Meritis et nomine Felix
14-01-2025, 01:06santiPermalink14 gennaio: San Felice da Nola (III secolo), protettore di Paolino.
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Dopo tanti anni possiamo anche dircelo, che le leggende dei martiri si assomigliano un po' tutte. Molto prima dell'introduzione di intelligenze artificiali in grado di produrre agiografie in serie, i monaci e i cronisti si stavano già conformando a standard precisi: vite più o meno simili, miracoli a volte identici, e poi durante una persecuzione un eroico coming out davanti a un magistrato romano se non allo stesso imperatore – quest'ultimo presto o tardi diventa Diocleziano. Il caso di Felice da Nola è un'eccezione che ci mostra proprio quanto fosse vincolante la regola: la sua storia è molto diversa dalle altre proprio perché invece di ricadere nella procedura standard con cui venivano redatte le Passiones, a Felice capita per una circostanza fortuita di diventare, un secolo dopo, il santo preferito di uno scrittore molto diverso dai mediocri compilatori di agiografie: Ponzio Meropio Paolino, esponente dell'aristocrazia senatoriale galloromana.
Paolino nasce a Burdigala (Bordeaux), rampollo di una ricchissima famiglia le cui proprietà si estendono dalla Spagna fino alla Campania. Da quel che scrive – ma non dobbiamo credergli per forza – San Felice è una presenza costante nella sua vita, sin dall'infanzia, quando è tutt'uno col ricordo di quel piccolo santuario che aveva visitato già da bambino. Vi ritorna ventenne, dopo la morte del padre, per il taglio della barba, una cerimonia che sancisce l'entrata nella vita adulta. Negli anni successivi intraprende una carriera politica, o forse vi è costretto dal suo lignaggio e dalle circostanze: ma sono anni difficili, l'Occidente scricchiola, e Paolino non è il solo ad avere un presentimento della fine. Dopo essere tornato a Nola come governatore della Campania, Paolino deve tornare a Burdigala dove succede qualcosa che la sua pur cospicua corrispondenza non ci aiuta a chiarire. Paolino si converte (benché avesse caro il santuario di San Felice, fino a quel momento non era ancora battezzato) e sposa una ricca cristiana, Terasia, ma nel contempo comincia a vendere tutte le sue immense proprietà, in previsione di un ritiro alla vita contemplativa che non si concretizzerà mai. È una decisione clamorosa, che lascia sbigottiti gli ex sodali pagani, ma che potrebbe anche essere stata dettata dalla necessità di riabilitarsi in seguito a una caduta in disgrazia. Forse Paolino, come altri rilevanti personaggi della Chiesa gallica, aveva da farsi perdonare una 'sbandata' per Priscilliano, il carismatico vescovo di Avila che verso il 380 cadde in disgrazia e fu condannato a morte nel 385 con l'accusa di stregoneria; per la prima volta un eretico veniva giudicato e giustiziato dalle autorità imperiali. Priscilliano magari aveva davvero pasticciato con concetti cristiani e astrologia pagana, ma a renderlo indigesto alle autorità religiose e politiche era anche la la veemenza con cui le accusava di corruzione. In ogni caso dopo la condanna nessuno più osò riabilitarlo; nello stesso periodo Paolino perse un fratello in circostanze mai chiarite, decise di mettere all'asta gran parte dei suoi possedimenti e se ne andò prima a Complutum, in Iberia; poi, dopo la morte precoce dell'unico figlio, di nuovo a Nola. Qui ritrova San Felice, ed è come ricongiungersi come un amico d'infanzia.
Paolino sceglie di festeggiare il 14 gennaio il suo nuovo compleanno, celebrandolo con una serie di poesie dedicate a San Felice. Le informazioni sarebbero ricavate dalle narrazioni orali dei contadini che il 14 gennaio accorrevano a Nola da tutta la Campania. Ne risulta una storia piuttosto diversa da quella tipica delle Passiones: basti pensare che per quanto fosse venerato come martire, Felice non era stato ucciso dai suoi persecutori. La sua vita risulta più simile a quella del militante di un'organizzazione passata in clandestinità: tratto in arresto, Felice non aveva rivelato nemmeno sotto tortura il luogo nella foresta dove si era nascosto il vescovo di Nola, Massimo. Liberato da un angelo, Felice viene condotto miracolosamente nel nascondiglio, dove Massimo rischia di morire di fame. Felice lo salva grazie al succo di un'uva cresciuta miracolosamente, se lo carica sulle spalle e lo riporta in città, dove la persecuzione sembra essersi temporaneamente placata. Quando le cose tornano a farsi pericolose, Felice si nasconde in una cisterna: una donna che non lo conosce gli porta comunque il cibo per sei mesi. Quando finalmente l'editto di Costantino pone termine alle persecuzioni, i nolani propongono a Felice la carica di vescovo, ma lui rifiuta e si ritira in campagna, dove continua ad aiutare i contadini non lesinando i miracoli. In qualche aspetto della vita di Felice, Paolino poteva rispecchiarsi – se non si è inventato tutto di sana pianta, come aveva fatto qualche anno prima uno dei punti di riferimento di Paolino, Sant'Ambrogio, inventandosi i martiri milanesi Gervaso e Protasio per nobilitare la cattedrale che stava costruendo.
