all'incipiente stato di guerra sia da considerarsi decaduto, un'idea che ultimamente vedo rimbalzare sempre più spesso e a cui mi devo evidentemente rassegnare; smarrimento, paura per i miei famigliari che vivranno molto più a lungo di me e di lei, in tempo per vederlo del tutto concretizzato, questo stato di guerra in cui chi ci bombarda ha il diritto di farlo e lo spazio necessario sui quotidiani per giustificarsi; pena nei confronti dell'intellettuale di turno che queste sordide giustificazioni deve abbassarsi a scriverle, ad esempio ieri lei; disprezzo per chi gliele fa scrivere e gliele pubblica; tutto un nodo di sentimenti che alla fine è facile scambiare per semplice rabbia, visto che è così che si manifesta all'esterno: rabbia, semplice rabbia, per chi a valle di tanti discorsi sulla libertà e la giustizia, un bel giorno ci avverte che il ciclo è finito, la pacchia pure, e siamo di nuovo carne di cannone. 

Illustre Ernesto, è così: lei mi ha fatto tanto arrabbiare, ma non vorrei nemmeno per un istante che lei credesse che la rabbia perturbi la mia lucidità: per quanto quel che ha scritto sia orribile, per quanto le sue implicazioni siano luride così come è lurido ogni ragionamento che posa le sue fondamenta non sul sottile strato dei diritti umani, ma un po' più in basso, sulla solida legge della giungla e del mare, il caro vecchio diritto del più forte: l'unico diritto internazionale in cui crede davvero, né se ne vergogna, e questo accresce la pena che provo nei suoi confronti, illustre spudorato. Lei ha avuto almeno non dico il coraggio, coraggio è una parola che va meritata, ma la spudoratezza, di scrivere un po' di cose come stanno. Di additarci il vero fondamento giuridico su cui questo Occidente di cui da qualche mese improvvisamente tutti parlano basa la sua secolare superiorità morale: non la Dichiarazione d'Indipendenza del 1776, né quella dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, e ovviamente nessuna carta dell'Onu o consimili. No, sfacciato Ernesto, lei ha almeno scoperto l'altare, sicché possiamo vedere di che lacrime grondi e di che sangue: l'Occidente è stato fondato da Roosevelt e Truman, intorno al 1945: non è basato sui "diritti" di qualche comunità di supposti "civili", ma sulla superiorità aerea degli USA e sui bombardamenti assolutamente fuori scala che resero gli USA la potenza egemone che vorrebbe continuare a essere anche nel secolo XXI. Questo è l'unico diritto che ha contato, l'unico motivo per cui in prima pagina del Corriere ottant'anni dopo c'è lei e non qualche altro illustre barbogio a concionarci sulla superiorità della razza italica o sulla dittatura del proletariato; non è mai stata una guerra di idee, e lei lo sa; è stata una guerra di bombe e ha vinto chi le aveva più grosse, per cui Hiroshima e Nagasaki non si processano; viceversa è chi ha ridotto Hiroshima e Nagasaki a cumuli di cenere che ha il diritto di processare noi, se non ci rassegniamo. Proprio così.

Proprio così, svergognato Ernesto, e quindi che senso ha chiederle se non si è vergognato appena un po', mentre confessava (in prima pagina sul Corriere) di non essere esperto di diritto internazionale, proprio lei che tante altre volte ci ha ricordato quanto sarebbe necessario applicare a scuola un po' di sana meritocrazia. Soltanto a scuola, evidentemente: laddove sulle prime pagine dei quotidiani nazionali è meglio che lo spazio sia riservato a cognomi illustri privi di competenza in materia e addirittura orgogliosi di rimarcarlo, affinché sia chiaro anche al più bue dei lettori che le materie non sono competenza di chi le studia, ma di chi è più lesto a suonare la trombetta del più forte, e ieri il più lesto è stato lei, complimenti: e le auguro una vita lunghissima, non solo perché possa vedere almeno un po' della distruzione e della sofferenza che sta auspicando, ma affinché possa vergognarsi di quel che ha scritto, e non solo domani e dopodomani, ma ogni mattino della sua vita, per miliardi di mattine. Si immagini – ne è capace – se qualcuno avesse scritto le sue parole, le sue identiche parole, all'indomani della strage di Bucha, o il 17 marzo del 2023, quando la Corte Penale Internazionale emise un mandato di arresto nei confronti Vladimir Putin. Si domandi – non so se ne sia capace – come mai questa sozza apologia dei bombardamenti sui civili gli è toccato scriverla solo all'indomani di un pronunciamento contro Israele, un Israele che insomma è il figlio viziato dell'Occidente che tutto deve permettersi e di nulla può vergognarsi; Israele di cui ormai è impossibile negare i crimini contro l'umanità, al punto non resta che sollevare il tavolo e stabilire che "crimini contro l'umanità" è una definizione senza senso. Il che ci renderà poi più difficile accusare di questi crimini gli stessi nemici di Israele, Hamas in primis, ma questo giustamente a lei non interessa: sì, la CPI ha emesso mandati di cattura anche per loro, ma non sarà il Diritto Internazionale a metterli fuori gioco, bensì le bombe. Israele deve continuare ad averle più grosse: solo su questo è basato il suo diritto (anche su un libro di leggende un po' vecchiotte, ma che cominciano a essere citate sempre più spesso come fonte giuridica, forse tra un po' inizierà anche lei). Israele dovrà essere sempre più potente, e lo sarà: sempre più cattivo, e lo è diventato: questa è l'unica sua giustificazione, basata non sui torti del passato, ma su quelli che infliggerà ai suoi nemici nel futuro. Sulla guerra: ogni suo ragionamento non porta che a una guerra che non conosce una fine che non sia l'esaurimento delle risorse materiali o umane; spero sia abbastanza onesto per accettarlo, e per vergognarsene.

Nel frattempo noi ci vergogniamo per lei.


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Daniele l'incolonnato

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11 dicembre – San Daniele lo stilita (409-493)

Menologion di Basilio II

Gli stiliti sono quella sottocategoria di eremiti che invece di rintanarsi in qualche grotta, o isolarsi nel deserto, si issano sulla cima di una colonna di qualche tempio diroccato e cercano di restarci per tutta la vita, pregando, meditando e attirando un sacco di curiosi. Sono insomma i più esibizionisti tra gli asceti, un curioso paradosso, e fa un po' effetto pensare che siano esistiti davvero, senza morire nel giro di pochi mesi. Daniele di Maratha, ad esempio, quando salì sulla sua colonna nei pressi di Costantinopoli nel 459 (seguendo l'esempio di San Simone il Vecchio, che aveva ammirato da ragazzino e che gli aveva lasciato in eredità il mantello) aveva già cinquant'anni, e ci avrebbe vissuto per altri 33. Sembra impossibile, ma la sua leggenda non è priva di dettagli realistici; in particolare non omette il dettaglio delle ferite ai piedi, che dovevano colpire particolarmente i fedeli che andavano a trovarlo. Daniele non stava rannicchiato su un piccolo capitello ma aveva a disposizione una vera e propria piattaforma, e a un certo punto un imperatore gliene costruì un'altra unita alla prima con un ponte: infine, durante un inverno particolarmente rigido, sulla struttura venne costruita una vera e propria piccola abitazione. 

Il fatto è che Daniele, che si era ritirato sulla colonna forse per evitare un incarico di responsabilità presso il suo cenobio, in breve tempo era diventato un punto di riferimento, se non una vera e propria attrazione turistica: i malati andavano a chiedergli una benedizione (e a volte sostenevano di essere guariti), l'imperatore stesso si sentiva onorato di poter salire fino a toccargli i piedi e chiedergli consigli perché è buffo, ma la prima cosa che ci viene in mente quando vediamo una persona fare una scelta estrema come montare su una colonna e non scendere più, è che quella persona sia particolarmente saggia. Uno che non voleva invece andare a trovarlo era l'Arcivescovo di Costantinopoli, probabilmente invidioso della sua fama: fu lo stesso imperatore a costringerlo. Daniele era ormai una figura pubblica e non poteva sottrarsi dai dibattiti che dilaniavano la società costantinopolitana: dovette persino temporaneamente scendere dalla colonna per incontrare il nuovo imperatore (l'usurpatore Basilisco) e rimproverarlo davanti a tutti perché sosteneva l'eresia monofisita. Basilisco fu poi sconfitto da Zenone che si recò subito in pellegrinaggio alla colonna di Daniele. Alla sua morte, Daniele fu sepolto alla base della colonna che si era scelto tanti anni prima. 

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Anna che muoveva le labbra

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9 dicembre: Sant'Anna, madre del profeta Samuele (XI secolo aC). 

Gerbrand van den Eeckhout

Com'è noto la madre di Maria di Nazareth è Anna, anzi Sant'Anna. Purtroppo si tratta di un personaggio completamente inventato dall'autore del Protovangelo di Giacomo. Quest'ultimo, come ogni falsario scrupoloso, non si è fatto venire in mente una madre della Madonna del nulla, ma ha cercato di rifarsi a un modello che non ne facesse troppo risaltare il carattere fittizio. Così come i restauratori, quando aggiungono a un quadro un pezzo mancante, si ispirano ai colori e allo stile del resto del quadro, così il protoevangelista ha ben pensato di rifarsi a un'altra madre di cui si legge nella Bibbia. Perciò c'è davvero un'Anna che può dirsi madre di Maria, almeno dal punto di vista letterario e narrativo. Non è quella che si festeggia il 26 luglio, ma la madre del profeta Samuele, con la quale comincia il primo libro omonimo; e in senso lato la storia del regno di Israele, perché sarà proprio Samuele a consacrare i primi due re, Saul e Davide. 

Anche la storia di Anna non sembra terribilmente originale, specie se abbiamo letto i libri precedenti. È una donna che non riesce ad avere un figlio dal marito Elkana; condizione aggravata dal fatto che l'altra moglie di Elkana, Peninna, di figli ne ha già parecchi, né ha la delicatezza di non farlo notare ad Anna: anzi "l'affliggeva con durezza a causa della sua umiliazione". Eppure Peninna doveva saperlo, che dalle mogli sterili nasce sempre qualche giudice o patriarca: prima di Anna era stata sterile Sara, moglie di Abramo; Rebecca, moglie di Isacco; Rachele, moglie di Giacobbe. In epoche più recenti aveva avuto difficoltà a concepire un figlio anche la madre dell'eroe Sansone, ed è forse a lei che sta pensando Anna, quando promette al Signore che se avrà un figlio lo consacrerà "per tutti i giorni della sua vita e il rasoio non passerà sul suo capo". È un voto che si riferisce evidentemente al nazireato, un rito di consacrazione previsto dalla Torah ma che qui non viene nominato. Mentre pronuncia questo voto solenne nel tempio di Silo, Anna viene notata dal sacerdote Eli, che la scambia per un'ubriaca perché Anna "pregava in cuor suo e si muovevano soltanto le labbra": una pratica – quella di pregare muovendo le labbra ma senza emettere un fiato di voce – che evidentemente Eli non conosceva, e questo malgrado fosse il guardiano dell'Arca dell'Alleanza. 

Eli, lo scopriremo più tardi, è un personaggio malinconico, evocato a rappresentare tutta un'epoca di decadenza che finisce proprio con la nascita di Samuele, suo successore. I suoi figli sono una delusione: disonesti e corrotti, fanno la cresta pure sul grasso dei sacrifici. È custode di Dio, ma Dio non gli parla – come invece parlerà a Samuele. E allo stesso tempo conosce i suoi limiti: quando Anna gli spiega il suo problema, la benedice ("Va' in pace e il Dio d'Israele ascolti la domanda che gli hai fatto"). Chi sia rimasto suggestionato dal Crollo della mente bilaterale di Julian Jaynes non può impedirsi di pensare che Eli sia già un uomo dotato di coscienza – ovvero anche in grado di elaborare i pensieri senza verbalizzarli; mentre Anna forse non sarebbe in grado di parlare con Dio (cioè un altro emisfero di sé stessa) senza formare parole almeno sulle labbra. Quanto a Samuele, il figlio che finalmente nascerà, egli sarà uno degli ultimi rappresentanti di quel tipo di "uomini bicamerali" che secondo Jaynes proprio in quel momento cominciavano a estinguersi: gli uomini portati a interpretare i pensieri dell'emisfero destro come voci degli Dei. I libri di Samuele sarebbero la migliore testimonianza letteraria di questo evento epocale: la transizione dalla mente bilaterale a quella cosciente. Una transizione graduale, ma violenta: perché man mano diventavano rari, gli uomini bilaterali venivano sempre più visti come profeti di una divinità che agli altri si celava. 