La figura di Felice diventa, per Paolino, quella di un maestro di vita, lontano dalle complicazioni teologiche che l'intellettuale rifuggiva (e che forse lo avevano messo nei guai). Le poesie di Paolino ci mostrano che il culto per i santi, già nel terzo secolo, era radicato nei ceti più popolari e si praticava anche in assenza di testi scritti, che arrivarono più tardi, omologando riti e credenze. La fissazione di Paolino per Felice data da molto prima del suo battesimo, e dalla sua reale adesione ai valori cristiani: può darsi che in essa sussista la devozione che i pagani avevano per i Lari, gli dèi della casa; in effetti, per quanto Paolino possa invocare Felice anche quando si trova altrove, appare chiaro che Felice è legato al suo luogo di appartenenza, proprio come i Lari. Paolino non ha inventato le campane, come qualche agiografo suggerisce, ma è probabilmente il primo a definire Felice il suo "patronus", in un periodo in cui la parola aveva una pregnanza ancora legata al mondo classico; patronus poteva significare "avvocato", ma soprattutto il ricco protettore che si circondava di "clientes". Affermando di essere rinato in Felice, Paolino celebra sé stesso: non più governatore della Campania ma vescovo di Nola (un ruolo che forse si inventa, visto che è l'unico a disporre di informazioni sul vescovo che l'avrebbe preceduto). I grandi capitali di cui doveva disporre dopo la vendita delle sue proprietà vengono reinvestiti nella costruzione del complesso delle basiliche di Cimitile, dove Paolino si farà seppellire accanto ai resti del suo santo protettore.
Due preti a Dachau
09-01-2025, 01:28memoria del 900, santiPermalink9 gennaio: Beati Jozef Pawlowski (1890-1942) e Kazimierz Grelewski (1907-1942), martiri polacchi nel campo di concentramento di Dachau.
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Dachau |
Il caso del sacerdote più giovane, don Grelewski, è più indicativo perché in nessuna biografia, nemmeno tra quelle in lingua polacca, si riesce a trovare qualcosa di più antinazista del fatto che "insegnava clandestinamente", essendo prefetto di una scuola che i nazisti avevano chiuso. Il fatto è che nel 1941 un prete polacco non aveva bisogno di aiutare gli ebrei o di opporsi al regime per essere perseguitato. Anche insegnare catechismo e lingua polacca in molte situazioni era proibito. La Chiesa cattolica era già nel mirino dei nazisti: e se la quantità delle vittime (quasi tremila, più o meno il 18% del clero polacco) non è paragonabile a quello delle altre minoranze perseguitate, la repressione era comunque già sistematica e concentrata sugli insegnanti. La soppressione del clero era parte di una politica di persecuzione dell'intero popolo polacco, perché se è vero che i tedeschi dal 1942 consideravano lo sterminio degli ebrei come prioritario, l'eliminazione dell'etnia polacca era già stata avviata nel maggio del 1939 con l'operazione Tannenberg. Ai tre milioni di ebrei polacchi caduti nei campi di sterminio vanno aggiunti circa due milioni di polacchi non ebrei (perlopiù cattolici). Pawlowski e Grelewski fanno parte del gruppo di 108 martiri polacchi beatificati da Giovanni Paolo II nel 1999.
Due vescovi scozzesi, e i loro pesci
07-01-2025, 11:48santiPermalink8 gennaio: San Nathalan, vescovo in Scozia (VII secolo)
Prima di diventare vescovo di Aberdeen, Nathalan era il tipico nobile che pretendeva di aver trovato Dio nella campagna. Altro che libri e preghiere: zappare bisogna, seminare e raccogliere, e quel che avanza darlo ai poveri. Per un po' Dio sembra dargli corda: poi un giorno di mietitura gli manda la grandine, forse per metterlo alla prova o per altri suoi misteriosi disegni. Nathalan questa cosa non la prende bene, insomma si lascia sfuggire almeno un'imprecazione: pentitosi immediatamente, decide di espiare ammanettandosi la mano destra alla gamba sinistra e gettando la chiave nel mare.
A questo punto, se già immaginate che qualcuno verso la fine della leggenda pescherà un pesce con una chiave dentro, non è un caso: la pesca miracolosa è uno dei topos più diffusi nelle leggende dei santi. Probabilmente nel martirologio ce n'è una alla settimana, a cercare bene. Comunque Nathalan a recuperare la chiave non ci pensa nemmeno: la sua idea è quella di recarsi così ammanettato fino alle tombe degli Apostoli a Roma, e solo lì farsi sciogliere le catene dal papa o da un fabbro. Ma appunto una volta arrivato a Roma, cosa gli capita di acquistare al mercato? Un pesce, esatto: e dentro il pesce indovinate cosa c'è? La nomina a vescovo di Aberdeen! No, scherzo, c'è la chiave. La nomina arriva dal papa, richiamato dal clamore per un miracolo in realtà così tipico, il pesce con la sorpresa. Probabilmente quando fai il papa un miracolo così lo senti una volta al mese.
13 gennaio: San Kentigern protovescovo di Glasgow (518-603), anche conosciuto come "Mungo"
Quando ho scritto che nel calendario c'è probabilmente una pesca miracolosa alla settimana, avrete pensato vabbe', esagera. E invece sentite cosa combina San Chentigerno (che a Glasgow tutti chiamano col soprannome affettuoso "Mungo", dal gaelico "mio caro").
Languoreth, regina di Strathclyde, si rivolge a lui disperata perché suo marito Riderico vuole vedere l'anello che le ha regalato. Languoreth in effetti aveva avuto la sconsiderata idea di regalarlo al cavaliere suo amante (altro tipico tropo delle leggende medievali), che però non lo trova più. Quello che non sa è che il re lo ha visto al dito del cavaliere mentre dormiva: glielo ha sfilato senza svegliarlo e lo ha gettato in mare. L'abate Mungo si fa raccontare la storia, manda un suo monaco a pescare, il monaco trova l'anello nel pesce, l'onore di Languoreth è salvo.
Ora, un santo tipico magari avrebbe perso tempo a fare una paternale alla regina, che non solo ha tradito il suo marito, ma anche il suo re, e oltretutto per giacere con un deficiente che si addormenta in giro con una prova del tradimento al dito. Ma questo non è un santo tipico: è Mungo, fondatore di Glasgow e patrono non solo di questa città tanto difficile, ma anche delle donne infedeli. Infedele era stata sua madre, la principessa Teneu, che aveva avuto una relazione con un principe già maritato, Owain (quest'ultimo già sposato). Il padre di Teneu, re Lleuddun, li aveva scoperti un attimo dopo il concepimento di Mungo, e aveva fatto gettare la figlia dal Traprain Law, un'altura su cui i Romani avevano costruito un forte.