Come promesso a Dio, non appena il piccolo Samuele è svezzato Anna lo porta a Silo, dove sarà cresciuto da Eli. Per l'occasione, e prima di congedarsi dal lettore, Anna pronuncia un'ode commovente che ricorda molto da vicino il Magnificat, l'inno che Luca mette in bocca a Maria di Nazareth durante l'incontro con la cugina Elisabetta. In effetti Luca, col suo debole per i poveri, non poteva restare insensibile di fronte a versi come "L'ascia dei forti s'è spezzato, ma i deboli sono rivestiti di vigore. I sazi sono andati a giornata per un pane, mentre gli affamati han cessato di faticare". È più difficile capire che senso abbia questa sensibilità sociale nel personaggio di Anna, che fin qui non ne aveva dimostrata. La chiave forse sta nel verso successivo: "La sterile ha partorito sette volte, e la ricca di figli è sfiorita": in effetti questo senso di rivalsa serpeggia in tutte le Scritture, e non trova sempre un interprete delicato come Luca a smussare gli spigoli: tante altre volte i deboli diventano arroganti, massacrano i loro massacratori, e continuano a sentirsi minacciati anche dopo aver fatto il deserto intorno a loro. Samuele, in effetti, passerà la vita a seguire le voci di un Dio scostante che gli ordinerà di consacrare un re e poi un altro, con le guerre fratricide che ne seguiranno. E tremila anni dopo siamo ancora qui, e non sappiamo se temere più le asce dei forti o il vigore dei deboli. 

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Basso e Lucido, i santi sbagliati

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5 dicembre – San Basso di Nizza, martire della città sbagliata

Abbiamo già visto quanto siano importanti, in agiografia, gli errori. Probabilmente è inevitabile, in una materia fatta di parole copiate e ricopiate a oltranza, finché qualcuno non sbaglia una lettera e non ne crea di nuove. Undicimila martiri a Colonia esistono semplicemente perché qualcuno si è sbagliato a leggere una lapide. Santa Cecilia è diventata patrona della musica per un errore di trascrizione. Certi santi si sono sdoppiati perché qualcuno non ha letto bene com'era scritto il nome, e lo ha copiato con una grafia diversa. E a Nizza a un certo punto hanno scoperto di avere un martire importante, vescovo della città. Lo hanno scoperto trovandolo nel Martirologio Romano, la lista ufficiale dei santi cattolici, a partire dal 1583, perché loro non ne avevano mai sentito parlare e sulla più antica lista dei vescovi nizzardi non risultava nessun Basso. Ma se lo aveva scritto Cesare Baronio, mica poteva sbagliarsi: e così Nizza cominciò a festeggiare San Basso. 

Quanto a Baronio, lui la lista dei vescovi di Nizza evidentemente non poteva consultarla; in compenso aveva a disposizione quella di Nicea in Bitinia (Asia Minore), e siccome non riusciva a trovarci il Basso di Nicea tramandato da una leggenda medievale, aveva ipotizzato che il sant'uomo fosse stato martirizzato nell'altra Nicea, che è appunto quella che noi chiamiamo Nizza. Sì, ma le reliquie? Le reliquie di un San Basso stanno a Cupra Marittima, provincia di Ascoli Piceno, ma probabilmente anche questo è un errore; potrebbe trattarsi in effetti di San Dasio, martirizzato sull'altra sponda dell'Adriatico: in fin dei conti basta fraintendere due lettere su cinque per leggere Basso dove c'era scritto Dasio. 

Ora vi chiederete che senso ha tutto questo, nell'era di internet. Tutti questi errori, non potremmo finalmente correggerli? Certo che potremmo. Ma sarebbe come spalare il mare con un cucchiaino, perché nel frattempo ne stiamo facendo altri. Molti altri. Internet è piena di errori, in fondo l'abbiamo sempre saputo. Ultimamente però è come se avessimo deciso di dimenticarcene; ad esempio vedo sempre più gente chiedere le cose a ChatGpt o altre cosiddette intelligenze artificiali, come se fossero motori di ricerca. E non lo sono. Ma se anche lo fossero, non sono che AI nutrite dei testi che hanno trovato su internet, e i testi che hanno trovato su internet, stavamo appunto dicendo, sono pieni di errori. Non dico sia già la biblioteca di Babele, ma allo stato presente Internet non ha davvero molto da invidiare a certe collezioni polverose e tarmate che ammuffivano nei monasteri medievali. Ci sono errori corretti con errori più grossi, referenze circolari, è quel tipo di caos che dovrebbe stimolare i filologi, ma non li paga nessuno. Faccio un esempio a caso: oggi, 5 dicembre, è anche la festa di

 

5 dicembre – San Lucido di Aquara (960-1038), monaco 

La terza statua,
sempre più lucida.
Lucido è uno di quei santi radicati nel territorio di provenienza, anche nel senso che fuori dalla sua zona non lo conosce praticamente nessuno; in compenso ad Aquara (SA) è riverito e venerato. Non ci è dato sapere quanto questa venerazione dipenda dalla rivalità tra Aquara e Teggiano, altro cento dell'entroterra salernitano: entrambi i santi patroni erano invocati nelle rispettive località sin dal medioevo, ma furono canonizzati ufficialmente soltanto a fine Ottocento, nel giro di nove anni (in un periodo in cui il Vaticano, spodestato da potere secolare, cercava di ingraziarsi i ceti popolari dei piccoli centri). Lucido divenne Santo nel 1880, Cono di Diano (o Teggiano) nove anni prima. Dei due, in effetti Cono è la figura più appariscente, non fosse che per la popolarità che si conquistò in Uruguay prima tra i giocatori del lotto e poi tra i tifosi della nazionale di calcio protagonista della più tragica delle finali di Coppa del Mondo. Da parte sua Lucido non può opporre prodigi così appariscenti e postmoderni; fu un monaco esemplare e intraprendente, passò da Montecassino e fondò più di un monastero, eccetera eccetera. Inevitabilmente, gli agiografi alla ricerca di qualche notiziola più piccante finiscono per soffermarsi sui furti; le reliquie di Lucido in effetti sono state trafugate almeno due volte in ottant'anni, non proprio un'emergenza criminalità, ma una coincidenza interessante. Del resto è tradizione che le reliquie siano custodite in una statua del santo d'argento, che farebbe gola ai ladri anche in regioni più ricche. 

È proprio dando un'occhiata ai due furti su Santiebeati che mi sono accorto che qualcosa non andava con le date. Il primo furto risalirebbe al 23 marzo 1895. Le reliquie (senza statua) sarebbero state trovate "in una crollante casa di campagna" addirittura novant'anni dopo, il 31 luglio del 1985! Ma si tratta di un banale refuso: il ritrovamento avvenne nel 1895. Altrimenti, quando arrivarono i ladri per il secondo furto, il 28 febbraio 1975, non avrebbero ancora trovato niente. Rimane da capire cos'è successo dopo: la statua è stata senz'altro rifatta, ma le reliquie? Una pagina di Wikipedia dice che la testa "fu ritrovata dalle forze dell'ordine in una casa privata nel 1999"; ma non cita fonti e soprattutto lo chiama San Lucido di Aquarara, una località che non credo esista. Si potrebbe anche correggere, senonché vi è almeno un altro sito che parla di "San Lucido di Aquarara"; per cui abbiamo un classico esempio di referenza circolare. Ovvero? ovvero probabilmente uno dei due siti ha copiato dall'altro, ma non ci è dato sapere quale. In un certo senso è troppo tardi, perché se provassi a correggere la pagina di Wikipedia, qualcuno mi farebbe notare che le informazioni sono prese da un'altra fonte; né potrei dimostrare che quella "fonte" in realtà ha soltanto scopiazzato Wikipedia. E io ho già fatto abbastanza danni con le referenze circolari, per cui preferisco tenermi alla larga. Forse coi manoscritti medievali era più facile. Cioè, si sbagliava anche allora. Ma per citare il poeta: si sbagliava da professionisti.

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Saturnino e il toro

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29 novembre – San Saturnino di Tolosa (III sec.), martire della tauromachia.

Quel che dico potrebbe non avere il minimo senso, ma la Francia, viaggiando, mi è sempre sembrata una grande frontiera. Probabilmente a causa di una secolare lotta tra le province e Parigi, (una lotta vinta da quest'ultima), le regioni francesi non possono opporre forti identità culturali a quella che si irradia dalla capitale: e quindi il loro modo di sentirsi distanti dalla capitale è rimarcare la loro vicinanza alle nazioni confinanti. Così per esempio la Provenza ci tiene molto più del necessario, a farti sentire a un passo dall'Italia; ma appena passi Marsiglia, ecco che dappertutto cominciano a spuntare raffigurazioni di tori; molti più tori di quelli che si vedono appena varchi i Pirenei. All'immagine di un toro è anche associato il santo più popolare della regione. Si chiama Saturnino, tipico nome pagano: ma come escludere la possibilità che derivi dalla contrazione di Sanctus Taurinus? Il nome del resto variava a seconda delle regioni: Atorne, Atournis, Sadourny, Satornis, Saturnin, Saunin, Sauny, Saurin, Savorgnan, Savournin, Sorlin, Somin, Urnel, Cenin, Zaormino. In Italia esisteva un Saturnino martire a Roma, con una sua leggenda completamente diversa, senonché sarebbe stato martirizzato anche lui il 29 novembre; mentre il Saturnino patrono di Cagliari ricorre il 30 ottobre: ma sappiamo che anche il Saturnino di Tolosa, nel medioevo, veniva festeggiato lo stesso giorno. I tolosani lo sostenevano contemporaneo degli apostoli, il che avrebbe fatto di Tolosa la prima città delle Gallie ad avere un vescovo cristiano. È più probabile che sia vissuto nel terzo secolo, comunque molto presto perché l'unico santo gallico più antico che conosciamo è Ireneo di Lione

Insomma di Saturnini potrebbero essercene stati diversi, ma era facile confondersi: il tolosano era facilmente riconoscibile perché nelle immagini era spesso accostato a un toro imbizzarrito. La sua leggenda più diffusa (Passio Saturnini), redatta nel V secolo, racconta che avrebbe suscitato le ire dei sacerdoti pagani perché ogni volta che passava davanti al tempio di Giove, i tori sacrificati non davano più responsi attendibili: con quello che in doveva costare il sacrificio di un capo di bestiame. Perciò sobillarono una folla che lo sequestrò e cercò di obbligarlo a sacrificare un toro agli dei. Al suo rifiuto, lo legarono al collo dello stesso toro, che opportunamente pungolato lo avrebbe trascinato per tutta la città, uccidendolo. La leggenda è più originale e credibile di tante altre: non allunga il brodo con guarigioni miracolose, né evoca persecuzioni da parte delle autorità imperiali. È l'asciutta cronaca di un linciaggio: ,a in un qualche modo allude alle tauromachie che dovevano essere già popolari nelle Gallie. Non è un caso che Saturnino sia patrono anche di Pamplona, anche se in città la festa dei tori è dedicata a un altro santo, Fermino. Siccome in francese "Sernin", Saturnino, non suona così diverso da Fermin, può persino darsi che nell'alto medioevo si trattasse dello stesso santo, anche se da secoli Saturnino viene considerato il vescovo gallico che battezzò Fermino. 

Gli storici chiamano inculturazione il procedimento con cui i cristiani inglobavano nelle loro tradizioni quelle pre-esistenti pagane, cambiandone il senso e modificandone la narrativa. La leggenda di Saturnino attesta almeno un tentativo di inculturazione della corrida, tentativo magari lasciato a metà perché alla fine la plaza de toros non è che si prestasse molto al messaggio evangelico. È anche impreciso affermare che Saturnino sia il patrono delle corride, come si legge in molti siti, però tutti italiani: gli spagnoli gli preferiscono appunto Fermino, o Pietro Regalado, il francescano che a Valladolid ammansì miracolosamente un toro scappato dall'arena.