Lleuddun era precipitata sino al mare, in una zattera su cui aveva attraversato l'estuario del Firth of Forth: e anche questo (il tuffo da un'altura fino al mare) è un tropo medievale o anche più antico. Secondo un'altra fonte Teneu era stata violentata da Owain, e questa versione molto più cruda potrebbe essere l'originale, poi corretta nel momento in cui Owain, ribattezzato Ywain, finisce nel Ciclo Bretone e diventa un cavaliere senza macchia e senza paura. Perché siamo appunto nelle brume dell'Inghilterra arturiana: uno degli antagonisti pagani di Mungo potrebbe essere il modello su cui poi è stato inventato mago Merlino. Ma non è un caso che tra tanti miracoli di questo uomo pio, i suoi concittadini ricordino più volentieri la storiaccia di corna in cui conferma la versione di una fedifraga, la leggenda del "pesce che non nuotò", al punto da disegnare il salmone con l'anello nello stemma cittadino. Lo stesso motto della città ("Let Glasgow flourish") deriva da una frase pronunciata dal santo quando ne fondò l'abbazia: Che Glasgow fiorisca dalla predicazione della Tua parola e dall'invocazione del Tuo nome. Gli abitanti, forse consapevoli di non essere i devoti che Mungo si sarebbe meritato, hanno mantenuto soltanto la prima parte: che Glasgow fiorisca.
Genoveffa resiste
03-01-2025, 00:00Francia, santiPermalink3 gennaio: Santa Genoveffa di Parigi (420-512)
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Santa Genoveffa disarma Attila (Etienne-Hippolyte Maindron, 1857) |
"Genoveffa" suona buffo, non tenterò di negarlo. Sembra uno di quei nomi escogitati dai famigliari per chiarire sin dall'inizio che la bambina è destinata al chiostro, come il manzoniano Gertrude. Le cose non stanno proprio così; per prima cosa, in francese "Geneviève" suona molto meglio, o David Crosby non lo avrebbe usato per una delle sue più evocative canzoni. Non sappiamo esattamente cosa significhi: in qualche dialetto paleogermanico suonerebbe "moglie di razza", ma anche "molto irrequieta", il che le si addice di più. Perché Genoveffa non è la tipica monaca reclusa, no. O meglio: monaca non lo era perché il monachesimo non aveva ancora preso piede; reclusa in teoria sì (apparteneva a un gruppo di "vergini cristiane" che vivevano coi genitori, digiunavano spesso e mettevano il velo). Ma le circostanze la portano più volte a uscire di casa e ad assumere un ruolo di protagonista.
In effetti la leggenda di Santa Genoveffa apre uno spiraglio, forse illusorio, sul momento più buio della storia di Parigi, suggerendoci che in assenza di uomini atti al comando, una donna abbastanza irrequieta avrebbe potuto sobbarcarsi dell'incarico. Tutto questo, mille anni prima che Giovanna d'Arco espugnasse Orléans; millequattrocento anni prima che Louise Michel esortasse i comunardi di Parigi alla resistenza. È abbastanza curioso che le donne più irrequiete e volitive delle cronache medievali provengano dalla Francia, il regno che più recisamente aveva escluso le donne dalla successione al trono. E siccome questa esclusione avviene proprio negli stessi anni, con la legge Salica emessa da re Clodoveo, è singolare che la storia della Donna Molto Irrequieta sia stata messa per iscritto proprio su richiesta della regina Clotilde, moglie di Clodoveo. Una mossa per controbattere il patriarcato, almeno sul piano della narrazione? Oppure una suddivisione di ruoli: voi maschi vi tenete il trono, noi ci prendiamo le leggende. Tutto questo nel caso che la Vita sanctae Genovefae sia stata davvero scritta, come sostiene l'autore, appena 18 anni dopo la morte della santa; il che ne farebbe una delle rare testimonianze letterarie della Francia nel tenebroso VI secolo. Non tutti gli storici si dicono d'accordo; alcuni la post-datano anche di duecento anni, il che avrebbe un senso perché la Vita contiene già quei tipici elementi che di solito vengono aggiunti alle agiografie in un secondo momento, ad esempio i dettagli sull'infanzia. L'autore in effetti ci tiene a ricordare che l'eccezionalità di Genoveffa fu riconosciuta subito da un legato papale, San Germano di Auxerre, che la consacrò a sei anni (quando ancora viveva a Nanterre coi genitori) e tornò a salutarla quando ne aveva 27, i genitori erano morti e si era trasferita da una parente a Parigi, appena prima che avesse inizio la fase propriamente eroica della sua vita. Sono appunto i classici particolari che i cronisti aggiungono alle leggende per omologarle, rassicurando i lettori sull'ortodossia di una santa che si trovava a operare in un momento in cui il cristianesimo romano non era necessariamente la religione maggioritaria: Franchi e Visigoti erano di credo ariano.