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Il santo che gridava al lupo, al lupo

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28 novembre: San Giacomo della Marca (1393-1476), predicatore e inquisitore

Museo Cerralbo, Madrid
Giacomo divenne santo perché da bambino non voleva più pascolare le pecore. Ai tempi si chiamava Domenico, e ai fratelli raccontava di aver visto un lupo. La cosa non doveva poi essere così improbabile, eppure non gli credevano: oppure credevano che dovesse cavarsela da solo. Invece una sera non tornò all'ovile, e dopo averlo cercato in lungo e in largo i fratelli lo trovarono a Offida, ospite di un prete suo parente che lo aveva messo a studiare. E siccome per lo studio sembrava portato, invece di bastonarlo un po' e riportarlo a casa, il fratello lo lasciò lì. Il che mi conforta nell'opinione che invece di portare i ragazzi delle medie a vedere le superiori, dovremmo mostrargli le miniere; e che l'unica vera utilità degli stage scuola-lavoro, oggi, sia quella di convincere gli studenti a rientrare a scuola, e organizzarsi per restarci il più possibile. Forse dovremmo mandarli a pascolare, tutti, una o due settimane in settembre, ora che tra l'altro i lupi sono tornati. Riscoprire il vero Don Milani, quello che lasciava scrivere ai suoi studenti allevatori "la scuola sarà sempre meglio della merda": e affinché non resti un vuoto aforisma, mandarli a spalare letame finché non implorano di memorizzare le coniugazioni. Oppure riportare in auge certe vetuste occupazioni industriali: la fresa, la mola, e persino le miniere, perché no? Certo, c'è il rischio che qualche studente preferisca vedersela coi lupi che con gli insegnanti: ma è una sfida che noi insegnanti dovremmo saper cogliere. 

Con Giacomo il lupo funzionò. Del resto ogni secolo ha gli ascensori sociali che può: nel quindicesimo un ragazzo marchigiano di umili origini e deciso a studiare non poteva probabilmente trovare di meglio che un saio francescano. Allievo del grande Bernardino da Siena, la star assoluta della predicazione tre-quattrocentesca, Giacomo si distinse presto non solo per l'arte oratoria ma anche per la determinazione con cui in coppia con l'inquisitore Giovanni da Capestrano cacciava e mandava al rogo i "fraticelli", ovvero i francescani estremisti, colpevoli di interpretare la Regola francescana in una versione oltranzista che probabilmente era quella più vicina all'originale, ma la meno gradita alle gerarchie temporali e spirituali. Questo non impediva loro di coltivare propositi vendicativi e criminali, visto che un paio di volte tentarono di farlo fuori; del primo attentato, avvenuto nel  1426, sappiamo anche il prezzo pattuito coi sicari: 200 ducati per ammazzare Giacomo, 500 per Giovanni.

Inviato dal papa in Bosnia contro gli eretici bogomilli, e più tardi in Boemia (oggi repubblica Ceca), dove Jan Hus aveva fatto da poco scoccare la prima scintilla della riforma protestante, Giacomo che da bambino non aveva voluto difendere le sue pecore dal lupo, passò tutto il resto della sua lunga vita a difendere l'ortodossia cattolica: e malgrado questo corse lui stesso il rischio di passare per eretico, quando nel 1462 sostenne pubblicamente che il sangue versato da Cristo potesse essere oggetto di venerazione (quella che si deve ai santi) ma non di adorazione (quella che i cristiani devono riservare a Dio): per Giacomo il sangue, di cui si conservavano evidentemente alcune reliquie, si era separato dalla divinità durante la Passione. L'argomento riapriva una diatriba ormai secolare coi domenicani, che sostenevano l'esatto contrario, e Giacomo aveva avuto l'ardire di parlare del sangue di Cristo predicando ai bresciani, proprio mentre l'inquisitore lombardo era un domenicano, Giacomo Petri. Ne derivò una lunga contesa che terminò salomonicamente quando Pio II, convocati i due Giacomi a Roma, impose a entrambi il silenzio sull'argomento: per cui se mi chiedete oggi se per i cattolici il Sangue di Cristo sia adorabile o venerabile, onestamente non lo so, forse non è neanche più lecito esprimere un parere; per fortuna abbiamo altri problemi. Giacomo della Marca morì quindici anni dopo, quando aveva passato l'ottantina: coriaceo e longevo come molti suoi colleghi predicatori. Ma la polemica sul Sangue, che gli aveva amareggiato gli ultimi anni di vita, ne complicò probabilmente anche il percorso verso la canonizzazione, terminata soltanto nel 1726. Nel frattempo Giacomo era stato un po' dimenticato: i pittori preferivano popolare le Sacre Conversazioni di santi già canonizzati e al di sopra di ogni polemica, e quando finalmente poterono includere Giacomo, non sapevano bene come distinguerlo dagli altri predicatori francescani secchi e smunti, come Bernardino da Siena o Bernardino da Feltre. Alcuni, avendo sentito parlare della diatriba del Sangue, gli mettevano in mano un'ampollina, ma possiamo immaginare che i vescovi non apprezzassero l'idea: un Santo dovrebbe essere identificato dalle sue azioni, possibilmente miracolose, e non da polemiche censurate del Papa. Per cui a volte dall'ampolla spunta un serpente, il che alluderebbe a un altro attentato ai danni di Giacomo, ordito dai soliti terroristi fraticelli, da cui si sarebbe miracolosamente salvato. 

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"Qualcuno doveva avere calunniato Bibi N."

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Com'è noto, la Corte Penale Internazionale ("International Criminal Court"; di solito si abbrevia ICC) ha emanato un mandato di arresto nei confronti di Netanyahu (primo ministro d'Israele) e Gallant (ministro  della difesa). I primi effetti pratici non riguardano tanto Netanyahu – che attualmente rischia molto di più per le inchieste interne che lo riguardano – ma il cortocircuito psicologico di tanti osservatori che, avendo deciso anni fa di stare a fianco Israele sempre-e-comunque, ora devono spiegare al loro pubblico e a sé stessi che sono stati a fianco di un ricercato internazionale. 

Ognuno reagisce a seconda del proprio temperamento e delle proprie priorità, il che ci consente di assistere a svelamenti molto interessanti: il Washington Post ad esempio si permette di spiegare all'ICC su quali popoli debba indagare: sulla Russia sì, sul Sudan sì... su Israele no. Gli opinionisti italiani non si sentono altrettanto autorevoli; Paolo Mieli, proponendo di indagare solo a guerra finita, lascia intravedere la preoccupazione professionale di sapere prima chi ha vinto, perché mica si può saltare su un carro così, alla cieca, senza essere sicuri che sia quello del vincitore: sono loro che scrivono la Storia, e Mieli questo si considera, uno storico. Passando dalla generazione dei padri a quella dei figli, segnalo un Mattia Feltri in fase depressiva, che è pur sempre la penultima prima dell'accettazione del lutto: il diritto internazionale, ci spiega, è un'assurdità. Che uno dice, no, aspetta, e Norimberga? Mattia Feltri ci ha riflettuto, ed ebbene sì: fu assurda pure Norimberga. Niente ha senso, se ci pensi un attimo: se Netanyahu domani si facesse Gerusalemme ~ Tel Aviv contromano ai duecento all'ora, deviando occasionalmente per mettere sotto i pedoni, non avrebbe più senso nemmeno il codice stradale, né quello penale: nulla. Del resto se invece qualcosa avesse senso, qualcuno potrebbe accusarci di connivenza, di complicità, e quindi no: abbiamo controllato bene e nulla ha senso. Qualcuno doveva aver calunniato Bibi N., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.

Altrove siamo nella fase della contrattazione, o perlomeno questo è il senso che a volte mi sembra che abbia un certo tipo di garantismo: concedere senza troppo recedere; mostrarsi informati dei fatti senza trarne fastidiose conseguenze – sì, è vero, il mandato d'arresto c'è, ma non equivale a una sentenza di condanna, non capite la differenza? Ieri per esempio Guido Vitiello stigmatizzava l'"analfabetismo giuridico" dilagante, il che è buffo: non perché in effetti non ci siano parecchi analfabeti in giro, ma perché lo scriveva su una colonna del Foglio, lo stesso Foglio che in cima recava un altro scoop di Giulio Meotti sul complotto islamista che manovra la Corte Penale Internazionale. Ne ha pubblicati due in una settimana, e chissà quanti ancora ne pubblicherà, chissà che dossier corposo entro Natale – Meotti è uno che si dà da fare, ci ha una pagina di en.wikipedia grossa così (la maggior parte della pagina consiste in una lista di ebrei che secondo lui sono antisemiti, poi ci sono le accuse di plagio che un utente romano cercava disperatamente e invano di cancellare), ma insomma Meotti è l'alunno sgobbone, non ha tempo per disperarsi o mettere i puntini sulle i. Il problema è che dopo due articoli e una settimana di lavoro, non ha ancora ancora capito quale Corte sta dossierando. 

Il 23 novembre se l'è presa col giudice Nawaf Salam "amico dei regimi e odiatore d’Israele". "Nawaf Salam è il presidente della Corte penale internazionale. Nei suoi discorsi all'Onu, ha accusato le “organizzazioni ebraiche terroristiche”, dicendo che “per troppo tempo i criminali di guerra di Israele hanno beneficiato dell’impunità”". Allego lo screenshot, hai visto mai.


Ora, Meotti avrà le sue fonti. È un giornalista che scrive le stesse cose da vent'anni e più, e non scrive nient'altro; vuoi che non le sappia? Se ha delle prove per sostenere che un autorevole giudice con un importante incarico internazionale sia un "amico dei regimi" e "odiatore di Israele", chi sono io per smentirlo? Nessuno, e infatti non lo smentisco. Mi permetto di annotare soltanto, ecco, un minutissimo dettaglio: Nawaf Salam non è il presidente della Corte Penale Internazionale (ICC). Nawaf Salam non è nemmeno un giudice dell'ICC. Nawaf Salam ha un incarico presso un altro tribunale internazionale, completamente autonomo rispetto all'ICC: si chiama Corte Internazionale di Giustizia (International Court of Justice), e di solito si abbrevia con ICJ: anch'essa ha sede all'Aja, e anch'essa nei mesi scorsi si è pronunciata sul massacro di Gaza (intimando a Israele di evitare un plausibile genocidio), per cui non è così difficile confondersi, mettiamola così. Ma un esperto di Medio Oriente, su un giornale in teoria tanto autorevole, almeno il giorno dopo avrebbe dovuto ammettere e segnalare la svista. Invece ieri Meotti ha di nuovo confuso ICC e ICJ; si vede che proprio per lui sono la stessa cosa. Analfabetismo giuridico, perlappunto – insomma, a questo professionista hanno chiesto di montare a neve tutte le voci che trova contro una corte, e lui in una settimana non è riuscito nemmeno a capire di che corte si sta parlando, e nessuno della redazione lo corregge, compreso gli esperti di diritto, ma com'è che riuscite a farvi pagare, voialtri, e a proposito, chi vi paga? 

Ah già: io. Vi pago io.
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Berlinguer (non l'eroe di cui abbiamo bisogno)

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Prima di andare a vedere Berlinguer – la grande ambizione mi chiedevo come fossero riusciti a trovare materiale per due ore di film su un personaggio senza dubbio interessante ma, diciamolo, non esattamente cinegenico (un "grigio funzionario", anche in famiglia dunque lo chiamavano così). Quando è finito Berlinguer mi sono guardato intorno smarrito: ma come, tutto qui? E la marcia dei quarantamila, il referendum sulla scala mobile, la questione morale? Avete tagliato tantissime cose!

Più che degli sceneggiatori potrebbe essere colpa delle piattaforme, con la loro serialità televisiva, che col tempo ci toglie il gusto per la sintesi. La serialità è una droga; con il trucco della reiterazione fa sì che ci affezioniamo a qualsiasi personaggio, purché ben recitato. Due ore di Germano nei panni di Berlinguer mi sono sembrate poche, ne avrei volute almeno altre due; e pazienza se si sarebbe trattato di vederlo ingrigire, tossire e agonizzare, ne sentivo la necessità. Anche perché così la storia è veramente troppo schematica: giunto al vertice del suo partito (ma come ci è arrivato?), nel momento in cui rischia di vincere le elezioni (ma perché va così forte?) il Segretario Enrico Berlinguer teme che un simile successo possa stimolare una risposta autoritaria. L'esempio del golpe cileno lo spinge a tentare una strada diversa: un "compromesso storico" col principale partito di governo, la Democrazia Cristiana. Siamo nel momento più inerte della Guerra Fredda: la mossa di Berlinguer è allo stesso tempo obbligata e imprevista. Osteggiato sia da Est sia da Ovest, poco compreso dalla base operaia del partito, il progetto trova una sponda nel segretario DC Aldo Moro: ma proprio quando tra mille cautele ed esitazioni la trattativa sembra finalmente portare a qualcosa, Aldo Moro viene sequestrato e ucciso. Fine, e scusate gli spoiler.