In ogni caso Genoveffa rimane un caso a parte; non è una martire, né una monaca di stirpe regale; non è nemmeno così strano che la storia della sua vita faccia un po' a pugni con quel che sappiamo della storia di Parigi, perché di Parigi in quel periodo non sappiamo così tanto. Non è nemmeno chiarissimo chi la governasse quando nel 451 in città divampa il panico: stanno arrivando gli Unni, l'obiettivo di Attila è saccheggiare tutte le città dal Reno al mare. Quando gli "uomini" propongono di evacuare la città, Genoveffa si fa sentire: "Che gli uomini fuggano, se vogliono e se non sono più capaci di battersi. Noi donne pregheremo Iddio così tanto che ascolterà le nostre suppliche". A quel punto, benché qualcuno proponga di buttarla nella Senna, la maggior parte degli abitanti decide di resistere all'assedio. Attila effettivamente risparmierà Parigi, non è chiaro il perché: durante la campagna del 451 penetrò molto più a ovest. Forse cominciava a sentirsi in trappola: tra le truppe serpeggiava un morbo simile al colera, e Romani e Visigoti lo stavano per sconfiggere ai Campi Catalaunici (non è chiaro dove ma un po' più a est, magari nella Champagne). È difficile trovare una logica nel percorso di un re che dava molta importanza ai presagi: arrivato alle porte di Parigi, avrebbe sentito che la citta non gli portava fortuna. Solo molto più tardi gli artisti avrebbero iniziato a raffigurarla in scene in cui incontra fisicamente il re degli Unni – insomma Genoveffa sarebbe per Parigi quello che Leone Magno è per Roma. Un'altra cosa a cui Attila dava molta importanza, oltre ai presagi, era l'oro; in effetti a quel punto gli Unni non erano l'orda disorganizzata che ci piace immaginare, ma un esercito che si spostava con obiettivi abbastanza precisi, e prima di praticare la razzia domandavano sempre se la città non preferisse pagare un riscatto in metalli preziosi. Forse l'intervento di Genoveffa servì a risolvere la questione; più che una profetessa, si tratterebbe di una nobildonna che non essendosi sposata aveva mantenuto per sé i privilegi politici del padre, membro della curia di Parigi. Il suo discorso risolutivo, Genoveffa lo avrebbe pronunciato quindi nell'assemblea più importante della città. Non è nemmeno escluso che grazie a contatti tra i ranghi dei Franchi e dei Visigoti, Genoveffa possedesse informazioni sui movimenti degli eserciti che gli altri notabili non avevano, e che l'esortazione a non evacuare la città fosse basata su osservazioni oggettive.
Che Genoveffa occupi una posizione di potere ce lo lasciano sospettare gli avvenimenti successivi: quando cinque anni dopo sono i Franchi ad assediare Parigi, la santa conduce personalmente un'imbarcazione lungo la Senna, fino ad Arcis-sur-Aube, per fare scorta di grano. La situazione sembra intonarsi all'immagine di una matrona dotata di coraggio e spirito d'iniziativa più che a un'asceta che mangiava due volte alla settimana. Quando si tratta di riscattare dei prigionieri, è Genoveffa che tratta col re Childerico, e poi col figlio Clodoveo che avrebbe operato la fondamentale conversione dei Franchi dall'arianesimo al cristianesimo romano. È facile immaginare che Genoveffa, con la sua autorevolezza, abbia svolto un ruolo chiave in questa conversione che tanta fortuna portò ai regnanti della dinastia merovingia: è facile immaginarlo, ma l'autore della Vita non lo scrive. Si limita a raccontare che Clodoveo chiese di essere sepolto nella basilica dei Santi Apostoli, che aveva fatto costruire intorno alla tomba di Genoveffa, morta a novant'anni se non più. Venerata come co-patrona di Parigi, Genoveffa avrebbe subito la volubilità dei parigini, che durante la Rivoluzione fusero l'oro del rivestimento della cassa e ne distrussero i resti; per fortuna un avambraccio e qualche falange erano stati regalati ad altre parrocchie, perché è tutto quello che resiste di lei nella tomba che ora si trova in Santo Stefano al Monta (St.-Etienne-au-Mont), nel quinto arrondissement.
Gregorio il disarcivescovocostantinopolizzato
02-01-2025, 00:02santiPermalink2 gennaio: San Gregorio di Nazianzo (329-390), patriarca riluttante.
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Mosaico alla Martorana di Palermo, Di Jastrow - Opera propria, CC BY 2.5. |
Il secondo giorno di gennaio ci ripropone uno degli interrogativi più enigmatici della nostra infanzia, forse il solo che presto o tardi non ha ricevuto alcuna risposta, ovvero: se l'arcivescovo di Costantinopoli si disarcivescovocostantinopolizzasse, vi disarcivescovocostantinopolizzereste voi?
Voi come rispondevate? Sì, mi disarcivescovocostantinopolizzerei subito, ci mancherebbe altro... o piuttosto: no, dovrebbero venire a disarcivescovocostantinopolizzarmi con la forza. Magari era un test sul temperamento, va' a sapere. Come molti scioglilingua, non siamo in grado di risalire all'autore. Riteniamo che non debba essere molto antico, perché a differenza di tanti altri – forse di tutti gli altri – la filastrocca non si basa su cacofonie o omofonie di origine dialettale. In effetti la sua peculiarità è proprio che non contiene né cacofonie (nessuna sillaba ripetuta) né omofonie (nessun suono che possa avere due significati, e pertanto si possa equivocare). Potete verificare facilmente quanto questi siano gli ingredienti di base di ogni scioglilingua popolare, tranne appunto quello dell'arcivescovo, che rientra in una categoria tutta sua: un gioco su due fenomeni linguistici più tipici dell'italiano scritto che di quello colloquiale o dialettale. Il primo fenomeno sono le parole sdrucciole (cioè con l'accento sulla terzultima), che non sono poi così infrequenti, ma conferiscono un tono particolarmente aulico quando sono pescate da un lessico specifico, in questo caso storico: "arcivescovo" e "Costantinopoli". L'altro fenomeno è il famigerato periodo ipotetico di secondo tipo, quello che ci costringe a flettere i verbi al congiuntivo imperfetto ("disarcivescovocostantinopolizzasse" e al condizionale presente "disarcivescovocostantinopolizzereste"), una regola che non interiorizziamo a sufficienza, a giudicare non solo dalla quantità di errori che commettiamo, ma dall'imbarazzo con cui li gestiamo. Ci sarebbe anche un terzo fenomeno, ovvero quello che ci consente di inventare nuove parole componendo parole più brevi, salvo che non è veramente un fenomeno tipico dell'italiano, quanto ad esempio del tedesco; per cui non mi stupirei se la filastrocca provenisse da un ambito germanofono (ma per ora non l'ho trovata) o da un ambiente liminare in cui la lingua tedesca poteva ispirare parodie (il Lombardoveneto?)
L'enigma non riguarda soltanto l'origine dello scioglilingua, ma si estende anche al suo contenuto: chi è l'arcivescovo disarcivescovocostantinopolizzato, e per quale motivo avrebbe dovuto disarcivescovocostantinopolizzarsi? La Storia ci consegna più di un prelato che avrebbe potuto ispirare l'autore: uno dei più celebri è senz'altro Giovanni Crisostomo, che fu disarcivescovocostantinopolizzato a forza dall'imperatore Teodosio II. Ma potrebbe anche trattarsi di Gregorio Nazianzo, che si disarcivescovocostantinopolizzò spontaneamente, appena qualcuno gliene fornì un pretesto. Da qui in poi lo chiamerò Greg, come nei miei vecchi appunti di quando frequentavo Storia del Cristianesimo (a dire il vero lo chiamavo Greg Nazi, per distinguerlo da Greg Nissa, Greg Magno e Greg Tours, ma non vorrei terrorizzare l'algoritmo).
Dando un'occhiata alla famiglia, Greg doveva diventare santo per forza. Santo il papà (Gregorio il Vecchio), santa la mamma (che si chiamava Nonna), santa la sorella Gorgonia, santo il fratello Cesario, santo il migliore amico Basilio che si festeggia anche lui il 2 gennaio, santo persino il fratello del migliore amico, Gregorio di Nissa, insomma il Nazianzeno non aveva scelta: che figura ci avrebbe fatto con amici e parenti? Ovviamente sto barando: tutta questa caterva di santi cappadoci sul calendario c'è arrivata soprattutto grazie alle orazioni funebri di Greg, che di tutti era il più bravo con le parole e ci avrebbe convinto anche a canonizzare il cane, se avesse voluto. Ma rimane la sensazione che si trovasse un po' a disagio col suo destino di santità, in quel turbolento quarto secolo in cui si conquistava soprattutto amministrando diocesi e difendendo l'ortodossia nicena dagli eretici ariani. Greg, uomo di lettere, non si sentiva tagliato per nessuna delle due cose.
Quando Basilio lo implora di assumersi gli oneri di vescovo almeno nella piccola città di Sasima, Greg cede alla richiesta dell'amico ma se la squaglia subito (entrare a Sasima, controllata dagli ariani, non sarebbe stato semplice). Più dell'amico può la famiglia: a Nazianzo c'è bisogno di lui, il padre è troppo anziano, Greg gli dà una mano ma alla sua morte (374) si ritira nel monastero di Santa Tecla, forse per evitare che a qualcuno venga in mente di offrire al figlio l'incarico del padre. In questo modo però si ritrova libero da grossi incarichi e incapace di dire di no quando cinque anni più tardi Basilio gli chiede di sedere sulla cattedra più scomoda di tutte, quella di Costantinopoli. In effetti nella capitale gli ariani sono la maggioranza, e anche se il nuovo imperatore Teodosio si è schierato dalla parte dei cristiani ortodossi, salire sulla cattedra scortato dalle guardie imperiali è oggettivamente rischioso.
D'altro canto, dire di no a Basilio sarebbe come tradire la Trinità, e quindi il raffinato scrittore si ritrova in prima linea contro gli ariani, che non piacciono più all'imperatore ma in compenso hanno il polso del popolo. Contro di loro, Gregorio impugna tutta la sua eloquenza in un ciclo di omelie che sono considerate il suo capolavoro – anche se il brano per cui in assoluto è più citato non l'ha scritto lui, ma il suo collega e amico Gregorio di Nissa. In un modo o nell'altro riesce a conservare la cattedra fino al concilio ecumenico del 381: la sua intenzione era approfittare del concilio per sottoporre la sua nomina all'assemblea dei vescovi, e invece si ritrova a sorpresa a dirigerne i lavori perché l'unico prelato che lo sopravanza in prestigio, l'arcivescovo di Antiochia, nel frattempo è morto. Bisogna eleggerne un altro, il che richiede grandi doti di mediazione e forse Greg non le ha, o non vuole più averle, insomma quando i rappresentanti di una fazione avversa mettono in dubbio la legittimità della sua carica, visto che si era arcivescovocostantinopolizzato quando era ancora formalmente vescovo di Sasima, invece di ridergli in faccia (a Sasima non ci era proprio mai entrato), scrive una grossa tirata contro le divisioni della Chiesa e si disarcivescovocostantinopolizza seduta stante. Aveva da poco passato la cinquantina: si ritirò a Nazianzo, dove finalmente lo lasciarono studiare e scrivere in pace. Morì sei anni più tardi, disarcivescovocostantinopolizzato e felice (questo pezzo è stato scritto senza copia-incolla).
L'anno che vissi due volte
31-12-2024, 19:252025, autoreferenzialiPermalinkSi avvicina l'anno nuovo, il che non significa niente: è una scelta arbitraria che abbiamo fatto a un certo punto, di cominciare gli anni in gennaio. Ma nel conteggio che va per la maggiore in Occidente, il prossimo anno è il... 2025. Che per questo blog non è esattamente un anno qualsiasi, vero?
(Perché questo è un blog, ogni tanto va ricordato. Si tratta di un tipo di sito internet a carattere prevalentemente testuale che andava per la maggiore... vent'anni fa. Anzi ormai possiamo dire che ha smesso di andare per la maggiore proprio vent'anni fa).