Ora proviamo a dire cosa poteva esserci nel film, e non c'è. Alcune cose sono riassunte veramente per sommi capi: i movimenti extraparlamentari, di sinistra (una kefiah) e di destra (la bomba in piazza della Loggia). Gli industriali (un'intervista all'Agnelli vero, che sarebbe stato molto più intrigante se interpretato da un attore: ma gli autori non se la sono sentita). Altri personaggi sono completamente rimossi: i socialisti, ad esempio; in effetti avrebbero complicato il quadro. Ogni biografia è una semplificazione, lo sappiamo. Si tratta di capire se la semplificazione funziona, se fa di Berlinguer l'eroe di una tragedia che ci interessa e ci dice qualcosa. Gli sceneggiatori non si erano dati un compito facile: c'è qualcosa, nella figura di Berlinguer che respinge tuttora le semplificazioni, gli schematismi, le agiografie. I comunisti non credevano troppo nelle figure degli eroi, e Berlinguer non riteneva necessario diventarne uno. Persino i suoi discorsi, per quanto ben scritti, non ci hanno lasciato frasi particolarmente memorabili: erano tempi diversi, non era necessario conquistarsi i titoli di giornale con battute icastiche o spiritose. Si potrebbe dire più o meno lo stesso per Moro, riscattato però da una fine tragica che a Berlinguer non è stata concessa. Berlinguer si è spento gradualmente – ucciso forse dalla nicotina che s'insinua velenosa in tutte le sequenze – nel mentre che l'Italia cominciava un processo di deindustrializzazione che ha tolto al suo partito una delle principali ragioni d'essere. Questo il film non lo racconta, anzi lo riassume in una didascalia finale in cui viene spiegato che anche negli Ottanta, gli "anni del liberismo" [???] il partito di Berlinguer continuava a tener duro. Che è proprio un errore di prospettiva storica, ma a quel punto il film è finito. Prendiamo atto che agli autori la fine del PCI non interessava. Cosa gli interessava. 

Manca anche questa vignetta, che fu importante

Il compromesso storico. La "grande ambizione" del titolo è il compromesso storico. Un'idea che Berlinguer ha formulato nel 1973 e ha abbandonato nel 1979. Una grande occasione mancata? Forse: ma soprattutto la dimostrazione più evidente del fatto che l'Italia sia uno Stato a sovranità limitata. Alla fine non importa nemmeno se Moro sia stato sequestrato e ucciso per conto dei sovietici, degli americani o da schegge impazzite come (forse) erano le BR. Né importa più di tanto la famosa "linea della fermezza" che Berlinguer scelse di adottare nell'occasione e che il film non problematizza affatto. Era un problema di equilibrio mondiale: l'Italia non poteva uscire da un blocco (Berlinguer lo sapeva), il PCI non poteva uscire da un altro blocco (Berlinguer ci provò, rischiando molto), e in questo consisterebbe la tragedia rappresentata nel film. Che oltre a raccontarci qualche anno della vita di un leader politico, come sempre ci parla di noi: della nostra sovranità limitata (possiamo assumere posizioni che non siano atlantiche?), e delle nostre nostalgie: per un partito di massa e per un leader un po' carismatico. Ecco, la nostalgia.

Quando è finito il film, mi sono appunto chiesto cosa avevo visto per tutto il tempo. Non avevo visto gli attentati, non avevo visto i movimenti, non avevo visto né Saragat né Craxi, né Leone, né i confindustriali, né un vero dibattito sul caso Moro: e quindi? Avevo visto un congresso del PCUS, qualche frammento tratto da discorsi ben più lunghi e complessi e un po' di intimità famigliare nella casa di un leader di partito, ma a parte questo come hanno fatto a tenermi in sala per due ore? Temo che la risposta abbia troppo a che vedere con la nostalgia. Che forse è una molla che porta più spettatori nelle sale, ma da un punto di vista storico è davvero la sensazione meno utile in assoluto. Sempre questa idea che da qualche parte nel nostro passato ci sia stata un'età dell'oro a cui è seguita una caduta, a causa di un qualche errore commesso da un incauto mortale. Se Togliatti avesse criticato l'invasione in Ungheria. Se le BR non avessero ucciso Moro... Se, se, se.  

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O Gramellini è antisemita o...

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Qualche tempo fa ho affermato che la "Definizione operativa di antisemitismo" dell'IHRA è un pasticcio; oggi proverò con un esempio. Avrete sentito dell'albergatore trentino che si è rifiutato di ospitare una coppia di turisti israeliani: una forma di protesta senz'altro discutibile – tutte le forme di boicottaggio lo sono – e comunicata in modo maldestro: come spesso succede quando iniziative del genere vengono prese da singoli e non da collettivi. 

Buongiorno, vi informiamo che gli israeliani, in quanto responsabili di genocidio, non sono ospiti graditi nella nostra struttura. Pertanto, se vorrete cancellare la prenotazione, saremo lieti di garantirla gratuitamente.

Qualcuno ha accusato l'albergatore di antisemitismo. Vediamo. La definizione IHRA include diversi "esempi contemporanei di antisemitismo", almeno undici.

Incitare, sostenere o giustificare l’uccisione di ebrei o danni contro gli ebrei in nome di un’ideologia radicale o di una visione religiosa estremista. L'albergatore non fa nulla di tutto questo, e non ha nemmeno parlato di "ebrei".

Fare insinuazioni mendaci, disumanizzanti, demonizzanti o stereotipate degli ebrei come individui o del loro potere come collettività – per esempio, specialmente ma non esclusivamente, il mito del complotto ebraico mondiale o degli ebrei che controllano i mezzi di comunicazione, l’economia, il governo o altre istituzioni all’interno di una società. L'albergatore non ha fatto nessun tipo di insinuazione nei confronti degli ebrei. Non ne ha parlato. 