Si tratta di un anniversario che non posso fingere di ignorare: ma nemmeno posso fingere che non mi causi un certo fastidio. Diciamo che il 2025, su questo blog, è stato già coperto. Vent'anni fa infatti successe questa cosa bizzarra: prima annunciai che non avrei scritto più "per un po'" – una bieca strategia per attirare l'interesse – salutando i lettori con un criptico "Ci si vede tra vent'anni": dopodiché cominciai a scrivere pezzi che erano ambientati vent'anni dopo, in un futuro che al tempo mi sembrava molto lontano. Andai avanti più o meno per tutto il 2005, producendo una specie di narrazione che non funzionava molto (l'aspetto più frustrante della cosa è che me ne rendevo conto mentre la scrivevo). Tuttora, quando mi ritrovo davanti a qualche vecchio pezzo, mi viene la tentazione di cancellare l'intera annata; come se poi fosse così tanto peggio dell'annata precedente, o della successiva... beh, sì. È abbastanza peggio.
Siccome in quei dodici mesi il blog rimase ambientato in un futuro distopico, sarebbe interessante verificare la differenza tra questo futuro e la realtà. Il problema è che non ho proprio voglia di rileggermi, per cui vado a memoria: l'Italia non era più una penisola, bensì una specie di arcipelago, sorretto da un regime definito Teopop (erano sigle che andavano per la maggiore al tempo, c'erano i Neocon e i Teodem). A capo di questo regime c'era Berlusconi (non riuscivo evidentemente a immaginarlo defunto), un Berlusconi ringiovanito dai prodigi della chirurgia estetica, addirittura capellone, non più Presidente ma Pontefice Massimo (in un primo momento non avrebbe dovuto essere il papa, ma il vicario di un Wojtyla in sospensione criogenica, vittima di un perpetuo accanimento terapeutico; dopodiché in aprile morì anche lui). Il protagonista, cioè io con vent'anni in più, vivacchia di due o tre mestieri (proprio come facevo in quel periodo), tra cui la riscrittura del passato recente (cioè il 2005). Insomma ero una specie di Winston, che invece di tenere un diario continuava ad aggiornare il vecchio blog, cioè questo. L'idea non era così malvagia, ma serviva un'esecuzione più brillante, e soprattutto avrei dovuto sapere sin dall'inizio dove andavo a parare. Invece no, non lo sapevo: mi ero buttato. Già ai tempi mi struggevo di questa cosa, di non essere in grado di costruire un intreccio. È un deficit grave per una persona che vorrebbe scrivere. Se fossi un disegnatore, sarei quello che riesce a disegnare solo oggetti in primo piano ma è incapace di inserirli in un ambiente. È come se mi mancasse un'intera dimensione – se sapessi spiegarmi meglio, probabilmente non soffrirei di questo problema. Ambientare il blog nel futuro, costringermi a diventare un personaggio di una storia, era un modo per forzarmi la mano: avevo un anno a disposizione per scrivere una storia. Tutto il tempo che negli anni passati avevo dedicato al blog, ora ero costretto a dedicarli a una storia. Se non ci fossi riuscito, avrei distrutto il blog, che in quel momento era una delle cose a cui tenevo di più.
Faccio un ulteriore passo indietro. I blog, nei primi anni '00, erano una cosa interessante, quasi alla moda, persino giovane. Io tanto giovane non ero neppure allora, ma quasi per caso ero stato uno dei primi ad aprirne uno in lingua italiana, in un 2001 in cui successero diverse cose interessanti, che ci fecero davvero immaginare di trovarci a una svolta secolare: Berlusconi vinse le elezioni (non sorprendentemente) poi ci fu il vertice G8 a Genova e mi capitò di aggiornare questa paginetta nella sala stampa del Forum Sociale, pochi istanti prima che i poliziotti venissero a sgomberare tutto e a massacrare gente che già si era messa in sacco a pelo. Sembrava già abbastanza, dopodiché in settembre ci fu un attentato che reimpostò completamente la nostra visione del mondo. Io nel frattempo scrivevo le mie cose più o meno come faccio adesso, salvo che al tempo ero persino meno bravo di adesso e soprattutto eravamo molto pochi a farlo in pubblico. Quando un anno dopo il fenomeno prese piede, io mi ritrovai inserito in tante liste di blog importanti, il che mi consentì di accedere al famoso quarto d'ora di celebrità: i giornalisti mi intervistavano, gli studenti volevano scrivere le tesi (giuro), la gente mi invitava alle feste e alle feste le ragazze volevano conoscermi. Nel frattempo Google continuava a rivedere verso l'alto il mio ranking, per cui verso il 2003 un mio pezzo qualsiasi rischiava di girare sull'internet molto più degli articoli di diversi quotidiani italiani. Fu un periodo abbastanza stimolante, ma era chiaro da subito che non sarebbe durato. In effetti i più furbi si stavano semplicemente creando una reputazione che poi avrebbero investito in una carriera più remunerativa. Io già allora non ero tanto furbo: in particolare non riuscivo, e tuttora non riesco, ad astrarmi dalla quotidianità e pensare a un progetto a medio-termine. Il blog per me non era un mezzo, ma un destino: avrei passato la vita a commentare il fatto del giorno. La cosa mi impensieriva già allora. Soprattutto nell'autunno del 2004, quando i contatori smisero di salire: l'internet italiana era completamente saturata, chiunque volesse leggere un blog lo stava già leggendo, non c'era più in giro nessuno spazio nuovo da coprire. Bisognava decidere cosa fare da grande, e io non lo sapevo. Alla fine gli sbocchi per chi scriveva come me erano due: giornalismo o narrativa. Per il giornalismo mi sentivo troppo schierato: quanto alla narrativa, sapevo di avere dei limiti ma pensavo che in un qualche modo li avrei superati. Non avevo forse tenuto conto del fatto che oltre a internet avevo anche una vita fisica, in quel periodo più complicata che in seguito: un dottorato all'università, supplenze alle scuole medie, una specie di famiglia da costruire.
Così insomma mi buttai. E dopo un paio di mesi mi sembrava di non avere più fiato. In estate presi una pausa, cercai di vedere le cose da un'angolazione diversa, per cui la seconda parte della storia è ambientata in una specie di inferno a pedali in cui una voce narrante mi dispensa il classico "spiegone": il 2025 non esiste, è una simulazione (anzi una simulazione di una simulazione di una simulazione). In questa fase viene anche pubblicata l'unica previsione che si è avverata, ovvero che quando i cinesi fossero passati massicciamente alle fonti rinnovabili (pensavo all'idrogeno), gli occidentali avrebbero trasformato il consumo di idrocarburi in una vera e propria religione. Ci abbiamo messo più di vent'anni ma tutto sommato sta succedendo. Alla fine il mio esperimento si concluse con cinque o sei finali diversi (ogni lettore poteva scegliere il proprio), compreso uno che consisteva in un centinaio di ctrl+z: uno per ogni post scritto nel 2025, ovvero nel 2005. Ero riuscito a scrivere una storia completa? Non mi sembrava. In compenso avevo distrutto il blog, o almeno la sua reputazione e il suo bacino di lettori. Non fu questa tragedia, nei mesi successivi ne recuperai gran parte. E in ogni caso la stagione eroica dei blog era finita: proprio nel 2005 Youtube rivoluzionò internet trasformandolo in un network di immagini, e non più di testi. Gli studenti cominciarono a scrivere tesi sugli youtuber e i blogger divennero nel giro di pochi mesi una minoranza protetta, simpatica ma in via d'estinzione.
Tra loro c'ero io: oltre a non avere più molto futuro come blogger, sapevo di non essere capace come narratore. Di solito i fallimenti narrativi restano nei cassetti; ma il mio era avvenuto in pubblico, era il rischio che avevo deciso di correre. Vorrei poter dire che ho imparato qualcosa, ma credo di avere imparato tutt'al più di essere scarso. Chi frequenta questa pagina da più tempo sa che l'inattitudine al romanzo è la più grande frustrazione. Ci provo da sempre e non ci sono riuscito mai: nessun trucco fin qui ha funzionato.
I giornalisti devono essere liberi (e vivi)
30-12-2024, 01:39giornalisti, Giuliano Ferrara, governo MeloniPermalink![]() |
Ifj.org |
– Vorrei Cecilia Sala libera immediatamente. Vorrei tutti i giornalisti liberi di fare il loro mestiere.
– In questo specifico caso, la situazione è complicata dal fatto che gli iraniani più che ai soldi danno la sensazione di volere uno scambio con il presunto agente che gli avremmo appena arrestato: ma il fatto è che l'abbiamo arrestato su ordine degli americani, in base ad accuse avanzate dagli americani, insomma lo hanno preso loro.
– Se si trattasse di soldi una soluzione la troveremmo, l'abbiamo quasi sempre trovata; ma se si tratta di disobbedire agli americani ci vorrebbe un governo in grado di assumere una posizione non prona nei confronti di Washington, il che esclude il Signor Presidente Meloni: lui la voce grossa la può giusto fare alla recita di fine anno davanti al suo raduno di cosplayer.
– Tra qualche mese sarà il ventennale di quella volta che abbiamo cercato di liberare la giornalista Giuliana Sgrena (pagando un riscatto) e agli americani forse la cosa non andava a genio, o perlomeno accadde che un soldato americano a un posto di blocco accolse la giornalista Giuliana Sgrena e l'agente Calipari con una sventagliata di mitra che uccise quest'ultimo.
– Come sempre spero di sbagliarmi, anzi di più: ma il fatto che gli organi di stampa più vicini al governo abbiano iniziato a gettare fango su di lei, senza trovare niente di meglio che un tweet di nove anni fa, suona come l'ammissione che no, non sarà facile liberare Cecilia Sala.
– Sul Foglio (un giornale che non compra nessuno e che continua a pubblicare propaganda antistatalista a spese del contribuente) vedo che c'è un commosso editoriale in suo onore di Giuliano Ferrara: lo stesso buffo personaggetto che chiese a Un Ponte Per... di fare una colletta per restituire i soldi del riscatto di Simona Pari e Simona Torretta. A lui nessuno chiederà di fare una colletta simile, non solo perché nessuno scenderebbe al suo livello, ma perché davvero, chi gli darebbe un soldo?
– Come scritto più sopra, io vorrei che non solo Cecilia Sala, ma tutti i suoi colleghi fossero liberi di lavorare. In Israele quest'anno ne sono morti ammazzati circa un centinaio, senza che il Foglio Fondato da Giuliano Ferrara ci trovasse nulla di sbagliato. Auspico che la Sala sia libera al più presto, e che trovi finalmente lo spazio che merita senza più avere nulla a spartire con personaggetti del genere.
– La mia opinione sul lavoro di Cecilia Sala è poco interessante, probabilmente dovrei tenerlo per me: semplicemente non la conosco abbastanza. Sono sicuro che abbia un senso documentare la condizione delle donne in Iran, e la repressione della femminilità che viene praticata dal regime; e allo stesso tempo ho la sensazione che si tratti spesso di un argomento isolato ad arte (non vengono represse soltanto le donne, e non sono solo le donne a protestare) per ragioni di proiezione e propaganda, da gente che per liberare le donne iraniane non esiterà un domani a bombardarle. La stessa Sala ha avuto modo di sperimentare, negli scorsi mesi, la reazione stizzita di tanti propagandisti nel momento in cui lei chiedeva appena un po' di spazio per verificare e approfondire una notizia. Alcuni di questi agitatori stanno già scrivendo che ben le sta, che non doveva fidarsi degli iraniani. Anche per loro nessuno proporrebbe mai una colletta: che forse è il motivo per cui non si fidano di nessuno e se ne restano comodi a casa, a far la morale agli altri.