Accusare gli ebrei come popolo responsabile di reali o immaginari crimini commessi da un singolo ebreo o un gruppo di ebrei, o persino da azioni compiute da non ebrei. L'albergatore non ha accusato gli ebrei di nulla. Non ha parlato di ebrei.

Negare il fatto, la portata, i meccanismi (per esempio le camere a gas) o l’intenzione del genocidio del popolo ebraico per mano della Germania Nazionalsocialista e dei suoi seguaci e complici durante la Seconda Guerra Mondiale (l’Olocausto). L'albergatore non ha parlato di nazisti, Germania o seconda guerra mondiale (e nemmeno di ebrei).

Accusare gli ebrei come popolo o Israele come stato di essersi inventati l’Olocausto o di esagerarne i contenuti. L'albergatore non ha parlato dell'Olocausto (né degli ebrei "come popolo").

– Accusare i cittadini ebrei di essere più fedeli a Israele o a presunte priorità degli ebrei nel mondo che agli interessi della loro nazione. L'albergatore non  ha formulato nessuna accusa nei confronti di alcun cittadino ebreo. In generale non ha proprio parlato di ebrei.

– Negare agli ebrei il diritto dell’autodeterminazione, per esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo. L'albergatore non ha negato agli ebrei il diritto all'autodeterminazione (non ha proprio parlato di ebrei), né ha sostenuto che Israele sia un'espressione di razzismo.

Applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico. All'ottavo punto, fateci caso, la parola "ebrei" è scomparsa, e l'antisemitismo viene a indicare soltanto chi se la prende con "Israele". È il caso dell'albergatore? Se avesse usato "due pesi e due misure" – un cliché linguistico che è tipico della propaganda israeliana – se avesse richiesto a Israele "un comportamento non atteso da" / "non richiesto a nessun altro Stato democratico"... ecco, mettiamola così: se ogni "Stato democratico" si arrogasse il diritto a commettere almeno un genocidio, le critiche dell'albergatore dimostrerebbero questa volontà di applicare "due pesi e due misure". Qualcuno potrebbe obiettare che è andata proprio così: se gratti bene sotto ogni "Stato democratico" trovi un ex impero coloniale che qualche genocidio potrebbe averlo commesso. Non siamo forse ipocriti, a criticare Israele per cose non molto dissimili da quelle che gli italiani fecero in Libia o in Etiopia? (È una domanda retorica. No, non siamo ipocriti. La memoria dei genocidi passati non scusa i genocidi presenti). 

– Usare simboli e immagini associati all’antisemitismo classico (per esempio l’accusa del deicidio o della calunnia del sangue) per caratterizzare Israele o gli israeliani. Notate anche qui come la parola "ebrei" sia scomparsa del tutto: il problema qui è che qualcuno potrebbe prendersela con gli israeliani. E senz'altro se li chiamasse deicidi o usasse contro di loro "la calunnia del sangue", che non viene ulteriormente definita perché chi ha scritto queste righe dà per scontato che tutti la conoscono, starebbe attingendo a un repertorio antisemita, ma è comunque curioso il lapsus per cui queste dicerie sarebbero antisemite se rivolte agli "israeliani". E se qualcuno le rivolgesse agli ebrei non israeliani, non sarebbe ugualmente antisemita? Sembra ovvio, ma la "definizione" non lo dice: e non lo dice per il semplice motivo che è scritta male. Comunque l'albergatore "non ha usato simboli e immagini associate all'antisemitismo classico", andiamo avanti.

Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti. Il famoso reato di "Holocaust inversion" per cui molti sionisti vorrebbero le dimissioni dell'Albanese. Ne abbiamo parlato e ne riparleremo – qui in sostanza sono gli israeliani a chiedere per loro un peso e una misura diversi da tutte le altre nazioni, le cui politiche possono essere paragonate al nazismo, mentre ciò che fanno loro dovrebbe essere imparagonabile per definizione. Per ora ci è sufficiente notare che l'albergatore non ha fatto paragoni coi nazisti. 

Considerare gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele. Beh, diciamo che ci è andato vicino, considerando due turisti israeliani "collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele". Il che tra l'altro è nello spirito di qualsiasi boicottaggio. Ma i due turisti sono stati respinti in quanto israeliani, non in quanto ebrei. 

Insomma l'azione intrapresa dall'albergatore, per quanto criticabile, non sembra rientrare negli esempi contemplati dalla Definizione Operativa. È pur vero che la stessa Definizione ammette di non essere esaustiva, il che introduce un altro problema: quanti altri casi di antisemitismo possono sussistere, e a chi spetta identificarli? 

Forse a Gramellini?


Passiamo sopra il virgolettato assurdo ("ritenendoli responsabili": chi lo ha detto?), e il tentativo maldestrissimo di arruolare Primo Levi, che dal sionismo prese le distanze con una lucidità chiaroveggente. Gramellini è convinto che qualsiasi forma di boicottaggio nei confronti di Israele sia antisemitismo. Siccome ha bene in mente esempi di boicottaggio nei confronti di altri Paesi (la Russia), li liquida come poco seri: va bene, sarà stato cancellato un seminario su Dostoevskij, e che sarà, una barzelletta. No, non è una barzelletta: abbiamo rinunciato al turismo russo, abbiamo smesso di vendere i nostri prodotti ai russi, tuttora paghiamo bollette salate pur di comprare meno gas possibile dai russi. (E prima dei russi boicottavamo i sudafricani, ecc.) L'episodio dell'albergatore viene incluso in una serie di episodi che dimostrerebbero "un umore diffuso nella società civile che associa ogni ebreo alle azioni del governo d'Israele". Si tratta di una serie brevissima: due episodi appena, e molto circoscritti. Nel caso dell'albergatore, come abbiamo visto, non si può proprio dire che quest'ultimo abbia associato "ogni ebreo" alle azioni del governo di Israele: non se l'è presa coi due clienti in quanto "ebrei". Non ha proprio usato la parola. 

L'ha usata Gramellini.

E perché l'ha usata?

L'unico motivo che mi viene in mente è che Gramellini consideri gli ebrei "collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele", il che però per la Definizione Operativa è un evidente caso di antisemitismo. 

Ne conseguono due possibilità: o Gramellini è un pericoloso antisemita, o la Definizione Operativa è scritta così male che può essere usata contro chiunque. Scegliete voi, io ho fatto tardi. 
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