Erode 2024
28-12-2024, 13:14Israele-Palestina, santiPermalink![]() |
x.com/stairwayto3dom/status/1872534126252990877/photo/1 |
Oggi il calendario cattolico ricorda i martiri innocenti, ovvero i bambini che Erode il Grande avrebbe fatto uccidere perché tra loro, non si sa mai, avrebbe potuto esservi il Messia. Ovvero? Per quanto poteva saperne Erode, doveva trattarsi di un grande leader che avrebbe liberato gli ebrei dai loro oppressori, il che significa perlomeno che Erode si considerava tale: un oppressore degli ebrei.
⚠️ “Prepare a vomit bag. You have been warned”
— Younis Tirawi | يونس (@ytirawi) June 13, 2024
“ Leave non of them remaining. I am not saying horrible things here. I am saying sober, real things”
Here is what Israeli commander Major. David Portal from the Gaza division said on his instagram page: https://t.co/LTUa5rvXfD pic.twitter.com/zXHP4WsVpt
Allego articolo sull'ipotermia pediatrica, sperando che l'aiuti a capire come una bimba di 3 mesi possa essere morta di freddo in condizioni ambientali apparentemente non ostili. Per la sua incapacità di capire tutto il resto, non c'è spiegazione che tengahttps://t.co/6oNcFYqMjP https://t.co/FZwcrB68z6
— Tellina27 (@Tellina271) December 27, 2024
Ad Bethlehem
24-12-2024, 20:20Israele-Palestina, non ho voglia di tuffarmi in un gomitoloPermalinkIl santo sotto il portico
23-12-2024, 02:29santiPermalink23 dicembre: San Servolo, paralitico e mendicante (VI secolo)
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La basilica di San Clemente a Roma |
Con l'approssimarsi del Natale, i santi importanti sembrano volersi ritirare dal calendario. Come se tutti fossero impegnati a cercare i regali, montare gli addobbi, l'albero, il presepe. C'è una spiegazione più plausibile: la Chiesa cattolica non consente celebrazioni solenni di santi nella novena di Natale (dal 16 al 24 dicembre). Perciò ai pezzi grossi conviene morire in altri periodi. Se proprio non ci riescono (come Torlaco patrono d'Islanda, appunto defunto il 23/12/1193), molto spesso le loro celebrazioni vengono spostate in altri mesi. Così sotto Natale chi rimane? Santi appena arrivati, perché dall'Ottocento in poi le date sono diventate cose serie ed è diventato più difficile modificarle; patriarchi e profeti dell'Antico Testamento; e poi figure di secondo piano, personaggi molto umili persino tra i santi, come questo Servolo o Servulo, che portava già il nome più modesto possibile ("piccolo schiavo"). Essendo nato paralitico, o essendolo diventato molto presto, nella società romana del tardo VI secolo si trovò una sua nicchia disagevole ma non priva di un certa dignità sociale: quella del mendicante.
Il suo posto fisso era nel portico che conduceva alla basilica di San Clemente: chi doveva entrarci passava da lì e poteva ricevere i saluti, i ringraziamenti e i saggi consigli di Servolo. Se si trattava di un sacerdote, Servolo poteva domandargli di leggere qualche passo di un volume delle Scritture che era riuscito a procurarsi. La figura del mendicante annidato sotto un portico, che nasconde sotto il mantello un testo sacro, potrebbe avere ispirato a qualche agiografo la leggenda di San Giovanni Calibita, anche lui mendicante, ma di buona famiglia, che custodiva sotto i suoi panni lerci un Vangelo d'oro. I romani hanno sempre avuto un debole per i santi mendicanti. Ma Servolo non è un personaggio leggendario. Le poche cose che sappiamo di lui ce le ha tramandate Gregorio Magno, in un'omelia e in un passo dei suoi Dialoghi, senza nessuna concessione al sensazionale o al miracolistico. Gregorio lo definisce "povero di mezzi, ricco di meriti, disfatto da una lunga malattia", e mostra di stimarlo come mendicante professionista, che con l'aiuto della madre e del fratello distribuiva i proventi della sua attività ai poveri. La Sacra Scrittura non gli era capitata tra le mani per miracolo; se l'era comprata, e doveva essersi trattato di un sacrificio economico notevole, con quel che costava un codice scritto a mano. Servolo è insomma un personaggio fortemente innovativo, che dimostra la determinazione con cui la Chiesa già nel VI secolo si dedicava a valorizzare esistenze irregolari che nel mondo pagano erano considerate irrimediabilmente inferiori: non soltanto gli schiavi, ma anche gli schiavi paralitici potevano contribuire attivamente alla missione assistenziale della comunità, diventando esempi di successo.
Gregorio ci racconta che quando Servolo capì che era l'ora di andare, chiese ai pellegrini che sostavano nel portico di alzarsi e cantare qualche salmo. Anche lui si mise a cantare, e poi improvvisamente ammutolì. "Tacete", disse: "non udite le lodi che cantano in cielo"? Secondo un agiografo più tardo, alla sua morte Servolo sarebbe finalmente riuscito a entrare nella basilica di San Clemente per trovarvi sepoltura, in una cappella dove sarebbero state dipinte scene della sua vita; ma non ci è rimasto niente. Servolo dovette godere di una certa popolarità, prima di essere soppiantato nella devozione dei romani da mendicanti leggendari dalla vita più romanzesca, come Sant'Alessio, e più tardi ancora da Benoit-Joseph Labre. Siete naturalmente liberi di trovare questa passione dei cattolici per i mendicanti un po' pelosa: come se le elemosine davvero avessero il potere di salvare il mondo, o di alleviare qualcosa che non sia il nostro senso di colpa, mentre le concediamo. Nel frattempo anche stavolta è l'antivigilia di Natale, i Santi importanti sono tutti al calduccio nelle loro comode nicchie, e in piazza c'è un Servolo a ogni angolo. Buone feste anche a voi.